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Autore: La Mutaforma    05/09/2012    1 recensioni
Una storia non è fatta di parole come 'fine' così pateticamente poste al termine della pagina. Sono tanti, mille, innumerevoli inizi. Perché una storia finisce solo dove il narratore ha smesso di raccontare.
La storia continua, strisciando da una pagina all'altra, in una ferita o nella piega di un sorriso, trascinandosi dietro mille pensieri, mille ricordi. Mille dolori. Io sono Albhed e non amo i ricordi. No, mi correggo: sono una quindicenne Albhed che ha combattuto una guerra più grande di tutti i suoi incubi e non ama i ricordi. Certo, ora è molto meglio.
Tutto è iniziato in un giorno qualunque, quando abbandono i sogni di bambina per i capricci di ragazza, solo per rintanarmi nella più assordante solitudine, nascondendomi dai ricordi, dalla guerra. Da tutto.
In un bianco e gelido deserto.
Ecco, questo è il mio nuovo inizio.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rikku
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Epilogo

 

Sa di incenso. E di spezie.

La testa fa male, e gli occhi mi bruciano.

Fa caldo. Fa maledettamente caldo.

Forse mi trovo all’inferno, come raccontava quella vecchia alla Base quando ero piccola. Mi trovo all’inferno perché sono stata cattiva, o forse più semplicemente perché sono Albhed. Nella mia gabbia avviluppata dalle fiamme, ora che sono sfuggita dalla mia prigione di ghiaccio.

Non importa di cosa sia fatta la tua gabbia, sarai sempre intrappolato.

 

Qualcuno mi tiene la mano, accarezzandomi delicatamente le dita, ancora sensibili. Sarà Auron, o Tidus, o forse mia madre. Spero che sia felice. Il frutto della sua morte l’ha raggiunta nella dannazione eterna.

Grazie mamma.

“Fa caldo” sentenzio, e la mia voce suona terribilmente in un silenzio ovattato, surriscaldato. Non riconosco la mia voce, è rauca e profonda, un suono viscerale che sale dalla gola e salta dalle mie labbra. Poco più che un pigolio sommesso.

“Rikku, sei sveglia!”

E’ una voce dolce, femminile.

Tento di aprire di scatto gli occhi, ma una luce soffusa mi acceca. Fanno male le fiamme dell’inferno, mi tormenteranno per l’eternità. Altrimenti non si chiamerebbe dannazione eterna.

Sono stata troppo codarda, stavolta non potrò sistemare le cose con un bagno gelido. La morte è stata solo l’inizio delle mie sventure, e tutti mi ricorderanno come quella povera dannata ragazza folle, troppo sola per tenersi compagnia e restare allegra. E forse penseranno a me, con un misto di comprensione e di commiserazione.

Forse in fondo non volevo davvero essere compatita. Volevo essere amata.  

Apro un occhio. Una stanza spoglia e ombrosa mi circonda. E c’è una figura. Una donna.

Una ragazza, con i capelli castani. Apro l’altro occhio. Mi sorride.

Due occhi -i suoi- si illuminano, brillando di due colori diversi. È mia cugina. È proprio lei, è Yunie, l’eroina di Spira, la fanciulla dal candido kimono che ha salvato il mondo.

Il kimono non c’entra molto, non che non abbia fatto la sua parte. Chi non amerebbe la bellissima fanciulla vestita come una fata? Ha un suo certo carisma il kimono, l’ho provato sul mio stesso corpo. Ma non ero carismatica. Né bella come lei.

I suoi capelli sono più lunghi e lisci, la frangia è disordinata e il viso mostra chiari segni di stanchezza.

E io che pensavo che la vita da eroina e da star di Spira fosse piacevolmente comoda. È triste vedere che non c’è modo per sfuggire al malessere, indipendentemente dalla razza, l’età e il sesso.

È stanca perché ha badato a me per tutto questo tempo, perché sono così sciocca da non riuscire neanche a prendermi cura di me stessa.

“Rikku, come ti senti?”

“Fa caldo” ripeto, con una voce strozzata che non mi appartiene. Lei mi accarezza la fronte, spostando quei pochi capelli che non ho tagliato. La sua mano è morbida e fresca, affettuosa come quella di una madre. Non vorrei, per niente al mondo, alzarmi da questa gabbia, da questa prigione.

Mamma, dove sei?

Yuna mi sbottona leggermente la camicia per stare più fresca e apre la porta, lasciando entrare un fascio di luce ovattata che colpisce le mie candide lenzuola. È questo che chiarisce ogni cosa, alla patetica ombra di un inferno inesistente. Sono in un letto, avvolta in due coperte, con mia cugina.

E non sto vaneggiando. Ho sognato troppo a lungo. E per quanto possa essere lungo il sogno, viene sempre il momento di svegliarsi.

Yuna mi sorride e mi stringe la mano, cercando di astenersi da domande di ogni tipo. La ringrazierei, se ne avessi la forza. Sono stanca di parlare. L’unica cosa che riesco a fare è guardarla, con non poche difficoltà perché gli occhi mi bruciano insistentemente. Cerco di comunicare in qualche modo, sbattendo le palpebre o muovendo gli occhi, ma non ci sono messaggi che vorrei inviarle.

Non ci sono cose che vorrei capisse.

Forse dovrei solo guardarla, imitando lo-sguardo-che-non-parla di papà. Forse in fondo aveva ragione lui. Esistono momenti che non vale la pena rovinare con una parola di troppo.

Però questo sguardo continua a non significare niente.

Indossa una camicia da notte color rosa corallo. O forse è la luce nella stanza che la fa sembrare di questo colore. Mi chiedo comunque che fine abbia fatto il suo kimono. Spero che non abbia deciso di sostituirlo con blue jeans e canottiera, non rispecchierebbero la sua personalità.

“Che ne è stato del kimono?” chiedo, tossendo, il più silenziosamente possibile. Il rumore, il mio stesso tossire, mi graffia i timpani. Sono incredibilmente fragile, come una bambola di vetro.

“Cosa?”

“Il tuo kimono” cerco di ripetere, con più chiarezza “Non lo porti più?”

