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Autore: HappyCloud    12/09/2012    5 recensioni
Reparto ortofrutta di un supermercato qualunque all'ora di pranzo: pochi clienti, corsie semideserte, nessuna coda alle casse.
Lui è in ritardo, ha ventun minuti per fare la spesa, portarla a casa e tornare in ufficio.
Lei deve correre al suo appartamento per preparare una cena e tentare di salvare un matrimonio altrui già finito.
Entrambi non hanno tempo da perdere, ma tra un triplice ferimento, importanti scelte da fare e prodotti da contendersi, il corso della loro giornata potrebbe cambiare. E pure l'umore!
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Di semidei e tinte pastello.
 
Mortofrutta.
 
 
Pessima idea. Davvero una pessima, pessima idea.
Come le era saltato in mente di invitare a cena il capo e la moglie? Lei e il suo stupido istinto da crocerossina. Il loro matrimonio era destinato a finire, lo si sapeva da tempo ed entrambi parevano averlo accettato. Loro sì, ma Azzurra proprio no. Non poteva rassegnarsi, né tantomeno voleva farlo. Il signor De Carlis e consorte erano il suo modello, la sua favola, la sua piccola creatura; li aveva fatti incontrare, frequentare, convivere, sposare… e ad un tratto volevano farle credere che tutto fosse finito. Puff, svanito. Niente più amore, comunione dei beni, progetti insieme; ora c’era spazio solo per risentimento, spartizione del patrimonio, strade separate.
E lei non aveva idea di come ciò potesse essere accaduto e soprattutto quando. Aveva consegnato nelle loro mani i loro destini con tanto di chiave per la felicità eterna, aveva provato a farli camminare da soli con le proprie gambe, ma l’intera situazione era andata a scatafascio. Evidentemente avevano bisogno di gattonare ancora per un po’. Madornale errore di valutazione, il suo, aveva sbagliato e ne era consapevole. Di certo ne erano consci anche i diretti interessati, magari addirittura la odiavano e la utilizzavano come pretesto per litigare; l’idea la terrorizzava: stava logorando il suo piccolo capolavoro d’ingegneria sentimentale.
La sua cucina, poi, non avrebbe aiutato. Non bastava aver guardato Julie&Julia una dozzina di volte e avere la televisione sempre sintonizzata su Gambero Rosso per imparare a spadellare. Quella cena sarebbe stata un fiasco, lo sentiva, e le sue spicce nozioni di psicologia non avrebbero salvato il matrimonio del capo. Il colpo di grazia, insomma. Lei aveva creato, lei avrebbe distrutto.
Doveva, comunque, affrontare una cosa per volta: innanzitutto, la spesa. Aveva fatto una lista sommaria di ciò che le serviva per preparare antipasti vari, crespelle ai funghi, arrosto e tiramisù.
La giornata non prometteva bene, nemmeno meteorologicamente parlando: pioveva a dirotto e il cielo era un’incombente gregge grigio che sovrastava minaccioso l’intera città.
Azzurra scese dalla macchina già trafelata e corse ad accaparrarsi un carrello. Frugò nel portafoglio, nella borsa, nelle tasche del trench e dei jeans, ma naturalmente non aveva con sé neanche una moneta da infilare nel meccanismo per poter sganciare un carrello, perciò decise che si sarebbe accontentata di uno dei cestini con le ruote che stavano all’interno del supermercato. Vi entrò fradicia, con i capelli che già si stavano increspando grazie all’acqua e all’umidità, ma per fortuna era l’ora della pausa pranzo e i clienti erano pochissimi.
Come al solito, constatò di aver lasciato la lista della spesa in macchina; a volte si domandava perché perdere tempo a scriverla, quando era matematico che la scordasse in ufficio, a casa, in un altro paio di pantaloni, in auto. Si rispondeva sempre allo stesso modo: scrivere l’aiutava a ricordare… in teoria. In pratica, era bravissima a dimenticare.
Sarebbe andata a braccio, a cominciare dall’ortofrutta. Pomodorini, le servivano i pomodorini per le bruschette. E un po’ d’insalata di contorno, almeno ci sarebbe stato qualcosa di mangiabile sulla tavola. Prese anche un po’ di frutta mista, dopo averla attentamente analizzata, e s’impegnò affinché tutto fosse perfettamente ordinato nel suo carrellino. Da brava architetto, ogni minima cosa doveva essere organizzata e pianificata. Beh, tutto tranne la propria vita.
Stava procedendo verso le conserve, tranquilla e rilassata in quello spazio gigante al momento solo suo, quando un turbine con due piedi e quattro ruote quasi travolse lei e il povero cestino, che non si rovesciò per miracolo, riportando soltanto una lieve botta sul lato sinistro.
- Ma che cavolo…? – Azzurra guardò allibita la ferita di guerra che aveva riportato il suo mezzo – Mi ha fatto la fiancata al carrello!
- Scusi, vado di fretta! – Si giustificò una voce maschile, ma lei non gli stava prestando attenzione, intenta com’era a fare la conta dei danni.
- Mi ha ammaccato due pesche noci e un’albicocca, si rende conto? – Stavolta si decise a guardarlo dritto n faccia. Era un uomo sui trenta, alto, riccio, con gli occhi chiari e un soprabito scuro. E la guardava stralunato  – Dieci minuti per sceglierle con cura e con il guanto in plastica, eh, mica come alcuni furbetti, e ora sono irrimediabilmente rovinate perché lei va di fretta!
Si curò bene di scimmiottare il suo tono, mentre l’occhio le cadeva sul carrello del disgraziato. Dio mio, mai visto un tale caos: succhi di frutta sparsi, biscotti schiacciati sotto alcune bottiglie di vino, yogurt incastrati tra il pane e delle lattine di cibo per gatti. In ultimo, a mo’ di stendardo della virilità perduta, una confezione da dodici di carta igienica che svettava sopra a tutto. Il che non era necessariamente un male, pensò Azzurra: almeno significava che il selvaggio non usava le foglie dell’albero del vicino per pulirsi.
- M-mi dispiace… – bofonchiò lo Schumacher dei poveri, stupito dalla reazione della ragazza – Non avevo intenzione di provocare dei feriti.
Commise l’errore di ridacchiare della propria battuta, sperando di contagiare anche lei, ma il piano non funzionò: se possibile, causò ancora più danni dell’incidente di qualche minuto prima.
- Mi auguro che lei non guidi l’auto come conduce il suo carrello, altrimenti temo che abbiamo un problema.
- Senta, – tentò lui per mediare, visto che la tizia non dava cenno di scherzare – sono desolato per la perdita delle sue albicocche e della pesca…
- Sono due pesche e un’albicocca – lo corresse prontamente lei.
- Sì, – sospirò lui impercettibilmente – per le due pesche e l’albicocca. C’è qualcosa che posso fare per rimediare? Gliele pago, d’accordo? E lei può sceglierne altre.
A quel punto, lo sguardo di Azzurra si fece più triste che insofferente. La perdita della frutta le stava provocando dell’autentico dolore.
- Ma io volevo quelle… – brontolò, corrucciando le labbra in una buffa smorfia.
Il mondo le stava dicendo qualcosa, era più che evidente. Tutto ciò che sceglieva lei era destinato a fare una brutta fine: la begonia pendula rinsecchita, la coppia di criceti Roborowskij scannatisi a vicenda, la nuova e tecnologica tenda da sole incendiata dalla cenere della sigaretta del vicino al piano di sopra, il non-così-felice matrimonio di Sergio e Dalila De Carlis e ora della frutta innocente agonizzante.
- Ho davvero molta fretta, signorina – la implorò, cercando di sfruttare il momento di debolezza della donna. Si sentì un po’ idiota e pure un briciolo meschino, ma aveva ancora ventun minuti prima della fine della pausa pranzo e non aveva tempo di preparare una commemorazione tra cavolfiori e mele verdi.
Azzurra, però, tornò a guardarlo in cagnesco.
- Anche io, sa? A quest’ora contavo di aver già finito il giro e pagato e invece sono ancora all’ortofrutta, depauperata di due pesche noci e di un’albicocca.
In realtà sarebbe stata ancora impegnata a scegliere il pezzo di maiale più adatto per celebrare degnamente la fine dell’amore della sua vita. Cioè della vita del capo e della moglie. Che comunque ormai era diventata anche la sua vita. In fondo, loro tre erano davvero una splendida coppia.
- Non c’è nulla da fare. La situazione è irreparabile  – dichiarò il ragazzo, che si era accucciato per accertarsi delle ormai disperate condizioni della frutta nel carrellino.
Irreparabile? Anche il riccio non dava ai De Carlis una seconda chance. Tutti quei segnali divini cominciavano a darle i brividi. Lei era la solitaria albicocca che aveva aiutato le due altrettanto solitarie pesche noci ad unirsi in matrimonio e proprio mentre le aveva lasciate andar via verso le conserve – una chiara metafora del futuro – un imprevisto le aveva fatte deragliare tutte e tre. Rimaneva solo da capire chi rappresentasse il riccio: il destino, forse?
- Irreparabile un corno! Tutto si può aggiustare! – replicò con forza lei, stupendo il ragazzo. – Solo perché lei non è in grado, non significa che io non possa!
Lui stava per perdere definitivamente la pazienza, ma si promise di sforzarsi comunque di non risponderle in maniera sgarbata.
- E allora mi faccia vedere come ci riesce lei.
Aveva promesso di sforzarsi, non di riuscirci.
Azzurra prese il sacchetto con le vittime, rivoltandoselo tra le mani per trovare un modo per farle tornare all’originale splendore. Dopo due minuti di tentativi, le parve chiaro che sarebbe stato impossibile far sparire quei bozzi profondi da quelle belle bucce.
- D’accordo, forse non tutto – si arrese con riluttanza.
- Grazie!
- Beh, ma cosa vuol fare? – domandò indignata.
- Io nulla, lascio decidere lei – Azzurra si prese un attimo di riflessione, vagliò diverse opzioni, si ricordò di dover modificare il balcone dei Falconi e di ricalcolare i millesimi della proprietà dei Gambardella… –  Allora?
Ah, sì, il riccio doveva espiare.
- Si scusi pubblicamente. – esclamò, dopo il parto mentale.
