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Autore: Blue Iris    07/09/2012    0 recensioni
Era piccolo, dio solo sa quanto. Ma aveva un cervello grande come queste montagne e uno spirito candido come questa neve. Era silenzioso e fragile, più grande e più piccolo di quanto avessimo capito.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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E' un gesto molto semplice. Come premere un interruttore. I miei colleghi canadesi iniziarono più di 10 anni fa con una serie di esperimenti sui topi. Ora si comincia con gli esseri umani.
 E' una di quelle novità che provoca, allo stesso tempo, paura e speranza. La ricerca scientifica sposta sempre più avanti la rimozione delle imperfezioni del nostro corpo, tende a renderci perfetti e quasi immortali. Ma non è stato sempre così? Quando nel milleduecento furono inventati gli occhiali e gli esseri umani capirono di non essere più condannati a vivere nella confusione delle forme e dei colori, o quando si comprese che un cuore poteva essere portato nel petto di un'altra persona, la civiltà non ebbe forse la meravigliosa sensazione che ci si avvicinasse, giorno dopo giorno, all'impossibile dell'immortalità?
 Immortali non siamo, ma viviamo di più e meglio. Il paradosso è che questa nuova situazione ci spaventa, ci rende fragili, insicuri, pieni di paure. Il sogno che si realizza, allontanare l'invecchiamento e persino la morte, si trasforma in una specie di incubo psicologico, nella sensazione di dover ottenere successi e garantire livelli di vita per un tempo diventato invisibile. Come un traguardo che si sposta a mano a mano che ci avviciniamo. E noi mostriamo stanchezza, perché siamo stati allenati a correre i 200 metri, e la scienza, nell'attimo in cui uscivamo dalla curva, ci costruiva invece ancora un pezzo di pista sotto i piedi.
 Chi verrà dopo di noi avrà nei geni, nella cultura del vivere, nell'organizzazione della società il sapere necessario per pensare la propria vita in un arco di tempo molto lungo. I bambini che nascono oggi, alla fine del secondo decennio di questo nuovo millennio, supereranno il secolo e potranno arrivare a viverne uno intero, come se questa fosse la normalità. Ma io non so se voglio premerlo, quell'interruttore. Ha un nome, strano come merita. Si chiama "elF2alfa" ed è un gene che, attivandosi, mette in azione una molecola che blocca la formazione dei ricordi duraturi. E' bastato trovare il modo di disattivarlo, di impedirgli di impedirci di ricordare.
 Le cavie umane che hanno sperimentato questa nuova condizione, verso il duemilatredici, hanno raccontato come la loro vita fosse radicalmente cambiata. La loro memoria era perfetta, integrale. Non conoscevano più zone scure, niente più buio e confusione. Era come se avessero scoperto degli occhiali della mente, multifocali, capaci di vedere sia lontano, sia da vicino. Occhiali, però, con una luce sopra, come quella di uno speleologo, che consente di illuminare anche zone buie, quelle rimosse. Anche i luoghi dei misteri e dei dolori. E quelli degli errori e degli orrori della vita vissuta.
 Le "cavie" hanno raccontato di aver ritrovato, certo, volti e luoghi perduti, i compagni di gioco, i sorrisi dei famigliari e le gioie collettive. Ma anche di aver terribilmente sofferto per le morti incontrate e i dolori vissuti, e per la coscienza del loro inevitabile e incontrastabile arrivo. E che, durante la notte, la mente tendeva a riprodurre prevalentemente i momenti più dolorosi ritrovati nel corso dell'esplorazione. I sogni, così, si trasformavano in incubi.
 Per molto tempo i filosofi hanno cercato di dimostrare che il tempo non è un concetto lineare.
