Anime & Manga > Aquarion EVOL
Ricorda la storia  |      
Autore: yuki013    04/09/2012    5 recensioni
“Era stato allora che Amata aveva capito, che aveva smesso di cercare e si era seduto sul divano senza fare nulla. C’era rimasto per ore forse, almeno fin quando aveva sentito il bisogno di buttarsi sotto la neve e cercare rifugio in un luogo ancor più freddo del suo cuore.” […]
"Osservò divertito la faccia completamente rossa del suo coinquilino, mentre si guardava in giro e cercava di riacquistare una parvenza di serietà nonostante il colorito acceso. Era una scena comica e tenera per gli occhi di Amata, una di quelle che si pentiva sempre di non poter immortalare con una foto. E ne sarebbe valsa davvero la pena.”
[Prima classificata a parimerito con Yume_no_Namida all' "Aquarion EVOL Contest: EVOL or LOVE?" indetto da Mokochan]
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Amata Sora, Kagura Demuri
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Io credo che tumblr sia la rovina e la benedizione delle fanwriter. Non puoi controllare un attimo le tag che segui che subito ti si piazza davanti tanta di quella roba che inizi a scrivere e non smetti più - ovvero: sto allungando il discorso per spiegare che quella povera donna di Mikono è stata nuovamente messa da parte in favore di un pò di sano yaoi (o shonen-ai, che dir si voglia). Insomma, provate voi a controllare la tag Kagura Demuri, e poi ditemi se non ispira sconcezze. E per me sconcezze equivale a gayeggiamento, anche se qui è più accennato che altro. Nulla di troppo pesante, non era il caso.
Bene, sono circa 5153 parole. Buona lettura ♥
-Yu

NdA: prima classificata al contest "
Aquarion EVOL Contest: EVOL or LOVE?" di Mokochan, a parimerito con Yume_no_Namida // Premi IC, Miglior personaggio maschile (Amata Sora), Trama, Yaoi



Crossing falls

 

 
«Va tutto bene?», gli aveva chiesto guardingo, cercando di capire se le sue intenzioni sarebbero potute mutare da un momento all’altro. Aveva le dita dentro i guanti intirizzite per il freddo e il naso chiuso dall’influenza stagionale, ma era una persona troppo testarda nella sua ingenuità per lasciare un completo sconosciuto sepolto sotto dieci centimetri buoni di neve, abbandonato su una panchina in Edgware Road. Non se la sentiva proprio di avere un senzatetto sulla coscienza.
L’altro tipo si riscosse dall’apparente catalessi, mettendosi seduto in una maniera così improvvisa che Amata per la sorpresa cadde quasi all’indietro su un cumulo di neve, salvandosi soltanto perché i suoi scarponcini erano abbastanza buoni da tenerlo inchiodato al terreno.
«Hm?», fece atono, spazzolandosi la neve da sopra il cappello, sotto il quale si intravvedeva qualche ciocca rossiccia spuntare qua e là. «Kuso
1».
A quell’esclamazione, Amata alzò gli occhi e lo guardò finalmente in viso, ormai ripulito dalla patina bianca che lo ricopriva. Trovò strano riconoscere i propri tratti in qualcuno che non fosse…
Lasciò perdere quel ragionamento, certo che non lo avrebbe portato che ad altra depressione, e si sedette accanto allo sconosciuto, sulla panchina gelida.
«Sei giapponese?».
Quelli che gli si fermarono addosso furono due occhi quasi d’ambra, un nocciola chiaro che poteva benissimo passare per oro e topazio fusi in un'unica gemma. Ne fu disorientato per un momento, finché non si abituò al netto contrasto con il paesaggio innevato.
«Sì. Chi sei tu?», rispose in giapponese l’altro.
Amata si grattò la testa imbarazzato: a dirla tutta, nemmeno sapeva perché si era fermato in quel punto della strada, a quell’ora della notte. Aveva semplicemente voglia di camminare, di non pensare e lasciarsi invadere le ossa dal freddo e dalla solitudine – andava bene così, dopotutto. Se l’era cercata, e non poteva farci più nulla. E adesso si ritrovava sotto la prima nevicata di Dicembre, con uno sconosciuto di fianco e i vent’anni più pesanti della sua vita addosso.

