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Autore: Fusterya    29/08/2012    17 recensioni
John Watson e Sebastian Moran. Acerrimi nemici con un dolore da condividere. Qualcosa che, a volte, mostra le cose per quelle che sono: senza senso alcuno.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Altro personaggio, John Watson
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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One-shot liberatoria (da un sacco di cose) e “perditempo” nata da un improvviso amore per Moran, che fino ad oggi non mi aveva mai intrigata davvero. Ovviamente, lui ha la faccia di Michael Fassbender: immaginatelo così, vi prego. Sequel possibile, sì. E, magari, anche a rating rosso. Per ora lasciamo le cose come stanno.

(P.S.: è scritta di getto e non betata, per cui vi prego di perdonare qualche possibile svista... hugs!)


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Quando rientra a casa, quella sera - se quella si può chiamare casa - e gira la chiave nella porta laccata di smalto giallastro da quattro soldi, lì, in culo al mondo, oltre Northwood, in un attentamente selezionato alveare di condomìni popolari tutti uguali, Sebastian non si aspetta certo di non fare in tempo ad accendere la luce ed essere afferrato per un polso da qualcosa di... metallico? Sì, metallico... qualcosa che ora gli torce un braccio, e, prima che lui possa emettere un suono strozzato di dolore e sorpresa - non un grido, no, lui è abituato, sa che non si grida, gridare ti fa saltare la copertura - qualcos’altro, qualcosa di caldo e nervoso, gli blocca la parte inferiore della faccia e sbarra la strada naturale dell’ossigeno verso le sue narici.

Viene strattonato nel buio, compie una giravolta sconnessa come una ballerina che ha perso il passo, la porta si chiude con un tonfo, qualcosa che sembra un... ginocchio? Sì, un ginocchio... urta volontariamente e con violenza il retro del suo, di ginocchio, e la gamba cede, e il pavimento gli viene incontro ad una velocità inaudita.

Sebastian Moran è di schiena per terra con un polso ammanettato e di sicuro lussato, e un peso immane gli piomba sul petto, il peso di un uomo che gli si è appena lanciato cavalcioni addosso e gli ha fatto sputare fuori tutto il fiato in una volta sola. Un pugno gli serra la gola. Basta un solo colpo sulla trachea e finirà.

Ma l’uomo si ferma ed è come se gli desse il tempo di recuperare.

Sebastian sbatte le ciglia più volte, le stelle bianche che vede negli occhi cominciano a svanire, il cervello comanda al corpo di sobbalzare e disarcionare l’aggressore, ma l’istinto gli dice un’altra cosa.

C’è qualcosa di definitivo nel modo in cui l’uomo ansima e aspetta.

Aspetta.

Sebastian tossisce e boccheggia, mentre le pupille si adattano alla fioca luminosità che entra dall’unica finestra male schermata da una tenda sghemba.

Riesce a vedere solo un contorno, tende il corpo e valuta il peso che ha su di sé, comprendendo che non è eccessivo, che può ancora difendersi, ma qualcosa nella sagoma e nel riflesso chiaro della capigliatura che incombe, gli fa comprendere la reale portata di tutto.

Quasi due anni, e non avrebbe mai pensato che questo momento sarebbe giunto.

Rilassa le spalle sul pavimento, allarga il braccio libero, si arrende.

L’altro sta tremando.

Di rabbia, di desiderio di sfondargli la gola, di paura... non sa, non lo può dire.

Resta immobile e sente il sollievo risalire dalla punta dei piedi lungo tutto il corpo, come una lenta paralisi piena di calore, che sale e gli porta conforto; sale e gli arriva al petto, lì dove l’uomo siede; sale e gli scioglie dentro quella cosa che andava liberata tanto tempo fa, e che lui ha sempre rifiutato.

Appoggia anche la nuca al pavimento, scopre di più il collo, dà più spazio alle nocche che premono dure contro il suo pomo d’adamo e che ora stanno affondando di più.

Chiude gli occhi.

L’uomo è ora immobile su di sè. La sua mano si ferma.

Tutta quella immobilità sembra essere il preludio di qualcosa di terribile, ma lui non la percepisce così, non c’è niente di terribile.

C’è la promessa di una cosa finalmente risolta.

