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Autore: kazuha89    08/09/2012    4 recensioni
come è successo? non ricordo nulla..come è potuto accadere, senza che me ne accorgessi? come sono passati, in una sola notte..10 anni?!
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sognare per me non era mai stato un problema. Anzi, probabilmente era la cosa che mi veniva meglio..beh dopo il mio lavoro, si intende. Mai avuto un incubo in vita mia, mai.
Mia madre spesso si era chiesta come mi fosse ancora possibile, dopo tutto quello che in vita mi era capitato di vedere. Beh, domanda azzeccata, per quello. Normalmente, ai bambini piccoli non si dovrebbe mostrare niente di brutto o sconvolgente, altrimenti poi avrebbero delle ripercussioni o dei turbamenti. Anche i film, spesso e volentieri, mettono nelle fragili teste infantili idee o fissazioni sbagliate, ed è per questo che alcuni di essi sono vietati ad un pubblico troppo giovane. Giustissimo, niente da dire, però io a modesto parer mio, non mi sono mai sentito mentalmente influenzabile o..beh, innocente. Infatti, mentre intorno a me i miei compagni di scuola trasalivano davanti a una cruenta immagine da film horror, io o mi annoiavo a morte, oppure mi mettevo a disfare l’opera del regista, spiegando nel dettaglio come era possibile la scena in questione. Però quando lo facevo, puntualmente mi ritrovavo pungolato vivo dalle decine di occhietti malvagi dei miei compagni a cui, a loro parere, stavo rovinando il film, per cui nella maggior parte dei casi mi limitavo alla prima opzione: la noia.
La cosa mi urtava molto, devo dire. Non facevo niente di male, in fondo. Anzi, reputavo istruttivo per le menti innocenti dei miei compagni impauriti spiegare che il sangue che usciva allegramente dal collo mozzato della fanciulla di turno, era in realtà tintura rossa commestibile inserita in un dispositivo mimetizzato col trucco di scena attorno al collo della malcapitata, che veniva azionato dal vampiro un attimo prima di piantare i canini che, fingendo di ammirare il color sangue della pietra, premeva il pulsante di innesco a forma di rubino nel cameo appuntato sullo scollo del vestito della sua vittima. Una scenetta alquanto banale, a mio credo, ma molto interessante, se spiegata nel dettaglio. Non vedo proprio il motivo per mettermi ogni volta nel corridoio per il resto della durata del film..
Alla lunga, imparai a non condividere il mio sapere con chi non lo sapeva apprezzare, e mi dedicai anima e corpo al suo accrescimento. Mia madre e i miei insegnanti erano alquanto intimoriti da questa mia decisione, ripetendo ogni due per tre che stavo diventando un misantropo, che stavo escludendo il mondo dalla mia vita, ma la cosa non mi toccava: perché avrei dovuto coesistere con persone incapaci di capirmi e che io stesso ero incapace di capire? Al diavolo, dico io..esisteva eccome, un rapporto, secondo me: un rapporto di reciproco disprezzo e incomprensione.
L’unica stella in quel cielo buio di ottusità, era mio padre. Lui non diceva mai niente, quando mia madre si prolificava nei suoi eterni discorsi sull’esistenza da granchio eremita che mi stavo costruendo. Lui la lasciava sfogare, la calmava, le dava la sua tisana al tiglio e bergamotto, la ficcava sotto le coperte e, quando eravamo a quattr’occhi, mi caricava sulle ginocchia, mi abbracciava forte e col naso posato contro il mio mi diceva: Amore mio, lascia che tutti parlino quanto credono, di te. Rimarrà sempre qualcosa di non detto. Tu sei splendido esattamente come sei, secondo me. Ci vorrà molto tempo, temo, ma presto anche il mondo, lo capirà..