- Come? – Lui sperò di aver capito male, ma la faccia determinata di lei non gli dava molte speranze.
- Si scusi pubblicamente. – ripeté, infatti.
Fallo, sarà un po’ umiliante e un tantino stupido, ma se servirà a togliertela di torno, fallo e basta, fu la decisione finale del ragazzo.
- D’accordo. Le chiedo perdono, signorina.
Stava già per ritornare al carrello e spingerlo il più possibile lontano da lei, quando la sua voce lo bloccò.
- Ma non a me, a loro!
No, non voleva girarsi, non voleva nemmeno lontanamente prendere in considerazione l’ipotesi che lei stesse indicando la frutta nel carrello.
Una coppia di anziani gli passò accanto stupita e lui aspettò con pazienza che lo superassero, prima di girarsi e dimostrare che la tizia urlante con la testa nel cestino stesse parlando proprio con lui. Sorrise ai due, tornò a grandi falcate vicino ad Azzurra e parlò sottovoce.
- Dovrei chiedere scusa a due pesche e ad un’albicocca? – chiese incredulo, ma la ragazza pareva irremovibile. La nanetta era fuori di melone, giusto per rimanere in reparto. Però decise di farlo, qualunque cosa per piantarla in asso e procedere con la spesa. – Okay. Scusate… ragazze.
- Bene, – gioì Azzurra, battendo le mani – giustizia è fatta. Buona giornata.
Non solo si era appena umiliato, implorando perdono a della frutta, ma, alla fine, era stato lui quello a rimanere da solo nell’ortofrutta.
 
Si sentiva leggera, aveva risolto l’inconveniente col riccio nel migliore dei modi ed ora doveva solo affrontare il problema di quanta panna da cucina comprare. Stava per imboccare la corsia apposita, quando, dando una rapida occhiata al carrello si rese conto di un buco che non avrebbe dovuto esserci nella programmazione dello spazio; ergo, aveva dimenticato qualcosa. A giudicare dalle dimensioni, poteva trattarsi di due pacchi di pasta da 500 grammi o di due confezioni di biscotti. Savoiardi, ecco che cosa mancava.
Fece una rapida retromarcia – per quanto le rotelline ossidate le consentissero – verso le corse inziali e lo rivide. Il riccio non era andato lontano, stazionava con aria confusa davanti agli scaffali delle conserve di pomodoro, probabilmente aspettando delle rispose dall’alto per comprare la migliore. Guardava le etichette dei prezzi, confrontava il peso netto dei prodotti, le offerte in corso. Azzurra non aveva mai visto tanta superficialità nell’affrontare una scelta di quella portata. E, sebbene una parte di lei auspicava che il tizio toppasse clamorosamente la sfida che aveva dinnanzi, il suo istinto da massaia chioccia non poteva lasciare che l’inesperienza fuorviasse il pulcino di un’altra gallina in quel modo.
Si avvicinò di soppiatto, ancora incerta sul da farsi: non voleva dimenticare l’incidente di poco prima.
Taci, Azzurra, sono affari suoi.
D’altra parte, però, la tentazione di fare la maestrina e cercare di indirizzarlo nella giusta direzione con la salsa di pomodoro era molto forte. Anche perché, ad essere proprio onesti, lui ne aveva disperatamente bisogno, vista la poca professionalità con cui aveva sistemato gli acquisti nel carrello.
- S-senta… – per  poco lui non lasciò cadere la bottiglia di sugo per terra. Che le aveva fatto, ora? Calpestato il piede del suo amico immaginario? Invaso il suo spazio vitale? Respirato il suo ossigeno?
- Scusi – disse d’istinto, tanto sapeva che ad un certo punto di quella seconda conversazione avrebbe dovuto dirlo.
- Mi permetta di darle una mano. – Senza attendere risposta, lei gli strappò dalle mani la confezione di vetro e la ripose sullo scaffale – Lei deve analizzare la situazione con maggiore oculatezza. Ha nozioni di chimica?
Il ragazzo rimase con la mano vuota a mezzaria e la bocca aperta. La pazzoide ora parlava di chimica con aria di chi la sapeva lunga a riguardo.
L’unica risposta che gli veniva da fornire era in realtà un’altra domanda: perché? Perché diamine avrebbe dovuto saperne di chimica per comprare del sugo? Perché diavolo stava parlando ancora con lei? Perché cavolo l’aveva sfiorata con il carrello mentre correva verso il reparto macelleria? E soprattutto, perché cazzo era entrato in quel supermercato? Sarebbe potuto rimanere in ufficio, alla banca, a mangiare la sua insalata preconfezionata, sperando di ritrovare nel pomeriggio Ingrid Geschwätz , una delle clienti fisse dello sportello, una valchiria tedesca con le spalle larghe il doppio delle sue – accompagnata dal fidanzato di un metro e cinquanta e dal chihuahua Arnold –, che gli rivolgeva sempre le solite parole.
- Puonciorno, sighnor Qvaresmini. Mein Gott, in qvesta banka ci è troppo kaldo! Ich krede kolpa è di zuoi pelli okki plu. Blaue Augen, rechts Ciofanni?
Seguiva un’abituale pacca sulla spalla del povero Ciofanni, che forse nemmeno capiva quel che lei diceva, ma non smetteva di guardare il suo bel donnone germanico con uno sguardo d’ammirazione e colmo d’amore. Oppure le guardava le tette, ancora non s’era capito.
Fatto sta che ormai lui si era affezionato a quell’improbabile trio; si preoccupava se non li vedeva almeno tre giorni a settimana, a ritirare cento euro alla volta. Erano cinque anni che lavorava lì e non avevano mai mancato l’appuntamento, né nel frattempo l’accento e l’italiano di Ingrid avevano dato segni di miglioramento. Si era abituato ad essere il signor Qvaresmini, solo per loro; una piccola concessione per l’unica famiglia che vedeva più della sua, fatta eccezione per quella rompipalle di sua sorella Elettra. E a proposito di rompipalle…
- Chimica?  – rispose con cautela. La ragazza che gli stava accanto sembrava calma al momento, ma non voleva rischiare di svegliare il gigante dormiente.
Azzurra lo guardò con aria scocciata. Ecco, era successo: si era pentita di aver offerto il proprio aiuto allo sconosciuto, che palesemente non capiva un corno di chimica. Che ci era andato a fare in un supermercato, se non ne sapeva una mazza in materia?
- Capisce cosa intendo quando parlo di stati di aggregazione? – Sì, okay, ora stava facendo un po’ la pretenziosa, giusto per dimostrare al pirata della corsia che non era una svitata. Obiettivo che non le stava riuscendo molto bene, a giudicare dagli occhi strabuzzati di lui – Stati della materia? No, niente?
A quel punto il riccio parve scorgere la luce in fondo al tunnel. Il liceo era lontano quasi dieci anni, ma talvolta qualche reminiscenza gli ricordava di quella vita passata tra i banchi, sui libri, in mezzo al sapere e alle gambe di Arianna.
- Intende lo stato gassoso, liquido e solido?
Azzurra sorrise forzatamente. Forse c’era ancora speranza per il tontolone.
- Esatto. Vedo che comincia a capire. – Qualcosa, in effetti, il ragazzo cominciava a capire: la pasta, d’ora in poi, solo in bianco. Purtroppo all’orizzonte non c’era nemmeno l’ombra di un altro cliente a cui scaricare la pazza. C’era solo una ragazzina, ma sarebbe stato troppo codardo appiopparla a lei; roba da rovinarle l’adolescenza. Doveva solo comportarsi da uomo e sopportarla, magari prima di arrivare al parcheggio, o, meglio ancora, alla cassa – Mi dica, come sceglie di solito la salsa di pomodoro?
Alt. E che fine avevano fatto gli stati di aggregazione della materia? Tanto clamore per recuperarli in un angolo recondito della memoria e ora si passava ad altro?
- Non so… guardo le offerte, direi. – fece spallucce – Oppure la prima che mi capita tra le mani.
- Ah-a! – il ragazzo indietreggiò lievemente, tutt’ad un tratto non si sentiva così sicuro vicino a lei – Lei è il classico pollo, senza offesa eh, facile da raggirare. Lei è vittima dei messaggi subliminali della pubblicità. Lo sa che si dice che la disposizione dei prodotti negli scaffali influenzi l’acquisto degli stessi? Pare che gli utenti ignari siano portati a comprare ciò che sta nel centro e nella parete destra della corsia. O era la sinistra, ora non ricordo benissimo.
Lui colse al volo l’attimo d’indecisione e provò a limitare la fiumana di parole che uscivano da quella bocca maledetta.
- Tutto ciò è molto interessante, le assicuro. Però, devo andare a lav…
- Mi perdoni, – lo interruppe lei, alzando il palmo della mano verso di lui – stavamo parlando della sua passata di pomodoro. Voglio aiutarla a sceglierla.
- La ringrazio, – davvero  la voleva ringraziare? E di cosa, di grazia? Di avergli fatto sprecare dieci minuti in un supermercato, in una serie di conversazioni totalmente inutili? – ma non è necessario. Prenderò questa.
Ne prese una a caso, proprio non gli importava che fosse biologica, d’importazione, di contrabbando o quant’altro. Gli importava soltanto di liberarsi di quella zavorra umana.
- Sguizza? – chiese lei all’improvviso.
- S-sguizza? – Doveva essere un modo per chiedergli se scherzava. – N-non so se sguizzo.
Azzurra lo guardò sconcertata: no, non c’era proprio speranza, quello non capiva nemmeno l’italiano.
- Ma non lei, per Diana! La salsa… dico, sguizza?
Non aveva idea di che cosa intendesse con quel verbo. Non che non l’avesse mai sentito, ma gli sfuggiva cosa c’entrasse nel contesto. Decise, quindi, di rimanere neutrale.
- Non saprei.
Scandalizzata. Lei era scandalizzata: trent’anni e non aveva le minime regole di base per fare la spesa. Ringraziasse il cielo di averla incontrata!
- Non ha controllato, prima di decidere di acquistare quella?
- Temo di aver perso le fila del discorso.
- Le chiedevo il grado di sguizzo che ha il barattolo di salsa che ha in mano: grande sguizzo, medio sguizzo o piccolo sguizzo?
