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Autore: margheritanikolaevna    11/09/2012    3 recensioni
Confesso che l’11 settembre mi sconvolse: prima tragedia globale del nuovo millennio, cambiò in modo irreversibile le nostre idee di libertà, sicurezza e democrazia.
Forse per questo amo CSI NY, che si scelse di ambientare lì proprio per aiutare la rinascita della città e in cui l’11 settembre è in qualche modo anch’esso un personaggio, a volte sullo sfondo, a volte invece protagonista.
Ho cercato di raccontarlo secondo prospettive temporali diverse (subito prima, subito dopo, dieci anni dopo) e adesso, che sono passati undici anni e in me rimane ancora inalterato il terrificante sbalordimento di quel pomeriggio, ho voluto ricordarlo con una storia che non ne condivide né lo spazio né il tempo, ma unicamente il cuore più nero.
Grazie in anticipo a chi leggerà.
Prima classificata al contest "War Tales: racconti dal fronte", indetto da Filira su efp ma giudicato da My Pride
Questo è il link al contest:http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10230276
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mac Taylor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Prompt: deserto, sofferenza;

Personaggi: Mac Taylor, altri minori di cui taluni realmente esistiti;

Rating: arancione;

Genere: drammatico;

Disclaimer: Questi personaggi non appartengono a me, bensì alla CBS Broadcasting Inc. che ne detiene tutti i diritti. Questa storia non è stata scritta a fini di lucro.
 
Avvertimenti: non sono sicura se sia un missing moment o un what if?, contenuti forti;
 
Il racconto è stato scritto per il contest “War tales-racconti dal fronte”, indetto da Filira su efp e adesso affidato a MyPride come giudice sostitutivo.
 
Introduzione: La storia si inserisce nel periodo che il personaggio di Mac Taylor trascorse presso i marines e in specie nel corso della missione di pace in Libano nel 1982-83. Si tratta di una fase della sua vita di cui non viene raccontato praticamente niente; ne abbiamo notizia solo attraverso un paio di flashback, sui quali mi sono basata per costruire la trama che, per altri versi, tenta di rispettare la verità storica degli accadimenti, per come ricostruita.
In particolare, nell’episodio finale della seconda stagione (La sentinella) apprendiamo che il giovane Mac era rimasto coinvolto nell’attentato kamikaze che il 23 ottobre 1983 devastò la caserma dei marines a Beirut, uccidendo 220 marines, 18 marinai e 3 soldati e ferendone gravemente altre decine. La scena finale è ispirata appunto a quella mostrata fugacemente nel telefilm (che magari, se ne hai la possibilità, di consiglio di rivedere) in cui si vede Mac che, a sua volta ferito, soccorre il collega Whitney, il quale muore dopo poco tra le sue braccia.
 
 
A coloro che non hanno avuto sepoltura, a coloro che non hanno nemmeno un nome.
 