Lascia che parlino. Rimarrà sempre qualcosa di non detto..mio padre me lo diceva sempre, ed è una frase che ho imparato a tenere a mo’ di motto. La gente su un bambino con una mente come la mia avrebbe sempre trovato modo di mettere bocca, ma grazie a mio padre e alle sue parole, io trovai il modo di fregarmene. Col tempo, poi, come mio padre aveva previsto, il mio amato talento finalmente vide la luce che meritava. Scoprì infatti un posto dove le mie spiccate capacità intuitive, la mia insolita arguzia e il mio inusuale sangue freddo sarebbero state accolte a braccia spalancate: la polizia. A essere onesti, sin dai primi incespicati passi verso il mondo, la mia vita era stata sempre un po inclinata verso quella direzione. La mia passione per i gialli e i polizieschi era risaputa, e non c’era giorno in cui non nominassi quella che, ai miei occhi, era la mia figura di riferimento e la fonte di maggior ispirazione dopo mio padre: Sherlock Holmes.
Però avevo sempre creduto che diventare come il famigerato detective di tweed vestito fosse solo un utopia, un mito. Immaginate invece il mio stupore quando un ispettore di polizia amico dei miei genitori, mi vide all’opera e, presomi in simpatia, decise di prendermi sotto la sua ala protettrice. Toccare il cielo con un dito era ancora poco, ai miei occhi.
L’ispettore Megure fu una mano santa nel vero senso della parola. Lui e sua moglie non avevano avuto eredi e, immagino vendendo in me il figlio che non aveva avuto, mi trattava come se fossi sangue del suo sangue. Ogni volta che aveva un caso per le mani, mi portava con se per, parole sue, farmi le ossa sul campo. Era natale ogni volta. Il quell’ambiente, io ero nel mio habitat naturale. Mi veniva spontaneo osservare il luogo del misfatto in questione scovando celati qua e la, indizi che anche ai più esperti sfuggivano. Mi riusciva naturale spiegare le dinamiche di eventi solo osservandone il luogo d’origine e, infine, mi dava una sensazione favolosa smascherare davanti agli sguardi dei poliziotti attoniti i colpevoli, fornendo tutte le prove e incastrandoli in maniera incontrovertibile. Ah, era una droga per me, quel tipo di sensazione, ne ero assuefatto. Capivo meglio anche il mio eroe Holmes, quando estasiato scopriva la prova schiacciante e accusava il colpevole, e quando invece mantecava nell’agonia nei momenti in cui non aveva lavoro e doveva suo malgrado lasciare il suo eccezionale cervello a risposo forzato. Odiavo quando capitava a me. Nei periodi in cui c’era magra al distretto, io vagavo come un anima in pena per i corridoi di casa mia alla ricerca di cibo per la mia mente ingorda e affamata. Sfogliavo febbrile la vasta collezione di libri gialli di mio padre nel disperato tentativo di placare la mia smania di lavoro, ma invano: il brivido non era lo stesso, se era già scritto cosa fare.
Fortunatamente per me, al mondo la pace ha sempre vita cortissima, e i miei periodi bui non duravano mai più di un paio di settimane. Se ci penso adesso, mi ritrovo sgomento davanti alla mia stupidità. Avrei dovuto godere di quei brevi intervalli di pace, non sputarci sopra. Avrei dovuto approfittare di quei momenti per dedicarli ai miei affetti che, per colpa del mio lavoro, trascuravo alquanto.
I mie genitori, i mie amici..ma più di tutti lei, Ran.
Che male fa, ora come ora, ripercorrere quei momenti. Fa l’effetto della lingua che batte sul dente cariato. Pensare a tutti i momenti che avevo sprecato, alle occasioni che avevo sciupato..e solo perché? Perché ero ingenuamente convinto che ne sarebbero arrivate altre. Perché ero ingenuamente convinto di avere una vita davanti, per fare tutto. Perché ero ingenuamente convinto che niente mi potesse mai capitare, dato che ero sempre un passo avanti ai cattivi..
Si, sempre un passo avanti. Anche quella notte, ero sicuro di essere un passo avanti a loro. E lo ero, infatti. I cattivi, quella maledetta notte, erano giusto un passo dietro di me, e fu proprio questa la mia più grande rovina..
Sognare..meno male che non mi è mai riuscito difficile farlo, visto che, ora come ora, a volte penso sia la sola cosa che mi rimane. Sognare..