- I-io…
Il tizio era veramente tardo, non c’erano altre spiegazioni.
- Sua madre non gliel’ha insegnato?
- No, purtroppo mia madre non c’è.
Ecco, che gaffe. Certo avrebbe potuto avvisarla prima che era orfano di un genitore, senza costringerla a fare una terribile figura, riesumando vecchi dolori, ferite profonde, Natali, Pasque, compleanni a fissare un posto vuoto a tavola, dopo quell’incidente in macchina, quella malattia, quello scontro in motoscafo, quel morso di vipera Russel, quell’attacco di squalo bianco o qualsiasi altra causa di morte.
- Oh, mi dispiace.
- No, – il riccio capì l’equivoco e  lo chiarì subito – non è morta, è solo che abita a centoventi chilometri da qua, non abbiamo occasione di fare le spese insieme e non mi ha introdotto alla tecnica… dello… ehm, sguizzo. – si sentiva un idiota già solo a dirla, quella parola.
- Ah, – Azzurra tornò subito alla realtà, con un briciolo di delusione – allora non mi dispiace. Cioè, mi dispiace che lei non abbia ricevuto un’educazione adeguata, perciò, in nome della connessione che si è creata tra me e lei nel momento del perimento delle due pesche noci e dell’albicocca, da lei causato ricordiamoci, mi offro d’indottrinarla a riguardo. – Indicò una prima confezione di tetrapak, completamente colorata – Cosa mi dice di questa?
- Beh, non vedo nulla.
- Esatto, – urlò lei, in piena estasi da salsa di pomodoro – come può giudicare lo sguizzo se non vede il prodotto? Scartato. – Dunque, questo sguizzo era qualcosa di visibile, era già un indizio. – Passiamo al prossimo: bottiglia trasparente, marca PappaPronta. Qui, finalmente, possiamo introdurre la tecnica vera e propria. Ecco, la prenda lei.
Lui l’afferrò con la stessa apprensione con cui aveva preso in braccio la prima volta la sua nipotina in fasce: come se potesse romperla stringendola un po’ di più.
- E ora?
- Faccia oscillare il sugo all’interno. – lui, appurato che la bottiglia sembrava abbastanza solida, prese a scuoterla con violenza – Non le ho detto di agitarlo come una batida! Immagini di decantare un vino pregiato su una spiaggia dorata, con le palme che si muovono nel vento e le onde del mare che s’infrangono sulla battigia…
Il riccio cominciò a battere il piede sul pavimento, spazientito. Non sapeva più in che lingua dirle che non aveva tempo da perdere, figuriamoci poi per scegliere se doveva starsene ad ascoltare tecniche di rilassamento da maestro di yoga.
- È necessaria la cornice caraibica per decifrare lo sguizzo?
Azzurra interruppe la descrizione con un grugnito contrariato.
- Per una mente limitata come lei, ovvio che no. Quindi, la sua conclusione? – lo esortò.
Il ragazzo seguì le istruzioni.
- Sembra un po’ liquida. Un po’ troppo.
Il sorriso sornione che si dipinse sulla faccia di Azzurra denotava una certo orgoglio da insegnante di fronte ad un alunno che ha appreso bene la lezione.
- Bravo l’élève. Questa passata scivola sulla mezza penna rigata e non me l’avvolge con il calore necessario; se mi permette un’espressione colorita, è buona per lubrificare, non per fare l’amore con la suddetta mezza penna. Grande sguizzo, grande delusione. Proviamo con la Pommipiù.
La lasciò cadere nella mano di lui, che evitò per un pelo di farla rovinare a terra, mentre lei già valutava quale sarebbe stata la prossima salsa da fargli valutare; ormai le conosceva a memoria, perciò sapeva bene cosa sottoporre al suo allievo.
- Questa neanche si muove. Sembra cementata.
- Piccolo sguizzo, la categoria peggiore. – decretò lei – Ingloba il maccherone e non lo molla più. È la fidanzata, quella gelosa e morbosa che non accetta di essere piantata, la stalker dei sughi insomma. – Si abbassò all’altezza dell’ultimo scaffale e prese un’altra bottiglia – Che mi dice della Salsy?
- Sembra un giusto compromesso, non le pare? Densa, ma non in modo esagerato, dà l’idea di saper coccolare il fusillo con quel misto di decisione e morbidezza che richiede una passata. Non ci veda doppi sensi in quest’ultima frase.
Tralasciando le sue battute, che comunque erano piuttosto carucce doveva ammetterlo, il riccio aveva una qualche sorta di talento per riconoscere gli sguizzi. Poteva ritenersi soddisfatta del lavoro svolto, perché era più che certa che il merito fosse suo. D’altronde, era sempre stata una magnifica insegnante.
- È l’amore della vita: ama il fusillo e vuole aiutarlo ad esprimersi al meglio, non lo lascerà mai. – sospirò e lasciò che i pensieri parlassero per lei – Loro sono i Sergio e i Dalila De Carlis.
I chi?
- Come prego?
Azzurra venne colta da una strana sensazione d’ansia e di inquietudine. Doveva pensare alla cena, punto e basta, senza perder tempo dietro a un bell’imbusto, che comunque non era neppure granché, togliendo gli occhi blu e quel ciuffo ricciolo che pareva la banana di Elvis Presley.
- Devo andare, de-devo finire il giro e sono in ritardo. Buona giornata. – si affrettò a dire.
Lo prese in contropiede e fu talmente rapida nel trascinare il carrellino e rifugiarsi nella corsia successiva che le parole di lui si dispersero nell’aria, senza che lei potesse udirle.
- Ma…? Aspetti. Aspetti! Volevo solo dirle… grazie.
 
Uno strano soggetto, senza dubbio. Quella nanetta con la lingua biforcuta e amante dei diritti dei vegetali non era di certo un tipetto convenzionale. Almeno gli aveva insegnato l’universale tecnica dello sguizzo; il tempo perso dietro le sue assurde teorie alla fine si era rivelato moderatamente utile.
- Signor macellaio? Ehilà, c’è nessuno? Mi dispiace per l’incidente con la mannaia dell’ultima volta. Volevo solo farle uno scherzo! L’importante è che abbia ancora tutte le dita, no? Signor macellaio?
Ed ecco riemergere dal fondo del supermercato la sua voce acuta alla ricerca di Giancarlo, capo della macelleria. Uomo simpatico e meritevole di solidarietà, se aveva avuto a che fare con lei e un coltello in mano.
Si rese di compassione e decise di dare lui una mano alla ragazza, per ricambiare il favore di qualche minuto prima. Si mosse con attenzione, onde evitare di investire nuovamente lei, o pane in cassetta, o pesci volanti. La trovò quasi arrampicata sul banco frigo per sbirciare all’interno della macelleria.
Forse era ancora in tempo per scappare.
- Credo sia in pausa. – disse, invece.
Azzurra si voltò e mise fine con un salto alla scalata che aveva intrapreso. Si sistemò il cerchietto sulla testa e si lisciò il trench spiegazzato.
- E io come faccio?
- Io non gliele presto le mie dita per giocare con la mannaia.
Meglio mettere le mani avanti con lei. Pessimo modo di dire, però, in questo caso.
- Cosa? No, mi serviva un pezzo di carne.
- La mia?
L’aveva presa in simpatia? Perché sembrava molto meno impostato dello stronzo ricciolone incapace di guidare un carrello dell’ortofrutta.
- Le detrarrò una libbra di carne per ogni brutta battuta che fa – lo avvertì.
- D’accordo. Posso darle una mano? Così, giusto per rimediare al danno di poco fa e ringraziarla dell’aiuto con la passata.
Lei lo guardò sospettosa.
- Non andava di fretta?
- Sì, ma lei ha fatto leva sul mio senso di colpa per il triplice ferimento, perciò posso utilizzare due minuti – e rimarcò bene la quantità di tempo che aveva intenzione di destinarle – ad aiutarla.
Okay, magari poteva dargli credito, non che poi avesse molte alternative: la sua conoscenza dei maiali si limitava a Babe, maialino coraggioso; carino sì, utile no.
- Ne sa di suini?
- Come se fossi uno di loro. – Era una brutta similitudine per dirle che era un donnaiolo? Il ragazzo parve accorgersi dell’ambiguità dell’espressione e si spiegò meglio. – Come uno nato e cresciuto in cascina. 
- E di lombi?
- Parliamo sempre di suini, vero?
Dalla simpatia si era approdati alla malizia, ma Azzurra era troppo concentrata sulla carne per poterla assecondare.
- Siamo già a quota tre libbre, l’avverto. – Lo minacciò, invece.
- Stemperavo solo la situazione, suvvia. Innanzitutto, qui c’è il vitello. Il maiale è là, sulla destra. – Le fece cenno di seguirlo verso la fine dell’enorme banco frigo – Eccoci.
Lei diede una rapida occhiata a tutti i pezzi confezionati disponibili: costine, guanciale, coscia, filetto…
- Qui non c’è nessun lombo! – Sapeva di doversi rivolgere ad un professionista, invece che al Lupo ammazzafrutta. – Signor macellaio?
- Si rilassi.– Prese una vaschetta e gliela mostrò – Eccolo, lonza di suino.
Allora davvero non capiva l’italiano.
- Ma a me serve il lombo!
Il riccio s’impose di restare calmo e di non urlarle di smettere di starnazzare: se solo fosse riuscita a tenere la bocca chiusa per più di tre nanosecondi, lui avrebbe avuto l’immenso piacere di illustrarle una spiegazione più che esaustiva.
- Si tratta sempre della stessa parte di carne, che assume denominazioni diverse in base al taglio e alla regione. Se alla carne viene lasciato l’osso, allora si parla di carré; la parte finale del carré contiene, sotto le coste, il filetto. Se tale pezzo viene affettato, si otterrà il nodino; se invece la carne viene disossata, avremo la lonza.
- Amen. Ne è sicuro?
Le aveva appena fatto un’esposizione dettagliata e precisa dell’intero problema e ora lei metteva in dubbio tutto quanto.
- Sicurissimo. – biascicò, coi denti serrati dal nervosismo.