 Uno di loro ha scritto: "noi abbiamo del tempo una concezione riduttiva, cioè appunto il tempo è come una linea retta, sulla quale scorre un punto, il presente, che separa in maniera irreversibile il passato dal futuro. Ma, ad esempio, nel tempo psichico, cioè nel tempo della nostra vita, succede che c'è un passato che non passa, qualcosa che resta in noi e che continuiamo a elaborare... In Leibniz tempo e spazio sono degli ordini. Il tempo è l'ordine della successione, lo spazio è l'ordine della compresenza. Cioè io guardo simultaneamente queste 5 dita, che sono presenti insieme. E invece le parole che dico vengono una dopo l'altra e non le posso sentire insieme. Il tempo psichico è un po' un incrocio, è un incrocio di una compresenza, cioè di un passato e di un tempo che rimane accanto alla successione. Cioè, il tempo per certi aspetti scorre, per altri assomiglia allo spazio, cioè resta contemporaneamente presente. Ecco perché io posso recuperare il passato. Cioè il passato non è scomparso, non è dissolto, resta come traccia in noi e per questo lo possiamo rievocare".
 Ora il passato non è più una traccia da rievocare, ma un libro da sfogliare. Con tutte le pagine al loro posto. E' tornato lineare, tremendamente lineare. E, siccome conosco il testo, l'ho vissuto, posso essere in qualsiasi momento invaso o assalito da quella determinata pagina, riga, parola. E ho paura.
 Io non voglio spegnere la mia amica molecola. Non voglio vedere scorrere tutta la mia vita davanti agli occhi. Sono un medico, un ricercatore, e so bene che, in questo duemiladiciassette, posso sembrare un romantico, uno legato al passato, un nostalgico di un equilibrio tanto naturale quanto irrazionale.
 Se Dio e la scienza, per una volta mano nella mano, ci hanno dato la possibilità di migliorare noi stessi e di allungare il dono della nostra presenza sulla terra, perché non farlo? Fatelo, facciamolo. Ma non io, non ora.
 Sono venuto fin qui, in questa baita di montagna, in cima alle Alpi, perché voglio stare in solitudine. Perché voglio immaginare che la vita sia tutta qui. In questo silenzio, in questo bianco che vedo dalla finestra, in questo fuoco che crepita nel camino.
 Sono venuto fin qui perché ormai è difficile trovare la neve e il freddo, in questo mondo terribilmente caldo. Voglio stare solo con la mia memoria, finché potrò averla con le sue luci e il suo buio, con i suoi vuoti e i suoi pieni. Finché la mia amica molecola riuscirà a resistere alle lusinghe della modernità.
 E perché devo leggere dei fogli. Fogli che immagino e temo saranno più potenti della disattivazione di "elF2alfa". Fogli scritti dalla mano di un ragazzo.
 Quel ragazzo era mio fratello. E quei fogli sono stati per 10 anni nelle mani di mia madre, che li ha conservati, tutelati, nascosti.
 Ieri mi ha chiamato e mi ha detto: "oggi sono 10 anni. Sei grande e maturo abbastanza da poter leggere il diario di tuo fratello. Il tempo di tutti e il tuo ora ti consentono di farlo. Proverai dolore, ma i giorni passati da allora hanno dissolto la possibilità dell'odio. Per questo ho nascosto questi fogli al mondo. Ora sono tuoi. Li meriti. Per tutto il bene che gli hai voluto e per quello che hai fatto dopo. Troverai molte cose della nostra vita, forse troppe. Troverai i miei errori e quelli di altri. Perdona. Sai farlo. E' una dote rara. Ecco, ora è tuo. Proteggilo".
 Piangeva, mentre mi passava il diario. Le nostre mani brune toccavano i due estremi della copertina. E tremavano. Era come se, insieme, avesse passato il testimone della memoria e quello della centralità della vita tra generazioni che riconoscono l'una il ruolo dell'altra.
 Ho preso il diario, e sono salito in macchina. L'ho appoggiato sul sedile e l'ho guardato. Mi sembrava un oggetto sacro, ma al tempo stesso un oggetto di famiglia. Pensavo a quanto fosse stato importante per Giulio, per la sua piccola vita. Una vita che lui attraversava cercando di capire e di raccontarla a se stesso.
 Lo guardavo, quel diario, e mi chiedevo se non fosse stato per lui anche un padre o un fratello, qualcuno che sapeva ascoltarlo e non aveva nulla da chiedergli. Se quella copertina non fosse, in fondo, il volto del suo migliore amico. Un amico silenzioso e fedele, discreto e innocente.