Sognare quelle giornate prive di pensieri, quei giorni in cui l’unica cosa che mi importava era vedere se la mia foto sul giornale era abbastanza bella e grande, i pomeriggi spensierati a farmi rincorrere da Ran sotto la pioggia perché dividessi con lei il suo ombrello,i risvegli la mattina a suon di botti provenienti da casa del Doc..sognare la mia vecchia vita, il mio vecchio io..
Sognare..dio solo sa cosa pagherei perché tutto questo non fosse altro che un sogno. Che darei per svegliarmi domani mattina, e stirandomi vedere le mie braccia lunghe e le mie mani grandi. Che darei per correre in bagno e vedere nello specchio il mio viso adulti imperlato di sudore e col respiro corto, mormorare: oddio..era solo un sogno..ho di nuovo la mia vita!
Ma non accadrà. So che non accadrà. I sogni indorano la pillola fino ad un certo punto, poi lo zucchero dell’illusione si leva e ti devi sorbire il retrogusto amaro della realtà. E la mia realtà è che, tra un minuto, la mia sveglia suonerà, e stirandomi rivedrò come sempre le mie piccole mani e le mie corte braccia, e nello specchio il visetto di bambino assonnato di Conan..
Sognare..mi chiedo se ne valga la pena, in fondo..
La sveglia, puntualissima come sempre, mi riscosse da quei pensieri deprimenti. Beh, meno male, pensai. Altri dieci minuti, e sarei andato in depressione.
“Su, poche lagne, la vita va avanti..da bestia, ma va avanti..” mormorai a me stesso. La luce filtrava in tanti fili lucenti attraverso le tende tirate, tenue e biancastra. L’alba, di fuori, non era ancora matura, ma mi ero abituato da tempo a svegliarmi prima di tutti. Per lo meno, evitavo di imbattermi nella grottesca figura di Goro prima mattina post- sbronza. Uno spettacolo non adatto ai deboli di stomaco..
Ancora assonnato e vagamente mogio da tutto quel pappone di pensieri lugubri, mi misi seduto sul letto, e mi stirai. E la mia mano sbatté contro la finestra, dolorosamente.
“Ahia..” mormorai, massaggiando le nocche. “Cavolo, che botta, fortuna che non ho rotto il vetro..ehi, ma un attimo..”
Mi ero bloccato con il mio pungo pulsante in mano. Lo sentivo strano..
Pian piano, lo tesi, e articolai le dita. Che sensazione insolita. Sembravano incastrate in qualcosa..qualcosa di lungo e sottile appeso alle punte delle dita..come dei tubicini.
“Ma..ma che diavolo ho alle dita?” dissi piano, e ne afferrai le estremità per levarmeli. Avvertì un tuffo allo stomaco: non erano dei tubi, quelli che sentivo..erano le mie dita!
Ma erano troppo strane, per esserlo. Erano sottili..lunghe..
Nel buio, tesi una mano verso la finestra, deciso ad aprirla per fare entrare la luce. La sensazione si ripeté: anche le mie braccia, sembravano diverse. Sembravano..dei rami attaccati alle mie spalle!
Presi piato, e afferrai il gancetto per aprire la finestra, ma prima di riuscire a girarlo, da dietro la porta della mia camera,avvertì un leggero bussare.
“Conan, amore, sei già sveglio? Dai che stamattina mi devi aiutare con le commissioni, me lo avevi promesso, sennò non ce la faccio!”
Era Ran. Però la sua voce aveva un che di strano. Forse era per via della porta chiusa.
“Ah..si, Ran, sono sveglio!”
Nel dirlo, mi portai una mano alla bocca, allarmato. La mia voce..la mia voce era diversa! Non era la solita vocina acuta da bambino. Era grave, matura..adulta!
Piombai con veemenza verso il balconcino della finestra, girai il gancetto e la spalancai. La luce entrò con l’intensità di un faro antinebbia nella stanza e nei miei occhi abituati all’oscurità, accecandomi. Quando, poi, finalmente mi ci abituai, con un po di incertezza tesi le braccia davanti a me. Mi sentì venire meno.
Le mie braccia..le mie mani..erano lunghe!
