PROLOGO
-
Allora, ti piace?-
Fissavo
il soffitto che sovrastava la piccola stanza, gli occhi fermi e stanchi, quasi
stufi di dover vedere quel panorama in continuazione, una visione davvero
monotona. Quel bianco sporco, così impregnato del fumo grigio di sigaretta,
sembrava implorare una rinascita, una nuova mano di colore. Poco più in là il
poster di un modello regnava sulla parete, l’ennesimo uomo che sprecava la
propria immagine per conquistare delle ragazzine che imperterrite compravano il
suo nuovo libro, pregno di menzogne ed esagerazioni che si sostituivano alla
sua vita altrimenti anonima. Quell’uomo aveva dopotutto un fisico scolpito (come
lo abbia ottenuto non era di certo affar mio) e poi,
si, dovevo ammetterlo, dei begli occhi di un azzurro intenso. I miei invece erano
di un castano scuro tendente al nero e nonostante tutto molte donne trovano più
affascinanti le mie scure iridi rispetto a quelle quasi stellate.
Forse
era solo colpa dei miei occhi se più spesso mi trovavo con persone sbagliate,
nei letti sbagliati.
-
Ehi, mi stai ascoltando?- ripeté quella voce femminile con tono seccato,
ansioso di ricevere risposta. Spostai lo sguardo verso di lei, i capelli biondi
le coprivano sensualmente il volto, oscurato dall’ombra creata dalle tapparelle
abbassate quel tanto che bastava per illuminare un
filo di pavimento. La lunga frangia le percorreva i lineamenti delle spalle e
del collo, il petto s’alzava e si abbassava con il suo
irregolare respiro. Le braccia allungate e poggiate sulle mie
spalle, le dita delle mani stretta sulla mia pelle, le gambe a cavalcioni sul
mio ventre.
Scossi
la testa. – No. - fu la mia risposta secca, seppur appena sussurrata.
-
Vuol dire che nemmeno questa volta…?- lasciò la domanda a metà, forse notando
che oltre ad aver smesso di guardarla non la stavo neppure ad ascoltare, avendo
voltato il viso alla mia sinistra. Notai il suo sguardo solo per una manciata di secondi: si, aveva capito, anche quel giorno
non mi andava di continuare. Tanto è inutile che mi guardi così, pensavo, sai
bene che il tuo modo di far la sgualdrina non mi eccita
affatto. Dopotutto l’hai avuta tu, l’idea di indossare quell’orrida mise,
ora te ne becchi le conseguenze.
Mi
alzai sui gomiti per scomodare la povera creatura dalla sua pur comoda posizione.
Svogliatamente, si spostò al fondo del letto senza fiatare. Scesi lentamente con
un piede e poi con l’altro sul tappeto, ed altrettanto
comodamente mi accinsi a riaccendere il mozzicone di sigaretta che avevo spento
a metà. Nonostante il metodo poco salutare era la via più facile per aiutarmi a
calmare la bestia del nervosismo. Poggiai la parte arancione del filtro sulle
labbra e con l’altra mano tentavo di far funzionare un accendino, regalo
sgradito di una persona. Appena avesse smesso di funzionare
l’avrei gettato nel primo tombino per strada.
Inspirai
della sostanza nella mia bocca, mentre lei si stava riagganciando il reggiseno
il più velocemente possibile, come a coprire un brutto errore appena commesso. Lasciai
che il fumo scivolasse fuori andandosi ad attaccare al grigio soffitto. La
procedura era monotona come sempre.
La
sentii avvicinarsi, strisciando sulle lenzuola, portandomele addosso con la
mano sinistra, poggiando il mento sulla mia spalla e baciandomi il collo. Il
suo rossetto lasciava una sgradevole sensazione ed ebbi quasi l’istinto di
strofinar via il suo residuo unto in quel punto.
L’istinto
prese il sopravvento.
Uno
schiaffo.
-
Come ti permetti?! Dopo tutte le volte che mi hai usata, hai anche il coraggio di comportarti in questo modo??
E dire che ti considero più di un’a..!-
Le
mie dita si mossero da sole, poggiate su quella bocca innocente ma sporca di
troppa saliva altrui, tanto quanto di servizi molto arditi. Premetti il pollice
sul labbro inferiore, tenendole il mento con l’indice, mordendola con
ingordigia. Che mi costava, dopotutto, accontentarla? Le mie energie mentali si
erano ormai esaurite per lei.