Yuna mi guarda, prima confusa. Infine sorride, con gli occhi che risplendono di una luce calda e rassicurante e mi sembra di essere più felice. Più tranquilla.

Hanno sbagliato persona, sono finita nella beatitudine eterna senza che lo meritassi.

 

Solo gli occhi di Yuna sanno parlare.

Li vedo. Li sento. Sento la loro vocina allegra e sensibile. E dicono “andrà tutto bene Rikku”

No, non è vero.

È ancora la vocina dolce e aggraziata di Auron che mi mordicchia l’orecchio.

La voce, intendo -che non è nemmeno dolce e aggraziata. Se fosse Auron a mordicchiarmi l’orecchio la cosa prenderebbe una piega interessante, molto più che patetica. 

…Siamo ben oltre l’insopportabile.

 

Sono passate delle ore dal mio risveglio. Ho avuto modo di pensare e riflettere in silenzio. Quando ho avuto più controllo di me stessa e ritrovato il ricordo dei giorni passati ho chiesto a Yuna di uscire dalla stanza. Non so ancora dove mi trovo, potrebbe essere un sogno, oppure il paradiso. Sì, il paradiso degli Albhed. Si dice che ce ne sia uno anche per i chocobo, quindi credo che sarebbe giusto che ci sia un paradiso anche per gli Albhed.

Quelli buoni.

Seppur esistesse, io sarei tagliata fuori. Peccato.

Non ho molto da fare, mi guardo intorno: la mia stanza sembra una caverna, è completamente di pietra, avvolta da teli e cuscini ricamati, come un tempio di silenzio e solitudine. Sono avvolta in un plico di coperte e lenzuola, adagiata su morbidi cuscini di piume di chocobo. E tutt’intorno ci sono statue di idoli e di strani signori che brandiscono un’asta come quella di Yuna.

Oh ma guarda, quello assomiglia a mio zio…

Ho contato le ore, orientandomi coi miei pensieri squallidi e senza senso. Ci sono delle campane in questo posto strano. Hanno suonato tre volte.

Al secondo rintocco della terza ora Yuna è entrata silenziosamente nella mia stanza, con un sorriso nuovo e un kimono svolazzante al posto della camicia da notte. È senza maniche, e ha la gonna di colore azzurro, o forse verde, non vedo molto bene.

“Posso entrare?”

Lo ha già fatto.

Si siede accanto a me, accarezzandomi i miei ridicoli e ispidi capelli tagliuzzati. E sorride. Sorride come se non avesse perso l’amore della sua vita, come se non ricordasse che suo padre, Auron e Jecht sono morti inutilmente.

Come se tutto fosse normale.

Forse sta fingendo. O forse sta impazzendo, proprio come è successo a me. Purtroppo la felicità è legata o alla follia o alla stupidità.

Non ho dubbi da dove provenga la mia contentezza. Combattere contro i behemut -deliziose creaturine da coccolare- sarebbe saltellare tra le margheritine in confronto a tutto quello che sto passando.

“Come ti senti? Hai bisogno di qualcosa?”

Sbatto le palpebre stancamente. Riesco persino a muovermi. Grande risultato per le mie condizioni.

“Sì. Ho fame e voglio sedermi.”

Nemmeno un attimo dopo mi sono trovata comodamente seduta con le spalle contro lo schienale del mio giaciglio di coperte e cuscini, mentre Yuna fugge via, tutta avvolta dalle onde della sua gonna che tanto le dona, nel timido scintillare dei suoi occhi, dei suoi denti, e del suo orecchino. È tornata poco dopo con un vassoio sul quale aveva appoggiato una ciotola di latte e frumento, e una manciata di biscotti. Allungo una mano ma Yuna mi ferma.

“Fai attenzione. Hai passato molti giorni senza mangiare nulla. Mangia piano e con calma” mi avverte lei, ma la fame è troppo forte. Quanto desidero assaggiare qualcosa. 

Prendo tremante un biscottino e lo addento con prudenza. È vero, ora ricordo, sono giorni che non mangio, non so come il mio stomaco reagirà, ma se non lo faccio, morirò per inedia.

E Auron mi ha detto che non è una morte piacevole.

Bisogna avere fiducia nei propri sogni, che mondo sarebbe se le persone non credessero nemmeno a quello che pensano?

E poi, come si fa a dire di no ad una faccia come la sua? Come si fa a reagire davanti ad uno sguardo di chi mangia-stai-morendo-non-sarà-piacevole?

…Non tutti siamo disposti a farci continuamente domande fino a quando il cervello diventa una poltiglia inutile e molliccia.

Almeno, io non sarei disposta.

 

“Non sembri affatto cambiata” dice Yuna, con tono sospeso. L’aria è densa, il respiro si arresta e il biscotto improvvisamente fa schifo. Lo sbriciolo tra le dita, nervosa.

“Avrei dovuto?” replico io, la voce trattenuta e strozzata. Yuna mi prende la mano e mi guida incontro ai suoi occhi. Sono tristi. Le palpebre li coprono solo un po’, come una dea bella e misteriosa, che non vuole farsi vedere. Sono languidi. Fiochi. Liquidi. E lei piange sommessamente sulla mia mano, stringendola forte, senza trattenersi.

Io aspetto che si sfoghi, senza né muovermi né protestare. Non parlo, non ascolto. Ho il cervello spento, si è disattivato.

Come una macchina vecchia che va in standby da sola.

 

Altre ore dopo, ci sono stati altri sorrisi e altre lacrime.  Non solo di Yuna. Penso di aver pianto anche io. Un pochino. Una lacrimuccia infantile, niente di più. Non credo di avere più motivo di piagnucolare. Sono stata molto vicina alla morte -e molte cose me lo fanno ancora credere- e sono sopravvissuta. Di certo non è una cosa di cui tutti possono vantarsi.

Ma non è quello che io volevo. Nemmeno io so quello che desideravo quel folle e freddo giorno in piena solitudine e pazzia, a Macalania. Non so nemmeno quello che voglio adesso, adagiata tra mille cuscini e con mia cugina che mi sostiene.