 Me lo immagino, il mio fratellino, chino a scrivere su quei fogli. Mi immagino il suo volto che si rialza dalla pagina e la sua espressione mentre cerca, con lo sguardo perduto nel vuoto, la parola giusta per descrivere il suo stato d'animo e le sue emozioni.
 Era piccolo, dio solo sa quanto. Ma aveva un cervello grande come queste montagne e uno spirito candido come questa neve. Era silenzioso e fragile, più grande e più piccolo di quanto avessimo capito.
 Noi non siamo di qui, almeno per metà siamo venuti da lontano. Mia madre è peruviana. Nostro padre, invece, è italiano, ha conosciuto mamma per corrispondenza, e per corrispondenza hanno deciso di sposarsi. Sembra che di mezzo ci sia una di quelle agenzie che fanno i soldi sulla solitudine delle persone. Le agenzie degli annunci tristi.
 Pensare che la mia esistenza dipenda da quel numero telefonico "garantito" e della "serietà delle metodologie" mi ha fatto sempre impressione. Chissà se sul muro della stanza della proprietaria compare in bella vista la fotografia del visino allegro di questi ragazzi bruni, io e i miei fratelli, a testimonianza di come le cose funzionino, grazie all'agenzia. Una pubblicità involontaria e, per me, imbarazzante. Anche perché poi le cose non hanno funzionato affatto. E non so proprio come avrebbero potuto andare bene. I miei non si conoscevano, non si erano visti, se non in fotografia. E non ho mai capito perché si fossero rivolti entrambi ai professionisti del matrimonio.
 Quando ero piccolo e li sentivo litigare pensavo sempre a loro da ragazzi: pensavo al momento, il preciso momento in cui avevano visto l'annuncio dell'agenzia matrimoniale. Uno forse in una locandina affissa per le strade di Milano, l'altra sul giornale della parrucchiera di un quartiere di Lima. Immaginavo sempre il preciso momento in cui avevano deciso di uscire di casa e andare in quegli uffici. E li immaginavo seduti di fronte agli impiegati dell'agenzia, uno peruviano e uno di San Donato Milanese. Li immaginavo riempire le schede e allegare foto in cui sembrassero più belli che si potesse. Lui al mare, fisico e muscoli in mostra, e lei che sorride a una amica, con i capelli appena sistemati. Li immaginavo mentre aspettavano impazienti una lettera o una telefonata. Li immaginavo come se, in contemporanea, avessero finalmente tra le mani le foto l'uno dell'altra, e si dicessero, tra sé e sé, che l'altro era carino. Li immaginavo all'aeroporto il giorno dell'incontro. Lui avrà avuto i fiori in mano, lei si sarà sistemata il trucco prima di scendere. Lui avrà sporto la testa tra la folla in arrivo per guardare l'uscita e lei avrà precipitato lo sguardo tra tutti gli uomini che le si paravano davanti, oltre la porta degli arrivi.
 Forse è stata lì. Forse la fine è cominciata lì.
 Lui sarà stato deluso, o forse lei. Eppure si sono chiamati, abbracciati, dati due baci sulle guance, lo so. E, tornando a casa, forse ciascuno dei due avrà rimpianto di aver visto quella locandina o letto quel giornale. O forse no. Forse si sono piaciuti. E hanno benedetto l'agenzia matrimoniale. E, forse, quella sera i loro corpi hanno fatto conoscenza. Ed è iniziata una storia che poi ha generato noi. Ragazzi con la pelle bruna, figli della nebbia di Milano e del sole del Perù. Noi che siamo figli di un uomo, di una donna e di un'agenzia matrimoniale.