Se i primi sono così, non oso pensare ai secondi.
«Mi chiamo Sora Amata», disse, presentandosi alla maniera giapponese. L’altro lo guardò male, molto male.
«Cosa diamine pensi che me ne importi?», sputò fuori, togliendosi il cappello. Amata poté così constatare che non solo le punte, ma tutti i suoi capelli erano rosso fuoco. Che fossero tinti o naturali, erano davvero di un bel colore. Gli sembrò quasi che quel ragazzo fosse un pugno in un occhio nella grigia Londra, così pieno di colore nel suo anonimato, e che afferrandolo sarebbe tornato a vedere i colori della sua Kyoto. Ma mentre pensava a come toccargli i capelli senza farsi prendere per pazzo, si ricordò della risposta che gli aveva appena dato.
«Ma se me l’hai chiesto tu!».
«Mica volevo sapere nome e cognome. Mi bastava sapere se eri uno sbirro, o un pusher, o che so io», rispose sempre in quella maniera tanto sgarbata.
«Sei un tipo maleducato, sai?».
«Taci. Sei fastidioso».
E quello fu per Amata il punto di rottura. Era la seconda volta che gli venivano rivolte quelle parole così aspre in ventiquattr’ore, e una sarebbe anche potuta andargli bene per quanto facesse male, ma due no. Lo afferrò per la sciarpa che portava al collo e gli rivolse lo sguardo più collerico che gli riuscì fare.
«Non dirmi come sono o come non sono. Non ero io l’idiota che stava per crepare sotto la neve».
Lo lasciò andare con stizza, infilando le mani nelle tasche del cappotto. Odiava non essere se stesso, odiava quel lato del suo carattere così irascibile che veniva fuori nei momenti peggiori causando effetti altrettanto disastrosi. Odiava essere debole al dolore che ancora l’abbandono gli provocava, come un bambino cresciuto che non riesce a separarsi dal suo orsetto di peluche.
Amata non pretendeva poi molto, soltanto un minimo di comprensione – che gli veniva puntualmente negata perché insomma, lui era Amata, e Amata Sora non si sarebbe mai lasciato abbattere dai problemi della vita. Ma quello che né i suoi amici né i suoi colleghi sembravano capire, era che lui proprio come tutti loro era umano, e a volte aveva bisogno di sentirsi debole e poter contare su qualcuno che fosse più forte di lui.
Questo qualcuno, per sua sfortuna, se n’era andato per l’ultima volta.
«Kagura».
«Eh?».
«Mi chiamo Demuri Kagura, contento?».
«Apprezzo lo sforzo».
Iniziò a respirare contro l’aria fredda, osservando le nuvolette di fumo che si condensavano fino a diventare informi masse grigie, per poi svanire nel nulla. Gli sarebbe piaciuto scomparire allo stesso modo, senza lasciare traccia di sé.
«Non è che per caso sai curare le ferite?».
Amata si interruppe, voltandosi per fronteggiare il ragazzo. I suoi occhi adesso trasmettevano una calma assoluta, come se finalmente avesse capito che se voleva il suo aiuto doveva collaborare, volente o nolente.
«Che tipo di ferite?».
«Tagli, bruciature, forse un polso rotto», concluse mostrando il braccio che teneva dentro il giubbotto semiaperto, steccato chissà come con una lima per unghie.
«Ti serve un dottore».
«I dottori fanno domande, e io non sono in vena di dare risposte», sentenziò rimettendo la mano al suo posto. «Se non ne sei capace, puoi anche andartene».