Forse non voglio niente in fondo. Vorrei solo essere lasciata in pace, amata, infastidita, odiata, presa in giro, ammirata.

E ti pare niente? Evidentemente c’è qualche problema.

La teoria della molteplicità dei desideri contraddittori. Non si è infelici fino a quando ci si rende conto che si muore prima di averli visti realizzati tutti.

 

Un momento: dovrei sentirmi sollevata?

 

In quell’ora particolare avevo bisogno di parlare. E di non pensare a tante cose. Pensare mi fa male. Mi fa uno strano effetto. Potrei ritornare sui miei sogni-ricordi. E questo non sarebbe il massimo. Sento ancora la voce di Auron graffiarmi l’udito e il pallone di Tidus colpirmi in pieno volto. Non è una bella sensazione, pur trattandosi di sogni-ricordi.

“Cosa mi è successo Yuna?” chiedo io, con tono falsamente casuale, mirato con abilità. È un misto di pura casualità e di un serio interesse per la mia situazione psicofisica. Yuna finge per un attimo di non capire ma scrutando il mio sguardo deve aver visto la mia determinazione o il mio sconforto, oppure entrambi. Non vorrebbe parlarne. Non voglio darle torto. Ho scelto una cosa pessima di cui parlare.

Avremmo potuto parlare di biscotti e di chocobo. I chocobo sono la più ovvia risposta per ogni domanda. Non sempre sono la risposta giusta ma si possono collegare a molte cose, quindi c’è tanto di cui parlare a partire dai chocobo. La prossima volta parto da loro. Per arrivare a cosa?

“Come ti senti?”

“Mi sono nutrita. Mi sono riposata. Posso dire essere mai stata meglio in quest’ultimo periodo”

Yuna sorride, falsamente divertita, e inclina la testa su una spalla in un gesto adorabilmente naturale. Chi non sarebbe disposto ad adorarla? È bella, giovane, incantevole ed è un’eroina.

Ah, e non è impegnata sentimentalmente.

“Allora possiamo tornare a casa. Sono tre giorni che dormi”

“Tre giorni?” replico, incredula. Credo che non mi sia mai stato concesso tanto tempo per dormire. E non ne conservo nemmeno un ricordo.

“Eri -molto stanca. È comprensibile” risponde Yuna, frettolosamente. Infine, mi aiuta a sistemarmi di nuovo nel mio giaciglio, accarezzandomi il capo. “Riposati ancora un po’. Tra poco verrà Wakka per portarti a casa nostra”

 

Non sono passate altre ore in quella sala secondaria comodamente ombrosa del tempio. Faccio il punto della situazione:  sono stata ricoverata in un tempio, suppongo quello di Besaid, perché è qui che Yuna è cresciuta.

Bisogna accertarsene.

Mi sollevo dal letto, tremando. Troppo fragile per cadere.

Troppo debole per pensare.

Prendo qualche passo con le mie ossute gambe, magre come fuscelli, a malapena coperte dalla camicia che indosso. Spingo la porta con tutto il mio peso. Ricordo che in tempi gloriosi avevo sfiorato i quarantacinque chili. Che malinconici pensierini.

Mi guardo intorno: è un ambiente misterioso, in ombra, odoroso di incenso e -altri aromi.

Mi sembra quasi di non riuscire a camminare. Cammino a piedi nudi sul freddo marmo per terra e prendo un respiro per la stanchezza. Non avrei dovuto lasciare il mio letto da sola, questa birichinata mi costerà cara, come tutte le altre cose che ho fatto in questo periodo.

Mi appoggio alla statua di un tipo strano dall’aria importante, fregandomene del culto e dei precetti che non mi appartengono. Al diavolo il rispetto.

Qualcuno mi guarda come si guarda una strega, un’eretica, un’Albhed. E dannazione, è lo stesso sguardo che hanno tutti quando mi guardano. Probabilmente ho qualcosa tra i denti.

Quando Yuna è entrata nel tempio mi è corsa incontro, in ansia per la mia folle idea. Deve avermi sgridata, avermi detto che ero stata impudente ad uscire dal letto, che sarei potuta cadere, scivolare, farmi del male. Ha blaterato qualcosa tipo “ossa troppo fragili” poi ha aggiunto un qualcosa come “farti male”, non prima di concludere l’avvenente discorso con un sagace “restare a letto”. 

Io ho preferito tacere. Mi sento molto più bassa al suo confronto. Sono piccola e scheletrica. E sono brutta. E non piaccio a nessuno.

 

Wakka è arrivato subito, mi ha sorriso, con finta comprensione, squadrandomi come se volesse vedere cosa ha di speciale una sociopatica come me, analizzando il mio caso clinico probabilmente incomprensibile per lui. Non lo odio, ma lui mi ha chiamata “brutta scimmia Albhed”. Comprensibile da parte mia. Ma ormai l’ho perdonato e non posso più rinfacciarglielo.

In fondo Rikku non sei una cattiva ragazza.

Però sono cose che ti restano impresse dopo un po’. E poi ti sembra di capire solo quelle, fino a trovare persino un motivo per cui riderne, scherzarci.

Wakka mi ha sollevata di peso, come i cavalieri fanno come le principesse per portarle al loro castello dove vivranno l’inizio della loro favola. Con la sola differenza che io non sono una principessa, Wakka non è un cavaliere, mi sta portando in una tenda malconcia e lì vivrò solo la parte finale del mio incubo peggiore.

Il ricordo.

Mi sono lasciata prendere senza oppormi, e mi sono coperta il viso quando Wakka ha varcato le porte del tempio e il sole, caldo e rilucente, mi ha investita. Non sono più abituata, ma è un po’ come rivivere un sogno antico e perduto, come riabbracciare un amico di vecchia data.

Sole. Calore. Afa.

Bikanel.

“E’ un po’ come tornare a casa” sussurro, aggrappandomi alla spalla di Wakka. Lui non mi sente e me ne sento gratificata. Non sono mai stata brava a dare spiegazioni.

Tacere è molto più facile, specialmente quando arrivi all’idea che nessuno potrebbe mai capire.

