Adelante
{ and they ride again }
Il primo giorno Donald non è sicuro di
aver fatto la cosa giusta, ma d’altro canto nessuno nei suoi panni lo sarebbe,
e da qualche parte su al nord si dice che un male comune è un mezzo gaudio. Non
che avesse molta scelta, in ogni caso. Ciò che maggiormente gli dà da pensare è
l’atteggiamento dei suoi inaspettati e strampalati compagni di viaggio,
soprattutto quello del tipo mingherlino col papillon e i capelli arruffati che
gli ha permesso di chiamarlo Joe – il suo vero nome
si pronuncia in modo strano, con una specie di sputo pieno di catarro sulla
prima lettera, e Donald ci ha rinunciato dopo due secondi netti perché la sua
pigrizia è ancor più proverbiale della dislessia che l’accompagna.
Joe
è una sorta di enigma in giacca e paglietta. Donald non è ancora riuscito a
costruirsi una prima impressione di lui e la cosa lo irrita fino alla più
intima e insensata stizza. Il fatto è che con Panchito
non ha dovuto farsi tante domande; Panchito è un
pazzo. Un pazzo armato e pericoloso che non fa altro che ridere e strillare
cose senza senso, un pazzo fine a se stesso, in definitiva. Gli è balzato in
macchina all’improvviso – Donald ha sentito soltanto una specie di sparatoria e
si è accorto di lui solo quando la rovente polvere messicana si è dissipata
dall’abitacolo – e senza dargli un minimo di spiegazione, con quella voce
acutissima e quella risata indescrivibile, gli ha gridato qualcosa che suonava
come «¡Adelante!
¡Adelante!» indicando l’orizzonte con uno dei due
lucidi guanti bianchi armati di pistole. All’epoca Donald guidava da centosettantadue ore, inframmezzate da qualche sosta
furibonda e una quantità di sonnellini agitati. Subito dopo aver maledetto la
malsana idea della capote abbassata non ha potuto fare molto altro che
stritolare l’acceleratore e uscire da Città del Messico il più velocemente
possibile. Il tempo per porsi domande su quel pazzo furioso con un nome
chilometrico è stato, di conseguenza, davvero minimo.
Joe
non è affatto strano, o piuttosto è una strana contraddizione ambulante. Donald
lo vede ridere di un riso molto simile a quello di Panchito,
poi improvvisamente guardare fisso davanti a sé, e non ci capisce niente di
niente. Sa che è troppo presto per dirlo, però sa anche che c’è qualcosa – deve esserci – in fondo
agli occhi silenziosi di Joe, e che è stato quello a
indurlo a soddisfare la sua altrettanto silenziosa richiesta di autostop giusto
sul confine colombiano; ma qualunque cosa fosse non è ancora venuta fuori, e
Donald comincia a essere stufo perché forse dopotutto si aspetta qualcosa dalla comparsa di questi
inaspettati e strampalati compagni di viaggio. Rimpianti extra che alimentino e
plachino i suoi, magari, oppure una bella storia che gli faccia dimenticare
qualche miglio della sua brutta fuga.
Il primo giorno scorre
tutto così, e in una vecchia cabriolet che scotta più del sole Donald suda e
sbuffa e guarda in tralice un damerino impolverato che nasconde un sorriso
storto nella nuvola di fumo di un sigaro e uno squinternato lentigginoso che di
tanto in tanto spara a una nuvola e strilla al vento una canzone che parla di Caballeros, qualunque cosa essi siano.
*
Di notte è sempre la stessa storia. Fin
da quando si è messo in marcia.