 Pensavo a tutto questo anche quando ascoltavo le loro urla, attraverso il muro. Pensavo a quel sorriso davanti a una foto mentre con rabbia si minacciavano, si rimproveravano, si rinfacciavano ogni cosa. Pensavo al silenzio dell'attesa all'aeroporto mentre ascoltavo le loro urla. E il mio sguardo si spostava, regolarmente, dal muro che divideva le nostre stanze al letto dove dormiva Giulio. Avevo solo paura che lo svegliassero, che scoprisse, nella insensatezza della notte, che tutto quello che consideravamo certo era fragile come un fuscello. Che forse domani, o dopo, tutto si sarebbe rotto. Che quelle urla - smettetela, vi prego - avrebbero infranto i bicchieri con la spremuta d'arancia delle nostre colazione, i vetri dell'auto con la quale andavamo in campagna, le lampadine che rischiaravano il loro volto mentre ci davano la buonanotte prima di dormire. Che tutto, tutta la nostra vita, era appeso a un filo. Che quelle urla sguaiate stavano per spezzare.
 Cosa ne sarebbe stato di noi, che siamo piccoli? E di te, Giulio, che sei il più piccolo del nostro mondo?
 Ci separavano 5 anni. Tu ne avevi 12 e io 17. Eri un bambino che pensava che la vita era un gioco e io un adolescente che già aveva capito che ci sono i nemici del gioco e che crescere, in un certo tempo della vita, è una maledetta sfida e una possibile sfortuna. Specie se ciò che cominci a capire è il contrario dei tuoi sogni e delle cose in cui hai sempre creduto.
 C'è un mondo finto, ma bello. E uno vero, ma brutto.
 Ora io ti metto piano piano le mani sulle orecchie perché tu non senta e continui a credere nel mondo finto, in quella foto con papà e mamma sorridenti che hai sopra il letto, in quelle mirabolanti promesse di futuro che riempiono i tuoi sogni. Ti sei pensato qualche volta pilota e qualche altra ballerino, e sempre ti sembrava di vedere, nel clamore di chi festeggia il tuo primo posto o la tua piroetta, i volti sorridenti e soddisfatti di papà e mamma, orgogliosi del loro piccolo talento.
 Spero che i tuoi sogni non siano fatti di vetro perché le urla aumentano di volume e si fanno sempre più insopportabili.
 L'ultimo rumore è quello di una porta che sbatte, con violenza. Poi il silenzio.
 Chi è andato via, e dove? Ridatemi le urla, quelle che facevate insieme. Ho paura di questi silenzi separati dal rumore di una porta sbattuta.
 Credo di capire che ora non c'è più una famiglia, ma due persone. E che noi improvvisamente siamo diventati solo bagaglio che rende meno lieve la corsa di ciascuno verso un'altra vita possibile. Ma ti proteggo io, Giulio, non temere.
 La prima pagina del tuo diario è stata scritta proprio in quei giorni. Lo temevo.
Ho voglia di dire a qualcuno quello che è successo. Ascoltami, diario. Da una settimana non ho più una famiglia, non ho più una casa. Una mattina mi sono svegliato e ho trovato mamma che stava svuotando il mio armadio. Ero ancora nel dormiveglia quando ho visto in mio maglione preferito, quello blu, nel cestino. E mamma che lo copriva buttandoci sopra con furia altre cose. A Giuseppe, che le chiedeva perché facesse così, mamma ha risposto che non si poteva portare via tutta la casa e che lo stesso avrebbe fatto con i miei giochi e i suoi libri.
 Parlava piano, ma io li ho sentiti. Vedevo, attraverso lo spiraglio degli occhi, Giuseppe seduto sul letto, come imbambolato, e mamma presa da una strana, cattiva frenesia. Ho aspettato che fosse uscita e poi mi sono tirato su. Giuseppe mi fissava.

Come me lo ricordo, Giulio, quel momento. Come  mi ricordo il tuo sguardo e il silenzio che ci circondava. Fu lungo e irreale.
 Tu non sapevi cosa chiedere e io non sapevo cosa dirti. Alla fine ti abbracciai. Sento ancora oggi il tremore del tuo corpo e le tue lacrime sulla mia camicia. Avevi capito tutto. In quel momento, in quella stanza sottosopra improvvisamente piena di luce, sentii quanto ti amavo e quanto avessimo bisogno l'uno dell'altro, allora come non mai.
