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Autore: FaDiesis    05/09/2012    2 recensioni
"Dicono che dimenticare faccia bene, che talvolta ti aiuti a costruire qualcosa di nuovo e migliore. Ma poi, un ricordo improvviso spezza quell’illusione che con tanta fatica avevi creato, infrange quell’invisibile barriera che ti avvolgeva, che ti aveva fatto sentire la donna più felice del mondo. "
One -shot che ha partecipato al Contest "Destini: Storia di un Grande Amore" di MissNanna... Spero piaccia! (:
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ingannati dal destino
 


Dicono che dimenticare faccia bene, che talvolta ti aiuti a costruire qualcosa di nuovo e migliore. Ma poi, un ricordo improvviso spezza quell’illusione che con tanta fatica avevi creato, infrange quell’invisibile barriera che ti avvolgeva, che ti aveva fatto sentire la donna più felice del mondo. 
                                                                    ***

 

Polvere, odore di polvere.
Fu la prima cosa che riconobbi quando ripresi conoscenza.
Beh, forse è meglio dire l’unica.
Aprii gli occhi di scatto, sentendo una forte pressione al petto. 
La tosse mi colpì fulminea e inattesa, con violenti spasmi che mi fecero piegare in due.
Respirai profondamente, mentre cercavo di capire dov’ero. 
Macerie, c’erano solo macerie intorno a me. Nient’altro.
Confusa mi alzai, ma barcollai e dovetti sostenermi ad un mucchio di pezzi di cemento.
Mi portai una mano alla testa, dolorante. 
Subito la ritrassi, tremante e sorpresa. 
Un liquido rosso e fluido macchiava le mie mani, già sporche di cenere. Sangue.
La testa mi sanguinava terribilmente. 
Cercai di asciugare la ferita con un pezzo della maglia che indossavo, fasciandomela meglio che potevo.
Ma dov’ero? Dove diamine ero finita?
Vedevo solo macerie accatastate tutt’attorno me. 
Fortunatamente due enormi lastre si erano posizionate in maniera che una faceva da appoggio all’altra, creando un triangolo d’aria sotto il loro incrocio. 
Solo per questo ero ancora viva, i detriti non mi avevano sommerso.
Vidi uno spiraglio di luce, lontano, che lasciava intravedere i granelli di polvere.
Decisi di seguirlo per trovare l’uscita.
E chissà come, mi ritrovai fuori, all’aria aperta.
Era notte, la luna splendeva alta nel cielo.
Ero affannata, ma l’aria pulita era rigenerante per i miei polmoni “sporchi”.
Mi voltai, e quasi non caddi dallo sgomento.
I residui di due grattacieli si ergevano ancora vacillanti davanti ai miei occhi, con tanta gente che fuggiva gridando. 
Un piano di una delle due costruzioni cadde a pezzi e sussultai, spaventata. 
Indietreggiai inorridita. Cos’era successo? Perché non ricordavo nulla?
Cercai un posto dove stare al sicuro, dove riposare e chiedere aiuto.
Ma l’unico luogo che trovai fu la metropolitana.
Ok, forse non era proprio sicuro, ma mi avviai verso la prima entrata senza riuscire a pensare ad altro. 
Non sapevo quanto avevo camminato, né che ora della notte fosse. Ma ero distrutta, terribilmente distrutta.
Con molta difficoltà riuscii a scendere le scale che portavano alla metro, maledicendo ogni tanto qualche passante che non ne voleva sapere di aiutarmi. 
Avvistai una panchina vuota e mi ci trascinai faticosamente. 
Stavo per svenire, lo sentivo. La fronte continuava a sanguinarmi copiosa e le mie ultime forze erano allo stremo. 
Improvvisamente la panchina mi sembrava un traguardo irragiungibile. 
Sentii una voce urlare e feci in tempo a vedere una sagoma sfocata prima di cadere in balia del buio.
 
-Ehi! Ehi, stai bene?
Mmh… chi era che parlava?