-
Non ho mai chiesto di usarti.- sussurrai gentilmente, sorridendo un poco e
guardandola negli occhi. –E non ti considero nient’altro che quella che sei. Nient’altro.- Poggiai la mia fronte alla sua
scostandole i capelli dal viso. Pensavo che le sue sopracciglia si piegassero
corrucciate ed offese, ma mai in un’espressione così
stupita. I suoi occhi parevano tristi e, a mio parere, pateticamente
dispiaciuti. Bè, capita di sbagliarsi. Infatti cambiò espressione in pochi secondi, spingendomi
lontana da lei e stringendosi le spalle con le mani incrociate al petto,
guardando altrove.
-
Ed ora cosa hai intenzione di fare?- chiese sottovoce,
ammutolita e ridotta alla condizione di indifesa ragazzina, senza corazza a
proteggerla. Già, in quel modo era davvero carina, forse la stessa causa che mi
aveva attratta quando la conobbi tempo prima. Le misi
un braccio attorno alle spalle e la feci poggiare al
mio fianco.
-
Nessuno ha la cifra adatta a comprarmi, e nemmeno la giusta valuta. Tu non
l’hai mai avuta eppure hai provato a prendermi.-
Mentre
dicevo ciò, inclinai
il capo verso il suo viso, che era poggiato al mio tatuaggio: un codice a barre
senza cifre.
-
Ora cercherò qualcuno in grado di acquistare il mio cuore.-
*******
-
Allora ti piace!-
Quell’esclamazione
viva e giovane riecheggiò nei corridoi della galleria d’arte moderna. Era una
struttura vecchia sia fuori che dentro, ridipinta recentemente
di un colore rosa salmone molto chiaro che dava un senso di ariosità e
lucentezza. Ogni parete era alta circa cinque metri ma ristretta in larghezza,
così da poter contenere solo due quadri, tre se di media grandezza.
Il
quadro che stavo osservando era di modeste dimensioni, con una cornice
argentata semplice senza ornamenti particolari. L’immagine era divisa in due
momenti: nella prima parte era ritratto uno scorcio di mare mosso, da cui si
ergeva una mano di colore. Dall’altro lato una mano bianca che si allungava in
direzione della prima, dandole forse aiuto. Perché forse? Bè,
nella seconda parte si poteva capire indistintamente che la mano bianca non voleva affatto aiutare quella nera. Infatti
si ritrae, mentre la prima scompare tra le onde, risucchiata dalla schiuma
dell’acqua.
La
ragazza stessa che l’aveva dipinto mi aveva chiesto un parere personale. In quanto dipendente della galleria, molte volte artisti
emergenti mi domandavano commenti sulle loro opere, ma i più copiavano quadri
già esistenti e, se li creavano loro stessi, erano ideazioni banali o poco
concrete. Quella invece era stata un’opera semplice ma ben ideata, sebbene si
notasse bene che in alcuni punti il tratto era inesperto.
-
Qui. - toccai lievemente con la punta dell’indice, là dove, accanto agli
scogli, si potevano notare delle screziature in rilievo, incrostazioni bianche
che stavano a rappresentare la schiuma delle onde. –
Cos’hai usato?-
-
Ah quello…- ebbe un attimo di esitazione, quasi imbarazzata – è bianchetto!-
-
Bianchetto?!-
-
E-ehi calma! Ecco…mi mancava l’acrilico bianco e
poi…-sembrava cercasse una scusa- …volevo dargli un tocco di realtà!-
Realtà
o finzione? Quell’incrostazione era talmente toccabile con mano che pareva
voler uscire dalla tela. Fuggire. Mai più tornare.
Si, decisamente mi piaceva.
-
Ok, vorrà dire che chiederò un favore al padrone della baracca. Magari potrebbe
spostare questa opera d’arte in una zona più esposta.-
dissi lentamente, portandomi una mano al mento con fare da esperta critica,
senza guardarla in viso.
Era
tremendamente carina.
-
Opera d’arte? Wow! Che paroloni! Non avevo mai sentito un commento del genere!-
strepitò tutto d’un fiato, gonfiandosi d’orgoglio.