- Guardi che io mi fido, eh. Se poi l’arrosto viene una ciofeca, do la colpa a lei. – disse Azzurra serissima, strappandogli un sorriso.
Non riusciva. Non ce la faceva a rimanere arrabbiato con lei: era buffa – un modo carino per dire pazza –, con una parlantina esasperante e modi di fare ancor più irritanti, ma l’insieme era imprevedibilmente gradevole.
- Mi prendo tutte le responsabilità del caso. – la rassicurò. Forse troppo, perché lei lo prese in parola.
- Quindi lei mi sta dicendo che se non riesco a salvare il matrimonio dei De Carlis, posso sempre dire che è a causa sua…
- Matrimonio? Non stavamo parlando di arrosto?
- No, – lo contraddisse – lei ha detto: “Mi prendo tutte le responsabilità del caso”. Il caso è quello dei De Carlis.
- E l’arrosto? – Decise di stare al gioco.
- Lonza al latte per risvegliare gli istinti materni di Dalila. Se non glieli risveglia, mando i coniugi da lei.  
- Da me?
Non aveva granché esperienza con le coppie, se non con Ingrid e compagnia bella. E in quel caso era un trio. E non era certo che Ciofanni sapesse parlare. Contava lo stesso?
- È lei che mi ha consigliato il pezzo di carne o no? Non cerchi di arrampicarsi sugli specchi, per cortesia.
- Posso almeno sapere il resto del menu?
- Crespelle ai funghi.
- … funghi per far capire a lui che Dalila è il terreno di cui si nutre? – domandò, immaginando un identico percorso cosparso di significati nascosti per il marito.
- Funghi perché è un po’ che li ho nel congelatore e volevo smaltirli. – Azzurra divenne rossa dalla vergogna e si affrettò a completare la risposta. – Ma ovviamente anche perché sono il terriccio di cui si nutre.
- Terreno.
- Quello che è.
Il riccio si appoggiò con gli avambracci sul proprio carrello; la conversazione, incredibile a dirlo, lo stava incuriosendo da morire.
- Dunque, per lui nessun messaggio culinario subliminale? – chiese interessato.
- Ecco…
Le guance di Azzurra si colorarono di un scarlatto ancora più intenso, divertendo il ragazzo.
- Nel dolce, forse? Cosa prepara come dessert? – La incoraggiò, conscio di peggiorare la questione imbarazzo.
- Ehm… tiramisù – sussurrò.
- Oh, giusto – lui trattenne una risata di puro gusto, solo per non farle desiderare una volta per tutte di sprofondare nel pavimento  – Certo, la poesia si perde un po’ per strada, ma anche l’intimità è importante. E se non migliorasse la situazione là sotto per il povero lui, temo dovremmo spartirci la colpa.
- Chi? Lei e Dalila?
- No, io e lei.
Azzurra ripristinò un colorito normale e si preparò a snocciolare uno dei suoi discorsi seri da psicologa con attestato online.
- Se si lasceranno sarà evidentemente perché non ritengono di poter continuare a vivere insieme, nonostante l’opinione contraria dell’esperta.
- Vedono una terapeuta?            
- L’esperta sono io – affermò, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
- È una terapeuta?
- No, un architetto. Quindi so come progettare al meglio una relazione, dalle fondamenta ben solide, ai muri portanti, dai dettagli che rendono unico ogni progetto, ai balconi che ti permettono di godere della tua libertà, ma in modo controllato.
- La guru delle storie d’amore, in pratica – scherzò lui, ma lei lo prese sul serio.
- Dice bene. – Il riccio cominciava a piacerle, tutto sommato. La sua nuova denominazione le garbava alquanto. Purtroppo non poteva trattenersi, la cucina l’attendeva – Ora, bando alle ciance e mi lasci passare, ho una cena da preparare.
- Mi raccomando l’arrosto! – ridacchiò lui – Non ci metta le patate, l’analogia potrebbe traviare il povero lui!
Azzurra se ne andò con il suo carrellino cigolante, nascondendo sotto i baffi un sorriso divertito.
 
Dopo circa cinque minuti di quiete assoluta, si ritrovarono per l’ennesima volta, in questo caso ciascuno ad un’estremità della corsia dei detersivi per lavatrice. Pensavano di limitarsi ad un cenno con il capo in segno di saluto, entrambi avevano ripetuto fino alla nausea che l’ora di pausa stava tragicamente volgendo al termine ed erano già in ritardo sulla tabella di marcia.
Azzurra si guardava intorno interessata, quel reparto era il suo preferito. Nella sua piccola lavanderia di casa, c’erano un’infinità di flaconi colorati che non avrebbe mai usato, ma che non aveva potuto esimersi dal comprare, perché erano perfetti per l’arredamento della stanza.
Il riccio invece camminava più spedito, aveva già adocchiato ciò che gli serviva e non aveva bisogno di fare altre scelte di vitale importanza, come quella affrontata per la passata di pomodoro.
Man mano che si avvicinavano, però, cominciarono a scrutarsi attentamente. Sembravano due pistoleri di un vecchio film western americano; avanzavano lentamente verso il centro, studiandosi a vicenda con diffidenza, mentre lanicci di polvere rotolavano indisturbati sul pavimento.
Azzurra lasciò incustodito il proprio carrellino, pur di colmare il lieve svantaggio che aveva nei confronti di lui; sembravano diretti tutti e due verso lo stesso scaffale.
- Non avrà intenzione di comprare proprio quel flacone di detersivo? – Gli chiese con una punta di minaccia nella voce, ponendosi di fronte alla mensola.
- Il Fluffy, dice? Profuma di brezza marina, è il mio preferito.
Dannazione, anche la pazza lo voleva. Peccato che ne fosse rimasto solo uno.
- Lascia nell’armadio una deliziosa fragranza fresca, vero? – Doveva tirar fuori un po’ di charme, irretirlo con la parlantina per evitare che le scippasse l’ultima confezione – Adoro usarlo d’estate, quando…
- Beh, però è ottobre.
Ecco, aveva dimenticato che il ricciolone tontolone non era amante della poesia; era più spiccio. Bene, lo sarebbe diventata anche lei.
- Quindi?
- No, nulla, è solo che non è più estate, perciò potrebbe lasciarlo a me. Ma, la prego, – si scusò il ragazzo – sono un maleducato, è giusto che lo prenda lei.
- Non ha tutti i torti, siamo in autunno, potrei pure fare a meno della brezza marina nell’armadio. Sa che faccio? Glielo lascio.
La strategia di gioco era la finta cortesia: illudersi di averla spunta e poi, zan!, colpirlo a morte.
- Davvero? È gentile, ma insisto perché lo abbia lei, mi ha anche aiutato con la passata – esclamò lui.
- Ma lei mi ha dato una mano con la lonza, siamo pari.
- Di nuovo, insisto.
- Insisto io.
- Io insisto di più.
- Sono davvero molto brava ad insistere, mi creda.
- Se le cose stanno così… grazie.
- Bene. – Maledetto, l’aveva fregata! Ma se si aspettava che lei lo lasciasse andare via così, si sbagliava di grosso. – Certo che la brezza marina nel mio armadio ci sta proprio bene.
- Non lo dica a me, quando lo apro il profumo invade la stanza.
D’accordo, aveva provato con la gentilezza, anche se finta, e non aveva funzionato, ora sarebbe passata alle maniere forti.
- Già, già. Però sa una cosa? In realtà l’ho aiutata veramente tanto con la storia del sugo.
- Io c’ho perso cinque minuti dietro alla sua lonza. – Nemmeno il riccio dava segni di cedimento, però. Voleva quel Fluffy e l’avrebbe ottenuto, con le buone o con le cattive.
- Le ho persino insegnato la tecnica dello sguizzo… – ritentò Azzurra.
- Lei ha usufruito delle mie conoscenze anatomiche del maiale. – obiettò l’altro.
- … senza contare il danno subito dalla mia persona a causa sua, con le due pesche noci e l’albicocca crudelmente strappate alle loro simili per colpa della sua negligenza.
- Senta, non può ritrattare: ha detto che potevo prendere il flacone di Fluffy, ora me lo tengo.
- Ma ne stavamo discutendo! Lei insisteva, io insistevo, lei insisteva, io insistevo e ad un tratto lei ha smesso d’insistere! Poteva almeno avvisarmi, avrei smesso prima io!
- È stata una decisione improvvisa! – si giustificò lui, alzando il tono della voce, tanto che una commessa li guardò stupita – Ascolti, facciamo che lo prende lei e io ripasso domani, d’accordo?
Basta, la pazza aveva vinto, la situazione si era evoluta da una semplice discussione tra due adulti, a un battibecco tra cinquenni. Per giunta per del detersivo!
La tipa era matta, la cavalleria latente, ma non del tutto morta: gliel’avrebbe lasciato, almeno avrebbe fatto una bella figura agli occhi della cassiera guardona.
- No – rispose però Azzurra.
- Come no? – Nella sua voce c’era un’evidente nota di frustrazione.
- Non accetto la sua carità.
- Non è carità, – per la miseria! Avrebbe mai fatto la cosa giusta con quella maledetta ragazza? – è solo un modo per risolvere le cose e permettermi di tornare in banca dalla mia severissima capo.
- Ah, così lavora in banca… non l’avrei mai detto.
- Perché?
- Non ha la faccia da bancario, con tutti quei ricci ribelli. Non disturbano la clientela?
- Nessuno ha mai fatto un esposto a riguardo.
In effetti non aveva mai verificato. Però di sicuro la Leone, il suo capo, non avrebbe mancato di dirgli una cosa del genere. Lo rimproverava quando per caso starnutiva in primavera per via dell’allergia, figurarsi se si sarebbe lasciata scappare un’occasione del genere. Ma… davvero si stava chiedendo se gli utenti della banca si fossero lamentati dei suoi ricci? La pazzia era contagiosa, evidentemente.
- Va beh… ma si fida?
- Chi? La mia capo?
- Che c’entra il suo capo? Parlavo di lavatrici. Bianchi e colorati insieme?
Quella donna aveva la capacità di portare avanti dieci discorsi diversi, senza nemmeno rendere partecipi i propri interlocutori.