 Quell'abbraccio fu il nostro patto. Fu il calore nel momento della gelata, fu il sole nella tempesta.
 Avrei dovuto tenerti stretto così tutta la vita, non lasciarti più. Non avrei mai dovuto pensare che uno come te potesse resistere al brutto della realtà.
Quella mattina, caro diario, tutto è finito. Sai come quando si fa un grattacielo con le costruzioni e poi tutto, per una porta sbattuta o il colpo della gamba di un adulto sbadato, vola via? La mia famiglia è finita, siamo stati buttati fuori di casa, i miei giochi e i miei vestiti sono rimasti lì. Chi li avrebbe presi? Che ne avrebbero fatto?
 Ora sono qui. In un istituto per famiglie peruviane. Siamo in tanti in una sola stanza. Ci tocca fare la fila anche per andare al bagno. I giochi dobbiamo nasconderli e dobbiamo dormire sui vestiti, un po' per stirarli e un po' per proteggerli.

 Non ho più uno spazio mio, solo mio. Tutto è in comune con gli altri. Mamma sta cercando lavoro, abbiamo bisogno di soldi. La sera lei si mette tra me e Giuseppe e ci rassicura che tutto finirà presto. Che, quando avrà trovato un posto e quando papà comincerà a darle i soldi, potremo finalmente andare di nuovo in una casa tutta per noi.
 Ho imparato che si vive di sogni e anche di bugie. Per questo ci credo, per questo ti credo, mamma.

 Anche i ragazzi peruviani che sono qui mi guardano in modo strano. Per loro non sono uno di loro. Il mio sangue è solo per metà peruviano. E preferiscono stare insieme, fra di loro, senza meticci o mulatti. Così passo il tempo a leggere e a fantasticare. Giuseppe va a scuola anche il pomeriggio e io mi metto a frugare tra i suoi libri. Ne ho trovato uno che mi piace tanto. Si intitola Disordine E Dolore Precoce, ed è stato scritto da Thomas Mann. Ho già letto Morte A Venezia, e leggo ogni cosa che mi capita tra le mani. Non ho molto altro da fare. Se non guardare le partite in tv e tifare da solo, perché gli altri non mi considerano neanche meritevole di un abbraccio dopo il gol. Il mio tempo serve sopratutto per leggere, capire, immaginare, fantasticare. Sono sulla brandina di questo centro di accoglienza, ma volendo mi ritrovo anche nei salotti dei ricchi tedesche di cento anni fa, o sulle imbarcazioni nei mari in tempesta di Conrad, o in mezzo ai mulini a vento insieme con Don Chisciotte.
 Non sono solo, affatto. A scuola vado molto bene e mamma è orgogliosa di me. I professori dicono che sono un genio, ma io so che invece la mia bravura è legata alla mia sfortuna. Se non avessi sofferto, se non fossi rimasto solo qui non avrei avuto voglia di leggere e dunque di capire. Se non fossi qui, alla mensa, non avrei voglia di uscirne. Se avessi tutto non avrei più voglia di niente. Invece il mondo ha un debito con me e io mi debbo preparare per poter chiedere il pagamento, con gli arretrati.
 Papà lo vedo raramente. E' gentile, mi porta al parco con Giuseppe. Qualche volta al cinema. Ma ho sempre l'impressione che vorrebbe che il tempo corresse. Che le giornate finissero in fretta per restituirmi a mamma, come un pacco ingombrante. E' una persona buona, ma credo non sappia come si fa con i bambini.

Me li ricordo quei giorni, Giulio. Come un incubo. Quelle passeggiate piene di lunghi silenzi, senza sapere cosa dirsi. Liberata dalle osservazioni della quotidianità, che non riguardava le relazioni con nostro padre, la vita era un deserto di parole e di domande. Il tempo veniva occupato artificialmente, quasi per consumarlo. Cinema e luna park, qualche volta la partita. Tutto finito. Un grande rumore per un grande silenzio.
