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Autore: Timcampi    12/09/2012    4 recensioni
E Ludwig Weillschmidt, con la grande svastica nera che incombeva alle sue spalle insieme all'orda di fantasmi che essa aveva finito per generare e a una nube rossa del sangue innocente che la macchiava, era del tutto inerme e impotente, chiuso tra quelle quattro mura che un tempo gli erano parse solide e affidabili e che ora si mostravano per com'erano realmente: un mero, effimero castello di carte, innalzato da una mente malata e da mani ora coperte di sangue.
Le sue.
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Germania/Ludwig, Prussia/Gilbert Beilschmidt
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Haifisch

 

-Ma dove l'avrò messa? Accidenti.

Cercando di ripercorrere i propri stessi passi, Ludwig si aggirava con aria guardinga nel proprio studio, tentando di ricordare dove avesse, forse sovrappensiero, lasciato i documenti per il meeting della boss: una voluminosa cartellina verde, con su scritto “BILANCIO STATALE AGOSTO 2012”, affidatagli proprio poche ore prima.

A breve sarebbero state le undici, ora prevista per l'inizio dell'incontro tra i vertici europei, e l'indispensabile cartellina sembrava svanita nel nulla.

Cominciò a scartabellare frettolosamente tra gli scaffali della libreria, facendo scorrere le dita lungo le file di volumi che li affollavano, per poi passare all'armadietto degli archivi, che avrebbe avuto bisogno di un buon inventario. Niente.

Restava soltanto la scrivania.

Aprì il primo cassetto: un paio di occhiali da lettura sormontavano una piccola pila di documenti fotocopiati, ritagli di giornali, fascicoli più o meno datati. Nel secondo cassetto che aprì, invece, scoprì una catasta di vecchi resoconti sui meeting degli anni passati, con tanto di fotografie di gruppo, da cui sorridevano i visi impettiti e rugosi dei capi di tutte le nazioni. Ancora niente.

Nel terzo cassetto, ormai monopolizzato da suo fratello, che spesso occupava abusivamente il suo studio personale, giacevano abbandonati inviti a feste ormai passate, buoni sconto per pub e birrerie e qualche foto. Momentaneamente distratto dalla sua ricerca, si mise a sedere sulla poltrona di pelle scura, facendo scorrere tra le dita le lucide istantanee, con lo sguardo assorto: Gilbert tra Francis e Antonio in costume da bagno sulle sponde della Costa Azzurra; Gilbert addormentato tra gli inconfondibili tavoli della birreria HB di Monaco, con un boccale vuoto stretto tra le braccia e Antonio che scarabocchiava sul suo viso pallido (certamente scattata da Francis); Gilbert e la sua allegra brigata sul Ponte Carlo, a Praga; Gilbert che dava da mangiare al piccolo Gilbird, Gilbert ed Elizaveta in vacanza a Las Vegas...

E poi c'era un'ultima foto, in bianco e nero: c'era Ludwig, insieme a Gilbert, sullo sfondo d'uno studio non troppo dissimile a quello attuale, se non fosse stato per il grande emblema nazista che sormontava la scena.

Entrambi portavano le solite, sobrie divise dalle tinte cupe, e mentre Ludwig era fermo, stalatittico, con un'aria di infinita tristezza a velare i suoi attraenti tratti germanici, Gilbert sembrava più allegro che mai, sorridente e stretto al fratello in un cameratesco abbraccio.

Sul retro, una data: 25 aprile 1945.

 

-E ora, per favore, sorridete. Più allegri, più allegri!- sbuffò il fotografo, da dietro la grande lente della macchina fotografica.

Non era il giorno più adatto a scattare una foto, né tantomeno a sorridere, pensava Ludwig. Era proprio per questo motivo, però, che vi era la necessità di mostrarsi felici, fieri, orgogliosi del proprio operato.

-Coraggio, fratellino, sorridi.- sussurrò Gilbert, accanto a lui, sfoderando un candido, impeccabile sorriso.

Ludwig aveva sempre ammirato suo fratello, ma quel giorno gli sembrava più bello e glorioso che mai: lui, ormai drammaticamente stretto nella dura morsa sovietica, costretto a lasciare la propria terra ed irreversibilmente esule, aveva ancora il coraggio di sorridere.

Un attimo dopo, il fotografo scattò.

-Meglio di niente.- ridacchiò, esibendosi in un goffo gesto di saluto e uscendo dalla porta dello studio, che poi richiuse alle proprie spalle.

Così, i fratelli Weillschmidt rimasero soli.

-È l'inizio della fine, Lud.- ghignò Gilbert, andando a sedersi scompostamente sul ripiano della scrivania, mentre il minore affondava nella poltrona di pelle, con l'opprimente bandiera rossa, bianca e nera alle proprie spalle, e lasciandosi sfuggire un profondo sospiro.