- Bianchi da una parte e roba colorata dall’altra: rossa, gialla, blu, verde, azzurra
La ragazza nel frattempo si era distratta, in quel tripudio di forme, colori e profumi che era il reparto dei detersivi. Per un architetto come lei, tutto ciò che avesse a che fare con quelle tre caratteristiche, era una sorta di specchietto per le allodole.
- Sì? – rispose, sentendosi chiamare, ma lui fraintese l’intero discorso.
- Sì, sì, tutta insieme.
- Io? – Azzurra si controllò braccia e gambe: le risultava di essere ancora tutta intera, nonostante il piccolo incidente delle due pesche noci e dell’albicocca.
- Lei?
- Sì, io.
- Cosa?
Il riccio si era definitivamente perso nella conversazione; non sapeva più nemmeno quale fosse l’argomento!
- Tutta insieme. – ribadì la ragazza – Almeno finché lei non mi investe col carrello.
- La lavatrice la investe con il carrello?
Che c’entrava ora la lavatrice?
- No, lei lei – precisò Azzurra.
- Io?
- Che aveva da dirmi?
- Sul Fluffy intende?
- Mi dica lei… mi ha chiamato per parlare del Fluffy? – Forse era il caso di mostrarsi accondiscendente, il riccio era già abbastanza confuso e aggredirlo non sarebbe stato fruttuoso.
- Io non l’ho chiamata! – si difese ostinatamente.
- Ho sentito nettamente il mio nome – replicò lei testarda.
- Nemmeno lo conosco il suo nome!
Erano almeno quindici minuti che si punzecchiavano e ancora non si erano presentati? Lei sentì il bisogno di colmare subito quella grave mancanza.
- Azzurra Trentini – disse, allungando la mano verso di lui.
- Achille Quaresmini – il riccio fece altrettanto e gliela strinse.
- Achille come il Felide?
Se l’aspettava, una domanda del genere; era una delle mille declinazioni a cui l’avevano abituato ventotto anni in quel corpo.
- Pelide – la corresse prontamente lui.
- No, parlavo del gatto del vicino.
- Mi prende in giro?
- Non mi permetterei mai, Achille. – Era divertente ripeterlo, con quelle due l finali che facevano indugiare la lingua sul palato. Un nome spassoso. – Certo che è strano.
- In famiglia abbiamo tutti nomi greci. – spiegò lui.
Non gli dispiaceva chiamarsi in quel modo, perlomeno non era il solito Marco o Pietro; però talvolta era davvero noioso dover dare spiegazioni sul perché portasse il nome di un eroe greco e non quello di un esploratore veneziano o di un vescovo di Roma.  
- Buffa scelta, ma in fondo poteva andarle peggio: Telemaco, Aiace, Agamennone, Priamo, Tindaro, Polluce, Egisto, Neottolemo… è una tradizione che intende mantenere? Perché se io e lei dovessimo sposarci non gradirei chiamare mio figlio Menelao. Al massimo il canarino.
Per quale assurdissimo motivo stavano parlando di nozze? Tra loro due, poi! Si conoscevano da un quarto d’ora e lui era piuttosto certo che quella fosse anche l’ultima volta che si sarebbero visti.
- Perché io e lei dovremmo sposarci? – chiese esterrefatto.
- Destino, suppongo. – scrollò le spalle lei – Mio padre ha conosciuto mia madre ad un matrimonio.
- È una dinamica molto comune.
- Era il matrimonio di lei. Sono scappati dal retro del ristorante.
Adesso gli sembrava tutto molto più chiaro, ma meglio non approfondire i trascorsi in casa Trentini.
- Possiamo tornare al detersivo? – propose.
- Credo che entrambi dovremmo lasciarlo qui. – concluse Azzurra – Se ci pensa, non è un comportamento corretto nei confronti del prossimo cliente che arriverà, vorrà comprare del Fluffy e non lo troverà.
- D’accordo, ha ragione. – A questo punto era meglio assecondarla, pensò Achille, almeno sarebbe finalmente riuscito a sbolognarla entro qualche secondo. Ora vai alla cassa e te ne vai, subito. – Non lo acquista nessuno dei due. Bene, è stato un piacere conoscerla, Azzurra. Buona giornata.
- Arrivederci, Pelide.
Arrivederci un cazzo. Io cambio supermercato e in questo non ci torno più, manco morto.
Stava per dirigersi diretto come un missile verso la cassa, quando notò che anche lei sembrava intenzionata a fare la stessa cosa. Ce n’era solo una aperta, il che significava fare la coda dietro a lei. Con lei. Si girò d’istinto verso la piccola parete che univa le due corsie e la guardò interessato. Merda, era quella dei cosmetici e degli smalti. Va beh, meglio perdere un po’ di mascolinità che altri dieci minuti – che, oltretutto, neanche aveva – a discorrere con quella.
- Provi quello lilla, è bellissimo! – gli urlò a distanza la pazza.
La cassiera alzò un sopracciglio, in un’espressione condita da stupore e un briciolo di disgusto, non si sforzò neanche di fingere di essere concentrata a fare il conto di Azzurra. Tentò, però, di aiutarla ad imbustare gli acquisti, ma all’ennesima volta che la ragazza le intimava di creare una solida base trapezoidale coi surgelati, rinunciò ad ogni carineria.
Achille trattenne il respiro finché le porte scorrevoli non si chiusero dietro la figura minuta di lei con un rumore secco, il più dolce che avesse mai sentito. Se n’era andata. Quasi quasi si commuoveva. Gli rimanevano quattro minuti e mezzo per pagare, caricare in macchina, mollare la spesa a casa e tornare in ufficio: nemmeno Superman ce l’avrebbe fatta, tanto valeva prepararsi alla ramanzina del capo e alle occhiatacce furiose del collega, nascosto da una fila chilometrica di clienti allo sportello. Ma almeno ora le orecchie si stavano riposando, senza quell’odioso – anche se doveva ammettere divertente, a sprazzi – cicaleccio femminile in sottofondo.
Passò davanti alla corsia dei detersivi, prima di rivirare verso la cassa, e lo vide di nuovo: il mitico Fluffy dall’obnubilante fragranza di brezza marina. Come il canto delle sirene per Ulisse – una sorta di amico greco –, il flacone lo reclamava a gran voce. Dopotutto, che gli importava? Azzurra era andata via, non avrebbe mai saputo che aveva infranto l’accordo di non belligeranza sul prodotto. Lo afferrò veloce e si precipitò alla cassa; avrebbe voluto sghignazzare maleficamente alla faccia della guru delle relazioni, ma s’impose di non farlo finché non fosse stato al sicuro nella sua automobile.
La commessa passò tutta la spesa davanti al lettore magnetico e lui si affrettò a infilare tutto nella grande busta di tela cerata del supermercato. Aveva ormai rinunciato a quelle sporte talmente biodegradabili da biodegradarsi prima di arrivare alla macchina.
Purtroppo il Fluffy non ci stava, così Achille se lo strinse con una mano al petto come un trofeo.
Pagò il conto, lasciò il carrello all’interno del supermercato e uscì all’aria aperta con un sorriso a trentadue denti e il flacone celeste da esporre neanche fosse una medaglia olimpica.
Ce l’aveva fatta. C’era voluta un po’ di astuzia, ma l’importante era aver vinto.
Aprì la macchina con il telecomando e spinse il pulsante per aprire il baule, depositandovi all’interno la borsa.
- Allora alla prossima!
Il motore acceso di una macchina alle sue spalle lo fece voltare di scatto. Era una Ypsilon color amaranto col finestrino sinistro abbassato. E un’Azzurra sorridente all’interno. Sorridente almeno fino al momento in cui non aveva visto l’agognato Fluffy a cui aveva dovuto rinunciare, saldamente circondato dalle braccia di quel riccio traditore di Achille. A quel punto aveva sgranato gli occhi, stretto le labbra in una smorfia di rabbia e scosso la testa ripetutamente, travolta dalla più nera ira e dalla cocente delusione.
- Le posso spiegare! – le urlò il ragazzo, ma lei non voleva starlo a sentire.
Nel tentativo di fare una drammatica uscita di scena – una sgommata e partire indignata –, mollò troppo presto la frizione, con il risultato che la macchina procedette a scatti per qualche metro e, infine, si spense.
Ad Achille veniva da ridere, Azzurra era troppo incasinata per essere reale. Per la salvaguardia del suo corpo, dal momento che la reazione della ragazza non era prevedibile – e lui desiderava avere figli in futuro – si trattenne a stento in un sorriso tirato.
- Faccia conto che non sia già più qui! – gli urlò lei, riavviando il motore e partendo, stavolta con un gran fragore.
 
- Tre minuti, Quaresmini, tre minuti di ritardo. Ringrazi il cielo che per ora ci siano solo quattro gatti in coda, altrimenti lo sentiva lei Brambilla borbottare come una caffettiera perché il suo collega se l’è presa comoda, come di consueto direi.
- Scusi dottoressa Leone, ho avuto un imprevisto.
- Si risparmi le solite scuse e si metta al lavoro.
Saranno pure state le solite scuse, ma erano vere, al contrario dei due wurstel che l’acidona aveva al posto delle labbra. Pagati da papà ovviamente, che guarda caso era pure l’amministratore delegato della banca in cui entrambi lavoravano. Achille non era nemmeno certo che la stronza ce l’avesse una laurea, eppure le era bastato il cognome per diventare la direttrice della filiale: ventisei anni, due in meno di lui, praticamente zero esperienza e la gerarchia gli ricordava che lei era un gradino più su. Lui era vicedirettore da un anno, era abituato a fare lavoro d’ufficio, ma da quando Iolanda era andata in maternità, la Leone aveva ben pensato di piazzare lui allo sportello, un modo assai poco sottile per ricordare a tutti che il suo futuro era nelle sue mani curate.
Si sedette alla scrivania, pronto a rendere operativo anche il secondo sportello della filiale, ma il computer pareva morto. Non si accendeva proprio. Controllò le prese, tentò d’invertirne alcune, ma lo schermo rimase completamente nero. La giornata sembrava procedere di male in peggio; afferrò la cornetta e provò a contattare l’assistenza, ma nessuno fu in grado di aiutarlo concretamente.