Sorrisi
un poco alla sua esultanza, poi mi voltai su me stessa e mi diressi verso
un’altra stanza, senza illuminazione. Appena vi entrai, poggiai la testa al
primo muro a disposizione, abbandonandomi ad esso con
svogliatezza. Accesi un mozzicone di sigaretta che avevo conservato all’entrata
della struttura e buttai la cenere per terra con non curanza, poi mi poggiai
completamente di schiena e mi lasciai scivolare seduta a terra. Sapevo bene che
stavo per farlo, mi conoscevo abbastanza bene da poter scommettere sulla mia
possibile prossima mossa.
Sentii
i passi della ragazza di poco prima avvicinarsi, quasi
di fretta, fermandosi a poco centimetri da me. Correva saltellando, un gesto
tipico dei bambini che si avviano alla mamma. Si piegò nella mia direzione,
portandosi le mani sulle ginocchia.
-
Per caso non stai bene?- mi domandò un poco sottovoce, avviando ed incrociando il suo sguardo al mio. Socchiusi gli occhi,
buttando fuori il fumo davanti a me, non badando se c’era o
meno lei, ma parve non lamentarsi.
-
Ti andrebbe di dividere il letto con me, stasera?-
Ecco.
L’avevo fatto. Mi ero di nuovo lasciata prendere la mano da istinti impulsivi e
non attinenti alla situazione. Avevo già previsto come avrei agito, per questo
ho cercato almeno di prevenire la situazione, allontanandomi. Pareva invece che
il mio intento sia andato a vuoto.
Lei
sorrise.
-
Pare invece che tu stia bene, anzi, direi benissimo. Vedrò di chiedere
personalmente al padrone della galleria se vorrà spostare il mio quadro.-
Detto
questo si alzò spolverandosi i pantaloni e girò
l’angolo, ma prima di sparire totalmente fece un passo indietro, guardandomi di
lato.
-
Alla prossima, ragazza egoista.-
Era
bionda, ma si capiva che in realtà il suo colore naturale era un altro.. Mi chiedevo come facessero i suoi capelli a superare la
forza di gravità, forse l’effetto era dato dall’enorme quantità di cera che
usava sulle sue chiome. Le punte più ardue puntavano verso il cielo, mentre
altre le cadevano sugli occhi. Chiare iridi innocenti e spensierate.
Mascolina
d’aspetto quanto di carattere. Non si faceva mettere sotto i piedi da nessuno,
anche se più delle volte si rattristava per un nonnulla.
Era
decisamente carina.
Tremendamente
carina.
Da
quando mi aveva lasciato sola in quella stanza, quel giorno famoso, mi era
rimasto impresso il suo modo di fare. Certo, non sfrontato come il mio.
Qualcosa in lei mi aveva colpito ed avevo deciso di
seguirla. Conoscevo la zona dove abitava ed i suoi
orari. Lo ammetto: questo si chiama stalking e dovrei
essere arrestata per ciò, ma dopotutto non nocevo alla sua privacy tra le mura
di casa. Ora era al parco pubblico, contornata da un paio di ragazze. Va bene,
va bene, ammetto anche questo: le sue amiche erano decisamente
più dotate di lei, in tutti i sensi. Ma non era ciò a cui
miravo.
-
Ti dico che la formula è questa!- puntava il dito sulla pagina di un libro di
chimica, pieno di numeri sospetti, continuando a puntare in quel punto - Visto?
Se aggiungi questo elemento, non credo che il professore sarà contento di dover
spostare tutto in un laboratorio nuovo!-
Le
altre non erano molto convinte del ragionamento, ma cedettero presto alla sua
insistenza. Un comportamento impeccabile, seppur a tratti odioso. Le altre
annuivano, forse fingevano mera comprensione, poi presero le loro cartelle,
posandovi dentro i libri, la salutarono e se ne andarono.
La
ragazza fece un cenno di saluto mentre si allontanavano, poi sbuffò vistosamente e portandosi le mani dietro la testa si
accomodò per bene sulla panchina.
-
Posso sedermi?-
Forse
la sorpresi, tanto che sobbalzò al mio arrivo,
spostandosi verso l’altra sponda della panchina.
-
Oh… prego, si sieda…- fingeva disastrosamente di non conoscermi, dandomi quasi
le spalle, prendendo distrattamente a leggere il suo libro pieno di formule per
me incomprensibili.