-Ehi, sei sveglia?- domandò ancora la voce.
Sollevai lentamente le palpebre e mi trovai un  paio di occhi celesti che mi fissavano preoccupati.
Spalancai i miei e sobbalzai dalla sorpresa. 
Il ragazzo alzò le sopracciglia, rendendo quei suoi occhi ancora più grandi. Non so come mai, ma mi mettevano in soggezione. Lo capivo dalla stretta fastidiosa che provavo allo stomaco.
O forse era solo fame.
-Oh, finalmente!- esclamò il ragazzo. -Ti senti bene?
Ma chi era quel ragazzo che continuava a farmi domande?
Annuii, sospettosa. Non mi sentivo male, giusto un po’ stanca e con la testa che pulsava leggermente.
Lui sorrise. 
Aveva la pelle scura, un fisico piazzato e uno strano tatuaggio sul braccio destro. Non capivo come poteva avere gli occhi azzurri… non avevo mai visto persone di colore con gli occhi chiari. 
-Allora, come ti sei ridotta così?- chiese, un po’ troppo allegramente, secondo i miei gusti.
-Non… non lo so…- balbettai, con la voce roca. 
In effetti non ricordavo nulla. 
Non ricordavo come ero finita là sotto, non ricordavo dove ero, non ricordavo niente.
-Come non ricordi?- chiese lui, stupito.
Scossi la testa, desolata. 
-Beh, almeno… Come ti chiami?
Feci per aprire bocca, ma il mio nome era uno sconosciuto per la mia mente.
E un’enorme consapevolezza mi colpì appieno.
Avevo perso la memoria.
Un tremolio mi scosse il corpo ed inspirai alla ricerca di aria, nervosa e tesa.
-Ehi, tranquilla! –si agitò il ragazzo. –Su, respira piano… Inspira, espira… inspira, espira…
Cominciai a respirare più regolarmente fino a tranquillizzarmi, grazie al suo aiuto.
Lui mi guardò negli occhi, facendomi provare ancora quella sensazione strana. 
-Non ricordi nulla, vero?- chiese, cauto.
Scossi la testa lentamente, incredula.
-Come…com’è possibile?- sussurrai piano. 
Il ragazzo fece spallucce. 
-Proprio non ricordi niente di come ti sei ferita?
-No… ma mi sono svegliata tra delle macerie, se può servire… -rivelai, sperando che quella piccola informazione potesse servire a qualcosa.
Fortunatamente, il suo sguardo si illuminò ed esclamò, con tono vagamente soddisfatto: -Ma sì, l’attacco alle Torri Gemelle!
Aggrottai le sopracciglia, perplessa. –Torri Gemelle?
-Oh, il World Trade Center. Era una struttura di sette edifici al centro di Manhattan. Si riconosceva subito dai suoi caratteristici grattacieli identici. Per questo si chiamavano “Torri Gemelle”. Un attacco terroristico le ha completamente distrutte, probabilmente tu eri là quando è successo …- spiegò con voce malinconica.
-Oh.- non mi uscì nient’altro di più intelligente da dire. Non capivo perché, ma mi dispiaceva vedere quell’estraneo così triste, doveva essere stato un brutto colpo, quest’attentato. –Ehm, come ti chiami? 
Il ragazzo si riprese e mi fece un sorrisone che brillò, in contrasto con la pelle scura. –Piacere, io sono Nicholas! 
Mi porse una mano che io strinsi, constatando che aveva una pelle incredibilmente liscia. 
Sorrisi timidamente. –Ti direi il mio nome se lo sapessi…
Nicholas rise. Aveva una risata spontanea, allegra. –Beh, da oggi per me sarai… vediamo, Grace!
Ti piace?
Annuii, convinta- Sì, mi piace molto! E’ molto carino! –dissi, sinceramente contenta- Ma… dove siamo?
-Benvenuta nella mia umile dimora, madame! –disse lui con fare scherzoso, facendo un finto inchino. 