- Quaresmini, lasci perdere il terminale, verrà tra qualche ora il tecnico informatico a sistemare i suoi casini. Guardi che c’è la signora Geschwätz e valletti che la cercano; vada pure nel suo ufficio e li liquidi alla svelta, ha delle pratiche da sbrigare.
I suoi casini? Fino a prova contraria, quel computer era stato usato da Brambilla nella mattinata e l’aria colpevole del soggetto in questione sembrava confermare l’ipotesi che fosse lui il responsabile del malfunzionamento.
Achille si lasciò sfuggire un’imprecazione mentale contro quella grandissima zoccola della Leone, in parte gioendo di poter stare alla scrivania da solo, senza l’arpia a controllare ogni singola mossa. Era un ritorno al vecchio lavoro, quello di vicedirettore vero; non che le relazioni col pubblico non gli piacessero, – Ingrid, Ciofanni e il chihuahua, ad esempio, erano uno spasso – ma talvolta la clientela sapeva essere molto esigente, con richieste assurde, moduli incompleti, e dialetti africani e asiatici da interpretare.
Meglio la quiete del suo stanzino cinque per quattro metri, il rumore rilassante della macchina del caffè, il quadro con un paesaggio montano sulla parete, un pc funzionante…
Si accomodò sulla poltroncina girevole imbottita, ma qualcosa nella tasca dei pantaloni gli premette contro l’osso del bacino. Si raddrizzò senza alzarsi completamente e infilò la mano nei calzoni, traendone una piccola carta magnetica: era la tessera punti del supermercato.
Il pensiero andò direttamente a un soggetto: Fluffy, meglio conosciuto come il detersivo della discordia. Quando Azzurra se n’era andata via – la seconda volta, non quando aveva fatto cilecca –, si era sentito un po’ stronzo. Un po’ tanto stronzo. In fondo lei non era così male, neanche fisicamente: non troppo alta, occhi e capelli scuri, davanzale discreto, bel fondoschiena… si difendeva, nell’insieme. Magari il cerchietto con il fiocco poteva lasciarlo a sua nipote, la figlia di Elettra, per andare all’asilo, però nel complesso era carina. Se taceva.
Ingrid, Ciofanni e Arnold sfilarono di fronte ad un’inorridita direttrice, che mai si sarebbe abituata agli abiti vistosi e fuori luogo della signorotta teutonica.
Per la prima volta li vedeva senza la fredda barriera del vetro a dividerli. Lei corse ad abbracciarlo, mentre il compagno si accontentava di stringere il chihuahua color biscotto. Achille cercò di ricambiare, ma, nonostante la conoscesse da anni, non si sentiva proprio a suo agio, shackerato come un frullato in mezzo a quel seno prosperoso.
- Sighnor Qvaresmini, okki plu! Crande, crandissimo proplema!    
- Accomodatevi pure. – I tre si lasciarono cadere sulle due sedie identiche di fronte alla scrivania. – Ditemi, qual è il problema?
- Pankomat rotto. Kome quanto Arnolt non riesce ti antare in pagno: plokkato!
Ah, gli era mancata Ingrid e i suoi assurdi e imbarazzanti paragoni canini!
- Me lo dia pure, probabilmente è smagnetizzato. Glielo sostituisco subito.
- Oh, sempre prafo sighnor Qvaresmini. Qvanto tefe pacare?
- Niente signora Ingrid, è un servizio gratuito.
- Sentito, Ciofanni? Okki plu sempre prafo, onesto, non kiede soldi, lui non frekerebbe mai tonna come me.
Già, Achille Quaresmini è bravo, onesto, non fregherebbe mai una donna, non la ingannerebbe per accaparrarsi uno stupido flacone di detersivo alla fragranza di brezza marina…
Finì di preparare il nuovo bancomat per la signora Geschwätz e li congedò rapidamente, sempre più pensieroso. Sistemò alcune carte per circa un’oretta, ma non riusciva a concentrarsi su quei documenti, disturbato dagli eventi dell’ora di pranzo. Ventotto anni e si era ridotto ad ingannare una tizia per comprare una confezione di Fluffy. Aveva forse lasciato i gioielli di famiglia a casa, quella mattina? Gran bella prova di galanteria.
Lo disturbava. Sì, lo disturbava l’idea che la pazza potesse avere un’idea distorta di lui: non era il tipo da rubare a giovani donne indifese delle stupidissime confezioni di detersivo per lavatrice!
Chiuse la schermata del computer su cui stava lavorando e ne aprì un’altra, esitando a poggiare le mani sulla tastiera, prima di compiere una gigantesca infrazione alla riservatezza delle informazioni sui clienti. Controllò che Brambilla e la Leone fossero impegnati e lontani dalla sua postazione, quindi digitò nome e cognome nel motore di ricerca interno.
Azzurra Trentini.
Nessun risultato.  
Sarebbe stato troppo semplice se lei fosse stata cliente della sua banca. Provò direttamente su Google e trovò Trentini arch. Azzurra, ma il solo riferimento era lo StudioLab di  De Carlis ing. Sergio e soci, via Marconi 20/b. Gli orari di apertura coincidevano più o meno con gli orari della filiale, quindi, a meno di non riuscire a prendere ferie – il che probabilmente poteva avvenire verso il periodo di Natale. Del 2024 –, non sarebbe mai riuscito a trovarla sul posto di lavoro.
Ruppe ogni indugio chiamando Fabrizio, suo migliore amico, nonché ex compagno di università, che ora lavorava in una delle banche più importanti a livello nazionale.
- Posso parlare con il dottor Grella? Sono suo fratello. – Sperava ardentemente di trovarlo subito e concludere il losco affare nel minor tempo possibile.
- Stamattina quando sono uscito di casa avevo una sorella, Gaia. Che è successo nel frattempo?
- Sono diventato Gaio, Fabri. Ti ricordi che mi devi un favore?  
Se l’era inventato di sana pianta, ma era certo di riuscire ad inventare qualche balla plausibile su due piedi.
- No.
- In quinta elementare ti ho lasciato campo libero con Elisa. – esclamò sicuro di sé. Gli sembrava di avere una ragazza carina in classe con loro, l’unica di cui ricordasse il nome, e a lui piaceva, doveva sperare che anche l’amico le facesse il filo.
- Elena – lo corresse.
- Allora vedi che te ricordi?
- Mi ricordo che mi hai dato un pugno per lei. Che vuoi? – tagliò corto l’altro.
Era quello il bello di Fabri: non portava rancore, dopo vent’anni aveva dimenticato tutto. Più o meno.
- Voglio che tu metta da parte per due minuti la tua etica d’integerrimo operatore bancario e aiuti il tuo migliore amico preferito.
 
Azzurra aveva assistito inerme al lento declino della cena da lei organizzata.
Fino agli aperitivi era andato tutto pressoché bene: sembravano una piccola e imbarazzata famiglia qualunque. Sergio era ormai sulla sessantina e Dalila non gli era anagraficamente molto distante, nonostante fosse ancora una bella donna, con una fulgida chioma ramata e un fisico slanciato. Se ne stavano tutti e tre con lo sguardo basso a mangiare tartine e bruschette nel silenzio più totale. Azzurra aveva tentato in ogni modo possibile di avviare una conversazione; parlava di gossip con lei o di lavoro con lui, ma non riusciva a coinvolgere entrambi in un discorso che esulasse dal commentare il tempo incerto di quell’ottobre soleggiato.
Forse sul serio quei due avevano esaurito le cose da dirsi e quel procrastinare di continuo il momento d’intraprendere sentieri diversi – dovuto soprattutto alla cocciutaggine di Azzurra e ai suoi disperati tentativi di farli vivere per sempre felici e contenti – stava finendo col renderli l’esatto opposto.
- Dalila, vuoi ancora dei crostini?
Le offriva del pane, ma in realtà è come se le stesse chiedendo se voleva stare ancora con Sergio.
- Ti ringrazio, cara, sono a posto così.
Perché non voleva quei dannati crostini? Erano già vecchi, chi pensava li avrebbe presi il giorno, il mese, l’anno dopo? Ormai si era impegnata a venire a cena, il minimo che potesse fare era mangiarseli, e che cavolo!
Le crespelle erano venute troppo dolci, Azzurra non escludeva l’ipotesi di aver confuso il sale con lo zucchero nella preparazione. Era troppo agitata all’idea di doverle lanciare in aria a mo’ di frittata per curarsi di sottigliezze simili. Al massimo ne aveva fatte alcune di scorta e nell’armadietto c’era un barattolo di nutella; le avrebbe spacciate per crêpes e problema risolto.
- Sergio, ne gradisci un’altra?
- Lo sai che sono a dieta, tesoro.
I bottoni della camicia all’altezza della pancia sul punto di esplodere sembravano suggerire che fosse all’ingrasso come un maialino d’allevamento, ma la padrona di casa apprezzò lo sforzo creativo della risposta.
Purtroppo non c’era stata occasione di provare l’efficacia della lonza al latte. Dalila, che lavorava all’ospedale principale della città, era stata chiamata d’urgenza per l’assenza di un collega, vanificando di fatto il piano di Azzurra di stimolare il suo istinto materno. Certo ormai ci si metteva pure l’orologio biologico a remare contro il geniale progetto di fare un bambino, ma a quel punto pure un porcellino d’India, una cavia peruviana, ma anche un cagnolino del canile comunale sarebbero andati bene.
- Sono terribilmente dispiaciuta di dover andare via così presto, ma purtroppo il lavoro mi chiama. Grazie della cena, era tutto buonissimo. Ci sentiamo!
Dalila aveva radunato giacca e borsa e se n’era andata in modo talmente celere che gli altri due erano rimasti spiazzati. Qualcuno avrebbe potuto benissimo dire che stesse scappando.
- Azzurra? – Sergio la invitò ad alzare lo sguardo mortificato dal piatto – Dobbiamo parlare.
- Sì, ho quasi terminato la prima bozza per la ristrutturazione della villa del 1700…
De Carlis le sorrise bonario: quella ragazza era una testa dura e proprio la sua testardaggine era uno dei motivi principali per cui l’aveva assunta. E per cui desiderava licenziarla quasi ogni giorno.