Prima di ritrovarsi a raccattare gente random
in giro per l’America latina, era appena più facile ignorare quel cellulare che
di giorno seppellisce più lontano che può e che alle prime stelle comincia ad
attirarlo a sé con forza invisibile, ma ora
che potrebbe avere tutte le distrazioni del mondo perché a bordo con lui ci
sono due tipi non proprio rassicuranti che se solo volessero potrebbero
rivoluzionargli l’esistenza – ora invece
trova ancor più faticoso resistere al richiamo. Le ginocchia di Joe sfiorano così spesso il lunotto – il nascondiglio – che
Donald vorrebbe solamente aprire bocca e parlare e parlare e parlare, e solo di
notte gli succede di volerne parlare, e Panchito canta
così spesso di belle ragazze che Donald vorrebbe solamente sospirare e
rimpiangere, rimpiangere, rimpiangere, e solo di notte non gli fa orrore l’idea
di rimpiangere; e così i suoi occhi corrono sempre di più verso quel punto e le
sue dita contratte si allontanano troppe volte dal volante, e se non fosse per Joe, che gli siede accanto e lo guarda e anche nel buio e
nel sonno sembra vedere tutto ciò che fa, forse avrebbe già ripreso in mano il
passato.
Riduce le soste al
minimo sindacale, sperando che non fermarsi mai gli sia d’aiuto, visto che quei
due non ne vogliono sapere di collaborare.
Si sente più solo di
un pinguino all’equatore.
*
Il secondo giorno Joe
ha cominciato a fargli domande piuttosto strane
e Donald è sempre più tentato dall’idea di sporgersi su di lui, spalancargli lo
sportello e scaraventarlo fuori. Liberarsi di Panchito
sarebbe più difficile – se ne sta sempre appollaiato come un galletto chiassoso
sulla testiera del sedile posteriore: praticamente sulla capote – e forse anche
per questo, sì, gli dà un po’ meno fastidio. Panchito
spara ogni volta che la conversazione langue – spesso – e canta forte e la sua
voce a volte è persino più sguaiata di quella di Donald (e lui per un attimo
pensa che lei direbbe proprio così e,
oh, sarebbe una soddisfazione se solo non facesse così male) e la sua presenza non è altro che uno sgargiante diversivo;
invece Joe gli siede accanto e non gli permette di
sapere niente di sé ma di punto in bianco invece vuole sapere tutto di lui, e
Donald non ci sta.
«Pato, sei mai stato a Baía?»
Donald digrigna i
denti. Non sa perché lo chiami pato, e non si sbilancia con le domande perché non vuole
lasciargli intendere di non avere la minima idea di cosa significhi. Per l’ennesima
volta sbuffa, maledice ogni goccia di sudore che gli cola tra gli occhi, si
sforza di mettere a fuoco la strada e accelera più che mai, forse nella
speranza che il sigaro venga strappato via dalle labbra sempre storte di Joe o che il mazzo di carte da poker con cui continua a
giocherellare si sparpagli al vento e diventi il prossimo bersaglio delle
pistole di Panchito.
«No.»
Joe
ha sempre quel sorriso addosso. Donald non sa perché gli dia così tanto
fastidio. È in questi casi che spera che Panchito lo
salvi, e davvero, è così ironico dover sperare nel salvataggio di un pazzo come
quello, ma Panchito ha la sgradevolissima abitudine
di tacere ogni volta che Joe apre bocca – come se
trovasse irresistibile quel suo strascicato accento brasiliano – e Donald ha
dei seri dubbi su se stesso, perché andiamo,
per quale assurda ragione continua a portarseli appresso tutti e due, per quale
misterioso motivo non li ha ancora piantati da qualche parte a crepare di sete?
Dovrebbe riuscirgli facile abbandonare due sconosciuti che non si è mai sognato
di voler incontrare, adesso che ha abbandonato tutto e tutti. In questo caso
non ha neanche bisogno delle ‘cause di forza maggiore’.
«No? Oh, mi dispiace tanto per te.»
Joe
lo sbircia di sottecchi, mescolando le carte con aria da intenditore, e Donald
guarda fisso la strada fantasticando di oasi e di polle d’acqua in cui la
possibilità di affogare qualcuno possa mascherarsi da incidente. Nel frattempo
avrà il suo bel daffare a sforzarsi di capire il senso di quelle domande strane
e magari anche di ‘pato’
– ma soprattutto a dimenticare il fatto che inconsciamente, da quando si è
caricato in macchina Joe e Panchito,
nella più smisurata delle incoerenze ha iniziato a ripercorrere tutta la
strada, a tornare indietro verso ciò che per primo si è lasciato alle spalle.