Mi guardai intorno curiosa. Era un appartamento piccolo, ma veramente accogliente. 
Le pareti erano dipinte su tonalità calde –rosso, giallo, arancione e bordeaux- in modo astratto, con macchie a caso di colori e i mobili erano di legno. C’erano appesi tanti quadri, di varie forme e dimensioni diverse. 
-Le tue condizioni erano troppo gravi e non potevo permettermi tutto il tempo per arrivare all’ospedale. Così ti ho portato qua e ti ho medicata io… 
-Uh, grazie, allora. Grazie davvero! –lo ringraziai, arrossendo leggermente. –Quindi… quindi tu sei un medico?
–No, ma no! Sono disoccupato, in questo momento. Anche se in realtà ho fatto circa due anni di stage in ospedale… me la cavicchio, dai! 
In effetti non sembrava la casa di un medico, ma piuttosto quella di un artista. 
Gli sorrisi, guardandolo nei suoi strani occhi azzurri.
Nicholas si girò verso uno scaffale, aprì un cassetto e ne tirò fuori qualcosa. Inclinai leggermente il capo, non riuscivo a scorgere l’oggetto sopra il davanzale su cui lui era chinato.
Proprio mentre mi stavo sporgendo di più, lui si voltò di colpo e io quasi caddi dallo spavento.
Nicholas scatenò una risata, quella sua risata così particolare e contagiosa.
-Sei un tipetto curioso, eh?- chiese, prima di rimettersi a sghignazzare.
Il suo riso mi contagiò e in poco meno di un minuto ci ritrovammo entrambi a ridere come due pazzi, senza un reale motivo. Qualcuno dal piano di sopra batté una scopa sul pavimento, intimandoci di non far rumore. Beh, non servì a nulla. Anzi, arrivammo a tenerci la pancia dal dolore.
Respirammo con calma, per calmarci da quell’improvviso scoppio di ilarità.
-Fa caldo, no?- chiese con un sorriso.
Annuii, mentre lo guardavo aprire la finestra.
Cercai di alzarmi dal letto su cui ero distesa, ma un altro capogiro mi impedì di farlo. Subito Nicholas mi si avvicinò e mi sorresse. Passò un braccio dietro la mia schiena, congiungendolo all’altro davanti il mio ventre e mi alzò delicatamente da terra, per evitarmi sforzi.
Era forte, molto forte.
Girai il viso per dirgli di mollarmi, che stavo bene e mi trovai il suo a pochi centimetri di distanza.
Mi accorsi di quanto era carino, con quei suoi lineamenti un po’ duri, ma smorzati dall’espressione dolce dei suoi occhi.
La stessa sensazione fastidiosa allo stomaco di quando mi ero ripresa si risvegliò, mandandomi in subbuglio anche il cervello.
Mi costrinsi a distogliere il mio sguardo dal suo, che come una forte calamita mi attraeva e non mi permetteva di distrarmi, di concentrarmi su qualcosa di diverso.
Beh, feci male.
Sulla nostra trasversale, c’era un armadio con sopra posizionato uno specchio.
Quello sporco, infido e ambiguo specchio che mi colpì proprio sul petto, come un dritto ben messo.
Ci rifletteva: rifletteva i nostri petti a contatto che si abbassavano e alzavano lentamente, la sua mano stretta docilmente sul mio fianco, i nostri occhi che diramavano confusione, sorpresi da quella realtà appena rivelata.
Tolsi bruscamente lo sguardo dallo specchio e lui mi riposò dolcemente per terra, arrossendo violentemente esattamente come me.
-Oh, ehm… che ne dici di uscire un po’? –mi domandò, trovando improvvisamente le sue scarpe molto interessanti.
Per la millesima volta mossi la testa in segno affermativo.
Nicholas mi prese timidamente per mano e si incamminò a passo veloce fuori dalla porta.
Istintivamente sorrisi, raggiante.
-Ma… ma abiti così vicino alla metropolitana!- esclamai, solo per dire qualcosa.