 Anch'io non vedevo l'ora che la giornata finisse in fretta. Quelle pause di silenzi, con nostro padre che guardava fuori dalla vetrina del caffè e noi che ci guardavamo senza parole, le ricordo come le pagine più dure di quegli anni duri.
 Fortunatamente mamma trovò un lavoro da infermiera. Si spaccava la schiena a lavorare per portare un po' di soldi a casa. Faceva i turni più difficili. Lavorava anche a Natale e Pasqua, le notti e le domeniche. Ma poi...
Oggi è un giorno bello, finalmente. Mamma ci ha portati al lago. Era raggiante e noi non capivamo perché. Poi ci ha detto che le avevano fatto un contratto a tempo indeterminato. E che la nostra vita sarebbe cambiata. Mentre ci abbracciavamo lei ha sorriso ancora e ha detto che le buone notizie non erano finite. Si è fatto un silenzio incoraggiante, pieno di sorrisi. Io non vedevo l'ora che mamma la smettesse con quell'aria furbetta e ci dicesse l'altra sorpresa. Aveva uno sguardo che non le avevo mai visto. Ha detto che siccome Giuseppe ha preso il massimo dei voti alla maturità, e io ho fatto lo stesso alla licenza media, allora...

 Noi fremevamo, avrei pagato per tagliare con una spada il tempo. Ha trattenuto il sospiro e poi ha detto, tutto di fiato, che per premiarci ha preso in affitto una casa per tutti noi.
 Ancora adesso non sto nella pelle. E' il giorno più bello della mia vita. Che è piccola, ma non si è fatta mancare cattive notizie. E sono anche contento che, come ha detto mamma, sia anche per merito di Giuseppe e mio.
 Se uno di noi non avesse fatto il proprio dovere fino in fondo forse mamma non avrebbe fatto questo passo, e ora penseremmo al domani in un altro modo. Dopo l'estate si va nella nuova casa. Chissà che non posso riprendermi il maglione blu.

Ti ricordi, fratellino mio, il giorno in cui entrammo nella casa nuova? Era settembre, forse il primo. Ci sembrò una piazza, una reggia, uno spazio infinito. Immaginammo le stanze e i luoghi per i libri, i giochi, le scrivanie. Tu dicesti che con la borsa di studio volevo comprarti un computer e che me lo avresti fatto usare. La cosa che ci colpì di più furono le finestre grandi. Non eravamo abituati. Nel centro di accoglienza entrava poca luce e si stava sempre con le lampadine accese. Qui, invece, dai grandi finestroni si irradiava una luce fresca e gioiosa. Come eravamo felici in quel momento. Ora c'è un altro silenzio da ricordare, simile a quello della neve che cade qui fuori. Il silenzio dell'abbraccio che ci legò tutti e tre. Fu un tempo interminabile. Avevamo vinto alla lotteria, era finita una guerra, aspettavamo un bambino, tutto insieme. Quella casa era la vita che ricominciava. E con due figli fenomenali come noi nulla era precluso. Io dovevo andare all'università e tu al liceo. Era tempo di cambiamenti.
E' bello il mio liceo. E' grande. Quando sono arrivato lì davanti, stamane, mi si è come fermato il cuore per un attimo. Comincia un'avventura nuova. Non conosco nessuno dei miei nuovi compagni e dei professori. Chissà come mi accoglieranno. Ho solo un po' paura delle domande. Le prime, quelle che si fanno per conoscersi.
 Cosa posso dire di bello? I miei genitori si sono conosciuti attraverso un'agenzia matrimoniale, si sono separati, io ho vissuto in un centro di accoglienza, mia madre fa l'infermiera. Ah, dimenticavo. Sono mulatto. Serve altro? Almeno ora se mi chiedono un indirizzo posso dirne uno mio, tutto mio. Della fatica che ho fatto nella mia vita, in fondo, vado orgoglioso. E se lo dovessi raccontare credo che chiunque capirebbe che i miei risultati scolastici alle medie possono legittimamente apparire fantastici.