Si fermano a Monterrey perché le scorte
stanno finendo. Panchito indica sicuro un ristorante
che sembra più una bottiglieria e Donald si rassegna a obbedire, troppo stanco
per presentare obiezioni che a questo punto sarebbero del tutto inutili. È un
posto piccolo ma comodo.
Per la prima volta si
ritrovano seduti a fronteggiarsi in cerchio, quell’unica forma al mondo che non
determina sequenze né gerarchie.
Panchito
si sfila il sombrero e si passa la
mano guantata nel ciuffo rossissimo, più rosso del fazzoletto che porta al
collo. Granelli di sabbia scivolano tra le sue dita e vanno a posarsi sulla
superficie di legno scuro del tavolo. Comincia a parlare e prima di
accorgersene Donald si ritrova incantato nella sua voce, che adesso non è
affatto sguaiata, no, non mentre racconta di posti colorati, di piccole e
grandi avventure, di una vita che passa al galoppo del vento da un’emozione
all’altra. È stato un venditore di sarapes, poi un pescatore, poi un ballerino, poi non ricorda
più cos’altro. Ha iniziato a percorrere il Messico in lungo e in largo e a poco
a poco si è costruito la sua piccola reputazione. Ora c’è gente che sente
cantare un gallo e commenta che «Panchito Pistoles si è messo di nuovo nei guai». Nessuno sa dire perché,
è così e basta. Forse per via di una delle sue tante bravate non del tutto
finite nel dimenticatoio.
La cosa migliore di Panchito, riflette Donald, è che racconta la sua storia
così, a fiducia, senza che nessuno gli chieda nulla e senza chiedere nulla lui
stesso – e sarà anche un pazzo, ma forse l’ha capito che Donald ora come ora ha
solo bisogno di parole da ascoltare, parole nuove, che lo distraggano, che non
siano ricordi o rimproveri e che non lo portino indietro né avanti, ma che gli
permettano, semplicemente, di andarsene a zonzo in qualunque altra direzione
laterale e obliqua senza pensare a niente. Stivali sul tavolo, braccia dietro
la nuca, racconta cose buone e cose cattive sempre nello stesso tono ottimista,
senza fermarsi ad aspettare un parere del quale non ha evidentemente alcun
bisogno. Per Donald è un toccasana, tanto che all’improvviso persino quelle sue
odiose pistole gli diventano simpatiche. Se gli dicesse di aver visto un asino con
le ali, lui gli crederebbe.
E arrivano le
ordinazioni e Panchito continua a raccontare. Ora
parla del Messico, sa che nessuno dei suoi nuovi compañeros ci è mai stato prima,
e non si sa bene come ma finisce a parlare del Natale che da loro si festeggia
con las Posadas e la piñata e Donald pensa
confusamente che è bellissimo, speciale, non come le serate di furioso shopping
antivigilia che a lei piacevano tanto
e – dannazione, ha pensato di nuovo a lei, deve smetterla, smetterla, meglio
ascoltare Panchito e basta.
È una sosta
innaturalmente lunga, quella al ristorante messicano. Joe
si allontana e mostra un trucco con le carte a una cameriera tutta risolini.
Donald si dimentica anche di lui e si rende conto che Panchito
è un grande, perché è riuscito nell’impresa che lui si era prefisso con il
viaggio e nella quale però non ha mai avuto successo prima d’ora, neppure quando
ha preso con sé Joe e i suoi strani sorrisi, neppure
quando lo stesso Panchito è saltato a bordo
sparandosi alle spalle alla cieca. E v0rrebbe quasi dirgli qualcosa, magari
ringraziarlo, perché no?, ma Panchito ha tutta l’aria
di non volerlo sentire. Sorride come se sapesse tutto ciò che lui sta pensando
e si limita a consigliargli il vino migliore.
Quando Joe torna al tavolo, nessuno gli chiede di raccontare la sua storia, e Donald si convince di
poter fare a meno di rievocare la propria.
Almeno finché non farà
notte, forse.
Ripartono che è quasi il tramonto. Donald
è un po’ frastornato dalle sorprese della giornata. Si affida di nuovo a Panchito.
«Dove andiamo?»
«Adelante.»
Ancora a nord, e il
sorriso di Joe si fa sempre più storto e triste. Donald
comincia davvero a chiedersi perché.
