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Autore: Will P    30/08/2012    1 recensioni
«Avevi detto che questo non aiuta a farlo andar via.»
[missing moment della 2x18, Jones] [Reid/Ethan]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Spencer Reid
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Avvertimenti: slash, porn, angst, dipendenza da sostanze stupefacenti (menzionata)
Disclaimer: Heh, magari.
Note: Missing moment della 2x18, Jones; se non ricordate chi è Ethan ecco un comodo link a youtube. L'avvertimento "tematiche delicate" c'è perchè qui Reid era ancora dipendente da morfina (? wikipedia dice eroina, idk) e io sono della scuola che mette avvertimenti per qualsiasi cosa. "The city that care forgot" è uno dei nomi con cui è nota New Orleans.





The city that care forgot

L’appartamento era in una di quelle vie su cui lo sguardo del turista si posa e passa oltre senza una seconda occhiata. Non era una via squallida, non di per sé, ma aveva quell’aria spoglia, tranquilla e banale che non ti aspetti di trovare a New Orleans. Il palazzo aveva lo stesso aspetto dimenticabile, muri color panna e grandi finestre dalle arcate alte come quelle di tutti i palazzi vicini, solo il numero civico e un graffito sulle scale bianche a distinguerlo dagli altri.

Reid si era lasciato guidare da Ethan, seguendolo per le strade di New Orleans e i vicoli e le scale fino alla porta del suo appartamento, le spalle appena curve contro il primo fresco della sera in arrivo e le mani ficcate in tasca, a girarsi e rigirarsi il filo di una cucitura saltata tra le dita. Ethan parlava intanto, parole su parole di trivialità che lui non ascoltava davvero, ma con cui l’altro gli riempiva le orecchie con il suo accento strascicato, come un sottofondo discreto. Temeva che Ethan si sarebbe offeso se si fosse accorto che lo stava pressoché ignorando, ma ad esser realistici probabilmente se ne era già accorto e stava continuando a parlare per coprire il suo silenzio, una sciocchezza dietro l’altra per accompagnare il vorticare dei suoi pensieri.

Sapeva il cielo quanto avessero bisogno si essere accompagnati.

Il suo cervello era una macchina perfetta, ecco qual era il problema, e come tutte le macchine perfette avrebbe finito prima o poi per ribellarsi e cercare di prendere il sopravvento sul suo padrone. Si chiedeva se sarebbe stato così, invecchiare fino a sentire il proprio cervello ammutinarsi e chiudersi in un circolo di sinapsi incrinate senza soluzione di continuità, cosa avrebbe provato, e cercava di scacciare la morsa di terrore gelato allo stomaco ripetendosi non oggi, non ancora, ma in realtà già adesso non aveva il pieno controllo su quello che succedeva nella sua testa. Il suo cervello, il traditore, continuava a scavare e scavare in quella zona che aveva accuratamente recintato di filo spinato, deciso a non entrarci mai più; riportava a galla immagini, flash, incubi dimenticati a forza, prendeva tutte le paure che stava cercando di tenere a bada e le esaminava da ogni angolatura con una gioia perversa, continuando per la sua strada verso conclusioni che non voleva, non poteva trarre, ma che una volta formulate non poteva nemmeno ignorare perché il suo cervello, dannazione, era una macchina che non dimenticava – che non sbagliava – mai.

Eppure ci provava. Ci provava a dimenticare, a negare l’evidenza, a ricacciare indietro con disperazione l’odore delle foglie marce e della polvere da sparo, la compassione negli occhi dei suoi amici e le linee di delusione sui loro volti in un futuro immaginato, probabile, imminente, ci provava a prendere le angosce e sigillarle in un antro dove avrebbero smesso di tormentarlo come coltelli di ghiaccio nel petto. Ci provava, e quando non funzionava cercava altri metodi per riuscirci, perché ci sarebbe riuscito, e ce l’avrebbe fatta da solo, perché se fosse riuscito a dimenticare lui di certo anche gli altri…

«Hai visto il gradino o sei ancora impegnato col tuo monologo interiore?»

«Quale…?» ma naturalmente no, non l’aveva visto, e inciampò che ancora la domanda gli stava uscendo di bocca. Traballò per un paio di passi e riuscì a ritrovare l’equilibrio solo reggendosi alle spalle di Ethan. «Scusami.»