Amata sospirò. Avrebbe dovuto andarsene sul serio, lasciare lì quel tipo che con molta probabilità era un folle psicopatico e tornare alla vita di tutti i giorni – quella vita solitaria che pensava di avere abbandonato da tempo, ma nella quale sarebbe presto ricaduto. Una vita da lavoratore stacanovista, senza più passione per quella che era l’arte che aveva amato sin da bambino; una vita fatta di obblighi e doveri, o più semplicemente un’esistenza vuota che sarebbe scorsa in maniera lenta e regolare. La routine avrebbe ripreso a fare il suo corso, scandendo le ore e i giorni e gli anni, fin quando si sarebbe ritrovato nella veranda di una villetta di periferia, a leggere il Times2 o innaffiare le petunie nel giardino di casa.
Si era già rassegnato a quella realtà il giorno prima, quando i tasselli di quei due anni passati in uno stato di relativa calma avevano iniziato a scomporsi. O forse quella separazione era iniziata molto prima, prima che i suoi occhi cogliessero gli sguardi e i piccoli dettagli, prima ancora che la sua mente realizzasse che quell’equivoco sarebbe sfociato in qualcosa di troppo grande da gestire.
Lui però non se n’era accorto, aveva sperato fino all’ultimo che fosse solo un’impressione quello sguardo carico di amarezza e sfiducia che gli veniva rivolto quando tornava a casa, sera dopo sera. Si era convinto di essere paranoico a riguardo, di farsi mille filmini mentali per nulla com’era solito fare. Ma quella volta non c’era stata nessuna carezza, nessun abbraccio né parole dolci affogate nella passione che può accendersi tra due amanti: quella notte Amata aveva dormito da solo, nel loro letto a due piazze, stringendo forte a sé il cuscino di Mikono per credere ancora per un attimo, ancora per un secondo che lei era davvero lì con lui insieme al suo profumo di pesche e fiori appena sbocciati.
Quella mattina, Amata si era svegliato da solo. La parte di letto alla sua destra era vuota, fredda, e sul cuscino l’odore della stoffa si confondeva con quello dell’ammorbidente che lui stesso aveva comprato. Non c’erano il suo spazzolino con il tappo a forma di testa di coniglietto, né il suo shampoo nel box doccia o le pantofole che usava dentro casa. Non c’erano più le sue foto sul frigo, o le cose che aveva cucinato ed erano avanzate lasciate a congelare nel freezer, né i resti della sua cipria sul comò della stanza da letto. Persino i suoi capelli erano svaniti nel nulla, Amata non ne trovò nemmeno uno tra le setole della scopa.
Mikono aveva fatto le cose per bene – perché lo conosceva, perché sapeva che se fosse andata via lasciandosi qualcosa dietro, Amata vi si sarebbe aggrappato con tutto il suo essere nella speranza di vederla rientrare in quella casa da un momento all’altro con il suo adorabile sorriso sulle labbra.
Era stato allora che Amata aveva capito, che aveva smesso di cercare e si era seduto sul divano senza fare nulla. C’era rimasto per ore forse, almeno fin quando aveva sentito il bisogno di buttarsi sotto la neve e cercare rifugio in un luogo ancor più freddo del suo cuore.
Così era arrivato fino a Paddington, ignorando un gruppo di bambini che uscivano contenti da Burger King e proseguendo diretto chissà dove. Non ricordava da cos’era stato attirato, forse da un movimento involontario, ma l’aveva trovato così: raggomitolato sotto la neve, con un gatto sotto la panchina che miagolava insistentemente. Fuggì quando Amata si avvicinò, allontanandosi oltre un muretto, ma non prima di avergli soffiato contro tutto il proprio astio.
Quel tipo sembrava quasi un gatto: usciva gli artigli e li ritraeva, rimanendo però sempre sull’attenti. Era distante e freddo, ma sembrava avvezzo alla vicinanza di un’altra persona, e aveva in fondo agli occhi qualcosa che Amata aveva imparato a riconoscere al primo sguardo nel prossimo: la solitudine. Se non fosse stato per quel piccolo, insignificante particolare, si sarebbe alzato per andarsene senza nessun rimpianto.
Ma Amata, nonostante fosse una brava persona, non poté proprio esimersi dal ricercare un contatto umano quando ne aveva più bisogno. Probabilmente l’avrebbe usato e basta, ma non poteva farci nulla. Gli bastava non rimanere da solo, e tutto sarebbe continuato come sempre. Se lo ripeteva come un mantra, parola dopo parola.
«Abito un po’ lontano. Puoi camminare?».
«Sono malconcio, mica zoppo», ghignò piano Kagura, mettendosi in piedi. I riflessi di Amata gli permisero di non cadere con la faccia sotterrata nella neve.
«Vedo», fece sarcastico. Ricevette in cambio un’occhiataccia e uno spintone.
«Tsk. Sei proprio un tipo fastidioso, tu».
Amata decise di ignorare la terza volta e non controbattere, non ne valeva la pena. Si limitò a superarlo per fargli strada, gettando di tanto in tanto uno sguardo dietro di sé per essere sicuro di non perderlo lungo il tragitto.
Aveva l’impressione che quella sera non sarebbe dovuto uscire, eppure allo stesso tempo non riusciva a pentirsi d’averlo fatto. Come se una notte di Dicembre potesse essere l’inizio di qualcosa di nuovo, di un nuovo ciclo – come se la neve, anziché gelo, potesse portare il calore del sole.