*
La seconda notte Donald ha il cellulare
in mano, ma Panchito, svegliatosi all’improvviso, gli
strilla ridendo di guardare la strada, e Joe glielo
sfila dolcemente dalle dita per riporlo nel cruscotto come se sapesse da sempre
che il suo posto è quello lì.
*
Il terzo giorno sono tutti e tre più
rilassati – be’, non è il caso di Panchito, lui non
ha smesso un attimo di rilassarsi – e
Donald si ritrova a ridere insieme a Joe quando la
canzone risuona squillante sulla lunga lingua d’asfalto che porta dritto verso
il confine che ha già superato una volta nel senso inverso. Una volta
addirittura gli chiede di cosa accidenti stia blaterando, e Panchito
fa un sorrisone e spiega che i Caballeros
sono un «estilo de vida», tre
baldi avventurieri che nei tempi che furono ne combinarono di tutti i colori,
tre compagni che potrebbero benissimo essere loro, ecco. È così evidente che ci
crede sul serio che, per la prima
volta da ore, Donald scambia un’occhiata con Joe.
A mezzogiorno passano
la frontiera. Donald è costretto suo malgrado a sopprimere un brivido. È di
nuovo negli Stati Uniti.
Joe
lo guarda con aria pensosa, ma non dice niente.
Il caro vecchio Texas. È qui che vivono i
suoi nipoti adesso. Quella disgraziata di Della è fuggita con chissà chi e
glieli ha lasciati sulla soglia di casa, ma la verità inconfessabile è che
Donald ha bisogno di qualcuno che badi a lui,
e figuriamoci se è in grado di crescere tre gemelli scapestrati, soprattutto
adesso che non ha più neanche lei e –
basta. Con la nonna se la caveranno benissimo. La nonna ha cresciuto lui e
Della e ha ancora abbastanza potenza nelle vene da rendere tutta l’America un
posto migliore. È quasi tentato dal deviare l’improvvisata traiettoria per
andare a trovarli, ma si convince che è meglio di no. È troppo presto. Non sa
ancora cosa c’è alla fine del viaggio. Anche se i nipotini impazzirebbero per Panchito...
«E adesso dove
andiamo?»
«Adelante,
Donald, ¡siempre adelante!»
Adelante.
La prima grande città
è San Antonio e con una fitta al petto Donald si propone di attraversarla di
volata, perché ci è venuto in vacanza con lei
e ogni angolo di paesaggio su cui potrebbe soffermarsi gli parlerebbe a un
organo che in questo momento non desidera avere. Cuore, cervello, fa lo stesso,
non ne ha bisogno ora. Guida a velocità costante e la sua macchinetta mezza
sfondata, la vecchia trecentotredici
(dicevano sempre i nipotini), sibila e geme come un bollitore sul fuoco e
raggiunge una temperatura non molto più bassa. Non si volta più fino a quando Joe non gli rivolge di nuovo una domanda, di punto in
bianco come l’ultima volta.
«Pato, sei mai stato a Baía?»
Donald si chiede se
non lo stia prendendo in giro. Si volta e lo vede fumare distratto l’ennesimo
sigaro, come se la risposta non gli interessasse nemmeno. Chi lo sa, forse si è
completamente dimenticato di averglielo già chiesto una volta. Ringhia
letteralmente la risposta, «No, mai»,
rafforzandola col chiaro intento di snebbiargli le idee. Ma Joe
continua a sorridere e a mescolare le carte a mezz’aria come un prestigiatore e
gli rivolge solo uno sguardo rapido, un po’ divertito, e Donald deve proprio
domandarsi di nuovo se non lo stia
prendendo in giro.
«No? Be’, vacci allora.»
Donald riderebbe, se
fosse appena un po’ più bendisposto e appena un po’ meno suscettibile. Mi sa
che alla fine il pazzo non è Panchito.
Di buono c’è che non
pensa più a niente finché San Antonio non è in vista.