- Non intendevo discutere di lavoro e tu lo sai. Stai evitando questo discorso da settimane, se non mesi, perciò ora te lo dirò e tu dovrai accettare la cosa nello stesso modo in cui lo abbiamo fatto io e Daly: ci stiamo separando.
- Forse è solo la crisi del settimo anno.
- Abbiamo già chiesto una consulenza legale. – Gli dispiaceva smontare le teorie astruse della collega, ma la conosceva da quando a vent’anni aveva cominciato un tirocinio nel suo studio e sapeva che avrebbe cercato di dare un nome improbabile anche al problema sorto tra lui e la moglie: carestia affettiva, siccità emozionale o qualcosa di simile.
- Guardare The Good Wife non è chiedere una consulenza legale, Sergio.
Julianna Margulies a volte aveva il potere di confonderlo.
- Un avvocato vero… stavolta.
Azzurra sospirò, colma di malinconia: perché, tra i milioni di coppie al mondo, proprio loro dovevano lasciarsi? Perché non Brad e Angelina? Dalila era centomila volte più simpatica di lei e Sergio era più… più… più ingegnere di lui!
- Non voglio che vi lasciate. – mugolò afflitta.
- Lo so, – le rispose comprensivo – però devi sapere che non stiamo rinnegando quel che c’è stato tra noi, né stiamo incolpando te per averci fatto incontrare; anzi, ti siamo grati per quello. Solo non ce la sentiamo più di vivere insieme e siamo abbastanza maturi da ammetterlo.
- Stai insinuando che io non sia matura?
Non ci pensò neanche un secondo.
- Sì, decisamente.
- Mi offendi! – come se fosse stata la prima volta che qualcuno le dava dell’acerba.
- Sei tu che offendi la tua intelligenza, continuando ad incolparti per qualcosa che non dipende da te. I matrimoni finiscono, Azzurra! È la vita.
Il grissino che aveva in mano la ragazza venne ridotto in migliaia di briciole nervose.
- Ma io voglio che voi stiate insieme. – s’impuntò, confermando le tesi del capo – Siete i miei Lancillotto e Ginevra… senza la parte in cui lei viene condannata a morte, tu ammazzi metà Tavola Rotonda e finisci solo e sfigato come un eremita. Oddio, potresti diventare così!
Ed ecco la vena melodrammatica impossessarsi di lei e fare spalancare gli occhi a lui, intendo a pronunciare scongiuri.
- Grazie.
Azzurra tentò un ultimo, disperato attacco: magari sarebbe riuscito a convincerlo con la forza della disperazione.
- Torna con lei.
- Si può sapere che diavolo di ansia da separazione di affligge? – s’alterò lui, pur sapendo che alzare la voce con lei non avrebbe cambiato le carte in tavola. Era troppo ostinata. – Non cambia nulla nel rapporto con te, ci saremo entrambi ogni volta che vorrai. Saremo sempre il tuo abbozzo d’ingegneria sentimentale, come dici tu.
- Era capolavoro! – lo corresse lei, ma il sorriso di Sergio fu eloquente.
- Beh, è palese che tu debba perfezionare le tue tecniche. Però sei sulla buona strada. – poi, decise a sua volta di congedarsi. – Sono stanco, vado a casa, grazie della cena.
 
Viale della Quercia, 27.
Achille controllò un’ultima volta l’appunto che aveva preso mentre Fabrizio gli dettava sottovoce al telefono e il navigatore sul cellulare. Pareva proprio che fosse arrivato a destinazione. Un condominio carino, appena fuori dal centro, pitturato di un eccentrico arancione acceso e circondato da un piccolo giardino curato. Il cancellino era aperto, per fortuna, dava l’impressione di non venire mai chiuso.
Cacciò cellulare e foglietto in tasca, prese il pacchetto regalo che aveva confezionato alla bell’e meglio – dopotutto lavorava in banca, la creatività non era di certo il suo punto forte – e si avviò verso il breve vialetto piastrellato che conduceva nell’atrio del palazzo.
Due fidanzatini stavano amabilmente mangiandosi la faccia a vicenda in un bacio dall’alto tasso di coinvolgimento emotivo, proprio sulla porta.
- Ehm, scusate?
Lo ignorarono completamente. Achille cercò di aggirare l’ostacolo, ma le mani del ragazzo, salde come artigli sul fondoschiena di lei, gli ostruivano il passaggio da entrambe le parti. Provò ad appiattirsi contro il cardine, cercando di passare di profilo con le braccia che reggevano il pacchetto sopra la testa: tentativo vano. Alla fine li abbracciò entrambi, li spostò in blocco verso il muro laterale e i due non diedero cenno di accorgersene, continuando ad ispezionare l’uno la bocca dell’altro.
- Ecco qua. Proseguite pure con… il soffocamento reciproco.
Con la via d’accesso alle scale finalmente libera, l’unico problema da risolvere per trovare Azzurra era scoprire il suo interno. I piani erano solo cinque, perciò, al di là un po’ di sano esercizio fisico, lo sforzo non doveva essere troppo impegnativo.
Ogni pianerottolo aveva due appartamenti, separati da un paio di gradini. Achille non trovò il cognome Trentini sul campanello fino all’ultima rampa in cima al condominio, dove c’era una sola porta cromata di rosso, la mansarda presumibilmente. L’occhio gli cadde sullo zerbino; era un semicerchio marroncino con la scritta tutt’altro che simpatica: You again? Era di sicuro la casa giusta.
Tentennò qualche istante prima di suonare, chissà cos’avrebbe pensato lei trovandoselo davanti al suo appartamento, di sera, quando era in pratica uno sconosciuto. Pazienza, ormai aveva attraversato la città per cercarla e, conoscendo il soggetto, era in grado di saltargli al collo o per ammazzarlo o per la contentezza di vederlo.
Azzurra, all’interno dell’appartamento, si alzò meccanicamente dal divano, singhiozzando come una bambina. Che fosse Sergio a suonare il campanello per dirle che stava scherzando prima? Il lumicino della speranza si spense non appena aprì la porta e si trovò davanti il riccio ladro del supermercato.
- Che ci fa lei qui? – lo aggredì subito – È-è uno stalker? Guardi che sono armata, stia indietro! – Nel frattempo aveva tastato con la mano destra il mobiletto dell’ingresso, alla ricerca di qualcosa di appuntito o almeno di pesante da usare come arma di difesa contro l’intruso. L’unica cosa che era riuscita a racimolare, però, era un blocchetto di post-it a forma di mela. – Le… incollo gli occhi insieme, se non si allontana!
- Cosa? Si calmi, Azzurra, – replicò lui, appoggiando il pacco regalo per terra e facendole cenno con le mani di rilassarsi – non sono uno stalker, sono Achille, del supermercato… ricorda?
La ragazza lo fissò incredula.
- Mi ha preso per rimbambita? So chi è lei. Ma cos’è venuto a fare a casa mia? E chi le ha dato l’indirizzo? – Stava per dire qualcos’altro, poi parve ripensarci. Si avvicinò a lui e gli domandò sottovoce:  – Non sono stata io, vero?
- No, è una lunga storia. – Veramente era corta, ma raccontare di aver chiamato un suo amico in un’altra banca, pregato perché infrangesse una ventina di norme sulla privacy cercando il suo nome tra i clienti e implorato che gli comunicasse la via della sua abitazione… beh, lo avrebbe etichettato senza dubbio come maniaco – Si sente bene?
- Perché non dovrei? – Stava riprendendo a frignare e due grosse lacrime le stavamo scendendo sulle guance arrossate.
Achille la osservò meglio: era un disastro piagnucolante e nemmeno il vestito floreale sopra il ginocchio che le lasciava intravedere la forma del seno migliorava di molto la situazione.
- H-ha il mascara tutto colato, i capelli arruffati, gli occhi gonfi… – S’irrigidì subito dopo averlo detto, poteva aver azzardato troppo; la sua ex gli aveva mollato dei ceffoni anche per molto meno.
- Sta cercando di dirmi che sono un cesso? – Lei stava urlando, ma almeno la faccia era salva.
Anche se poteva sembrare il contrario, in realtà la trovava… carina, tenera quantomeno, così fragile da desiderare di abbracciarla come un peluche gigante, di quelli belli ciccioni, o come un cucciolo bavoso.
- Assolutamente! La trovo molto… – come trovare la giusta parola per non mortificarla? – emotiva.
- Ritenti.
- Umana?
- Può fare di meglio.
- Graziosa.
Finalmente Azzurra sorrise soddisfatta.
- Adoro la sua spontaneità. – Achille si unì a lei in un’espressione gaudente. Forse era riuscito nell’intento di farla calmare e dimenticare il suo rocambolesco arrivo. – Mi dice che c’è venuto a fare qua?
O forse no.
- Volevo scusarmi per oggi, mi sono comportato come un ragazzino e ho infranto il patto che avevo siglato con lei.
Lei lo guardò un po’ scettica, ma le si leggeva in faccia che non avrebbe retto il broncio a lungo. Certo il Pelide aveva osato – e parecchio! –, però in fondo era stato un gesto cortese, carino, dolce, sensibile… potenzialmente maniacale e omicida, ma suvvia, nessuno è perfetto.
- Il ratto del Fluffy, eh?
- Sono desolato.
Lei ci pensò un attimo, poi decise di fargli una domanda che avrebbe potuto migliorare la situazione disastrosa di lui ai suoi occhi.
- È arrivato tardi a lavoro?
- Tre minuti e tredici secondi.
Ancora una domanda e si sarebbe sentita meglio. Nel caso di risposta affermativa, naturalmente.
- L’hanno sgridata?
- Strigliato come un bimbo dell’asilo. – Azzurra si concesse una breve Macarena mentale per celebrare la piccola rivincita, ma ad Achille non sfuggì il sorrisino malefico sulle sue labbra. – Sta festeggiando internamente?
- Può essere… – rispose lei vaga, conscia di essere stata beccata in flagrante.
- Ha finito?
- Ancora un attimo, devo terminare di agitare il sedere. Ecco, ci siamo. – Tamburellò nervosamente le dita sul battente della porta; la proposta che aveva in mente andava contro tutti i principi del suo senso. Non di certo quelli che le aveva insegnato sua madre: una tizia scappata al proprio matrimonio con un lontano parente del marito, aveva perso ogni diritto di fare la morale alla figlia in fatto di relazioni – Bene, se mi promette che non mi ucciderà, la invito ad accomodarsi.