 

La prima sera dopo il mio risveglio. Sono sgusciata silenziosamente dalla mia amaca -senza inciampare nel tavolo o nelle sedie, altro grande risultato- e mi sono seduta fuori, sull’uscio della tenda, a guardare un po’ l’ambiente intorno a me, avvolta in una coperta di lana grigia che punge come se fosse stata fatta di mille aghi di Kyaktus cuciti insieme.

Yuna ha avuto l’accortezza di prestarmi un suo pigiama. Non ne potevo più di stare con le gambe scoperte, soprattutto perché le mie gambe sono schifosamente ossute. Purtroppo Yuna non aveva a disposizione un vero pigiama e mi ha dato una camicia da notte troppo femminea. Molto da lei, insomma.

Di certo non potevo indossare i pantaloni di Wakka. Che gli antenati possano perdonarmi, avrei potuto rotolarmici dentro!

“Che fai qui Rikku?” bisbiglia d’un tratto la voce di Yuna, comparendo alle mie spalle e facendomi sussultare come un ladro colto in flagrante (cosa a cui io non sono affatto abituata). Sospiro, riprendendo il controllo, e cerco di sfoderare il mio sorriso più convincente.

“Non riuscivo a dormire. Ho pensato di guardare le stelle.”

Yuna sorride, nascondendosi nella sua camicia da notte candida come un fiocco di neve, e si fa spazio al mio fianco. La cassa di legno scricchiola sotto il suo peso, unendosi all’armonioso canto serale dei grilli e alla quiete pacifica che regna in quest’isola di pace.

“Immagino che vorrai sapere tutto…” inizia, mite ed enigmatica, la mia splendida cuginetta, osservando il vuoto oltre le palme di Besaid. Le prendo la mano: è fredda e sottile. Una mano bellissima.

Yuna ha un fremito, come se volesse piangere. E’ molto forte, so che non lo farà.

“E’ stato Rin a portarti qui. Eri fredda e senza sensi. Ho creduto che-”

“Ma non è così. È stato un incidente” replico io, bloccandola sul tempo. C’è un lungo istante di silenzio. Poi un singhiozzo.

“Non mentirmi Rikku…” dice Yuna, con la voce affettuosa ma ferma. Non mi guarda perché piangerebbe e non vuole. Nessuna di noi due vuole piangere. “Galleggiavi priva di sensi immersa in acqua gelida e vuoi dirmi che è stato un’incidente?”

Non sono brava a mentire. Le mie bugie sono troppo stupide e inverosimili.

Sospiro, flettendo la schiena in avanti come un girasole e appoggio la testa sulle ginocchia ossute.

“Ero sola. Stavo male.” suona troppo ridicolo. “Auron è un gran chiacchierone, sai? Molto più eloquente da morto che da vivo! Sul serio, è insopportabile!”

E adesso dovrebbe suonare meno patetico?

Yuna si asciuga le lacrime e mi guarda con aria sorpresa. “Tu hai visto sir Auron?”

“A dire il vero non so se da vivo sia stato eloquente. Dovrei dire molto più eloquente da trapassato che da non trapassato. È più corretto ma suona male, vero?”

Sospiro. Non sono nemmeno vagamente divertente.

“Comunque l’ho visto. Molte volte. Appariva e scompariva. Come un brutto ricordo.” Tiro su con il naso, cercando di non essere così tristemente stucchevole. Gli concedo -con grande magnanimità- alcuni istanti dei miei pensieri; ovunque tu sia, dovresti sentirti onorato.

“E ho visto anche Tidus. Mi sembra strano che non sia passato da te. Ha fatto un bel casino, lui e il pallone che si è portato dietro” concludo, come se parlassi di una cosa ovvia come l’ultimo brutto romanzo d’amore che ho letto di recente.

Yuna sbatte le palpebre. “Forse la loro anima è ancora legata alla tua…”

“Non credo in queste cose Yuna” aggiungo, con un sospiro “Ma credo di essere seriamente complessata e di avere qualche problema coi rapporti tra me e il mio cervello”

Yuna resta in silenzio, assaporando lo scialbo torpore della mia mano.

“Ti volevano bene. Soprattutto Tidus. Ma credo che anche sir Auron si fosse affezionato a te”

Tsk. Auron. A chi serve il suo aiuto? Chi ha bisogno del suo ricordo?

Io, dannazione, io.

“E i capelli? Perché li hai ridotti così?”

Questo non è altro che un modo attenuato per rinfacciarmi l’incomprensibilità della mia stessa follia.

“Non posso mica ricordarmi il motivo di tutti miei deliri!” esclamo, allargando le braccia con aria esaurita.

Sospiro, abbassando gli occhi, già pentita di quello che ho detto.

“Voglio essere seria con te, penso che non lo dirò a nessun altro. Mi lego molto alle persone, a chiunque. E soffro quando vanno via. Quando mi lasciano. Io-”

 Yuna mi abbraccia, di colpo, stringendomi con forza, fino a tastarmi le ossa sporgenti dalla sottile patina di cute costellata di cicatrici e tagli.

“Io non ti lascerò mai Rikku. Non sarai mai sola finché ci sa-”

“NO!”

Mi trovo non so come ad urlare nel bel mezzo della notte, disperata e impaurita della mia stessa voce. Il suono si propaga, l’eco si allontana trasportato dal vento serale, ma nessuno sembra curarsene. Tutto sulla nostra isola persa in un oceano di tranquillità dorme.

Improvvisamente non esistono più i grilli, non esistono le onde. Non esiste Besaid.

Abbraccio Yuna, come il mio ultimo attaccamento alla vita, con gli occhi sbarrati.

“Tutti quelli che lo hanno detto” pronuncio, la voce rotta dal pianto “Se ne sono andati. È sempre così”

Yuna mi abbraccia e piango sommessamente sulla sua spalla fino a quando non ritorniamo nei nostri letti, in silenzio, in gran segreto.

Mi sono adagiata sull’amaca e sono crollata nel sonno. Finalmente sono consapevole di una notte passata a rivedere il concetto di dormire.