Lui si fermò e mi guardò con le sopracciglia alzate. –Beh, sì. E’ per questo che ti ho portata a casa mia per guarirti, avresti avuto più possibilità e infatti…
Mi strinsi nelle spalle. – E non ti da fastidio tutte le volte il rumore?
-Oh, no, dopo un po’ ci fai l’abitudine. E poi, hai il vantaggio di non arrivare mai in ritardo. –mi fece l’occhiolino e io risi, lasciandomi trascinare su per una scala a chiocciola.
L’aria fresca mi sferzò il viso, cogliendomi impreparata e costringendomi a respirare lentamente.
Chiusi gli occhi, godendomi quella bellissima sensazione di libertà.
Sentii la presa della mano di Nicholas sciogliersi e aprii gli occhi di colpo, delusa.
Si era seduto sul davanzale del giardino terrazzato, dove eravamo. Fece pat pat accanto a sé, come chiaro invito a sedermi vicino a lui.
Il cemento era freddo, ma venni rincuorata dallo strano calore che emanava Nicholas, sembrava un termosifone vivente!
Mi girai verso di lui, e solo allora mi accorsi che si era portato dietro un album di fotografie, lo capivo dalla grande cornice arancione in copertina.
Lo guardai interrogativa e lui mi sussurrò,  per non rompere la quiete del della notte: -Guarda… - mi mise in mano il quaderno- Conosci il Fronte di Liberazione dei Nani da Giardino?
Scossi la testa. Non ne avevo mai sentito parlare o se lo conoscevo, non lo ricordavo.
-Cos’è? – chiesi, divertita da questo strano fatto.
-E’ un’associazione il cui scopo è rivendicare la libertà dei nanetti da giardino. I membri pensano che le statuette hanno un’anima e che, angustiati dalla città, debbano essere riportati all’aria, nei boschi.- spiegò con aria fermamente convinta.
-Qualcosa mi dice che tu ne fai parte…- dedussi, con tono vagamente malizioso.
-Ovvio!- esclamò, serio. Non sapevo se faceva sul serio o era solamente un bravo attore.
Picchiettò sul dorso dell’album, invitandomi a vedere le foto.
Mentre lo aprivo mi disse, con aria di saperla lunga: -E’ il repertorio di viaggio del nostro Fronte… vedi? Ci sono tutti i luoghi in cui abbiamo effettuato una missione… 
In effetti c’erano scattate foto di paesaggi meravigliosi… Francia, Italia, Australia e perfino l’Africa! E il tutto con almeno un nanetto tra le mani dei soggetti fotografati.
-E’… è incredibile!- balbettai.
-Tutto assolutamente vero!- esclamò Nicholas, riprendendosi l’album. –Pensavo che ti avrebbe distratto dalla tua malinconia per la perdita di memoria…- rivelò con un sorriso timido.
Sentii inevitabilmente le mie guancie accaldarsi e gli angoli della mia bocca tirarsi su. –Beh, missione riuscita!- dissi, guardandolo negli occhi.
Ci sono persone che affermano che il colpo di fulmine deriva da uno sguardo, dal primo sguardo che si riceve e si dà. Altre che basta la prima volta in cui senti la sua voce, altre ancora che dichiarano la perdita completa di controllo al primo significativo contatto passionale delle loro labbra.
A me, è bastata un frase.
Poche parole che stettero a significare la spensieratezza, l’infinità di quella leggera irriflessione, l’inizio di un’avventura durevole.
-Allora… beh, andiamo a liberare altri nanetti da giardino insieme? –mi chiese Nicholas con tono divertito misto ad una punta di imbarazzo.
Da lì, da quelle scarse sillabe, caddi definitivamente prigioniera del suo cuore.
 
La costellazione del carro splendeva sopra di me, tra la quiete della notte disturbata solo dal frinire delle cicale. 
Sporsi leggermente la testa da dietro l’albero, dove ero nascosta, cercando di individuare Nicholas.