Passai le mani sul resto del mio corpo, stordito e incredulo. Si, non esisteva margine di errore: il mio corpo..era tornato grande!
“Oh dio..ma come diavolo..come diavolo ho fatto?” mormorai sconnesso. D’istinto, mi portai, una mano alla fronte. Niente febbre, ero fresco. Ma allora come..
“Conan! Dai, per piacere, mi fai fare tardi!”
Di nuovo ran da dietro la porta, mi chiamava. Mi venne un colpo. Non doveva vedermi, cosi!
“Ah..ecco..”
Mi morsi la lingua. Non potevo usare la mia voce, mi avrebbe beccato. Tossì e con tono acuto risposi: “Arrivo, Ran!”
“Beh, e ora perché hai quella voce? Oh, non mi dire che ti sei preso un’altra volta il raffreddore! Entro..”
“NO!” urlai. Se mi vedeva..che cosa mi sarei inventato, se mi vedeva?
“Oh piantala, ti conosco a memoria..” rispose lei ridendo, e aprì la porta.
La finestra era aperta, la luce entrava copiosa. Non potevo fare niente, ero in trappola. La guardai stagliata sulla soglia, senza sapere cosa dire o fare. Lei entrò, posò una pila di asciugamani sulla mia scrivania e si avvicinò al mio letto, circospetta. Lo sapeva il cielo cosa le stesse passando per la testa, in quel momento..
“Ran..” mormorai, colpevole. “Ascolta, so che non è facile, ma..”
Ma lei mi interruppe, e mi posò una mano sulla fronte.
“No, niente febbre, per fortuna. Su, apri la bocca..”
Confuso, obbedì. Perché? Perché era rimasta così indifferente? Non poteva esserlo davvero. Insomma, chi lo rimarrebbe mettendo a letto un bambino di sette anni e svegliandolo la mattina dopo invecchiato di dieci?
“Mh..no, le tonsille non sono gonfie, per quello..ti senti qualche dolore?”
Io denegai, allibito.
Lei sorrise.
“Ah meno male, allora. Probabile che fossi solo un po rauco per il sonno! Su, alzati adesso! Se oggi non mi dai una mano, sono perduta, lo sai.”
Detto questo, apri il mio armadio, e mi lanciò senza tante cerimonie un paio di pantaloni scuri e una camicia azzurrino chiaro, per poi uscire, diretta in cucina.
Io ero senza parole. Ma che stava succedendo? Perché si comportava come se fosse normale che Conan avesse quell’aspetto?
Mi misi i vestiti che mi aveva dato. Poi, prendendo bene fiato, presi il farfallino dal comò e mi diressi verso lo specchio dentro l’armadio, per sistemarlo. Mi prese un colpo.
Ero io. Non potevo sbagliarmi. Ero tornato davvero ad essere Shinichi Kudo.
Passai le dita tremanti su ogni centimetro del mio viso e del mio corpo, in presa alla confusione più totale. Come era successo? Non avevo sentito dolore, non avevo la febbre, non mi sentivo stanco. Eppure mi ero trasformato, ero tornato normale..
Ran rientrò in camera.
“Gli asciugamani..” disse, ridendo. “Uh..magari metti quelli blu, di pantaloni, che questi sono troppo pensanti. Ma..Conan, che fai con quel coso?
Ridendo, mi tolse il farfallino dalle mai, e lo rimise sul comò.
“Non lo porti da un secolo, che ti viene in mente? Dai, muoviti, il caffè è pronto!”
Uscendo, la senti apostrofare suo padre sull’ora, e sentì il vecchio Goro grugnire. Tutto normale, a pensarci bene. Lei che mi sveglia la mattina, mi prepara i vestiti, mi fa il caffè e sveglia suo padre, che le grugnisce dietro. Si, tutto normale..se non fosse che il mio corpo è adulto e lei mi chiama ancora Conan!
Ero decisamente nervoso. C’era qualcosa di sbagliato in tutta quella situazione. Io..io ero Shinichi! Perché, però, lei mi chiamava Conan?
Che le era successo? Cosa le avevano fatto?
“Goro..” mormorai. “Goro..”