Ethan sbuffò, e Reid si accorse di come era vicino dal suo respiro che gli muoveva i capelli, della sua mano sulla propria vita per salvarlo dalla caduta, di quanto un semplice contatto umano del genere gli facesse annodare lo stomaco in un groviglio confuso di paura e bisogno.

«Sei troppo magro.» Reid trattenne il fiato, ma Ethan si limitò a stringere appena le dita sul suo fianco, affilato anche da sotto la stoffa, prima di allontanarsi e fare strada, lasciandolo inaspettatamente freddo e con nient’altro da fare che seguirlo. «Vuoi qualcosa? Posso farti un panino al formaggio.»

Lo condusse nel salotto e poi nella cucina, uno stanzino piccolo ma ordinato separato dal soggiorno solo da una tapparella che cadeva malandata su un bancone di cotto. «Me li ricordo, i tuoi panini al formaggio.»

«Erano gloriosi.»

«Erano tossici.»

«Erano gloriosi e lo sono tutt’ora,» ribadì Ethan, aprendo il frigo e nascondendoci la testa dentro «ma per un palato schizzinoso come il suo abbiamo anche dei beignet e posso farle un caffè, dottore.»

«Non credevo fossimo qui per un caffè.»

«Per cosa credevi che fossimo qui?»

Aprì la bocca e la richiuse. Per quale motivo l’aveva seguito? Non lo vedeva da tanto e voleva recuperare il tempo perduto, era ancora presto per rientrare, era di strada per il suo hotel… ma qualsiasi motivazione ragionevole non era altro che una copertura, una giustificazione per il panico che lo prendeva al semplice pensiero di tornare al lavoro. Ethan lo sapeva, non poteva non saperlo, ma si era sempre divertito a metterlo alle strette e osservare il suo inutile divincolarsi come un gatto con una lucertola tra le zampe. Si strinse le braccia al petto, un bambino sulla difensiva contro il mondo, e si sforzò di ignorare come anche uno pseudo sgabuzzino potesse sembrare un posto enorme e ostile date le giuste circostanze.

Poi Ethan ghignò e si allungò verso un’antina più in alto, prendendo una bottiglia dall’aria vissuta. «Lo so che miravi a questo,» disse, prendendo due bicchieri al volo prima di sparire in salotto, perché si era sempre divertito anche a spiazzarlo.

«Bourbon?» mormorò, scegliendo di seguire la strada più facile (d’altronde non faceva altro da settimane). Lo raggiunse in salotto, tra librerie di cd e volumi ordinati, sedendosi in punta su di un divanetto consunto di fronte alla vetrata che dava su New Orleans. Erano così in alto che si vedeva tutta la città, una distesa costellata di luci in cui il Mississippi si snodava come un serpente nero e spariva lontano fino alla spiaggia.

«Maker’s Mark,» annuì Ethan, riempiendo un bicchiere e porgendoglielo con un mezzo sorriso. «Per le occasioni speciali.»

«Non mi sembra un’occasione così speciale,» disse sull’orlo del bicchiere, concentrandosi sul bruciore dell’alcol in gola piuttosto che sugli occhi di Ethan, o sulla maniera in cui gli si era seduto accanto, col ginocchio premuto contro il suo e la posa più rilassata del mondo.

«Il giorno in cui io ti ho insegnato qualcosa? Altro che occasione speciale.»

Sbuffò una risatina colpevole, nonostante tutto, e gli andò un po’ di bourbon di traverso. Mentre tossicchiava Ethan gli dedicò un sorriso fulgido, disarmante, di quel tipo che non gli vedeva fare dai primi anni di scuola, quando lui era ancora un adolescente confuso e l’altro si era autoproclamato suo custode e migliore amico, anche quando era stato chiaro fin da subito che non era Reid ad avere bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui.

Bei tempi, quelli. Si incupì, sorseggiando il bourbon, nella quiete di quel salotto caldo e ordinato con Ethan che lo guardava di sottecchi, sempre troppo perspicace, sempre troppo criptico. Si morse un labbro, pensando a qualcosa da dire, quando sentì il cellulare vibrargli in tasca. Si irrigidì di colpo, espirando bruscamente, ma lo lasciò ronzare e ronzare nel silenzio finché non si spense con un ultimo squillo indispettito.