Lo vidi, era dietro un cespuglio accanto a me, con qualche ramo e varie foglie posizionate di proposito tra i capelli e della pittura verde militare in faccia.
Scossi la testa… doveva sempre fare le cose in grande!
Ok, forse mi ero fatta contagiare un po’ anch’io… e già me ne stavo pentendo, mi ero fatta convincere ad indossare quella tutina nera così attillata terribilmente fastidiosa, per non parlare di come mi aveva pitturato il viso.
Stavo giusto pensando a quanto mi sentissi scema combinata così, quando Nicholas mi tirò addosso un sassolino.
Mi girai infastidita verso di lui, che mi guardò con un sorriso malizioso e sussurrò: -Lo sai che sei sexy con quella tutina aderente, Grace?
Alzai gli occhi al cielo e tornai a fissare la casa enorme –il nostro luogo di appostamento- per nascondere la risatina sciocca che mi era nata sulla bocca.
Sei mesi che ci conoscevamo, sei mesi che stavamo insieme e ancora non mi ero abituata a quella morsa allo stomaco ogni volta che mi guardava in quel modo, ancora mi emozionavo come una dodicenne alla sua prima cotta.
A volte mi soffermavo nei suoi occhi e nelle sue iridi dannatamente chiare, che si illuminavano quando mi vedeva, quando mi parlava.
Mi attardavo a pensare a quanto fortunati eravamo, baciati da un destino che così benevolmente aveva fatto si che ci incontrassimo.
Avevo capito dal primo istante che lui è quello giusto, che non mi sarei mai stancata di stare insieme a lui… e dopo sei mesi, non potevo fare altro che confermare il mio, il nostro amore.
La sua voce –brillante,  col tono sempre scherzoso che tanto amavo- interruppe i miei pensieri filosofici.
-Grace! Non ti distrarre!- mormorò piano.
Eravamo in Colorado, nella megavilla di un grosso imprenditore.
Missione: liberare ben cinque nanetti da giardino.
Ebbene sì, Nicholas mi aveva coinvolto anche con il suo Fronte.
Avevamo compiuto circa cinque missioni insieme e fallimento o no, ci eravamo divertiti tantissimo.
Quatti quatti scivolammo sempre più avanti, fino ad arrivare a bordo piscina –il proprietario ne aveva ben due- dove erano posizionati i poveri nanetti.
Ad un soffio dalla prima statuetta, inciampai su un enorme ramo e feci un capitombolo in acqua.
Nicholas spalancò gli occhi allarmato e fissò prima me e poi la luce che si era appena accesa in una camera al piano di sopra.
Guardammo come al rallentatore accendersi la luce delle scale, del pianerottolo, del salotto…
… e prendemmo a correre come due forsennati.
Ansanti e affaticati, Nicholas con un nanetto sotto il braccio che era riuscito a prendere di sfuggita e io tutta fradicia, riuscimmo a raggiungere una radura abbastanza isolata.
Ci sdraiammo esausti sull’erba fresca, sotto la volta celeste.
Sentii sospirare Nicholas, steso accanto a me.
-Non è fantastica la vita?- sussurrò sfiorando la mano la sua mano con la mia.
Mi girai su un fianco, per poterlo vedere in faccia.
-Già…- mormorai.
Lui si avvicinò e mi baciò teneramente.
-Sei strana, lo sai?- disse, scherzoso.
-In che senso?- chiesi, ridendo piano.
Nicholas si tirò su.
-Di carattere, di aspetto… Insomma, chi ha mai visto una ragazza con i capelli rossi e gli occhi grigi? E’ una combinazione assai strana!
Io risi, dandogli un pugno affettuoso sul braccio tatuato.
-Parli tu! Occhi celesti e pelle scura… dimmi tu se è normale!- gli dissi con un sorriso malizioso.
-Oh, ma io sono mulatto- ribatté con falsa serietà.- Mia madre è polacca.
Scossi la testa, mentre mi ristendevo sulla schiena.