Emette un sospiro liberatorio, la gola gli fa male, gli viene da ridere ad essersi fatto beccare come un pivello, ma almeno questa è una roba tra soldati, no?

Una consolazione.

Essere beccato come un pivello da uno come lui, almeno questo.

E pensare che all’epoca, attraverso quel mirino, non lo aveva valutato nemmeno due penny, questo stronzo qui. E invece gli è costato una fortuna.

La mezza risata roca che gli muore in gola può sembrare pianto. Per fortuna è buio e il suo quasi assassino non può vedere la lacrima che gli scappa dall’angolo dell’occhio destro e percorre la tempia, infilandosi nell’orecchio.

Il suo corpo è molle sotto quell’altro, teso ma ancora perfettamente immobile.

Vorrebbe una sigaretta, cazzo. Forse, se glielo chiede, gli permetterà di fumarla. Non reagirà, giura: la fumerà e si farà ammazzare.

“Che aspetti?” Rantola invece, le corde vocali schiacciate sotto quelle nocche ferme e bollenti.

L’uomo respira pesantemente.

Sebastian può sentire il peso dei suoi pensieri, ma non quello che dicono. E non gliene frega niente, questo è sicuro.

Sente l’altro occhio lacrimare, un’altra goccia calda e fastidiosa scivola tra i propri capelli dall’altro lato del capo. Ecco una cosa per cui vale la pena finirla qui e ora.

Jim lo avrebbe frustato, se lo avesse scoperto. Ma ci sono volte che certe cose non possono semplicemente essere evitate, soprattutto se c’è un motivo, e quel motivo non è la morte imminente.

Nel momento stesso in cui sta facendo questo pensiero, il pugno rigido si ritrae dalla sua gola con uno scatto nervoso. Il peso opprimente sul petto si allenta, scompare, l’aria attorno a sé si muove insieme al corpo che si sta sollevando.  

La figura ora è in piedi, si allontana da lui, gli dà le spalle, fiducioso che Sebastian non si alzerà, non gli si rivolterà contro.

I passi vanno verso la porta, che si apre. La luce del ballatoio illumina i contorni di John Watson, che non si gira a controllarlo nemmeno per un istante, ma la chiude dietro di sé e scompare, facendo ripiombare il piccolo ingresso nel buio.

Sebastian resta sul pavimento a respirare, e si rende conto che era più facile farlo un minuto fa.



La seconda volta è al pub, undici giorni dopo.

Un posto uguale a migliaia di altri in tutta la città, con la tappezzeria verde a ghirigori neri e le pareti rosso smalto, luci basse e macchinette mangiasoldi all’ingresso, dal banale nome di Fisherman’s Tavern. Puzza di birra, di piscio e di fumo, che ancora impregna la moquette macchiata e le tende ad anni di distanza dall’entrata in vigore del divieto.

C’è gente, è venerdì sera, ovvio che ci sia.

Sebastian entra, la schiena dritta e lo sguardo acuto, pronto nella ricerca: è alto, la sua vita è sempre stata facilitata in questo. Tanto alto è lui, quanto basso era Jim. Quanto basso è questo qui, adesso.

Si guarda attorno sovrastando la folla e lo vede, è seduto su uno sgabello in fondo al gigantesco bancone di legno nero, fintamente antico, e gli dà quasi le spalle.

E’ in compagnia.

L’uomo con cui parla, e che sta ridendo appoggiato con un gomito allo stesso bancone, è un altro che conosce bene e che in questo frangente dovrebbe temere. Ma, se ha capito con chi ha a che fare, sa che non ha da preoccuparsi.

John Watson non ha parlato con nessuno di lui, è chiaro.

E’ una cosa tra loro.

E’ nata tra Sherlock Holmes e James Moriarty, e finirà tra loro due.

Si accomoda su uno sgabello anche lui e chiede una birra. Aspetta, come ha aspettato Watson con le nocche sulla sua gola.

Lestrade guarda verso di lui, ma è un’occhiata casuale. C’è un terzo tizio con loro, in piedi, uno grassoccio e con gli occhiali, uno che non vale neanche mezzo secondo di interesse.

Finalmente Watson ruota sullo sgabello e cerca di richiamare l’attenzione della ragazza dietro il bancone per farsi dare un’altra pinta, e mentre attende, si guarda intorno.