 Avevo molte paure. Ma domande me ne hanno fatte poche. Anzi, mi hanno proprio parlato poco. Ma forse è così che succede il primo giorno di scuola. Ci si conosce con gli sguardi. Io ho visto una ragazza molto carina che mi guardava, anzi mi studiava. Se vuole diventeremo amici.

Quella ragazza, Giulio mio, ti è stata sempre vicina. E' stata la tua amica del cuore. Studiavate insieme e insieme andavate a fare acquisti. Tu, mi hai raccontato, le consigliavi gli abiti e lei ti consigliava i libri. Vi volevate bene, quel bene indefinito che ci si vuole in quegli anni difficili. Quando si fa fatica a conoscersi, a capirsi, quando il corpo si trasforma e con lui i pensieri.
 Io mi ero ritagliato in quegli anni una frase del Faust di Goethe: "rendimi il tempo della mia adolescenza. Quando ancora non ero me stesso, se non come attesa".
 In quegli anni della vita si è l’attesa di se stessi. E l’attesa è, per definizione, incertezza e sospensione. Si vive sul filo, attendendo, come se fosse decisa da altri, la fine di quella navigazione. Non si è ancora se stessi, ma si è artigiani solitari di quella transizione.
 Credo che la vita riservi pochi momenti di così totale confusione come quello dell’adolescenza, come la linea d’ombra più difficile da valicare. E tu c’eri tutto dentro, fragile e intelligente. Due caratteristiche che si alimentano e si danneggiano reciprocamente. Ogni sguardo, ogni parola di traverso ti si puntava nel costato come una lancia. Non avevi corazza, e se l’avevi era piena di buchi, e il sangue cominciava a sgorgare.
I miei compagni di classe mi tengono alla larga. Ci sono abituato. Per i peruviani non ero abbastanza scuro, per i miei coetanei del premiato liceo metropolitano non sono abbastanza chiaro. E ho un altro difetto, vado bene a scuola. Non sono lo sfigato che cerca di guadagnare la sufficienza con i sotterfugi.
Ho imparato che nella vita ci si deve guadagnare tutto. Se non avessi fatto così vivrei ancora in un centro di accoglienza. Io studio. Perché mi piace e perché devo farlo. Per il mio futuro e per quello della mia famiglia.
Le ragazze sono carine e gentili. Mi dicono di fregarmene delle battute dei maschi. Ma non è così facile. Non mi invitano mai a giocare a calcio, oppure al cinema. A scuola, in una classe diversa, c’è un altro ragazzo peruviano, Carlos. Ogni tanto mi vedo con lui. Usciamo e andiamo in giro a guardare i negozi. Gli voglio bene, è un vero amico. Anche lui ha i suoi problemi. Qualcuno dei ragazzi più grandi, uno di quelli che indossano sempre il giaccone di pelle nera, gli ha detto di stare alla larga. Un altro lo ha fatto cadere dal motorino dove era seduto, dando un calcio al cavalletto. Lui si è preoccupato subito di non aver rovinato lo scooter perché altrimenti sarebbero stati guai, non avrebbe mai potuto pagare i danni al proprietario.
Mi ha fatto impressione la scena perché mi hanno spaventato le risate dei ragazzi presenti. Erano forti e finte. Volgari e imbarazzante. Come se si vergognassero, ma quello fosse una specie di rito, come la definizione dei confini tra gli animali nella foresta. Mi fanno male al cuore e alle orecchie.

 Ci preoccupavamo dei tuoi silenzi. Eri sempre stato un bambino riflessivo e discreto, ma allegro. Ora invece parlavi poco, avevi un sorriso mesto e lo sguardo preoccupato. Mangiavi e ti chiudevi subito in camera a studiare. Un volta ho guardato attraverso il buco della serratura e ti ho visto, sdraiato sul letto, che piangevi. Sono entrato, ricordi? Ti ho abbracciato, proprio come quel giorno nella nostra stanza della vecchia casa. Piangevi, come se ti stessi liberando di un fardello insopportabile. E poi mi hai detto quello che non volevo dirmi. Me lo hai detto con il volto appoggiato alla mia schiena, resistendo a ogni mio tentativo di prenderti la testa per guardarti negli occhi.