-Grace?- mi chiamò piano dopo qualche attimo di silenzio.
-Sì?- risposi, sperando di udire un “Ti amo” sussurrato tra le labbra.
-Volevo… volevo chiederti un favore.- borbottò, tanto che a momenti non lo capivo.
Girai la testa e con lo sguardo lo invitai a continuare.
-Mi chiedevo se tu volessi incontrare i miei genitori –disse velocissimo, arrossendo un poco.
-Oh. –fu l’unica cosa che la mia bocca riuscii ad emettere.
-Ovviamente se non vuoi non fa niente, possiamo rimandare e se riusciremo a stare insieme ancora per… -prese a farfugliare, nervoso.
-Nicholas!- lo chiamai per zittirlo. –Non ho detto di no, solo… solo mi presto, ora. Tra un paio di mesetti direi di sì, va bene? – gli sorrisi. –Ora godiamoci la nostra libertà.
Nic annuì soddisfatto, avvicinandosi più a me. –Libertà –scandì bene le sillabe –Non è una parola stupenda?
-Se stiamo insieme sì- risi io attirandolo a me.
-Sempre insieme- ribatté lui baciandomi con amore, con passione.
E lì, tra le sue braccia, al chiaro di Luna sotto la guardia di un nanetto da giardino, non avrei potuto desiderare altro che i suoi baci, le sue carezze.
Non avrei potuto desiderare altro che lui.
 
Sudavo.
Ero in macchina e sudavo.
Ma non potevo sventolarmi, la mia mano destra era troppo impegnata a picchiettare le dita sulla mia coscia mentre la mia bocca mangiucchiava insistentemente le unghie della sinistra.
Da quanto eravamo chiusi in quel buco? Circa cinque ore? Dieci ore?
-Grace- mi chiamò Nicholas, seduto alla guida, girando appena la testa per guardarmi –Grace!
-Che c’è?!- sbottai io.
-Ehi, calmati… Sono dieci minuti che stiamo in macchina e sei quasi fradicia di sudore. Stai tranquilla -disse con voce rassicurante, staccando una mano dal volante per accarezzarmi una guancia. – Sono sicuro che i miei genitori avranno certamente una buona impressione di te.
Annuii, forse un po’ troppo velocemente per sembrare sincera sul serio.
-E non ti giudicheranno per quella pancetta che hai messo su negli ultimi tempi –scherzò, facendomi l’occhiolino.
Erano passati due mesi da quella notte nella radura, due mesi che avevo un terribile sospetto.
Un conato di vomito mi salì su per lo stomaco e costrinsi Nicholas a fermare la macchina.
Scesi e mi diressi verso il bordo dell’area di sosta, dove c’era un po’ d’erba.
Vomitai, eppure non è che avevo mangiato molto.
Nicholas scese di fretta dalla macchina e mi raggiunse, preoccupato.
-Grace, tutto bene? –chiese, apprensivo.- Ma cosa stai mangiando? Sono due settimane che vomiti così…
Impallidii e balbettai di dovermi andare a sciacquare la bocca.
Arrivata all’autogrill, non puntai subito al bagno, ma cercai il minuscolo reparto di medicinali che in un autogrill che si rispetti c’è sempre.
Scorsi velocemente con gli occhi e trovai quello che cercavo.
Pagai in fretta e mi chiusi in bagno. La scatoletta mi cadde nervosamente dalle mani, ma dopo qualche minuto riuscii a fare il test.
Attesi ansiosa il risultato.
Positivo.
Era. Positivo.
Era positivo!
Mi sedetti sconfortata sulla tavoletta del water, tenendomi la testa tra le mani.
Ero incinta.
E ora come glielo dicevo a Nicholas?
-No no no no no!- urlai ripetitivamente, uscendo con rabbia dal bagno.
Una cosa era certa, dovevo dirglielo prima che andassimo a trovare i suoi genitori.
Ma a mano a mano che mi avvicinavo alla macchina, il passo svelto rallentò e tutto il mio coraggio finì sotto le suole delle scarpe.