Forse era meglio continuare a non dire nulla, anche se significava lasciare spazio alla cacofonia di pensieri nella sua testa. Doveva richiamare Prentiss, doveva concentrarsi sul caso, doveva tornare all’hotel e scusarsi con i suoi e guardarli negli occhi e parlare, dire qualcosa, ma non era sicuro di potercela fare. Era troppo difficile, e doloroso, e non sarebbe servito a nulla.

Il cellulare nella sua tasca vibrò, ancora una volta, e non controllò nemmeno il nome prima di spegnere. Sapeva che Ethan non gli stava staccando gli occhi di dosso, non c’era bisogno di essere un profiler per essersi accorti che non si era perso una sua mossa, ma che traesse le conclusioni che voleva. Fissò il bourbon con la mascella serrata, come se ci potesse trovare la soluzione a tutti i problemi del mondo.

«Avevi detto che questo non aiuta a farlo andar via.»

Con la coda dell’occhio vide anche Ethan abbassare il bicchiere e protendersi verso di lui, con i gomiti appoggiati alle ginocchia. Continuò a scrutare le profondità del suo bicchiere evitando il suo sguardo con risolutezza. «Be’,» lo sentì dire, facendosi rotolare le parole in bocca con quel suo accento appesantito dall’alcol, «Esistono le eccezioni. Diciamo che tra bere da soli e bere in compagnia c’è la stessa differenza che tra curarsi su internet ed andare dal medico – le dosi sono sempre sbagliate, e in realtà ti serviva solo qualcuno con cui lamentarti.» Si scostò un poco e mandò giù tutto il bicchiere, appoggiandolo vuoto sul tavolino. «E poi è Maker’s Mark.»

Reid studiò i giochi di luce che facevano brillare l’alcol come un pezzo d’ambra. «Non ho bisogno di quello.» Sapeva di cosa aveva bisogno. Il cellulare spento gli bruciava ancora in tasca, e poteva sentire lo sguardo deluso di Gideon perforargli la schiena persino ora, ed era chiaro cosa avrebbe dovuto fare. Eppure non riusciva a guardare la squadra negli occhi, e la ridicola sensazione di libertà che provava su quello squallido divano con Ethan sembrava quasi un tradimento.

«Non hai bisogno, o non vuoi?»

«Non voglio.» Alzò gli occhi su di lui, incerto, colpevole, con un groppo doloroso in gola e sincero come non lo era da non riusciva quasi a ricordare quanto. «Non ce la faccio.»

E Ethan lo baciò.

Così, sul divano, con una mano sulla sua guancia e l’altra sulla sua, ruvida, calda, a tenere fermo il bicchiere che non aveva avuto remore a lasciar andare dalla sorpresa. Lo baciò come se fosse normale, scostandogli i capelli dalla fronte con una carezza alla tempia, come se fosse qualcosa che avevano sempre fatto, qualcosa che era convinto l’avrebbe fatto star meglio e che, con una stretta al petto, si rese conto che lo faceva star meglio. Gli faceva venire voglia di aggrapparsi alla sua camicia e rannicchiarsi contro di lui in cerca di contatto, sicurezza.

«Niente sciocchezze,» disse Ethan, premuto contro le sue labbra, «Fidati, piangersi addosso è una perdita di tempo.»

E avrebbe potuto rispondergli, dirgli che era facile, per lui, che non aveva idea, ma il respiro gli si era bloccato in gola e allora si lasciò guidare, ancora una volta, come aveva fatto da quando aveva fermato Ethan in quel vicolo. Lasciò che gli togliesse il bicchiere di mano, che gli prendesse il viso tra le sue e lo baciasse piano, delicatamente, come se fosse una cosa preziosa, una porcellana arabescata di smalto. Si aggrappò davvero alla sua camicia, sentendo la stoffa tendersi nella sua presa disperata, non sapendo come fargli capire che non era abbastanza (che era troppo). Evidentemente era sufficiente, però, perché Ethan gli morse le labbra e se lo tirò addosso, graffiandolo con la sua barba in una sensazione nuova ed elettrizzante.