 

Accarezzo delicatamente con i polpastrelli la testa del pulcino tra le mie mani, tenendolo con attenzione quasi materna sul grembo asciutto. Il piccolo chocobo emette un pigolio appena udibile e becca qualche filo di cotone dalla mia gonna. Si mantiene in modo abbastanza maldestro su quelle zampette esili poggiate su un paio di gambe altrettanto scheletriche.

Ci sono dei bambini che schiamazzano rincorrendo un chocobo che corre e si dimena, come se tutto facesse parte del gioco, lasciando cadere sul terreno e nell’erba lunghe piume color oro. Molte piume vengono radunate in grandi ceste intrecciate di vimini dalle candide mani di due ragazze poco distanti dal recinto.

Lulu mi ha spiegato come funziona: si allevano i chocobo per i miliziani e per il trasporto, ma le loro piume, non molto pregiate, vengono raccolte per fabbricare gioielli oppure indumenti. Lo trovo curioso, ma anche divertente.

Riporto il morbido pulcino giallo nel recinto dopo una beccata più forte delle precedenti su un dito, e mi spolvero la gonna del kimono che mi ha prestato Yuna. Non posso ancora usufruire dei miei vestiti, quindi sto indossando ancora i suoi abiti. Non vedo l’ora di rientrare nei miei vestiti così non mi sentirò più tanto anoressica.

“Rikku!” chiama la voce perentoria di Lulu, all’entrata del tempio “Sta arrivando una nave”

Mi avvicino, fissando i suoi grandi occhi rossi tanto belli e inespressivi. Le prendo la mano, una morbida mano bianchissima, e lei sussulta al contatto inadeguato.

“Vorrei poterti dire qualcosa…” mormora la maga dai lunghissimi capelli neri. Io allungo una mano verso le sue bellissime trecce corvine; stavolta non si ritrae e sopporta con nervoso silenzio la mia impudenza, un po’ per pietà, un po’ per affetto.

Forse solo per pietà. Perché sa quanto avrei voluto essere come lei, un tempo. E forse anche adesso il mio desiderio più grande è quello di avere l’apparenza di una donna misteriosa e incredibilmente interessante, invece di essere una bambina scheletrica che nuota nei suoi stessi vestiti, coi capelli tagliuzzati, piena di inutili problemi mentali e fisici che non interessano a nessuno.

Potrei essere attraente per qualche sacerdote o qualche medico che vorrà studiare il mio caso clinico, e ne verranno da ogni angolo di Spira per sottoporre ai loro test psicologici “la ragazza che vede i ricordi” ma così suonerebbe troppo intrigante, come il titolo di un romanzo bellissimo e commuovente.

Forse potrebbero chiamarmi “relitto umano”.  Rende meglio l’idea.

“Vuoi che ti accompagni al molo?” chiede Lulu, con un tono di voce che potrebbe suonare un po’ scontroso. Non importa, la perdono, come perdono tutti.

Annuisco, senza parlare.

Se parlassi, comincerei a piangere. Ormai ogni parola è una lacrima. Ogni respiro un singhiozzo.

 

Come ti sei ridotta, Rikku.

 

Sono rimasta a lungo seduta sul molo, con le gambe penzoloni, a qualche metro dal pelo dell’acqua, mentre sulla superficie del mare si specchiava la mia figura, sottile e controluce.

Wakka mi fa una pacca sulla spalla, con tutta la delicatezza di cui è capace; ragionevole da parte sua, se ci avesse messo un po’ di forza in più mi avrebbe spezzato qualcosa, posizionato tra il collo e la spalla. Sono fragile, incredibilmente fragile. E non sono nemmeno preziosa.

Sono dell’idea che non sia stata di Wakka la geniale intuizione di sfiorarmi appena. Credo che sia stata Lulu a ricordarglielo, oppure Yuna. Più ottusi di Wakka ci sono solo i sassi. Anche le onde, credo, hanno un cuore in fondo, tra i flutti cristallini.

“E’ arrivata”

Mi sollevo a fatica, terribilmente goffa con le mie gambe -più simili a stecchi, vorrei dire-  immerse in una gonna infinitamente più larga. Zoppico maldestramente lungo il pontile e raggiungo la nave all’attracco: Rin, impettito sul ponte, si lancia di corsa dalla passerella fino a raggiungermi, abbracciandomi di colpo.

Sembra dispiaciuto. E sono dispiaciuta anche io, perché non vorrei che le persone stessero male per le mie stupide azioni.

C’è sempre qualcuno che soffre per qualcun altro.

Sollevo a fatica le braccia, tremando, per ricambiare il suo abbraccio e affondo la testa nella sua spalla.

Aspiro il suo profumo: sa di soldi e di granpozioni.

“Sei tornato” pronunciano le mie labbra frementi, sento il sangue che pulsa in tutto il mio corpo, e nel mio triste cervello.

 

Sono così tristemente ridicola. Rikku è sinonimo di patetico, me lo sento.

Non significa fortunata. Non vedo niente di fortunato in tutto quello è successo.

 

Ho passato l’intera giornata coi miei amici in riva al mare, a parlare di mille cose. Yuna non faceva domande e mi teneva la mano, come si fa coi moribondi, per sottrarli al viscido abbraccio della morte.

“Cosa hai fatto ai capelli?” domanda impunemente Wakka, con tono di chi chiede una cosa intelligente. Sotto il disaccordo e lo stupore di tutti, Lulu non prova nemmeno a nascondere la gomitata che gli affonda nel fianco, e questo mi fa sentire ancora più stupida e infantile.

Come una bambina a cui deve essere nascosto il mistero delle cicogne e cose simili.

Come se non sapessi che i bambini nascono sotto i cavoli.

Wakka si corregge, come se gli fosse volato in mente che anche gli Albhed hanno dei sentimenti. Se voleva accertarsene, non c’era bisogno di mettermi in ridicolo, bastava chiedere “Hey, ma tu hai un cuore o una cosa simile che ti batte nel petto?” e io avrei gentilmente risposto “Non sono sicura Wakka, ho una cosa che mi è appena salita in gola e che pulsa forte, pensi che si tratti del mio fegato?”

La stupidità mi lascia sempre senza parole. Anche la mia.