Lui sorrideva
 
Capitolo primo.
Deserto
 
Libano-Valle della Bekaa,  22 ottobre 1983 ore 16.00.
Nel pomeriggio del 22 ottobre 1983, sotto un sole luminoso e ancora cocente, la pattuglia della ventiquattresima unità anfibia dei marines degli Stati Uniti comandata dal secondo tenente Mac Taylor avanzava lungo il nastro d’asfalto srotolato sul fondo della grande valle della Bekaa, appena a sud del confine con la Siria.
Il convoglio, composto da due jeep, aveva scortato una delegazione di diplomatici delle Nazioni Unite nella città di Hermel e adesso tornava verso Beirut, dove si trovava la base della missione internazionale di peacekeeping denominata M.N.F., schierata per difendere i civili e i profughi palestinesi dagli attacchi dell’esercito israeliano, che aveva cinto d’assedio la capitale libanese nel tentativo di sconfiggere una volta per tutte l’O.L.P. di Yasser Arafat.
Una campagna dura, pericolosa e difficile, che il tenente e i suoi commilitoni avevano fino ad allora trascorso tra la fatica, le veglie, il caldo insopportabile dell’autunno mediorientale (che in particolare lui, abituato agli inverni gelidi e alle estati miti di Chicago, stentava davvero a sopportare) e la noia, spezzata solo dalle notizie tragiche che a volte riguardavano taluni dei loro compagni, feriti o caduti in combattimento.
Due uomini, seduti sul fondo delle vetture scoperte, proteggevano le spalle   al gruppo imbracciando i fucili mentre il graduato, in piedi accanto al guidatore, si guardava intorno per scorgere eventuali pericoli; avanzavano veloci in mezzo alla sabbia e alle pietre, quasi senza rumore, seguendo il percorso rettilineo della strada che tagliava in due la valle desertica.
Il vento soffiava incessante: l’alito del deserto, ardente di giorno e gelido di notte, che sollevava la sabbia e sferzava il volto degli uomini, costretti a cercare di ripararsi calcandosi di più il berretto della divisa sugli occhi.
Il vento che tagliava la pelle, riempiva loro gli occhi e il naso di sabbia finissima color ocra e asciugava il sudore che scorreva lentamente sul viso, le guance, le braccia dei soldati.
Il vento che faceva sanguinare le labbra e impastava la gola per l’arsura, che stordiva la mente e intorpidiva le membra.
Il vento che portava via i rumori e gli odori tutto disseccando, spaccando, levigando: vento carico di particelle di luce nelle giornate torride, quando il sole brucia in mezzo al cielo corrusco, vento di ghiaccio nella notte del deserto, trapunta di stelle immobili.
Il sole era ancora alto nel cielo nudo e intorno agli uomini stranieri, a perdita d’occhio, si stendevano solo le creste mobili delle dune, le pianure di rocce taglienti calcinate dal sole, i crepacci in cui stenti crescevano pochi arbusti, le strisce di sabbia rossastra che riverberavano la luce tingendola di riflessi accecanti; il cielo lì non aveva confini, si stendeva infinito e vuoto, di un azzurro talmente vivo da far male agli occhi.
Solo verso l’orizzonte s’innalzavano le cime arrotondate dell’Anti-Libano, coperte di neve che scintillava al sole, mentre in lontananza i vapori ondeggianti che si levavano dalle sabbie millenarie, la luce e le ombre creavano miraggi sospesi tra terra e cielo: città bianche, carovane di uomini e animali, forme fantastiche e sogni ingannevoli.
La valle si apriva in lunghezza sopra un vasto altopiano sabbioso e la scabra estensione di terra spoglia non sembrava poter offrire nascondigli adatti a chi volesse tendere un agguato ai militari, ma Taylor e i suoi non ignoravano come abili nemici, abituati a vivere in quei luoghi a loro invece estranei, ben potessero celarsi dietro le rocce e attaccarli all’improvviso cogliendoli di sorpresa.
Occorreva stare in guardia, quindi, e vigilare per la salvezza propria e dei compagni.  
All’improvviso, dal fondo del deserto vertiginoso sbucarono due sagome scure: apparvero da dietro una cunetta come in un sogno, in silenzio, seminascoste dalla sabbia che i loro piedi sollevavano camminando. Avanzavano piano, senza guardare dove andavano, avvolte in pesanti mantelli scuri nonostante il caldo soffocante.
Mac fece segno ai due autisti di rallentare la marcia e istintivamente tutti i soldati strinsero le dita sull’arma di ordinanza, i nervi tesi fino allo spasmo e il cuore che martellava di colpo più forte in mezzo al petto: poteva trattarsi di una trappola o di kamikaze che, servendosi di una scusa, tentavano di avvicinarsi a loro per poi farsi saltare in aria.
Martiri della fede, shaid, kamikaze: molti nomi per designare un solo, folle, proposito di vendetta. Durante i mesi passati nella terra biblica del latte e del miele Mac e i suoi avevano imparato a conoscere questi fanatici messaggeri di morte, spesso all’apparenza del tutto inoffensivi.
Quando furono abbastanza vicini, si accorsero però che si trattava di due donne, abbigliate con il tradizionale chador e con il capo coperto da uno spesso gutra nero che lasciava libero solo il viso impolverato e rigato di lacrime; l’una, più giovane, sosteneva l’altra che pareva sofferente e faticava a  reggersi in piedi. In verità tutte e due avevano l’aria di essere allo stremo e di stare avanzando solo grazie alla forza di volontà.  
Il tenente Taylor non ignorava il rischio che poteva celarsi dietro quell’incontro all’apparenza casuale, ma il suo istinto gli suggeriva che quelle donne non rappresentavano un pericolo per lui e la sua squadra e che, anzi, avevano assolutamente bisogno del loro aiuto.