*
È proprio la notte del terzo giorno che Joe gli parla davvero,
anche se lui se ne accorge appena. Si sono fermati fuori città, abbastanza
vicini da sentirne la vita ma abbastanza lontani – crede Donald – da non
lasciarsene toccare, e Panchito ha aperto una delle
bottiglie comprate con non si sa bene quali pesos
e all’improvviso tutto è diventato colorato e informe. Donald ricorda solo di
essersi allontanato per svuotarsi la vescica quando si ritrova, ridacchiante e
confuso, appoggiato alla portiera con Panchito che
canticchia disteso sul sedile posteriore; l’apparizione di Joe
dall’ombra ha un che di innaturale e di mistico e ha il potere di scrollarlo
appena un po’.
«Giusto te, Jos – Jos – Joe.» Adesso che è praticamente ubriaco non dovrebbe
essere tanto difficile sputare, ma ancora una volta è il leggendario binomio ad
averla vinta. «Di’ un po’, c’è una cosa che voglio chiederti da quando ti ho – hic – raccolto per strada, e te lo
chiederò una volta sola perciò apri bene le orecchie, pappagallo che non sei
altro.»
Joe
si sistema il cravattino sul colletto immacolato, lo guarda attentamente, e
Donald si gode il momento perché l’alcool lo porta a livelli di coraggio che da
sobrio non raggiunge mai, e adesso può veramente chiedergli qualunque cosa e sa
già che non mostrerà alcun ritegno, anche se Joe
sembra reggere molto meglio di lui. Inspira. Il vento da nord-ovest mescola il
profumo del deserto agli odori della città.
«Che diavolo vuol dire
pato, eh?»
Joe
sorride. Non è il suo sorriso storto, questo è un sorriso vero, identico a
quello che lo illumina quando Panchito canta o strilla
o spara alle nuvole, e Donald si chiede onestamente quando accidenti ha notato
che il vero sorriso di Joe lo illumina e perché poi abbia registrato
un’informazione così superflua; lo sforzo è eccessivo, farsi domande e
attendere risposte non va d’accordo con l’avere l’umore alle stelle e il fuoco
nel sangue – all’improvviso si ritrova a terra, seduto contro la macchina, e Joe è al suo fianco perché è stato lui a sostenerlo e
adesso le sue mani sono tutte e due bene in vista, proprio su di lui, sulla
spalla, sulla guancia, tra i capelli, un po’ dappertutto in effetti.
Si rende conto di non
aver mai visto così da vicino le mani di Joe. L’ha
incontrato che si appollaiava sulla sua valigia consunta, stringendo il manico
di un ombrello nero, la sinistra alle prese con il primo di una serie infinita
di sigari. In seguito ha continuato a maneggiare tutta quella roba, valigia,
ombrello, sigari, carte, sigari, ombrello, carte, sigari, e non c’è stato
praticamente un contatto tra di loro – Panchito è
così diverso, bofonchia Donald a mezza voce, incurante di farsi sentire da Joe; Panchito ti salta addosso,
ti travolge, e anche quando non ti tocca te lo senti vicinissimo perché non sta
mai fermo, mentre Joe ride, sorride, fa domande
strane ma sembra sempre non essere lì. Forse è per questo che fa stranamente
piacere sentirsi sfiorare adesso dalla sua presa sicura ma buona, e Donald non
se lo aspettava, proprio no, ma chiude gli occhi e si abbandona e scivola nel
sonno dritto in grembo a Joe ed è solamente con gli
ultimi recessi di coscienza che lo sente parlare davvero.
«Ah, pato, patito. Non sei mai stato a Baía?»
Donald è troppo stanco
per sbuffare o per dargli ancora del pappagallo. Però le parole che lui si
china a sussurrargli le memorizza tutte, e al risveglio le ritrova lì, fulgidi
riflessi di una vita che somiglia terribilmente alla sua, così tanto da rendere
incerto chi sia stato a pronunciarle.
*
«Lo so, lo so. Adelante.»
Sempre adelante.