“Cioè, non che così ti stiano male così. Anzi, direi che ti donano”

Grazie per tutte le bugie. Gli amici devono mentire, in alcuni casi.

Sono così commossa che scoppio a ridere, prendendomi la testa tra le mani, accarezzandomi i capelli che Wakka ha falsamente lodato perché chiunque direbbe che fanno schifo, ma lui lo ha fatto di cuore, e tutto ciò è splendido.

E tutti ridono con me, più o meno sinceramente, ma anche questo non importa. Sono nata dalla stessa materia delle risate. Mi sento un po’ come destinata. A ridere di me stessa, fino alle lacrime. 

Sotto l’eco di una sola risata quante lacrime si potrebbero evitare e quante altre si potrebbero appostare. Ma io non mi arrendo, a costo di esplodere, io non piangerò mai più. Che mio fratello mi fulmini se le mie intenzioni non sono vere!

Il primo passo è prometterselo, convincendosi. Il resto poi si vedrà.

 

Ho il pancreas in gola.

Il pancreas perché sento qualcosa di freddo nel ventre, di vuoto, di incompleto. Mentre nel petto e nella testa pulsa fastidiosamente quel cuore che troppo spesso mi ha fatta sembrare una graziosa e delicata principessa.

Solo che non sono graziosa. E forse nemmeno delicata.

Sono solo debole. Una debole, stupida, egocentrica, frignona ragazzina di quindici anni ma-ne-dimostro-di- meno-perché-faccio-cure-di-bellezza.

 

Rin non resterà a lungo. Rimarrà per la notte nella tenda della Milizia e partirà domani all’alba, a causa dei suoi continui impegni.

Mi ha chiesto scusa, si è inchinato, chiamandomi subdolamente principessa e si è allontanato in fretta con Lulu e Wakka.

Basta coi sentimentalismi Rin. Basta con questi atteggiamenti da maggiordomo che chissà da quale brutto romanzo cortese scritto male avrai ripreso. Anche se sono figlia del capo degli Albhed questo non fa di me una principessa. Si nasce principessa, bisogna averne l’attitudine.

Resto in spiaggia con Yuna che sorride alla brezza marina che le scompiglia i folti capelli castani. Fischietta un’antica melodia di Besaid, e so a chi sta pensando.

La sua è una canzone d’amore e il vento è più di un messaggero, che supera  oceani di silenzi e attraversa terre sconfinate, solo per riferire il suo messaggio.

Credo che abbia bisogno del suo tempo per stare con sé stessa. A volte non c’è abbastanza tempo per ascoltare il proprio cuore e -volersi bene.

Il mio ovviamente è un caso particolare. Per troppo tempo ho sentito le strazianti urla del mio animo e ho avuto paura. Una paura non molto diversa da quella che nutro per i fulmini, gli insetti schifosi e i mostri brutti e deformi che non escono dagli specchi ma che si annidano nel tuo cuore e mangiano mangiano mangiano tutto quello che trovano nel tuo corpo, come un verme in una mela.

Mi sollevo velocemente dalla sabbia, cominciando a correre lungo tutta la spiaggia, come un pulcino che sta imparando a volare. Corro, con le braccia spiegate. Urlo, con tutto il fiato che ho in gola. E non so cosa urlo, non è importante la parola, il verso, ma l’atto in sé di urlare. Come qualcosa che si sprigiona dentro di me, e che si arrampica girando vorticosamente intorno alla trachea, pizzicandoti le corde vocali.

E grido, grido, e poi urlo e urlo di gioia e dolore, e tiro calci al vento, e bestemmio contro ogni singolo luniolo di Auron, sperando che andasse a quel paese. Quello. L’oltremondo.

Non c’è casualità nelle mie parole.

E io corro, più veloce, così veloce che tra poco spiccherò il volo, corro veloce verso il bagnasciuga, a piedi nudi sulla sabbia rovente, mentre la rena schizza in ogni angolo, e la voce di Yuna sembra così distante; mi chiama, angosciata, forse pensa di rincorrermi, mentre mi lancio in questa divertentissima corsa.

Bisognerebbe fare più spesso cose senza senso, fa bene. Ma confonde. Il cervello potrebbe non capire più cosa fare. Potrebbe sentirsi confuso e perduto. E non è bello. Sto cominciando a nutrire un certo affetto morboso nei suoi confronti. Un rapporto di simbiosi, necessario purtroppo.

Lo proteggo come se fosse una parte di me stessa.

Freno, coi piedi nell’acqua limpida, con la gonna nelle mani, saltando nell’acqua bassa lanciando schizzi ovunque. E l’acqua fa rumore, un forte rumore, e tutto diventa un unico scroscio.

Yuna mi raggiunge per prima, mantenendosi la gonna del kimono color pesca e si appoggia alla mia spalla, come affaticata dalla gran corsa che ha fatto per raggiungermi il prima possibile.

Mi sento come una bambina che non può restare sola, come se tutti si fossero dimenticati che anche io ero lì, davanti a Sin, davanti a Jetch, davanti ad Auron che scompariva in una marea di schifosissimi lunioli. Ero lì quando Tidus è diventato -qualunque cosa sia diventato. Io c’ero, c’ero sempre, forse in seconda fila, ma ero lì, col cuore che assorbiva in un falso silenzio quelle immagini per trasformarle in incubi quando sarei stata più debole.

Tipo adesso.

Oscillo le braccia, avanti e indietro, guardandomi affondare fino alle ginocchia nell’acqua limpida di Besaid.

La larga gonna verde si muove come le onde sul mio bacino rinsecchito, che non ricorda nullo di sano o di fertile. Più una pianta avvizzita, che un arbusto nel suo pieno fiorire.

“Dai Yuna, non è pericoloso”

La pazzia sa essere molto convincente. Yuna afferra la gonna e mi sorride, in un misto di pietà e di affetto. Essere assecondati su ogni cosa è splendido.

Oppure tremendo. Questo pazzo pazzo mondo si regge sull’equilibrio dei contrari.

 

Penso che sia tutto un sogno. Un sogno folle e terribile e io mi sveglierò nella mia stanza, nella Base, come quando avevo cinque anni, e sognavo di essere grande e forte.