Quando lo sguardo finalmente aggancia quello di Sebastian, non tradisce nessuna emozione. Resta solo fisso lì, esattamente come il suo corpo a cavalcioni su di lui, quella sera.

Notevole, pensa Sebastian, e solleva il bicchiere in un brindisi da lontano.

John riceve la sua pinta e ricambia il gesto. Anche da quella distanza, Sebastian nota che gli sta sorridendo tutto il suo disprezzo.

Non gli da fastidio, dopotutto chi lo può comprendere più di lui, ma è arrivato il momento di decidere quando farlo fuori.

Una cosa che non si può permettere, Sebastian, è che Watson arrivi di nuovo prima di lui.

Non è una questione di sopravvivenza, ma di reputazione, pura e semplice.

Non smettono mai di fissarsi fino a tre birre dopo, quando Sebastian riceve un messaggio e si alza, inflandosi tra la folla. Un lavoro non si rifiuta mai, soprattutto se può farti scaricare un po’ di nervi.

Se ne va senza salutare.


La faccenda deve attendere.

C’è un lavoro grosso su a York, deve andare via per qualche giorno.

E’ un martedì mattina e pioviggina freddo e umidità sul suo giaccone di pelle marrone, nuovissimo, sportivo, sì, ma in un modo anonimo. Jeans scuri. Camicia bianca. Maglione crema con scollo a V. Un perfetto viaggiatore per motivi di lavoro, che poi è la verità.

Mai trasandato - ecco una regola d’oro che non ha mai mancato di osservare - mai trasandato, appariscente, coi capelli lunghi o sporchi, un monile, un tatuaggio.

Cose basilari che i criminali dimenticano con preoccupante frequenza.

Sei bello, Seb, diceva Jim mordendogli piano la carne bianca all’interno del braccio, poco sopra l’ascella. Fatti meno bello ma senza dare nell’occhio.

E’ una parola quando sei alto e biondo, e dicono che assomigli a quell’attore lì, sì, proprio quello là di quel film in cui recita nudo.

Watson sarebbe stato un dio, in questo lavoro. Nessuno si sarebbe ricordato la sua faccia, mai, in nessun luogo.

Nessuno ricordava quella di Jim, allo stesso modo.

Lui e Holmes, invece... condannati a vita. Uno strano scherzo di incroci.

Avrebbe dovuto averla lui, la faccia di Jim, a ben pensarci, ma non crede che avrebbe mai potuto replicare quello sguardo distorto e corrotto.

Anche la valigia è né troppo grande né troppo piccola. Il suo bambino, smontato, entra in un trolley, all’occorrenza, e lascia posto anche a due cambi d’abito completi, no problem.

Il quadrato di poltrone in cui è seduto lui è vuoto, per fortuna. Il treno vola nella campagna bagnata, i rivoli d’acqua sul finestrino sembrano tanti fili di piombo che scorrono di traverso sul vetro.  

Sebastian scambia messaggi con tre cellulari usa e getta diversi, mastica una gomma, va in bagno una volta e si assopisce per dieci minuti.

Sogna sempre un’unica cosa, sia nel dormiveglia che nel sonno profondo.

A Northampton, purtroppo, salgono una una madre e due bambini e lui deve sorridere impercettibilmente quando lei dice buongiorno ed è costretto a spostare educatamente il giornale dal sedile accanto al suo per liberare il posto.

Per fortuna sembrano tutti quieti e lei non fa conversazione: in quel caso, l’impulso di tirare fuori dal borsello la Glock col silenziatore sarebbe stato difficile da combattere. Sorride dentro di sé al pensiero dell’idea irrealizzabile.

Solleva gli occhi alla sua sinistra e, in piedi nel corridoio, davanti alle poltrone in cui sono seduti una di fronte all’altro la madre e il più grande dei figli, c’é Watson che lo guarda incuriosito.

Sebastian apre la bocca e stavolta non è come nel pub, o come a casa quella sera.

E’ peggio.

E’ una sorpresa che lo infuria, gli fa sgranare gli occhi e a malapena ricordare chi è, cosa fa nella vita e dove sta andando. Stringe le mani a pugno sulle proprie cosce e richiude la bocca.

Se solo non avesse quello sguardo divertito!