Non sapeva da dove iniziare. Troppe domande gli affollavano la testa, troppi quesiti che avrebbe dovuto ma non voluto porgli sul perché avesse il corpo ricoperto di tagli, ustioni, lividi e Dio solo sa che altro. L’unica nota positiva era che il polso non era rotto, ma semplicemente contratto.
Kagura guardava oltre la finestra mentre Amata passava un batuffolo di disinfettante sull’ennesima ferita aperta. Ne aveva così tante che gli sembrava di avere a che fare con un gangster, più che con un ragazzo della sua età: sul collo, sulle spalle, lungo tutta la schiena e sul torace, e poi ancora sulle gambe e  sulle braccia. Era come se qualcuno si fosse divertito a tagliuzzarlo ovunque, senza senso logico, ma per il semplice gusto di fargli del male.
Per tutto il tragitto oltre Marble Arch e fino al Mayfair erano rimasti in silenzio: con rapidi sguardi Amata si assicurava che l’altro fosse dietro di lui, e nonostante gli ci fosse voluta quasi mezz’ora tra l’attesa per la metro e il tratto di strada da percorrere a piedi, erano infine giunti alla minuscola palazzina che si affacciava su un piccolo chiostro di ristoranti etnici. Da allora, quel silenzio si era protratto a oltranza, intervallato dal brusio del vento che agitava le finestre.
«Non mi chiedi come me le sono procurate?».
Amata interruppe il suo lavoro, fissando l’altro seduto sulla panca del soggiorno di fronte a lui. A dispetto dell’aria da idiota, sembrava essere uno che osservava attentamente gli altri, e ne carpiva i pensieri. Ad Amata per reazione vennero i brividi.
«Non mi sembrava il caso».
«Però ci stavi pensando».
«Sì».
Kagura sospirò, un gesto che raramente ripeteva più di una volta in un giorno. Non era il genere di persona che si abbatteva o si stancava facilmente, era più un recidivo, uno che lottava per avere quello che desiderava. Prima fra tutte, l’appena acquistata libertà.
«Ferite di guerra», rispose ironico, ma con un tono abbastanza triste da far riflettere Amata.
La prima cosa che gli venne in mente fu di avere davanti uno di quei ragazzi che subiscono violenza in famiglia. Sperò vivamente di sbagliarsi, di non ritrovarsi da un momento all’altro i servizi sociali a casa o peggio, la polizia che lo accusava di rapimento di minore. Nella fretta non gli aveva neanche domandato quanti anni avesse, ma ad occhio e croce o era un adolescente molto alto, oppure era un suo coetaneo – e sperò vivamente per la seconda.
«Quanti anni hai?».
«Diciotto, credo».
Amata si sentì più sollevato, riuscì persino a fare un mezzo sorriso – mezzo, perché quella casa continuava ad essere un luogo infestato dai fantasmi ai suoi occhi. Non aveva avuto il tempo materiale di metabolizzare l’abbandono, e si ritrovava a vagare con lo sguardo da un lato all’altro della stanza senza la più pallida idea del perché lo stesse facendo. Arrivare alla motivazione era semplice, realizzarne appieno ciò che comportava era un altro paio di maniche.
«Credi?».
«Così mi hanno detto all’orfanotrofio, ma non so esattamente il giorno della mia nascita».

Ah. Amata rimase sempre più sorpreso nel constatare quante cose avesse in comune con quel ragazzo, più di quante avrebbe potuto immaginarne. Non che essere un orfano fosse un gran vanto, ma almeno poteva comprendere in parte il carattere di Kagura; ne aveva visti tanti come lui, ribelli e sordi al mondo soltanto perché vi erano stati abbandonati come merce di scarto. Se lui era una persona solitamente allegra e cordiale, probabilmente era solo per merito di una spiccata preposizione al positivismo.
«Anche tu, eh?».
«Sei orfano?», gli chiese Kagura.
«No, non credo. Le suore mi hanno detto che mia madre mi lasciò al convento da piccolo, e non si fece più viva. E tu?».
«Non ne ho idea. E sinceramente, non mi importa sapere chi siano i miei genitori», aggiunse controllandosi l’ultima benda che Amata aveva avvolto al polpaccio. «Se loro stanno bene senza di me, io sto bene senza di loro».
«Dici?».
Kagura non rispose, ma Amata non poté fare a meno di chiedersi chi gli avesse inflitto quelle ferite, arrivati a quel punto. Avrebbe potuto fare congetture e sforzarsi quanto voleva, ma non riusciva a ricollegare le poche cose che sapeva di Kagura e capire per quale motivo stesse per morire assiderato sotto un cumulo di neve.
«Ci stai ancora pensando».
«Sì, ma non te lo sto chiedendo».
Kagura rise, in maniera molto soffusa. Amata registrò quei movimenti come se fossero importanti, come se quel sorriso autentico sulle labbra dell’altro fosse quanto di più sincero Kagura avrebbe mai potuto mostrargli.
«Potrei spaventarti, se te lo dicessi».
«Mettimi alla prova».
«Sicuro?».
La luce che attraversò gli occhi di Kagura spiazzò Amata, facendogli desiderare di essere infinitamente lontano da quella stanza. Era uno sguardo serio il suo, nessuna traccia del sorriso vi brillava dentro un attimo prima. Occhi che non ammettevano repliche, che gli dicevano palesemente che se fosse andato avanti non sarebbe più potuto tornare indietro. Ma che aveva da perdere?
Annuì, coprendo con la garza anche l’ultimo taglio all’altezza del fianco destro, lì dove un tatuaggio si perdeva oltre l’orlo dei boxer.
«Sono gay, e questi sono il regalo d’addio del mio tutore ed ex compagno».