 

No, non è uno di quei sogni.

Non sono né grande né forte. 

Non è un sogno da bambina.

È un incubo da quasi donna.

Già, perché “adolescente” farebbe di questi anni un’età importante, considerevole.

Il mio speciale “quasi donna” rende meglio l’idea di questi anni che sto trascorrendo mentre, barcollando come un chocobo strafatto di saké e di erba ghisal, cresco.

E non so quanto di intelligente ci sia in tutto ciò.

È assurdo. È inevitabile. È normale.

Papà dice che è l’età migliore, l’età che ricordi tutta la vita. I miei quindici anni non torneranno mai più.

E forse è meglio così. Meglio che se ne vadano in fretta, portandosi dietro anche il sedici, il diciassette, e poi vedremo fino a che punto il mio cervello resterà in fase di convalescenza. Per i diciotto anni si risveglierà?

Intanto, io già mi vedo, vecchia e decrepita, gioiosamente rugosa, seduta in poltrona con una tazza di the albhed nelle mani -gli anziani lo bevono spesso, forse per curarsi, forse perché ormai hanno perso il senso del gusto- a brindare ai tempi finalmente andati.

E forse dirò: “Dannazione Rikku, sei un’ipocrita, ridi di te stessa!”

Ma devo esserlo, devo farlo, per forza. È l’unico modo che ho per ridere. Ancora. Mi mancano le mie risate idiote, le mie battute incomprensibili, le occhiatacce degli altri.

Mi manca la vera Rikku. Quella che tanto faticosamente avevo costruito, risata dopo risata.

 

Forse sarebbe meglio smetterla e non pensarci più.

Mettiamo un punto a questa storia.

 

Stamattina sono uscita silenziosamente dalla tenda, sorprendendo il sole albeggiante, oltre le colline e le palme. E qui, sfuggendo alle dita rosate dell’alba, un uomo dai lunghi capelli biondi cammina a piccoli passi nel più assoluto silenzio.

Dove vai, Rin?

Lo guardo superare capanna dopo capanna, con volto basso, un borsone sulla spalla. Ha un’aria così mesta, così infelice.

Perché Rin? Perché non lasci a me questi patetici sentimentalismi da depressa?

Mi controllo: in camicia e a piedi scalzi un inseguimento non sarebbe proprio il massimo. Soprattutto nelle mie condizioni.

Rin oltrepassa le porte del villaggio, scomparendo nella vegetazione.

Scimmia Albhed aveva detto Wakka? Beh, le scimmie sono curiose. Darò la colpa a lui se mi sgrideranno.

 

L’ho inseguito. Lungo l’intricato sentiero nel cuore di Besaid, inciampando in ogni radice -ed erano tante!- e nascondendomi in ogni cespuglio -ed erano tanti anche quelli-

Rin ha finto di non sentirmi fino a quando non siamo arrivati alla baia. Lì si è voltato e mi ha chiamata per nome. Inizialmente ho finto di non sentire, di non esserci, ma poi sono sgusciata, con la stessa grazia di un behemut invischiato in un budino allo stato liquido, da dietro ad una palma.

Ammettilo Rin, se non avessi sentito il gran fracasso che faccio ad ogni movimento -manco di qualunque senso dell’equilibrio- non mi avresti mai notata. Sono più magra del fusto di questa palma.

Si avvicina e prende per mano, sorridendo “Grazie per avermi accompagnato” si limita a dire, con quel suo sorriso bianchissimo e poco sincero.

Trapela davvero tanto che avresti preferito vedermi inchiodata a letto, sai?

Insisto nel prendere i suoi bagagli, come quando gli corsi incontro a Macalania, tra la neve e la bufera.

Cosa darei per riavere quell’energia, quella volontà…

Attraversiamo la spiaggia a passi lenti, in silenzio. Forse perché non abbiamo nulla da dirci. Io non posso, io piangerei. Mi imploro di stare in silenzio, mentre mastico la mia stessa lingua e stringo le dita sul manico del borsone. Rin percepisce il mio nervosismo e mi sorride ancora, accarezzandomi le spalle.

Io guardo a terra, la sabbia che sposto coi piedi nudi.

Credimi Rin, vorrei tanto non odiarmi. Più di provarci non posso. Non ci riesco.

Arriviamo al molo. La nave è già lì che sta aspettando. E io la odio la odio la odio con tutta me stessa. Credo però che sia meglio così. Sarebbe stato davvero denigrante aspettare la fine insieme, Rin. Non sei il tipo di persona con cui vorrei stare ferma ad aspettare inutilmente.

Lascio cadere sul pontile di legno il borsone di cuoio. Rin mi guarda. Così verde di erba e sporca di terra gli devo sembrare tristemente ridicola. Eppure lui ride, accarezzandomi i capelli.

“Piantala Rin. Lulu ha detto che mi farà un filtro che li farà ricrescere più in fretta. Nel giro di qualche anno li avrò lunghissimi, più lunghi di quelli di Raperonzolo” gli dico, chiaramente infastidita.

Lui non smette di sorridere e mi accarezza il viso con la mano di un padre, con sguardo indecifrabile.

“Sai” esordisce “tu penserai che sei cambiata. Invece ti dico che non lo sei. Riconosco che sei cresciuta e che a volte fai delle cose strane, incomprensibili. Non te ne chiedo il motivo, perché so che non vorresti raccontarmelo. Ma nonostante tutto, se ti guardo negli occhi vedo sempre te, la bambina che eri un tempo, quella che giocava da sola e scriveva sui muri”

Distolgo lo sguardo, pur di nascondere il mio compiacimento. “E’ abbastanza degradante, non ti pare?”

Lui ride e riafferra al volo la valigia. “Solo per te. Io almeno so che, per quanto potrai crescere e cambiare, negli occhi sarai sempre la stessa ragazzina di sempre. Chi ti conosce bene lo sa”

La nave è pronta a partire, ma lui no. Mi mette le mani sulle spalle e mi guarda, e la cosa mi inquieta. Come se con gli occhi stesse rovistando tra i miei pensieri più privati, nei miei ricordi più segreti.