“Signora, mi permette?” Ha un voce vellutata, è l’uomo di cui ci si può fidare. Infila la mano nella tasca interna dalla giacca e ne tira fuori un tesserino di riconoscimento, con tanto di foto, timbri e tutto il resto.

“New Scotland Yard,” le sorride rassicurante, “potrebbe spostarsi più avanti? Io e il mio collega, qui, abbiamo bisogno che questi posti siano momentaneamente liberi.”

La donna guarda Sebastian preoccupata, lui le fa un sorriso rassicurante più di quello di John.

“Ci sono... problemi?” Chiede ansiosa andando con gli occhi dall’uno all’altro.

“Oh, no, assolutamente,” Watson è perfetto. Un vero figlio di puttana.” Normale routine. Sicurezza. Nulla di cui preoccuparsi.”

La donna si alza imbarazzata, racimola figli, borse e riviste e scompare a passo svelto nella carrozza successiva.

John si accomoda di fronte a Sebastian con le mani incrociate in grembo. Accavalla le gambe, quasi lo tocca.

Sebastian non sorride più. Vuole cancellargli quello sguardo sereno dalla faccia. A morsi, se necessario.

Oh, se quel giorno avesse sparato... se non avesse ascoltato Jim... se non lo avesse ascoltato!

“Come hai fatto?”

Anche John cambia espressione.

Il buio scende negli occhi azzurri, incupendoli, rendendoli buchi senza luce che fanno paura.

“Sherlock Holmes è stato un buon insegnante.”

Anche la sua voce è cambiata, gorgoglia bassa nella gola tesa, porta con sé la minaccia, l’odio.

Il dolore.

Sebastian arde di rabbia di fronte a quest’uomo insignificante che è stato capace di tracciare ogni suo movimento, e che non è stato in grado di dargli la cosa che più desidera da ventidue fottuti mesi.

“Perché non mi hai ucciso quella sera?”

“Perché ho capito che era quello che volevi. Restare vivo è quello che meriti, invece.”

Sebastian digrigna i denti per l’umiliazione.

“Ti ammazzerò io, lo sai.”

John stira le labbra in un mezzo sorriso sarcastico e allarga la mani.

“Sono qui.”

“Ma per favore. Cosa vuoi da me?”

“Voglio che mi racconti di quel giorno. Qual era il piano. Cosa è andato storto.”

“Perché dovrei?”

“Perché a causa di quella storia sei rimasto fottuto anche tu.”

Sebastian si lecca nervosamente le labbra. Passa un attimo in cui si fissano ferocemente, ma la verità, comprende Sebastian, è che la tentazione del dispetto, dello sfregio, del negare quell’unica consolazione prima della fine, è meno potente della punizione a cui sono stati sottoposti entrambi.

Una situazione miserabilmente equa. E che comunque presto finirà.

“Ti tenevo sotto tiro. Avrei dovuto sparare se non lo avessi visto buttarsi giù. Ce n’erano altri due, uno per la vecchia, l’altro per l’ispettore. Ma il piatto forte eri tu.”

Le labbra di John si contraggono, così come le sue dita sulla stoffa spessa dei jeans.

Secondi di silenzio.

Sebastian percepisce l’invisibile fremito di orrore che sta attraversando in segreto tutto il corpo di John, avverte chiaramente la sua lotta interiore per non mostrare alcun segno di cedimento, sente in bocca il gusto metallico che provò a sua volta quando salì su quel tetto, e trovò Jim in un lago di sangue.

John Watson lotta per non far affiorare nulla di fronte al suo nemico, all’improvviso cosciente di esser lui stesso l’assassino di Sherlock Holmes, e Sebastian prova pietà.

Un sapore sconosciuto. Sa di fango e di tristezza, e cose perse, e nostalgia di qualcosa che non ha mai posseduto.

Dura poco, ma l’ha graffiato, segnato.

“Hai indagato tanto, hai scoperto me, e non sapevi cos’è successo lassù? Mi prendi in giro?”

Ma Watson guarda fuori dal finestrino e non ha ascoltato una sola parola.

Sebastian gli lascia il tempo che gli serve. Non c’è nessuna fretta, mancano più di due ore a York.

Attende che quell’alito di devastazione che mulinella tra loro due si calmi, si posi, sedimenti.