Con il cuore in gola aprii lo sportello dell’auto e mi infilai in macchina.
-Tutto a posto?- mi chiese subito il mio fidanzato.
Feci un cenno con la testa e cercai di sorridere.-E’ solo il mal d’auto…
-Non ti preoccupare, un quarto d’ora e siamo arrivati –mi rassicurò lui.
Annuii nervosa e mi misi a guardare fuori dal finestrino.
Quando scendiamo dalla macchina, mi promisi.
Quei quindici minuti si volatilizzarono, eravamo arrivati.
Nicholas mi venne ad aprire la porta, sghignazzando e sostenendo che lui sì che era un vero gentleman.
Prima che potessi aprire bocca, lui mi catturò le labbra nelle mie in un bacio veloce. –Vedrai che andrà tutto bene- disse con un sorrisone.
Mi prese per mano e si incamminò verso un viale alberato. –Ho pensato che potessimo approfittarne per fare una passeggiata romantica… va bene? Tanto alla fine di questa strada c’è la casa dei miei genitori.
-Certo, certo… -gli dissi io, guardandomi la punta delle scarpe.
A metà percorso mi fermai e decisi che era il momento.
Era il momento di dirglielo. Di dirgli che avremmo avuto presto uno splendido bambino, con i suoi occhi e la sua pelle scura e magari i miei capelli rossi, di dirgli che volevo passare la mia vita con lui, di dirgli che lo amavo veramente.
Presi fiato e iniziai, decisa. –Nicholas, devo dirti una cosa.
Lui mi guardò con le sopraccigli aggrottate e disse, con il tono un po’ preoccupato: -Dimmi pure.
-Io… Io sono in…- e proprio mentre lo stavo per dire, proprio mentre stavo per rivelare il fatto che avrebbe cambiato la nostra vita, delle urla mi interruppero.
-Stephanie!- urlava un uomo. –Stephanie, Stephanie!
Un lampo nella mia testa mi suggerì che quel nome aveva qualcosa di familiare, ma lo ignorai e mi concentrai nel mio intento.
-Stavo dicendo che…- e le stesse grida mi interruppero ancora.
-Stephanie! Oddio, non ci credo! Stephanie!
Mi girai infastidita per vedere chi stava disturbando la mia missione.
E il disturbo improvvisamente divenne un ricordo.
Un lieve, tiepido ricordo.
Un uomo con due bambini piccoli mi stava venendo incontro, piangendo.
Stephanie ero io.
Era il mio vero nome.
I ricordi mi assalirono come un fiume in piena, colpendomi come mille aghi appuntiti.
Scene di una vita felice mi inondarono la mente.
Una casa gialla con dei mattoni, quell’uomo con una leggera barbetta, i sorrisi, i baci e le carezze, le fedi, quei due piccoli batuffoli rosa, che ridevano e sputavano la pappetta,  le rincorse nel giardino di casa sotto la pioggia, le coccole sul divano e la promesse d’amore per sempre.
Io avevo un marito.
Avevo un marito e due bellissimi bambini.
Una vita felice.
I miei figli mi corsero incontro gridando “Mamma!” e “Mamma, sei tornata!” e io li strinsi forte a me.
Vidi i loro occhi scintillare di gioia e mio marito che ancora correva verso di me piangendo.
Mi girai verso Nicholas, ma non lo trovai più.
Se ne stava andando, aveva capito tutto.
Sottili lacrime mi solcarono il viso.
Lacrime di tristezza, di angoscia e di dolore.
Lacrime consapevoli di essere inutili, consapevoli di aver perso un parte di sé, un pezzetto del loro cuore.
Lacrime che sapevano di non poter più tornare indietro, di non poter cambiare nulla.
Lacrime di sofferenza nascoste sotto le mentite spoglie di lacrime di gioia, false come il sorriso che avevo stampato in volto, false come la mia vita, ingannata crudelmente dal destino.

   
 
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