Mi abbraccia. Così, di colpo. E mi sento spezzarmi mentre mi stringe forte, mentre mi sfiora ogni vertebra della schiena. “Qualunque cosa tu stia passando” dice “so che sei forte e ce la farai”

Mi lascia e si gira verso la nave. È ora, è il momento. Adesso deve andare.

Corre sul ponte e mi saluta, un’ultima volta, agitando la mano. Ricambio il suo saluto, provando a sorridere e a fingere un po’ di sincerità.

È un circolo di falsità, il nostro. Ci mentiamo a vicenda, così siamo felici. Così stiamo bene.

 

La nave è ormai lontana e questo è uno di quei dannati momenti in cui vorrei qualcuno accanto a me.

Persino Auron sarebbe una compagnia accettabile.

Mi piacciono le esagerazioni, che posso farci se ogni tanto sparo balle poco credibili?

Mi guardo intorno: c’è troppa gente per sentirsi soli. Troppi pescatori, troppi bambini, troppa gente.

Andrò in un altro posto per essere triste e lamentarmi della mia solitudine. Magari in qualche caverna o in qualche anfratto segreto, dove potrò starci solo io.

Intanto mi ficco le mani nelle tasche della camicia completamente sporca e faccio tintinnare il sacchetto di guil che ho trafugato a Rin.

 

Idiota.

 

 

 

Penso che qualche affezionato lettore di questa storia resterebbe scontento se la storia finisse qui. È tutto troppo confuso, troppo disordinato. Troppo Rikku.

Credo che siano necessarie delle spiegazioni.

 

Ho passato altre tre settimane a Besaid. La calma e la pace dell’isola mi hanno aiutata a ritrovare l’equilibrio perduto -sia quello celebrale che quello fisico- e ho fatto finalmente pace coi miei ricordi. Senza fare visite all’Oltremondo come aveva inizialmente suggerito Yuna.

Semplicemente, mi sono svegliata una mattina e sono stata bene. Non ho più sentito la pressa dei ricordi su di me. Ho preso un respiro: Auron e Tidus erano nell’Oltremondo, e lì sarebbero rimasti. Mia madre era ancora un vecchio ricordo che non mi apparteneva, un paio di braccia che non mi hanno cullato.

In fondo, non è sua la colpa. Non è colpa di nessuno.

Qualche giorno più tardi ho ricevuto una lettera di Miriam. Mi scriveva da Kilika. Ha ritrovato una vecchia zia che aveva creduto morta durante l’attacco di Sin al suo villaggio. Quando Rin le aveva raccontato per somme linee quello che mi era successo alla locanda ha subito cercato di contattarmi.

Ora sta bene. Ora sto bene. Ora stiamo tutti bene.

Rin non si è mai accorto -o forse sì?- di tutti i guil che gli ho rubato. Ha parlato con mio padre che è subito volato a Besaid per riempirmi di botte e fracassarmi le ossa che non mi dolevano.

Ovviamente non l’ha fatto -con grande disappunto di mio fratello. Yuna gli ha detto chiaramente che ero ancora troppo debole e che dovevo curarmi.

Anche stavolta ce l’ho fatta. Sono viva e vegeta. Ho rischiato di morire e non ho nemmeno preso le botte da mio padre!

Sono ammirevole nella mia capacità di cacciarmi nei guai e di uscirne -più o meno- senza un graffio.

 

Questa è la mia storia. Non è una storia divertente, non è una storia drammatica, non è una storia d’amore e nessuno la leggerà o la inserirà in un libro di fiabe.

Ma questa è la mia storia e se fa schifo è stata una mia scelta.

 

 

 

 

 

 

_Buco inutile che l’autrice si è scavata nel cervello:

Ho scritto la prima pagina di “L’intollerabile peso di un fiocco di neve. Tra la pelle e il cuore” alle 23.37 di una fredda notte di febbraio del 2011, almeno questo è quello che dice il mio archivio sul pc.

Ora che scrivo queste parole che nessuno sta leggendo è il 25 agosto del 2012, con un ventaglio di carta tra le mani, una pila di quaderni nuovi accanto al portatile e un’action figure di Rikku (grazie Blazethecat31!) che mi guarda sorridendo. Sono passati cinque mesi da quando ho scritto l’ultima parola di questa storia e non posso fare a meno di sorridere. Dovevo riempire queste sessantadue pagine con qualcosa che valesse la pena essere scritto, letto e riletto.

In questi ultimi mesi non ho fatto che rileggere solo l’epilogo di questa favola e in effetti, più che un solo capitolo, è una storia autoconclusiva completamente a parte dal resto del nostro racconto.

Per qualcuno Rikku può essere morta nella vasca da bagno, oppure tutta la vicenda di Macalania può non essere mai accaduta. Sta di fatto, che tra il prologo e l’epilogo c’è anche per me una grande macchia che non si spiega, e non lega esattamente l’inizio e la fine della favola.

Saltellando tra sadica ironia e momenti di pura depressione, questo potrebbe essere quasi considerato un lieto inizio, più che un lieto fine. Ma comunque, è lieto, anche se per qualcuno potrebbe sembrare triste l’ultimo abbraccio di Rikku e Rin (un rapporto che inizialmente non sarebbe dovuto essere così stretto, mi sono lasciata trasportare dal mio insulso sentimentalismo) oppure la magrissima ladruncola Albhed che se ne va camminando tra le reti dei pescatori con le mani nelle tasche a piedi nudi nella sabbia mentre la nave si allontana alle sue spalle.

Non è triste. Forse un po’ arrendevole.

Ormai anche Rikku era stanca di essere triste, così una mattina si è svegliata ed ha sorriso. Fine. 

 

Non ho ringraziamenti particolari da fare, tranne che a Blazethecat31 (grazie ancora Blazethecat31!) e alla dolce Adelfasora, che hanno seguito i lunghi deliri della protagonista, dell’onnipresenza non-sempre-utile dei chocobo, del riso e del the caldo.

Al termine di questa pagina resta un grande, lungo silenzio che non posso riempire con le parole.

 

 

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