 

Aveva poco più di sei anni, quando l’avevano preso con sé. Non capiva perché avesse bisogno di una casa quando aveva già l’orfanotrofio: probabilmente essere un piccolo teppista in un monastero di preti resi burberi dal troppo tempo passato a leggere salmi non era il comportamento migliore da adottare, e questi tanto s’impuntarono che alla fine due genitori glieli trovarono per davvero.
Gente per bene, un po’ strana, ma così come tutte le coppie sposate che si accorgono troppo tardi di non poter avere figli avevano un grande difetto: erano incapaci di trattare fermamente con i bambini. Kagura se n’era sempre approfittato, passando dai capricci alle botte e agli insulti tra compagni di classe, alle risse che avevano segnato l’inizio della sua adolescenza. Alla morte del suo padre adottivo, un padre che non aveva mai sentito suo ma che fino a prova contraria lo aveva cresciuto e gli doveva una vita più che dignitosa, spese qualche parola di commiato per la sua prematura scomparsa – ictus, gli avevano detto in ospedale.  
«Tua madre non può mantenerti con il suo attuale sussidio», aveva detto secco l’assistente sociale, «per cui ti cercheremo un altro tutore per i prossimi due anni».
C’era finito in maniera improvvisa tra le fauci di Mykage – e non che si aspettasse chissà che, aveva visto abbastanza nella sua vita di bambino e ragazzo da rendersi conto, non appena avevano avuto il primo colloquio, che convivere con quel tipo sarebbe stato molto difficile e per niente pacifico. Inizialmente era stato gentile, un uomo generoso e di bell’aspetto con un buon lavoro e una casa con vista sull’oceano in Irlanda: poi lo aveva convinto pian piano, ammansito quasi, e solo dopo parecchie settimane aveva allungato le mani per far capire a Kagura che quella non era casa sua, era la sua prigione.
Da lì in poi era stata un’escalation di forzature e oppressioni, mani ripugnanti che gli venivano sfregate dolorosamente in punti di sé che nemmeno lui aveva mai sfiorato, labbra che lo costringevano e braccia che lo tenevano fermo su una superficie sempre fredda, sempre scomoda. Non era mai andato troppo in là, diceva di “tenere il meglio in serbo” per quando avesse compiuto diciotto anni – e mancavano appena sette mesi – e ogni atto di violenza su minore fosse sfumato via come sabbia al vento. Kagura non seppe mai se le minacce che prometteva nei confronti della sua madre adottiva fossero vere, fatto sta che tre giorni prima del compimento della maggiore età se n’era andato.
In silenzio, senza che nessuno potesse notarlo, aveva prelevato un buon quantitativo di liquidi dalla carta di Mykage – carta che a rigor di logica per il tutore doveva avere un PIN conosciuto soltanto a lui – e al suono della campanella era tornato a casa per raccattare la sua roba: un cambio d’abiti, qualche paio di boxer, un coltello svizzero che teneva sempre nel cassetto del comodino, barrette, acqua e la foto della sua precedente famiglia infilata come segnalibro tra le poesie di Byron.
Aveva aspettato il primo autobus, c’era salito e si era lasciato l’Irlanda alle spalle.
Qualche giorno dopo era a Londra, con le ferite dell’ultimo “gioco” ancora doloranti, a casa di un perfetto sconosciuto che gli stava pure sui cosiddetti – e che nonostante provasse per lui la stessa primordiale antipatia, lo stava aiutando. Ed era pure passato il suo compleanno senza che ci facesse troppo caso.
Una strana storia, la sua, una di quelle che si sentono nei bar sparsi sulle grandi autostrade americane, dove tutti parlano di sé e nessuno ascolta veramente. Una storia che però il ragazzo pel di carota aveva ascoltato senza particolari inflessioni, se non sul finale. Kagura ne fu perlomeno colpito.
«Non provi compassione?».
«Agli uomini serve la comprensione, non la compassione. La compassione è per quelli che si lasciano vincere dalla vita», dichiarò Amata, versandosi una tazza di tè caldo e passandone una all’ospite, che la prese tra le mani a coppa per scaldarle.
«Sei un tipo strano».
«Da che pulpito».