Impartì perciò l’ordine di fermare le auto e scese con un balzo, fece alcuni passi verso le due donne e si arrestò a quattro-cinque metri da loro; a quel punto la più giovane - forse nemmeno venti anni e profondi occhi neri, simili a gocce di metallo fuso - con gentilezza fece sedere l’altra, che non riusciva a tenersi su da sola, per terra sul ciglio della strada e poi si avvicinò a sua volta al militare.
Mac adesso ne distingueva il volto dai lineamenti fieri, la pelle ambrata e lo sguardo deciso: il tenente provò a chiederle in inglese chi fossero e cosa facessero a piedi in mezzo al deserto, ma lei gli rivolse un’occhiata interrogativa - segno che non aveva capito - e non rispose. L’uomo ritentò allora utilizzando le sue scarsissime conoscenze di francese, lingua che aveva appena imparato a masticare e con la quale, di solito, riusciva a farsi intendere dai libanesi: niente da fare neppure così.
A quel punto il soldato fece un cenno al caporale Stan Whitney (1) che, avendo la madre di origine tunisina, parlava un po’ di arabo; il ragazzo, bruno e grassoccio, smontò a sua volta dalla jeep e rivolse le medesime domande alla ragazza, che finalmente annuì e iniziò a raccontare la sua storia (2).
Si chiamava Shirin Ascari e lei e sua madre stavano viaggiando verso l’interno del paese per raggiungere il resto della famiglia insieme ad altri parenti quando, presso il confine, erano stati attaccati da una banda di predoni. Avevano tentato di difendersi, ma non erano preparati e avevano avuto la peggio quasi subito: i malviventi avevano ucciso immediatamente gli uomini e tentato di portare via le donne del gruppo ma loro due, approfittando della confusione, erano riuscite a scappare inoltrandosi nel deserto. Camminavano dalla sera precedente senza bere né mangiare e soprattutto senza sapere dove andare, stordite dalla violenza e dal sangue che avevano visto versato, sole e perdute nel deserto. La loro meta si chiamava Btid’i, aggiunse, e le era stato detto che si trovava a pochi chilometri da Baalbek.
Whitney traduceva al graduato non senza difficoltà, dato che la giovane parlava velocemente e con un accento differente rispetto ai cittadini di Beirut con i quali lui aveva avuto già qualche contatto nei mesi precedenti; quando la ragazza terminò, i due uomini si avvicinarono alla jeep per decidere il da farsi.
Il tenente era dubbioso: accompagnarle a Baalbek avrebbe comportato una notevole deviazione rispetto al percorso stabilito e, come se non bastasse, li avrebbe condotti in una zona nella quale forte era la presenza degli Hezbollah filoiraniani, circostanza questa che per loro costituiva un indiscutibile pericolo. Come avrebbe potuto dimenticare, infatti, ciò che solo pochi mesi prima era avvenuto all’ambasciata del suo paese (3)? Le esplosioni, i morti americani, il terrore: c’era lì chi li considerava degli invasori, li odiava ferocemente e avrebbe fatto di tutto per costringerli ad andarsene.
Eppure non ignorava nemmeno che se le avessero lasciate nel deserto, anche cedendo loro un po’ di acqua e viveri, non sarebbero andate lontano: soprattutto la più anziana, infatti, sembrava veramente provata e difficilmente avrebbe superato un’altra notte all’addiaccio. Ciò senza contare il pericolo rappresentato dalle bande di delinquenti comuni che spesso attraversavano quelle lande desolate in cerca di convogli da depredare.  
Il caporale gli si avvicinò e gli disse a bassa voce: “Tenente, la ragazza non parla con un accento libanese e certamente sono straniere; non vorrei sbagliarmi, ma credo provengano dalla Siria o peggio dall’Iran…”.
“Iran?” mormorò il graduato, ben sapendo ciò che quella rivelazione implicava: il paese dell’Ayatollah Khomeini era tra i nemici più spietati degli Stati Uniti e quelle due donne dall’aria innocente forse erano moglie, figlia o sorella di terroristi filo-palestinesi.
Il tenente deglutì e rivolse lo sguardo verso di loro, divorato dall’incertezza; come se gli avesse letto nel pensiero, Shirin lo raggiunse e, indicandogli la madre, lo pregò - lo implorò - di aiutarle a raggiungere Baalbek perché, come tradusse Whitney, dovevano assolutamente arrivare lì prima della mattina seguente per dare l’addio a una persona che era loro molto cara, altrimenti sarebbe stato troppo tardi e non avrebbero mai più potuto vederla.
Mac Taylor chiese al caporale di domandare alla ragazza delle ulteriori spiegazioni, ma quella non aggiunse altro e anzi abbassò gli occhi, come timorosa di avere già commesso un errore a rivelare a uno sconosciuto una cosa tanto importante e privata. Allora il tenente pensò che forse si stavano spostando per partecipare al funerale di un congiunto che, secondo la tradizione islamica, avrebbe dovuto essere sepolto il giorno stesso della morte e che quindi, se avessero tardato, non avrebbero più potuto dirgli addio.
Lei si limitò a tacere e a fissarlo con i suoi occhi giovani e alteri: l’aveva implorato, è vero, ma conservando una dignità e una compostezza ammirevoli.
Adesso la scelta spettava a lui, che senza sosta si domandava cosa avrebbe fatto un buon comandante: era consapevole che non sarebbe stato saggio esporre se stesso e i suoi uomini a un potenziale pericolo per aiutare due donne sconosciute, anche considerato che probabilmente appartenevano a un paese i cui governanti vedevano gli americani come Satana in Terra.
Senza parlare guardò prima l’orizzonte, che aveva lo stesso colore della sabbia, e poi i suoi uomini in volto, uno per uno.
Trasse un sospiro e serrò le mascelle: aveva deciso.
 

  
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