«Vieni di là,» sussurrò Ethan, a metà tra una proposta e una domanda, soffiando sulla sua bocca gonfia e usata, e cos’era un ordine in più, a questo punto? Attraversarono l’appartamento inciampando l’uno nei piedi dell’altro, mentre Ethan lo liberava dal gilet e attaccava la sua camicia, mentre lui combatteva e perdeva la battaglia contro i bottoni di quella di Ethan, e dovette stringergli la vita con mani tremanti per non sentirsi così perso.

Rotolare sul letto fu più una conseguenza del calciare via le scarpe che un piano premeditato, e ritrovarsi sotto di Ethan la semplice conclusione degli eventi. Reid si concentrò sulla sua bocca, sui suoi capelli che gli sfioravano il viso, armeggiando con i suoi jeans come se fossero la sua ancora in acque sconosciute, e ad ogni sospiro ricacciava indietro il pensiero dell’hotel, del cellulare, del caso, ogni gemito più forte del precedente per coprire il rumore del senso di colpa, e Ethan li raccoglieva tutti con le proprie labbra, gentile, comprensivo.

Si ritrovò nudo quasi a tradimento, trasalendo per lo shock improvviso dei vestiti di Ethan sulla propria pelle che sfregavano troppo forte e lo facevano impazzire. Ethan si scrollò la camicia di dosso e si abbassò malamente i pantaloni per poi tornare su di lui, schiacciandolo al materasso mentre gli baciava il collo e scendeva, lentamente, a mordergli la clavicola. Si chiese distrattamente se si sarebbe visto, la mattina dopo, se gli altri l’avrebbero capito, e sentì il sangue pulsargli tra le gambe all’idea come nessun altro pensiero era mai riuscito a fare – e forse era davvero questa la soluzione, forse era questo quello che gli serviva, non la droga, non le aspettative altrui, solo qualcuno che gli afferrasse i fianchi e si muovesse su di lui lento e deciso.

«Ethan…» Sussultò quando sentì le sue dita sulla propria erezione, strette e perfette, e lo cercò con lo sguardo. Gli occhi di Ethan erano scuri e lucidi, così diversi da quelli che ricordava, così incomprensibili, ma Ethan dai suoi capì qualcosa e si chinò a baciarlo, e tutto quello che sapeva era che un attimo dopo gli stava allargando le gambe e c’erano delle dita fredde su di lui, scivolose di lubrificante, mentre Ethan gli mordeva una coscia e poi passava la lingua sui segni rossi e sottili.

Chiuse gli occhi e si tenne stretto alle lenzuola, cercando di ritrovare il fiato mentre Ethan lo preparava e prendeva la punta della sua erezione in bocca, perdendosi nella sensazione e nel rumore del battito cardiaco che gli riempiva le orecchie, finché non sentì nuovamente la barba di Ethan pizzicargli il mento in un bacio alla gola e Ethan entrargli dentro, una spinta di una lentezza estenuante che gli accese tutti i nervi di scintille bianche. Avvolse le gambe attorno ai suoi fianchi e nascose il viso sul suo collo, lasciandogli dettare il ritmo, lasciando che la propria eccitazione sfiorasse spinta dopo spinta il suo stomaco in una frizione insoddisfacente finché Ethan non tornò a toccarlo, lasciando che l’orgasmo gli togliesse il fiato come un pugno e scacciasse via ogni angoscia, ogni senso di colpa, ogni pensiero.

Quando Ethan si accasciò su di lui, respiro pesante e membra sciolte dal piacere, lo lasciò fare, aspettando semplicemente che si alzasse e si preoccupasse lui di ogni cosa, di spegnere la luce in salotto, di pulirli con un asciugamano, di farli finire sotto le lenzuola. Lui, appena lo sentì appoggiare la testa al cuscino, si limitò a girarsi e accucciarsi contro il suo petto, mormorando qualcosa di incomprensibile quando Ethan gli accarezzò i capelli.

Si addormentò così, con le guance bagnate e il cuore stretto dal senso di colpa, cullato dal respiro regolare di Ethan e il ricordo di un ultimo momento in cui era riuscito davvero a non pensare.

   
 
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