All’esterno la nevicata si era infittita, e la bufera scuoteva i lampioni della via e i vasi nei piccoli balconi attaccati l’uno all’altro. Le imposte di legno vibrarono contro il vento, prima di acquietarsi e tornare a posarsi sul vetro della finestra; si potevano sentire in lontananza i primi canti natalizi lungo Oxford Street, lì dove il coro di Selfridges3 intonava melodie tradizionali per invitare i clienti nel grande centro commerciale, e il profumo dei bagels4 freschi appena usciti dal forno sovrastava quello pungente della benzina di bus e taxi. Oltre ancora, lontano dal centro, le villette riposavano sotto un manto bianco, con dentro famiglie che addobbavano il salotto e bambini che contavano sulle dita i giorni che mancavano per poter scartare i regali – e in una di quelle case, infinitamente lontano dall’appartamento di Amata, c’era anche Mikono. La sua espressione mutò drasticamente al solo pensiero, le lacrime che era riuscito a trattenere con uno sforzo non indifferente che si affacciavano timide sugli occhi viola; una tonalità strana la loro, anormale forse, eppure a tutti era sempre piaciuto quel colore. Lui non poteva sopportarlo più, gli ricordava le gonne di Mikono e i suoi capelli, che seppur molto più scuri gli facevano ugualmente desiderare di strapparseli per non vedere più allo specchio quelle sfumature scure che troppo dolorosamente gliela ricordavano in tutta la sua tenera perfezione.
Ma quel dolore così represso, così celato e nascosto dietro una frangia di capelli color carota acceso, a Kagura non era sfuggito.
«Non hai una bella cera».
Amata arrossì, così poco avvezzo a lasciar trapelare di fronte agli altri quel tipo di sentimenti che erano totalmente fuori dal suo controllo. Passò una manica della felpa sul viso e tornò a guardare fuori, un fianco posato contro il muro di cartongesso.
«Le persone sono… piene di contraddizioni».
«Dicono che ti amano, quando non ti amano più?», suggerì Kagura.
Amata si voltò a fissarlo con un sorriso triste sulle labbra, come se per un attimo avesse capito esattamente quel ragazzo con il corpo martoriato e gli occhi di un bambino che se ha un tetto sopra la testa non sa che farsene del resto del mondo. E forse ci era riuscito, altrimenti non si sarebbe avvicinato al divano per sprofondarci insieme alla tazza di tè Oolong svuotata per metà, che finì sul tavolino basso di noce mentre le sue braccia cingevano le gambe raccolte al petto.
Era sconcertante per Kagura vedere come le persone erano brave a fingere: Pirandello diceva che ogni uomo indossa delle maschere, ma quante maschere poteva indossare un essere umano, e quante era disposto a possederne per celare la sua vera natura? Kagura, che era sempre rimasto se stesso, nonostante avesse divorato tutti i libri dello studio di Mykage e avesse sentito le opinioni più disparate sui temi più controversi, non era mai cambiato per volere altrui. Aveva sempre deciso da sé le motivazioni che lo spingevano a riflettere e agire, per cui trovarsi davanti un ragazzo dalla fragilità quasi palpabile che fino ad un’ora prima sembrava volesse prenderlo a pugni era estraniante, e a nulla valsero le sue conoscenze letterarie per sapere come comportarsi di fronte alle lacrime silenziose che scendevano lungo il suo volto contratto nel vano tentativo di trattenere una smorfia.
«Dicono che ti amano quando forse non l’hanno mai fatto».
Kagura intuì qualcosa, ma non chiese nulla per rispetto. Era un individuo estremamente molesto, ma sapeva anche riconoscere quei momenti in cui doveva semplicemente stare zitto – e così fece, avvicinandosi di poco ad Amata perché il plaid che gli aveva prestato il padrone di casa arrivasse a coprire anche le sue gambe. Rimase in silenzio finché non lo sentì calmarsi, e solo allora si avvicinò ulteriormente alla sua spalla.
Non c’era una ragione particolare, quel tipo era uno dei tanti incrociati per caso e se lo sarebbe presto lasciato alle spalle, dimenticando il perché gli avesse raccontato a grandi linee la storia desolata della sua vita e le motivazioni che l’avevano spinto a fargli posare la testa nell’incavo del proprio collo, in una posizione tutt’altro che comoda. Ma qualche istante dopo Amata stava dormendo con le guance ancora bagnate e gli occhi luminosi nascosti sotto le palpebre, e respirava così tranquillamente che anche Kagura si costrinse ad un sospiro – il secondo in poche ore, un vero evento – e si accoccolò meglio sotto la coperta. Perché fuori faceva sempre più freddo, e in quel piccolo angolo di terra potevano anche togliersi le maschere che coprivano i loro volti, dimenticarsi del dolore e aspettare che l’inverno facesse il suo corso, passasse e portasse un’altra primavera.
In quella stanza potevano far tutto, dimenticarsi del fuori e far finta che tutto il resto fosse l’astratto, incantevole soggetto di una palla di vetro, una di quelle con la neve dentro – un regalo pacchiano, fuori moda, visto e rivisto, eppure sempre intriso di quel fascino effimero che un oggetto tanto fragile porta con sé. Proprio come Amata e Kagura, sconosciuti stretti inconsapevolmente in un abbraccio ingenuo che sapeva del tepore di una casa.