Il quarto giorno
Donald vorrebbe parlare con Joe, ma non sa proprio
cosa dirgli. Non gli va di raccontargli in cambio la sua storia perché ha
l’impressione che lui la sappia già. Magari è per questo che gliel’ha
raccontata, perché gliel’ha letta negli occhi – come Donald non è riuscito a
fare con lui. Lei lo diceva sempre
che la faccia di Donald è come un libro aperto. Non si sorprenderebbe se Joe gli dicesse che di lei – della sua lei – sa anche il nome. E poi cosa c’è da raccontare ancora,
cosa ci sarebbe da aggiungere? Il copione è quello, lui che fa debiti fino al
collo e lei che lo lascia e lui che parte e va lontano, lontano, lontano, nel
malsano quanto inutile tentativo di dimenticare lei e farsi dimenticare da
tutti gli altri. Persino Panchito ha vissuto qualcuno
di quei punti chiave. Ripercorrere il tutto non serve a nessuno di loro, a Joe meno che mai, visto che è così bravo da nasconderlo e
da tirarlo fuori solo quando vuole farlo.
Ma l’ha fatto, e questo qualcosa deve pur
contare.
Donald non ricorda
granché della scorsa notte. Si sforza di pensarci mentre adatta i postumi della
sbornia a una guida più prudente del solito, ma tutto ciò che balugina ai
margini della sua mente è il sorriso vero di Joe e la
sensazione di averlo toccato e di aver scoperto che le sue mani sono calde,
reali, non fuggevoli come le carte o le volute di fumo di quei suoi sigari ammorbanti.
Prima di quello c’è il vago ricordo del respiro di Panchito
che l’ha abbracciato forte mormorando qualcosa su un mágico sarape prima di crollare
definitivamente nella trecentotredici. Prima ancora,
dopo e durante, il buio.
Eppure è tornato tutto
alla normalità, se normalità si può definire quella cosa che li sta facendo
viaggiare insieme, tre sconosciuti che hanno qualcosina in comune ma tante più
differenze a dividerli – la patria, la lingua, tre modi diversi di rispondere
alla vita. Panchito canta e strilla e spara, Joe guarda fisso davanti a sé e Donald guida. Nota anche
che lui è l’unico che sembra aver più o meno risentito del vino, e questo lo
secca parecchio. E così, non fosse per l’ambiente che li circonda e le prime
sabbie del deserto che raddoppiano il calore del sole e del motore, sembra
quasi di essere tornati all’inizio.
Il quarto giorno
scorre tutto così, però Donald pensa un po’ meno al fatto di essere di nuovo
negli Stati Uniti, pensa un po’ di più all’avanti che Panchito
vuole esortarlo a raggiungere, si è costruito di Joe
un’idea che è molto più che una prima impressione e – soprattutto – finalmente
si è imposto un punto di arrivo. O, forse, di ripartenza.
*
L’ultima notte la temperatura cala a
picco. Sono nel deserto ormai, e un tacito accordo dice loro che è la volta
buona di tornare a fronteggiarsi in cerchio. Allora si fermano e accendono un
fuoco per tenere lontani i coyote, circolano ancora alcool e sigari e Donald si
lascia battere a poker da entrambi senza dare di matto e agitare i pugni in aria
neanche una volta, il che appare strano persino a loro che ancora non lo
conoscono a fondo. O magari sì.
Quando la luna è alta
nel cielo Panchito si stiracchia, gira attorno al
fuoco e si fa più vicino, e senza tanti complimenti si lascia cadere disteso
addosso a entrambi: Joe ridacchia sommesso, Donald
non si ritrae. Il Donald di qualche giorno fa l’avrebbe fatto. Quello di oggi e
di qui sorride insieme a Joe, sfila il sombrero a Panchito
per sfiorargli i capelli – dev’essere perché sono così rossi, così rossi, non aveva mai visto un rosso
così – e tira fuori dalla tasca un cellulare che non intende più tenere sepolto
nel lunotto.
Racimola abbastanza
coraggio per parlare, giusto perché ha bevuto e giusto perché è notte.
«Come si chiama?»
Joe
lo guarda e ci mette un’eternità di tempo a rispondere, la stessa eternità che
serve a Donald per prendere un’ultima drastica decisione.
«Rosinha,
pato.»
Donald annuisce. Poi preme
un pulsante e cancella il numero di Daisy.
Quando abbassa lo
sguardo, espirando con cura, al bagliore del fuoco il sorriso sereno di Panchito che dorme già gli sussurra di aver fatto la cosa
giusta.