Si, il vecchio Goro era la persona che mi serviva. Lui odiava Shinichi, e se ero davvero io lo avrei visto scritto sulla sua faccia. E poi sicuramente lui sapeva perché sua figlia mi chiamava Conan..
“Goro!” lo chiamai, camminando veloce per la casa. “Goro!”
“Che ti strilli? sono qui..” sentì rispondere. Veniva dal salotto. Correndo, lo raggiunsi. Trovai Goro seduto sul divano, una tazza di caffè in mano, la sigaretta tra i denti  e il giornale.
“Goro..Goro, guardami, per favore..”
Lui posò il giornale sul tavolino, e si voltò a guardarmi. Nel secondo in cui incrociammo gli sguardi, provai una sensazione insolita. Goro..sembrava diverso. Il suo viso, era diverso. Era sempre lui ovviamente, coi suoi baffetti, i capelli impomatati, l’odore di fumo e l’aria di uno che ha decisamente esagerato la sera prima..ma sembrava in qualche modo sciupato. Sembrava..vecchio.
“Beh? Che dovrei vedere, sentiamo..” borbottò.
Io deglutì.
“Non vedi..niente di strano?” gli chiesi.
Lui inarcò un sopracciglio.
“No..ah, Aspetta..”
Mi fece cenno di avvicinarmi. Io scavalcai il divano e gli sedetti accanto. Lui, posò la tazza di caffè, e mi fissò intensamente, fregandomi un dito sul viso. Poi sbottò, e mi mandò in faccia una nuvola di acre fumo puzzolente.
“No..no, falso allarme, sei il solito bamboccio..” grugnì, spiegazzando le pagine del giornale per aprirlo meglio.
“Perché, che credevi di aver visto?” gli chiesi.
“Barba..” rimbeccò distratto dalla pagina delle corse. “Mi sembrava di vederne un po su quelle tue guancette da lattante..perchè, tu che volevi farmi vedere, Conan?”
Ero ufficialmente nel pallone. Ma che accidenti era successo a tutti? Era uno scherzo, forse? Mi avevano visto trasformarmi, e ora cercavano di farmela pagare con questo assurdo comportamento di indifferenza? O forse..mi avevano visto trasformarmi e si comportavano con nonchalance per evitarmi dolorose spiegazioni? No, erano teorie assurde. Nessuno sano di mente, lo farebbe. E poi, pure che fosse..perchè se avevano capito o visto tutto, mi chiamavano ancora tutti Conan?
“Ma..ma non lo vedi, accidenti? Sono grande! Sono diventato un adulto!”
Lui rise.
“Un adulto? Ma se puzzi ancora di latte, fammi il favore..”
“Oh, non capisci un cavolo..” ringhiai. “Sono diventato grande..sono diventato Shinichi!”
Lui si voltò mesto verso di me, e mi afferrò per il bavero. Era livido di rabbia.
“No..” ringhiò, irato. “Tu non sei diventato come quell’avanzo di galera, chiaro? Io ti ho cresciuto in maniera esemplare, con molto più sale in zucca e molto più sentimento. Me ne frego se gli somigli..tu non sarai mai come lui..”
“Papà, piantala, per piacere, lo sai che così fai peggio..”
Ran era entrata in salotto. Goro mi lasciò andare.
“No, cara, lo correggo prima che devi. Non permetterò a Conan di diventare come quel disgraziato..”
“Smettila con quei termini. Non mi va che li usi..”
“Io non smetterò mai di sparlare di quell’elemento, lo sai..”
“Tutta invidia..”
Una voce acuta ma saccente era venuta dalla cucina. Io mi voltai. Chi era?
“Che hai detto?” ringhiò Goro.
“Niente, parlavo coi biscotti..” rimbeccò la voce.
“Ah, ecco..Ah, venendo di qua, portane un po anche al nonno!” disse Goro, ridendo soddisfatto.
“Si, si..” rispose la voce. Un attimo dopo, fece ingresso nel salotto la cosa più scioccante mai vista in vita mia. Lì, in carne e ossa, con indosso un maglioncino color panna, armato di biscotti al forma di animali al cioccolato e con un paio di occhiali identici ai miei, stava niente meno che..Conan.