 

 

Febbraio si stava rivelando il mese più freddo dell’intera stagione. Le gelate che avevano seguito i violenti acquazzoni londinesi avevano congelato le pozzanghere e reso il traffico ancora più congestionato, in una confusione generale dalla quale solo le metropolitane erano riuscite a salvarsi, accogliendo l’immensa massa di pendolari che si spostavano nell’intricato sottosuolo della città.
Amata li osservava dall’esterno dell’Hilton di Paddington nel quale era stato assunto da nemmeno un mese – come cuoco, anche se a conti fatti erano decisamente di più le volte in cui finiva a lavare piatti piuttosto che quelle in cui stava dietro ai fornelli. Ma lo chef, un certo Fudo, nutriva buone speranze per lui e Amata non era proprio riuscito a deluderlo rifiutando i lavori meno gratificanti soltanto perché gli seccava farli: la sua caparbietà gli era valsa quel giorno di lavoro di sole quattro ore pomeridiane e un contratto che avrebbe firmato il giorno dopo, con tanto di stipendio fisso e contributi mensili. Probabilmente gli ci sarebbe voluto parecchio tempo per mostrare alla brigata di cucina la sua bravura e le sue idee, ma con il tempo era sicuro che ce l’avrebbe fatta.
Sospirò in una nuvoletta di fumo bianco, conscio del fatto che qualche mese prima non sarebbe stato dello stesso avviso. Pagò il ragazzo dei giornali fermo davanti all’ingresso della metro e iniziò a leggere con disinteresse il Times, saturo dei soliti titoli di politica estera ed economia inglese, quando due donne che scendevano da un cab5 lo distolsero dalla sua superficiale lettura.
Amata osservò a lungo il motivo stesso per il quale era stato lasciato da Mikono: una ragazza con i capelli corti tinti di verde, conosciuta ad una festa attraverso amici di amici e con la quale era scappato un bacio – soltanto un bacio, ma tanto era bastato a Mikono per raccogliere le sue cose e sparire dalla sua vita. La stessa Mikono che adesso le indicava eccitata la vetrina di un negozio di dolci, con il sorriso più felice che Amata le avesse mai visto in volto e la piccola mano stretta in quella dell’altra ragazza.
Aveva immaginato spesso una scena simile, un incontro casuale con lei, ma pur avendola a due marciapiedi e una strada di distanza non riuscì a dirle nulla – perché finalmente, forse, aveva capito molte cose che in quella fine d’autunno gli erano sfuggite, e che sembravano convergere e rimettere a posto gli avvenimenti degli ultimi tre mesi. E lei sembrava così rapita, così serena e in pace con le dita incastrate tra quelle di Zessica che gli sembrò quasi profano avvicinarsi anche solo per salutarla. Rimase a guardarle finché non sparirono dietro l’angolo con London Street, e sorrise tra sé ripiegando il giornale per metterlo nella tracolla che aveva sul fianco.
D’altronde, andava bene così.
«Scusa, ho fatto tardi». Sobbalzò nel vedersi spuntare Kagura alle spalle, sempre furtivo nell’avvicinarsi agli altri – e inutilmente Amata gli ripeteva che prima o poi gli avrebbe fatto venire un infarto prematuro. Sorrise, scuotendo la testa.
«Fa niente, stavo leggendo il giornale. Andiamo?».
Kagura annuì, sempre silenzioso e di cattivo umore per via del suo perpetuo vagare in cerca di un posto di lavoro. Ad Amata veniva ancora da ridere se pensava all’enfasi che aveva impiegato nel descriversi come un moderno Dante perduto nella “selva oscura” (dei disoccupati) senza nessun “Virgilio” (conoscente) a fargli da guida e con – soprattutto – una “Beatrice” che non aveva la minima intenzione di condurlo al Paradiso. E l’ultima parte era una cosa che soltanto Amata comprendeva con estremo imbarazzo, ed evitava di riprendere per non essere assalito nuovamente dal dubbio e dal conflitto interiore che da giorni minacciava di farlo diventare matto.
In cuor suo, tuttavia, aveva già deciso: quella sera stessa, ormai era una questione personale. Perché se la sentiva, perché voleva e per altre decine di motivi che passavano dalle scarpe con le suole ricoperte di fango lanciate in testa ad un poco pentito Kagura, al primo bacio scambiato la notte di Capodanno, al fatto che gli facesse da cavia per i suoi esperimenti culinari e accettasse di buon grado di lavare le sue mutande nonostante gli fosse permesso di maneggiarle solo in presenza della lavatrice e senza nasconderle in qualche anfratto della casa per farne un uso improprio. Ne avrebbe avuti ancora molti da dire, ma gli bastava guardare quanta tranquillità avesse acquisito in maniera graduale dal giorno in cui l’aveva conosciuto per capire che, di motivazioni, non ne servivano poi molte.