John si gira a fissarlo, e sembra di nuovo vagamente umano.

“Cosa dobbiamo farne di noi, Moran?”

E’ una domanda comica. Sebastian spruzza fuori una risata dalle labbra.

“Non so, a te cosa farebbe stare meglio?”

“Giorni fa, avrei detto la vendetta.”

“Non ho ucciso io la tua puttana.” Lo dice con un tale disprezzo tra i denti digrignati, seppur sottovoce, che John è costretto a deglutire rumorosamente.

“Nè io la tua.”

C’è ancora del silenzio. Solo sguardi carichi di una cosa primordiale come il tempo stesso.

Sebastian annusa la sua resa, stavolta. Chiara come il sole, trasparente come quel vetro bagnato, lampante come sé stesso sdraiato sulla schiena, con le braccia allargate in segno di sottomissione.

Sbuffa dal naso.

“Quindi, sai che io ti ucciderò ma tu non farai niente per impedirmelo?”

John lo fissa senza mai vacillare.

“Non posso monitorarti per sempre. E’ faticoso starti dietro. Puoi farlo quando e come vuoi.”

Oh.

Certo! Lento, lento Sebastian! Jim si infuriava. Sembri uno intelligente, hai quello sguardo acuto, trasparente, quell’aspetto da James Bond, e invece sei un idiota!

Si frustrava. Lo schiaffeggiava. Lo scopava senza lubrificante. E lui non protestava, non diceva mai niente all’uomo che lo marchiava a fuoco con le sigarette come fosse un capo di bestiame, e poi gli lacrimava sul collo dopo averlo fatto.

Sebastian ingoia il ricordo e la pena in un’unica volta.

“Anche tu vuoi morire, Watson.”

John guarda un attimo fuori dal finestrino, vaga lontano per qualche secondo, poi torna su di lui.

“Lo avrei già fatto da me.”
Sebastian sorride.

“No. Come non sono riuscito a farlo io.”

John tace.

“Insomma, cosa vuoi? Tutta questo casino... inseguirmi sul treno... cosa vuoi da me, a parte avere la certezza che ti ucciderò?”

“Due proiettili, Moran.”

Sebastian allarga leggermente gli occhi.

John si umetta le labbra con la lingua, come se fosse difficile spiegarlo in maniera appropriata.

“Uno per oggi, e uno per quella volta che non l’hai fatto.”

“Me ne basta uno, dovresti saperlo.”

“Non basta a me. Voglio sentire dolore. Feriscimi con il primo, finiscimi col secondo.”

Sebastian lo guarda e vede.

E’ pazzo. E’ flippato. E’ andato completamente. E’ più folle di Holmes e Jim messi insieme.

E’ disperato.

Un sentimento ostile e nello stesso tempo pateticamente solidale gli si stringe a spire nello sterno.

E’ assurda, questa congiunzione di uomini che hanno scelto di morire: due che lo hanno già fatto, due che lo desiderano. Per cosa, poi?

Per un principio che né lui né Watson capiranno o condivideranno mai, ma da cui sono stati travolti senza possibilità di appello.

Chi è il più intelligente? Chi può governare il mondo? Chi può distruggere quello che vuole in un colpo solo? Chi può battere l’altro?

Non c’è dubbio che, vista in questa prospettiva, il vincitore sia Jim.

Le vittime del sacrificio di Holmes non si sono salvate.

Watson non è sopravvissuto. Nemmeno lui lo è.

“Non lo farò. Anche tu meriti di restare vivo, a questo punto.”

E sa, mentre lo dice, che questa non è una manovra di spicciola psicologia inversa di Watson per convincerlo a risparmiarlo. Non con quegli occhi. Non con quel lieve tremore comparso all’improvviso nella mano sinistra.

John, difatti, grugnisce.

“Pensavo ci capissimo”

“Difatti ci capiamo.”

Sebastian abbassa le spalle. Non sta pensando più alla vendetta, nemmeno lui.

“Non ti ucciderò, Watson. Puoi metterti l’anima in pace.”

Non vuole aggiungere che non è una punizione, come invece intende John: è bisogno di sapere che qualcun altro, da qualche parte, provi quello che prova lui.  Ogni santo, fottuto giorno che resta da vivere.