 Mi hai detto: “Giuseppe, dicono che sono frocio”.
 “chi lo dice?”
 “i miei compagni” mi hai risposto.
 “perché lo dicono?”
 “perché sono sempre vestito bene, perché ho l’apparecchio, perché ho modi effeminati” mi hai risposto. “io non so cosa sono, so solo che sono infelice. Mi vesto bene perché mi è stato insegnato così, ho l’apparecchio perché ho i denti storti, e se sono effeminato io non lo so. Lo sono?” mi hai chiesto. Guardandomi, a questo punto, guardandomi negli occhi.
 Ti ho detto di no. Ti ho detto che erano scemi. Ti ho detto che era capitato anche a me. Ti ho detto che erano le loro insicurezze. Ti ho detto…
 Ma tu mi hai fermato e mi hai chiesto, ancora: “sono effeminato?”.
 Io ti ho detto ancora una volta di no. Che eri solo una persona gentile in un mondo volgare. Ti ho detto che i ragazzi a una certa età fanno così, devono dimostrare la loro virilità con le parole. Mi hai bloccato e mi hai chiesto perché a te non veniva voglia di fare così. Io non sapevo cosa dirti. Ti ho abbracciato forte come mai. Ho telefonato alla tua amica, che mi ha confessato che in effetti i compagni di classe facevano quelle battute, che un giorno uno aveva detto: “quanti maschi siamo in classe, cinque? No, quattro… perché c’è Giulio”. Che però erano battute non diverse da quelle che facevano a loro, alle ragazze della scuola, battute di chi ha gli ormoni in tempesta. Ti ho tenuto d’occhio nei giorni successivi, mi sembravi stessi meglio.
 Anche mamma era andata a parlare con gli insegnanti, che l’avevano rassicurata.
Non ce la faccio. Anche a scuola comincio ad andare peggio. Oggi ho preso 7 a inglese e la professoressa mi ha rimproverato per scherzo: “dai 9 al 7, facciamo come il gambero”.
E’ una brava professoressa, come gli altri. Sono io che non ce la faccio più.
L’altro giorno un altro insegnante mi ha fatto i complimenti, mi ha detto che sono un genio. Alla fine della lezione gli ho chiesto di non farlo più, perché i miei compagni mi prendono in giro. Perché finiscono con l’odiarmi ancora di più. Lo so che sono ragazzi e che tutto finirà. Uno di loro, l’altro giorno, mentre facevamo la fila per la merenda, mi ha sorriso e mi ha chiesto di che squadra sono.
Mi è sembrato tanto, una cosa enorme. E ho voglia di parlare un po’ con lui.
Ma anche andare a scuola è diventato faticoso, specie da quando Carlos ha cambiato liceo. Mi sembra di essere in un labirinto. Non posso essere troppo bravo, ma devo farlo. Non posso parlare con i miei compagni, e se parlo con le ragazze è come la conferma di quelle brutte cose che mi scrivono sul banco.
Come diceva quella frase di Goethe che Giuseppe tiene nella sua stanza?
“quando ancora non ero me stesso, se non come attesa.”
Non ce la faccio ad aspettare. Ho il dolore che mi toglie il respiro, diventa paura, stanchezza, mi scassa. Mi sento solo. Ho Giuseppe e mamma, ma non possono bastare più. E’ meglio così. Ho freddo.

 Si è messo il maglione blu, quella mattina. Ha aperto i finestroni, quella luce ritrovata. Ha guardato giù e non ha visto nulla.
 Io lo immagino, da 10 anni, quel momento. Dormivo nella stanza a fianco. Perché non mi hai chiamato se avevi freddo?
 Chiudo il diario. Anch’io ho freddo, ora. Domani mi aspettano mia moglie, il lavoro, gli amici.
 Perché tu non hai aspettato te stesso? Ora saresti qui, con me. Discuteremmo di scrittori e di calcio, di mamma e del nostro futuro.
 Dai, siediti qui, continuiamo a parlare. Sotto questo albero, bianco di neve. Che continua, a dispetto di tutto, a scendere copiosa.
  
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