«Stasera cucino sekihan6».
«Abbiamo qualcosa da celebrare?».
Amata si lasciò sfuggire un sorriso, addentrandosi nelle profondità del sottosuolo londinese. La calca del primo pomeriggio lo accolse nella vecchia tube, insieme allo sbalzo di temperatura che regnava nel reticolo sotterraneo. Percorsero l’ormai consueto tragitto per prendere la Bakerloo Line, cercando di intralciare il meno possibile il viavai di persone, e rimasero contro il muro aspettando che dalla galleria arrivasse il fischio familiare delle ruote sulle rotaie.
«Allora?».
«Allora niente, mi va di mangiarlo. Non ti piace?».
«Beh, si da il caso che almeno sulla tua cucina non abbia nulla da ridire».
«Cosa stai insinuando?». C’erano momenti in cui Amata lo avrebbe volentieri picchiato, conscio che poi gli sarebbe comunque finita a ripulirgli le ferite.
«Assolutamente nulla».
Lo sferragliare e la voce all’altoparlante comunicarono l’arrivo del treno, che dopo pochi secondi rallentò in prossimità della banchina fino a fermarsi completamente. La folla spintonò per trovare un posto, ma Amata fermò Kagura per un braccio e nella maniera più innocua e sincera possibile gli posò un bacio sulla guancia, affrettandosi poi verso il vagone.
Osservò divertito la faccia completamente rossa del suo coinquilino, mentre si guardava in giro e cercava di riacquistare una parvenza di serietà nonostante il colorito acceso. Era una scena comica e tenera per gli occhi di Amata, una di quelle che si pentiva sempre di non poter immortalare con una foto. E ne sarebbe valsa davvero la pena.
«La metro non aspetta mica, Kagura».
Le porte si chiusero proprio dietro la sua schiena, e dovette curvarsi un po’ per non sbattere contro una delle maniglie appese alla sbarra d’acciaio.
«Non ti sopporto quando fai così», sussurrò a voce ancora più bassa, nonostante non stessero parlando inglese.
«Lo so. È per questo che lo faccio».
E Amata poté fingere, nella confusione del momento, che quello di Kagura fosse un abbraccio dovuto alla mancanza di spazio – ma nulla riuscì a distoglierlo dal desiderio che ce ne fosse ancora meno a disposizione, se questo significava non doversi nascondere e potersi abbracciare senza paura, dentro un vagone della metro, dopo aver rivisto la propria ex ragazza e aver eliminato in pochi secondi ogni traccia di rancore e tristezza provati negli ultimi tre mesi.
Alla fine l’inverno aveva fatto il suo corso, e la primavera era quasi arrivata – ma prima ancora era arrivato Kagura, e quello era bastato a rendere il freddo inverno di London City meno gelido.
O se non altro, perlomeno, era bastato a rendere Amata felice.


“Le persone sono piene di contraddizioni:
sono da sole, e poi non lo sono più;
sono perse, e poi non lo sono più.”

 da "Tadayoedo Shizumazu, Saredo Naki mo Sezu",
di Yoneda Kou
 

*1- Kuso: imprecazione simile al nostro “dannazione” o “merda”.
*2- The Times: il principale quotidiano londinese e inglese in generale
*3- Selfridges: catena britannica di centri commerciali. Il punto vendita di Oxford Street è considerato il più grande dell’intero Paese dopo Harrod’s, situato sempre a Londra.
*4- Bagel: è una pasta lievitata a forma di anello, bollita per poco tempo in acqua e poi cotta in forno. Personalmente li ho mangiati salati, con pomodoro, lattuga, prosciutto, formaggio e salse in mezzo, ma ne ho visti di molti altri tipi con ripieni dolci e glasse di cioccolato, zucchero o sciroppi di frutta.
*5- Cab: il nome con cui gli inglesi chiamano i vecchi taxi neri di Londra e provincia.
*6- Seikihan: riso cotto insieme agli azuki, i fagioli rossi giapponesi, dai quali trae il colore rosa chiaro. Viene preparato per occasioni importanti, per celebrare qualcosa, come buon auspicio (il rosso è un colore che nella tradizione giapponese porta fortuna) o, meno spesso che in passato, al raggiungimento del primo ciclo mestruale di una ragazza. Si mangia con un misto di sesamo tostato e sale detto “gomashio”.

   

   
 
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Aquarion EVOL / Vai alla pagina dell'autore: yuki013