“Ah, grazie, tesoro mio! E non le dire più quelle cattiverie al nonno, ok?” disse Goro pizzicandogli una guancia. Conan, o meglio il suo clone, lo guardò con aria di sufficienza.
“Cattiverie?” disse, afono.
“Eh si! Vedi, il nonno non ha invidia di nessuno, perché nessuno è meglio del nonno, chiaro?”
Conan lo guardò per un paio di secondi. Poi fece una specie di sorriso.
“Oh, certo, chiaro..” rispose.
Goro gli fece un buffetto, e il bambino gli mollò in grembo i biscotti, per poi girare i tacchi e dirigersi verso il bagno. Passando, mi fece cenno di seguirlo. Riluttante e stordito, lo seguì.
“Ignoralo..” disse, prendendo il suo spazzolino. “Parla perché ha la bocca, ma lo sa meglio di me e te messi insieme chi lo ha mantenuto in questi anni..”
“Certo..” risposi, senza smettere di fissarlo. Era la cosa più assurda del mondo, tutto quello che mi stava succedendo. Chi era questo bambino? È perché aveva l’aspetto di Conan? E io..perchè ero adulto e venivo chiamato Conan?
“Scusami, non volevo sbottare, ma a volte non riesco a darmi un freno. Ceto che però anche tu, dire che sei Shinichi..sei diventato scemo, per caso, fratellone? Lo sai che quando Goro è nei paraggi, quel nome suona come una bestemmia..”
“No..si,scusa, io..come mi hai chiamato?!”
Il bambino si voltò a guardarmi.
“Fratellone, come dovrei chiamarti, altrimenti?Oh cielo, mi chiedo che ti prenda stamattina. Prima rompi al nonno dicendo che sei Shinichi, e ora mi chiedi come ti chiamo. Beh, poco importa, adesso dobbiamo andare. Lo zio e Ellery arrivano tra poco..”
Sputò nel lavandino il dentifricio che aveva in bocca, si diede una rapida sistemata e usci quatto quatto dalla stanza. Poi, facendomi l’occhiolino, mormorò fingendo di urlare verso il salotto:
“Critica quanto ti pare, vecchia spugna! Tanto, caro il mio nonnino, neanche in cento anni riuscirai mai a eguagliare Shinichi Kudo!”
“Arthur..”
Ran era arrivata in silenzio alle spalle del bambino.
“Ah..ciano,non ti avevo vista..”
Ran si chinò verso di lui.
“Non chiamare il nonno in quella maniera, per favore..” disse Ran, ma trattenendo un sorriso.
“Papà lo fa!” sbottò lui. “E anche il fratellone!”
Ran mi guardò con aria di rimprovero.
“Lo so..” rispose. “ma loro sono grandi, tu sei piccino, devi portare rispetto..”
“Lui non lo fa..Insiste nel dire che Shinichi è questo, Shinichi è quello. Non mi va! Odio quando parla così..”
Ran lo strinse a sé.
“Anche a me non piace, ma lo sai che il nonno è arrabbiato con lui perché è sempre lontano. Però l’importante è che io te, lo zio e tutti gli altri gli vogliamo bene. Ok, amore?”
Il piccolo parve riflettere, poi annui.
“Bravo. Ti voglio bene, tesoro..e anche papà te ne vuole.”
“Anche io ve ne voglio..”
Ran sorrise dolcemente e lo lasciò finire di lavarsi. Io,dal canto mio,non avevo una sola goccia di saliva in bocca. Forse avevo capito..ma non potevo crederci.
“Uff, quella donna è una santa. Sempre a mettere pezze su tutto..dai, muoviti, che è tardi..” e fece per uscire dal bagno.
“Arthur..” mormorai. Lui si fermò.
“Dimmi.”
“Shinichi..tu gli vuoi tanto bene, vero?
Arthur rise.
“Beh direi..”
“E..vuoi bene anche a Ran, vero?”
Arthur mi guardo confuso.
“E perché non dovrei..sono i miei genitori, in fondo, no?”
 
 
 
 
 
 
 
  
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