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Autore: niwad    11/03/2007    1 recensioni
Un uomo oppresso dalla società, dalla vita e dalle proprie debolezze, sconfitto nella ricerca della propria libertà.
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Debole, tra tutti gli attributi questo è sempre stato quello che più mi ha caratterizzato: debole

Debole, tra tutti gli attributi questo è sempre stato quello che più mi ha caratterizzato: debole.

Debole sono sempre stato di salute e costituzione, a partire dalla pressione bassa che mi vietò molti divertimenti e gioie della gioventù; debole sono sempre stato per determinazione, con la conseguenza che deboli risultarono essere le mie conoscenze a scuola; debole sono sempre stato verso i miei istinti, e debole nel difendere le mie posizioni, col risultato che mi ritrovai ben presto legato ad una donna che non amavo, e ad essere controllato dalla stessa; debole fui anche con mia figlia, la causa seconda delle mie disgrazie, ed il sollievo dei miei dolori; debole fui nell’ora del bisogno altrui, e ancor più nell’ora mia. Debole io fui sempre, e debole sarò fino all’ultimo minuto.

Ordunque, lasciate che vi racconti la mia storia, la mia vita, affinché voi non cadiate nello stesso trabocchetto della sorte, né negli stessi capricci, né negli stessi guai. Lasciate che vi racconti, ora, finché ho tempo, finché ho un corpo, finché ho vita.

Nacqui, per uno scherzo del destino, il 30 di novembre, e mi fu dato per mancanza di fantasia il nome Carlo, altra beffa alla mia natura ed al mio destino.

Dico scherzo e beffa perché il 30 novembre si festeggia San Andrea, il cui nome indica l’uomo forte, virile, possente; ed altresì il nome Carlo indica l’uomo, ma quello libero e vivo. Io non fui mai né possente né libero, ed ora meno che mai.

Vissi con la mia famiglia sino all’età di vent’anni, nelle condizioni di mediocre agio tipiche di quella frangia di borghesia che né si concede il lusso di definirsi “povera” né può permettersi quello di chi è ben più ricco di questa; ebbi occasione di concedermi sia gli svaghi che le piacevoli opportunità concesse ai miei pari, e spesso venni spronato dai miei genitori a usufruire altrettanto di quelli tipici di chi ci era superiore. Io non mi avvalsi di niente di tutto ciò, eccezion fatta per sfruttare i vizi borghesi per imbrigliare qualche giovane fanciulla nella mia tela ogni qual volta ne avessi voglia. Mia madre mi rimproverò più volte questa mia inclinazione, questa mia melliflua, millantatrice capacità di ammaliare quante destavano in me desiderio, e mi rimproverò ancor più la mia ostinazione a non avvalermi nemmeno di questa mia, temo unica, dote per guadagnarmi occasioni di profitto; ed alla mia risposta che il mio fisico dalla risicata salute non avrebbe retto allo stress di una posizione da difendere, montava su tutte le furie, premettendomi però di averla vinta, e abbandonandomi con la mia malandrina lingua tagliente.

La mia vita proseguì placidamente, con tutti gli agi e le limitazioni che mi furono imposte dal destino, e raggiunsi, senza nemmeno rendermene conto, il quarto lustro di vita, che segnò l’inizio della mia disfatta: al tempo mia madre spingeva affinché mi trovassi una sistemazione sentimentale, e mio padre affinché mi costruissi una mia base economica, ed insieme miravano a vedere prima della loro morte una discendenza che puntasse in alto e che tentasse di creare un miglioramento costante delle condizioni della famiglia, in quanto che, dopo essersi abituati alla loro vita, non gli restava altro a cui pensare che alle generazioni future.

Io, d’altro canto, spingevo e scalpitavo affinché mi lasciassero libero, ma come capita con tutti i cappi, ad un certo punto a furia di tirare e scalpitare arrivai a chiudermi da solo il nodo intorno al collo; ed ecco che Eleonora, una ragazza per la quale non provavo attaccamento alcuno, ma anzi avevo sedotto e appagato al solo scopo di cementare la mia ostinazione a non volermi legare stabilmente ad alcuna, bussò alla mia porta in una tormenta di singhiozzi e scongiuri. Le aprii guardandola preoccupato: gli occhi gonfi, le guance rosse, i capelli scompigliati, la mano sul ventre ed il labbro tartassato furono tutto ciò che riuscii a distinguere prima che quella che sarebbe diventata la lama del mio boia si gettasse tra le mie braccia, in lacrime; inveendo contro di me e pregandomi al tempo stesso; raccontando con frasi sconnesse e rotte dal pianto; lasciandosi cullare e accarezzare da me e poi da mia madre, quando questa fu sopraggiunta sul luogo; e raccontando a questa, dinnanzi a me, che ancora non ricordavo il suo nome, di quanto ci fossimo amati e di quanto appassionate furono le ore trascorse insieme; di quanto lei ora si sentisse disgraziata per essersi concessa prima di un qualche matrimonio, e di essersi cacciata in un tale guaio con le sue stesse mani; e a me pugnalava il cuore, col suo pianto e la sua disperazione, e ancor più me ne faceva dolere mio padre, le cui percosse non erano fisiche unicamente per non turbare ulteriormente la mente di quella che, nel suo pensiero, non aveva nessun dovere di assistere ad una tale scena in un momento così critico, ma ad ogni modo questi riusciva verbalmente e psicologicamente a percuotermi, avvelenarmi e spingermi a viva forza verso la mia cella personale, aggiungendo che me l’ero costruita con le mie stesse mani; e altrettanto faceva mia madre, che con mezzi più sottili e malevoli, nel mentre che consolava quell’odiosa sconosciuta torturava me, e mi affliggeva ora con biasimi ora con suggerimenti, e mi accompagnava anche lei, come quand’ero bambino, al mio altare.

Sottolineo quanto infido e ipocrita fu l’amore di mia madre verso questa disgraziata, o disgrazia che dir si voglia: lei l’amò come una figlia, la vezzeggiò ed esortò in ogni momento affinché assumesse maggior controllo su di me; la usò come un ragno la tela, e tesse bene i suoi fili affinché con un ricatto o un rimprovero, una lacrima discreta o una pubblica sfuriata, un deprimente broncio o un festoso sorriso, ella potesse avvinghiarmi nelle loro trame; la istruì come un fido cane a riportare informazioni come fossero un legno; la maneggiò con tanta abilità che questa finì col ritenerla la propria madre, la propria confidente e la propria amica nel contempo, ma non fu certo discreta: sin dall’inizio mi parve evidente che la mia consorte fosse guidata dai fili di mia madre, tant’è che in alcuni momenti di follia arrivai a vedere al posto della sua figura dapprima una sorta di mostruosa caricatura della mia genitrice, e in seguito un orribile burattino parlante.

  
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