«Joe,
com’è Baía?»
*
L’ultimo giorno sono sul Grand Canyon, al sorgere del sole, a vedere la prima aurora
dell’universo.
In piedi sulla parete
di roccia antica quanto il mondo, ciascuno all’ombra del proprio differente
cappello, sono tutti e tre diversi. Panchito tace, Joe sorride del suo sorriso vero, Donald non pensa a niente
– proprio come ha sempre voluto.
Quando la gola è tutta
illuminata d’oro, per una volta è lui il primo a voltarsi.
«C’è un posto che
voglio mostrarvi.»
Panchito
salta subito a bordo, Joe lo raggiunge più
lentamente. José. Si chiama José.
Prima o poi riuscirà pure a fare uno sputo abbastanza grosso da chiamarlo per
nome. Almeno questo glielo deve.
«¿Dónde vamos?»
Donald avvia il
motore. A conoscere la mia famiglia,
vorrebbe rispondere. Ma c’è un modo migliore per dirlo.
«Adelante.»
Il deserto
dell’Arizona echeggia di spari e di risa, mentre uno de los tres Caballeros torna indietro per
l’ennesima volta e gli altri lo seguono senza nulla chiedere, perché donde va el primero van siempre los otros: e la canzone di Panchito adesso suona quasi nuova, forse per via dei versi
che lui ha appena aggiunto in inglese, forse perché l’ultimo giorno è stato
davvero un punto di ripartenza.
Donald si appunta di
chiedergli che cosa significa ‘pato’.
Spazio dell’autrice
Ecco,
sì, ehm. Non lo so. Non so che mi è preso. So solo che quando ho scoperto che
esistono gijinka su I Tre Caballeros (questa in particolare ♥) ho dovuto trarne
ispirazione, e basta.
Quella
fanart – oltre a farmi perdere svariati anni di vita
e vergognare di me stessa per avere slashato tre
personaggi che sono praticamente le mie icone d’infanzia – mi ha fatto pensare
a un viaggio, e il viaggio mi ha fatto pensare a questa fic,
e questa fic è venuta stranissima e non so dire perché,
ma non avrei mai potuto renderla diversa. Di buono c’è che però sono riuscita a
infarcirla di riferimenti al film e ai personaggi originali, e se siete dei
grandi conoscitori vi sfido a trovarli tutti, duh.
Ci
sono anche un paio di mie aggiunte personali: ‘la prima aurora dell’universo’ è
un omaggio al film Paulie, il pappagallo che parlava troppo,
mentre il verso in inglese che Panchito alla fine
aggiunge alla sua canzone vuole essere quel The
Three Caballeros Ride Again che compare nella fanart succitata e che dà anche il titolo a questa roba.
Devo
confessare di non aver dipanato le mie idee nel modo che mi ero prestabilita.
Il mio José è un po’ troppo malinconico e/o ambiguo rispetto all’originale,
però il contesto lo richiedeva: stando ai fumetti che lo vedono protagonista,
la sua situazione economica e sentimentale è analoga a quella di Donald Duck, ma io penso che nell’ipotesi di un abbandono da parte
di Rosinha – nonché fuga dai creditori – lui
reagirebbe così, facendo il vaaago, piuttosto che
infuriandosi con il mondo come l’altro è abituato a fare. Eppure sono convinta
che avrei dovuto renderlo un po’ più ciarliero D: Inoltre, benché questa volesse
essere una threesome, temo che la mia preferenza per
il José/Donald si noti molto, ma questo è per colpa di certe pagine di tumblr che mi hanno plagiata, d’oh XD
Un’altra
cosa: riguardo il susseguirsi dei cinque giorni – lo so, è impossibile passare
da Città del Messico al Grand Canyon in così poco
tempo (anche se come Donald non ti curi affatto dei limiti di velocità), ma
consideratela come una sequenza di momenti:
non sono cinque giorni (e notti) cronologici, ma cinque giorni (e notti)
importanti per il viaggio interiore di Donald e forse di tutti e tre.
Cosa
aggiungere... Niente, dai. Mi auguro di non avervi appena rovinato l’infanzia. In
tal caso imploro il vostro perdono ;_;
Aya ~