-Non so se sia una cosa buona o meno.- mormorò, massaggiandosi la fronte con le dita guantate.

-Neppure io, ma sono sicuro che lo scopriremo molto presto.- fece il prussiano, scendendo con un balzo dalla scrivania ed andando alla finestra: oltre i vetri opachi, il panico faceva da padrone: l'Armata Rossa procedeva tra le strade di Berlino come un fiume straripato dagli argini, come un brulicante esercito di serpenti velenosi.

E Ludwig Weillschmidt, con la grande svastica nera che incombeva alle sue spalle insieme all'orda di fantasmi che essa aveva finito per generare e a una nube rossa del sangue innocente che la macchiava, era del tutto inerme e impotente, chiuso tra quelle quattro mura che un tempo gli erano parse solide e affidabili e che ora si mostravano per com'erano realmente: un mero, effimero castello di carte, innalzato da una mente malata e da mani ora coperte di sangue.

Le sue.

Quella stessa mattina, il Führer l'aveva chiamato nel suo ufficio e lui, per la prima volta, aveva letto la paura e la disperazione nei suoi occhi un tempo freddi e alteri, aveva visto la morte che incombeva su di lui, e aveva intuito la fine.

Di fronte alla notizia dell'attacco sovietico alla capitale, l'aveva implorato di abbandonare quella folle causa, una volta per tutte, di rimettersi alla clemenza alleata invece di continuare a spargere sangue fino alla fine.

Ma il Führer non aveva voluto sentir ragioni: gli aveva comandato di radunare quel che restava dei reparti di Waffen-SS straniere, di Panzer-Division ormai disciolte e dei pochi superstiti di quelle che, un tempo, erano state le truppe scelte della Volkstrum e della Hitlerjugend: in parole povere, di mandare al macello un esercito di vecchi decrepiti e ragazzi inesperti.

E Ludwig Weillschmidt, vergognandosi di se stesso, aveva, come sempre, obbedito.

Quel che il Führer sognava sarebbe stato un nibelungico "Crepuscolo degli Dei" si era rivelato essere l'ennesimo eccidio.

-Anche io ho paura, fratellino,- confessò Gilbert, ancora di fronte alla finestra, interropendo il doloroso filo dei suoi pensieri. -ma non ho intenzione di lasciare che la mia paura vinca su di me. Perciò smettila di fare l'idiota, Lud, e affonta il domani a schiena dritta, qualsiasi cosa esso serbi per noi.

-Come puoi essere così...?-

-Per me è giunta la fine, Lud. Non so cosa sarà di me, domani, però so che, quando uno dei due resterà indietro, l'altro si fermerà ad aspettarlo. Abbiamo sempre perseverato, io e te, e l'abbiamo fatto insieme.

-Presto uno di noi brucerà, Gilbert. E allora sarà inutile fermarsi ad aspettare.

-Se sarò io a bruciare, il fuoco ti scalderà.- rispose prontamente il prussiano, voltandosi verso di lui con il suo beffardo, incredibile sorriso.

Ludwig si alzò, andò verso suo fratello e, dopo un lungo istante di esitazione, lo abbracciò.

-Preferirei che bruciassimo insieme.- dichiarò, affondando il viso nella spalla dell'altro, su cui comparvero alcune piccole macchie scure.

Dopo un tempo interminabile, Ludwig stava piangendo.

Percepì un leggero fremito scuotere il corpo del maggiore. Si chiese se anche lui piangesse, ma non lo seppe mai perchè, quando quell'abbraccio si sciolse, il suo volto era quello di sempre, fiero e sorridente. Il volto di chi era caduto tante volte e che, puntualmente, si era rialzato, e l'aveva fatto da solo.

Sentì la sua voce sussurrargli qualcosa, una frase che non avrebbe mai dimenticato.

Un istante dopo, sentirono delle voci provenire dal corridoio, oltre la porta dello studio: voci concitate, che parlavano in russo.

Istintivamente, sentendosi quasi tornato bambino, cercò con le proprie dita quelle del fratello.

E, per entrambi, pregò.

 

-Ohi, Lud!

Il tedesco scosse la testa, scacciando quell'amara ondata di ricordi.

Suo fratello era sulla soglia, con le braccia conserte e un ampio sorriso sul suo volto marmoreo.

-Ti stanno aspettando, là sotto!- continuò il prussiano, facendo cenno alla tromba delle scale, dalla quale proveniva un fitto vociare.

-Arrivo subito.- annuì Ludwig, riponendo frettolosamente le fotografie nel cassetto e facendo per uscire dallo studio. Fu allora che la vide: una spessa cartellina verde, che faceva capolino da una pila di scartoffie ammucchiate su una sedia, accanto alla libreria. Si lasciò sfuggire un sorriso.

 

Auch trauern Haie, Lud.”*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*Anche gli squali piangono, Lud.

   
 
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