-
Ti infastidisco forse?- chiesi.
-
…no…è che… non farti venire strane idee su di me.-
Ridacchiai,
estraendo il portafoglio dalla tasca dei pantaloni, aprendolo e tirandone fuori
un biglietto un po’ spiegazzato. Mi avvicinai a lei, ma notando il mio
movimento si alzò di scatto cercando una via di fuga lontana da quella che
sembrava una trappola.
-
No, aspetta. - si fermò subito alle mie parole, volgendosi solo un poco. Le
porsi il biglietto.- Il capo ha detto che forse potrebbe darti una mano, dato che ti conosco…-
-
Tu non mi conosci affatto. - prese il biglietto
sgarbatamente, leggendone il contenuto.
-
… e vorrei anche farmi perdonare. -
-
…- ci pensò un attimo, poi si volse totalmente, fissandomi dritta negli occhi. Un sguardo che non potevo facilmente evitare, per quanto
fosse carico di diffidenza e con una punta di… era rabbia, quella? Così pareva.
Forse era ancora adirata per la mia proposta tutt’altro che simpatica.
-
Basta che tu non mi inviti a condividere le tue
lenzuola.-
-
Senz’altro.-
*********
-
Allora?! Ti piace?!-
No.
Mi fa letteralmente schifo.
Non
risposi così però, nonostante fosse quello che realmente pensavo in
quell’istante. Continuai a girare il cucchiaio nel piatto, stracolmo di passato
di verdura, che aveva un colore per nulla invitate: un
verde oliva schizzato da macchioline bianche qua e là. Che fossero residui di
sedano che si era rifiutato di esser triturato con i suoi compagni ortaggi?
Tutto poteva essere. Stava di fatto che mi rifiutavo di mangiare una simile
schifezza.
Non
l’avrei mai assaggiata.
La
trangugiai con discrezione, silente, senza alzar ciglio verso la televisione
che parlava o al rumore sommesso delle pagine di giornale che venivano girate con notevole cura da dita talmente
grossolane. Quando posai il piatto sulla tavola e mi accinsi a far lo stesso
col cucchiaio, lasciai sfuggire un’occhiata alla
notizia che sovrastava la copertina. Un altro caso di stupro. Inghiottii la
saliva, ma non per coda di paglia. La cosa mi intimoriva,
quante donne dovevano ancora soffrire per far capire alla gente che era il caso
di porre fine a tutto ciò? Bella domanda, senza risposta.
-
Cos’hai da guardare? - freddo quesito, quasi
un’affermazione celata dal punto interrogativo. Non dovevo guardare, non dovevo impicciarmi dei loro affari, non dovevo uscire dal
mio mondo, dovevo semplicemente stare alle regole, muta, cieca, ma non sorda. Ed il solo fatto di sbirciare il giornale era un reato
punibile seduta stante.
Scossi
la testa, come per dire “no, nulla”. Se avessi parlato
sarebbe iniziata una nuova questione. La mia trasgressione. Il mio comportamento.
La mia maleducazione.
Finalmente
poggiai sulla tovaglia il cucchiaio che tenevo ancora in mano. Mi osservava
ancora, fessure con le quali poteva tenermi buona come
e quando voleva. Poteva farmi e dirmi quello che voleva. Anzi, mi stava proprio
facendo ciò che voleva. Mi sottometteva con il solo sguardo, come se lo
meritassi. Come se lo meritassi.
Non
lo meritavo.
Spostai
la sedia e mi accinsi ad andarmene nella stanza adiacente, posando il
tovagliolo al fianco del mio piatto. Rimisi la sedia al suo posto, sotto il
tavolo, il più tranquillamente possibile, il più silenziosamente immaginabile.
Mi voltai e feci pochi passi verso la porta.
–Dove
stai andando?- non risposi.
–Devi
finire di mangiare.- non risposi.
-Quando
capirai che devi portarci rispetto?-
Risposi,
voltandomi, senza guardarlo in faccia, senza fare una piega, senza proferir
parola. È così che funzionava, dopotutto ero in debito con loro, no? Se non mi
avessero accolta nella loro casa non avrei avuto
angolo, ponte o stazione dove vivere. Se solo i miei veri padroni fossero ancora in questo mondo non sarei stata trattata come
un’orfanella qualsiasi. Li avrei rispettati, e sarei stata rispettata.