Sebastian si spalla nel sedile, riprendendo la sua posizione confortevole, e riapre il giornale davanti a sé.

Sbircia per un attimo John, che si è acquietato nella poltrona al suo stesso modo e ha ripreso a guardare fuori, il mento appoggiato alla mano e il gomito puntato sulla base piatta del finestrino.

“Avremmo dovuto impedire che si ammazzassero.”

Sebastian lo dice come se stesse parlando del tempo, e gira la pagina del giornale.

“Io non ne sapevo niente, non avrei potuto.” La voce di John arriva da lontano, da un posto che mette i brividi.

“Io, invece, non ho capito in tempo.”

Il giornale fruscia, un’altra pagina viene voltata.

“Mi fai compagnia fino a York?” Lo dice senza ironia, è una domanda vera.

John piega le labbra all’ingiù e scrolla le spalle.

“Non ho di meglio da fare, a quanto sembra.”

Quando passa l’uomo col carrello della ristorazione, John compra due caffè e paga per entrambi.



John è abitudinario.

Di domenica mattina, prestissimo, va al cimitero.

Resta in piedi dieci minuti davanti a Sherlock, chiuso nel mutismo della ripicca, e poi va a bersi il suo caffè da asporto su una panchina del parco lì vicino.

Stamattina la panchina è umida, la sensazione sotto i glutei è sgradevole, ma le abitudini vanno onorate.

Gira appena la testa quando Sebastian si siede accanto a lui, poco dopo.

Sono passati ventitré giorni dal viaggio in treno.

“Se l’avessi saputo, avrei preso due caffè.”

“Te ne devo uno io, a dire il vero.”

Moran allunga le gambe e le incrocia davanti a sè.

Non parlano per lunghissimi minuti. John osserva gli alberi, i cespugli ricoperti di brina, i corvi che saltellano nell’erba poco più avanti.

“Mi è toccato un lavoro veramente disgustoso, questa volta.”

John non riesce a trattenere una risata.

“Sì, l’ho letto sul giornale di ieri.”

Percepisce il movimento di Moran, che si volta a guardarlo divertito.

“Non mi darai la caccia, dunque?”

“Ho smesso con quella roba tanto tempo fa. Adesso sono solo un inutile medico di quartiere.”

“Uno spreco.”

John sospira.

“Già. Ero bravo.”

“No, intendevo che sei un spreco a fare il tuo lavoro. Dovresti lavorare con me.”

Finalmente John lo guarda e capisce che sta scherzando.

“Saresti perfetto. Hai le palle e più niente da perdere.”

“... a parte il significato che ho dato alla mia vita negli ultimi anni.”

Sebastian stringe appena gli occhi celesti, la linea della mascella si irrigidisce.

“Quella vita è finita, John.”

“Lo so. Ma è esistita per un po’.”

Si raddrizzano entrambi e riprendono a guardare il verde davanti a loro, a perdita d’occhio.

Una strana pace li circonda, nell’aria c’è solo il fruscio del vento e il grattare leggero di qualche scoiattolo che raspa tra i rami sopra le loro teste.

John inspira. Sebastian espira.

Si chiedono se sia davvero possibile che quel momentaneo benessere nasca da tanta morte.
Qui, in questo istante, morte non ce n’è.
E’ come stare in una bolla isolata in cui non è mai successo niente. Illusorio, ma temporaneamente efficace.

John sente su di sé lo sguardo di sottecchi di Sebastian.

Non c’è dubbio, pensa, che prima o poi si ritroveranno a scopare, e sarà imbarazzante, miserrimo: lascerà in bocca ad entrambi il sapore dello sperma e del tradimento, del sudore e della blasfemia, ma darà sollievo per un po’, e sarà come spalmare una pomata su un brutto livido.

“Colazione?” Domanda Sebastian, confermando i pensieri di John.

“Ok.”

Si alzano dalla panchina e si avviano insieme; il sole invernale, ancora sbiadito nel cielo che sembra di opale, basta per riscaldare la schiena e getta sul vialetto le loro ombre, una più lunga e affusolata, l’altra più corta e compatta, come è sempre stato per entrambi.

Guardare le ombre quasi restituisce loro l’identità perduta: un uomo più alto e uno più basso, che vanno a fare colazione insieme, e camminano con lo stesso passo.




 

  
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