Loro, per i quali la mia vita era un tremendo peccato. Loro, per cui la mia
vita era un disonore. Io vivevo, per cui dovevo andarmene. Ero un fastidio. Un
grande intoppo. Un soprammobile non gradito, che si poteva togliere in
qualsiasi momento. Ma la legge a qualcosa serve, a
farmi stare con qualcuno. Possibilmente non loro, ma sono pur sempre qualcuno.
Per questo, restando, dovevo sopportare.
Mi
sedetti sul divano, sempre garbatamente, continuando il mio silenzio esteriore.
Oh, se solo i pensieri fossero suoni tangibili esternamente. Sarebbe stato
bellissimo. Avrei potuto dire ciò che non avrei mai osato dire. Avrei visto
facce che non avrei mai avuto modo di vedere. Che belle sensazioni.
Silenzio.
-Alzati
e aiutami.- Semplice comando al quale dovevo scattare. Vicino al lavabo c’era una pila di piatti, uno straccio e lo sportello
dell’armadietto aperto. Compresi. Mentre li asciugavo, ascoltavo il rumore del
traffico fuori dalla finestra e lo stridio della sedia a dondolo alle mie
spalle. A mio zio piaceva, nonostante quel suono talmente acuto. Pazienza,
dovevamo sopportarlo. Era la legge.
-
Dimmi te, ‘sti deficienti…-
con la coda dell’occhio osservai ed ascoltai – Quegli assurdi finocchi truccati
e le loro puttanelle! Se solo potessero mandarli in prigione a calci in culo, ‘sti disgraziati, depravati,
malati!-
-
Gli omosessuali non fanno male a nessuno…- mormorai sommessamente tra me e me.
Errore.
Dovevo tacere.
-
I gay non sono sani! Devono nascondersi! -
Già,
si nascondono. Si rifugiano, cacciati dalla società, hanno paura di essere
giudicati per quello che sono, anzi, per quello che provano. Cosa c’è di
diverso in un gay se non il destinatario del loro
amore? Null’altro. Oh, mi sbaglio. C’è tutto di sbagliato in un gay. Sono gli oppositori della Chiesa e della società, sono
degli schifosi pervertiti, rovina famiglie, manifestanti abusivi e violenti.
Certe
volte mi chiedo perché mi piacciono le donne.
Perché
mi piacciono?
Mi
piacciono.
Non
c’è molto da dire. Non mi nascondo. Ok, la verità è tutt’altra e neppure io
posso oppormi al modo di pensare della gran parte della
popolazione. Cosa non farei per far sapere a tutti cosa
provo, cosa sento, come soffro per quel che sono. Anche se effettivamente provo
una certa delizia a corteggiare una donna che non capisce il mio modo di
pensare, e devo dire che è un gioco a cui mi presto
molto spesso. La cosa si fa divertente quando capiscono che ci sto provando e
si risolve tutto con una risata. O un’espressione indignata. O una passata di
letto. Molti credono che la mia mente sia limitata, purtroppo non sono brava a
parole e la cosa che mi riesce meglio è esprimere i
vocaboli in gesti. Quanto vorrei poter fare qualcosa per questo mio maledetto
modo di fare.
Qualcuno
mi metta un freno.
Ciao sono
io, Chiara. Mi avevi detto di volerti
farti perdonare no? Su, allora, precipitati qui in centro che devo farti vedere delle mie nuove creazioni! Non sai quanto
sia contenta che il capo mi abbia dato questa possibilità, ora potrò esporre
altri quadri! Ok ok è anche
merito tuo ma…non dimenticarti, oggi offri tu! Sennò non ti perdono :-P
Mi
buttai fiaccamente sul letto della mia camera. Il materasso non era mai stato
tanto soffice, le coperte sembravano fatte di dolce cotone ed
il cuscino di vere piume. Mi guardai in giro, attenta ad
ogni particolare, concentrata su ogni suono, scricchiolio del legno del
pavimento, delle molle del letto.
Mi
coprii la bocca con le mani, i miei occhi divennero fessure piccole
piccole.
Sorridevo,
e lo nascondevo al mondo.
Quel
sorriso lo volevo dedicare solo a me stessa.