Ecco, l’aveva detto: o aveva appena firmato la propria condanna a morte o poteva essersi invischiata in qualcosa di più pericolosamente piacevole.
- Cercherò di fare del mio meglio.
Azzurra si scostò dalla porta, spalancandola e lasciandogli lo spazio necessario per entrare. Achille si abbassò a recuperare il pacco che aveva appoggiato sullo zerbino e fece ingresso nell’appartamento. Si prese del tempo per osservarne le caratteristiche: il colore dominante sulle pareti era il tortora, i mobili erano tutti sulla tonalità del bianco, i quadri raffiguravano le più grandi città del mondo. Sopra il caminetto, una piccola libreria conteneva grossi volumi di storia dell’architettura e dei dvd meticolosamente sistemati in ordine cromatico.
- Se ha finito la radiografia, posso chiederle cosa c’è nel pacchetto?
Il ragazzo si accomodò sul divano e le porse il regalo.
- Non sono solito presentarmi a casa di sconosciute incontrate una volta al supermercato a mani vuote. Lo apra, coraggio.
Lei lo afferrò tra le proprie mani, timorosa, sedendosi accanto a lui. La carta che avvolgeva il dono era da pacchi e l’orrendo fiocchetto striminzito era di rafia bluette. Non capì se il colore fosse un omaggio a lei o una semplice coincidenza, ma gli concesse qualche punto extra; se non per merito, erano un bonus per il fattore c.
Tolse il l’involucro e scrutò attentamente il contenuto.
- Fluffy! – Un nuovo flacone di detersivo arancione era sistemato in una scatola rettangolare – Non è brezza marina, però.
- È pesca e albicocca, per onorare la memoria delle cadute nella giornata di oggi. Come si dice in questi casi, il loro sacrificio non è stato vano.
Azzurra si portò teatralmente la mano destra sul cuore.
- Lei tocca le corde più profonde del mio essere. – Doveva riconoscere che Achille aveva trovato un modo gentile per ricordare le defunte. Che lui aveva ucciso.
- Dalila e consorte se ne sono andati prima? – Cambiò argomento lui d’improvviso.
- L’hanno chiamata per sostituire un collega malato in ospedale e Sergio è rimasto solo per confermarmi che sono già andati dall’avvocato e che stanno procedendo con le pratiche per la separazione. Sono scoppiata in lacrime, lui ha detto che il loro affetto per me rimarrà immutato, che non mi costringeranno a scegliere uno o l’altro; mentre usciva ha addirittura promesso che proverà ad assumere l’architetto gnocco di cui ero innamorata lunedì scorso. Un chiaro tentativo di comprare il mio affetto.
- Allora si aspetti la contromossa di Dalila.
- Al massimo mi darà un buono per una visita ginecologica.
Il ragazzo si pietrificò; da degno esemplare della fauna maschile, i discorsi su organi genitali femminili, mestruazioni, assorbenti e affini erano un campo minato. Tuttavia, le tette lo interessavano. Comunque, meglio limitarsi ad annuire e cambiare la rotta della conversazione. Per sua fortuna, Azzurra parve capire il suo imbarazzo e si alzò, raggiunse la cucina a vista, trafficando negli armadietti per cercare due bicchieri e la bottiglia di moscato dei De Carlis che non avevano avuto occasione di bere.
- Almeno le tornerà utile. – la voce di lui le giunse dall’altra parte della sala. – Quindi l’arrosto non ha funzionato.
Appoggiò i calici sul tavolino davanti al divano e si diresse verso il frigorifero.
- Ha scelto una lonza guasta, evidentemente. Gradisce del tiramisù?
- È un tentativo di sedurmi? – Si erano entrambi rilassati e si stavano ora godendo il divertimento del botta e risposta tra loro. – Non la facevo così sfacciata.
- Disse quello che si era presentato sulla porta di una sconosciuta alle dieci di sera. – Non aspettò risposta e posò tiramisù, piattini e posate accanto a bicchieri e vino. Achille aprì il moscato e ne versò un po’ per entrambi, mentre Azzurra si assentava un attimo per andare in bagno. – Si serva pure, io vedo di sistemare questo pasticcio che mi rende… com’era? Ah, sì, emotiva, umana e graziosa.
Lui immaginò di vederla sorridere, mentre era intenta a lavare via dal viso lacrime e trucco colato. Nel frattempo, prese un cucchiaio e la teglia del tiramisù, mangiando direttamente da quella. Adorava i dolci, erano l’unica vera tentazione a cui non riuscisse mai a dire di no e doveva ammettere che quello di Azzurra era molto buono. Di pasticceria, non aveva dubbi.
Lei ritornò nel salone giusto in tempo per ammirarlo divorare la terza fila di savoiardi. Senza piattino, senza aver prima frazionato il dessert in quadrati di quattro centimetri per quattro e di certo senza alcuna dignità! Sembrava un sopravvissuto ad una carestia secolare, si ficcava in bocca un boccone dietro l’altro, procedendo ora dritto, ora in diagonale nella pirofila.
- Vedo che ci tiene alla linea.
Non a quella geometrica, però, pensò criticamente con deformazione professionale.
- Fcufi,– farfugliò lui, mandando giù l’ultima cucchiaiata – perdo la mia grazia quando ho davanti un dolce.
- La stessa grazia con cui mi ha investito con il carrello e ha rubato il Fluffy?
Achille roteò gli occhi con finto fare annoiato, poi prese in mano la teglia col tiramisù e la mostrò meglio ad Azzurra.
- Si sforza così tanto di ricordare, e di ricordarmi, le mie presunte malefatte che non apprezza nemmeno i gesti carini che faccio per lei, architetto. – Lo sguardo della ragazza si soffermò sul dolce: il tiramisù rimanente aveva la forma approssimativa di una piccola casetta con il comignolo sul tetto. – Fosse arrivata qualche secondo prima, avrebbe trovato anche una bella nuvoletta di fumo.
Azzurra prese un cucchiaino, lo capovolse e tracciò con esso una riga per ridurre le dimensioni della costruzione stentata di Achille, allontanando l’eccesso.
- Non mi sarei mai potuta permettere un’altra casa così grande – spiegò. Poi prese i due bicchieri di moscato e ne porse uno a lui.
- Io le avrei fatto un mutuo senza problemi. – Le sorrise, poi bevve un lungo sorso di vino – Bastava solo che venisse da me.
Nel tentativo di metterla a proprio agio, senza più dubbi su di lui, stava correndo il rischio di agitare le acque ancora di più, trascinandola con sé a danzare sulla sottile lama del flirt. Lei non era così sprovveduta da non conoscere il pericolo a cui andava incontro, ma quel giorno si sentiva abbastanza intrepida da sfidare la sorte e le intenzioni di Achille.
- E darle l’occasione di fare l’eroe? – fece una smorfia che indicava che non era propensa a fare una tale concessione.
- Sono un uomo, è il mio sogno diventare l’eroe di una donzella in difficoltà.
- Scommetto che la calzamaglia le sta un amore – lo canzonò.
Il ragazzo si fece serio e gonfiò il petto come un tacchino ripieno.
- Diciamo solo che qualcuna mi ha paragonato a Roberto Bolle. – esagerò – Dopotutto, non dimentichiamoci che sono un semidio.
Azzurra raccolse in parte quell’ardito pavoneggiarsi del suo inaspettato ospite.
- E io una tinta pastello. Ciò dovrebbe farla riflettere: il nome spesso non rispecchia il carattere.
Achille riempì un altro cucchiaio di tiramisù e lo sbafò senza ritegno, sotto lo sguardo allibito della ragazza, che non si capacitava di come fosse riuscito a spazzolare praticamente metà teglia di dolce e ancora avesse la forza d’ingurgitarne dell’altro.
- Sta forse insinuando che io non avrei le sembianze o la forza del mio omonimo?
- Per verificare dovrei farle togliere una scarpa e colpirla al tallone, ma non sono certa di essere pronta ad affrontare un tale stato d’intimità da vederle i piedi nudi.
- Fredda e algida come un polaretto: – commentò – il suo nome le calza a pennello.
Lei sfoggiò un'altra di quelle espressioni da maestrina che lui aveva conosciuto al supermercato, quando si era tanto applicata per istruirlo tra gli scaffali stracolmi e i pochi clienti dell’ora di pranzo.
- In realtà, il significato è che ha il colore del cielo sereno – gli spiegò. Era una di quelle cose che sua madre amava ripeterle da bambina, ogni singola volta che lei le chiedeva per quale motivo l’avessero chiamata come un colore. Perfino Giampaolo, il gatto persiano di suo padre, aveva un nome più normale del suo. E c’era da domandarsi se ci fosse qualche collegamento tra la razza del gatto e l’origine altrettanto persiana di Azvard, da cui Azzurra.
- Se controlla bene ci troverà anche la specificazione d’inverno, in Siberia, a -50°C. – la prese in giro, notando quanto le risultasse facile irrigidirsi in sua presenza – Temo che la casa di tiramisù non contribuirà a sciogliere il suo cuore gelido.
- Nemmeno la rata del mutuo che mi vuole fare accendere.
- Sono un eroe, non un messia: – sospirò – faccio mutui, non miracoli.
- E allora ho paura che il suo aiuto mi sarà del tutto inutile.
- Come vuole, però mi sembra giusto dirle che nessuna si è mai lamentata.
- Nessuna? – ripeté lei – Significa che è stato l’eroe di parecchie donzelle in difficoltà.
- È gelosa?
Il sorriso malizioso di Achille la fece vacillare, ma non voleva in alcun modo concedergli il vantaggio di capire come non le fosse indifferente.
- Pensavo solo che gli eroi fossero personali, – esclamò quasi delusa – non credevo di doverne prendere uno riciclato.
- Ehi, – la bloccò lui – piano con le parole! Con le altre ho fatto soltanto pratica, per migliorare.
Azzurra si alzò, si versò dell’altro vino e tornò accanto a lui sul divano, portandosi entrambi i piedi scalzi sotto il sedere.
- Sono curiosa di sapere se queste tecniche di seduzione funzionano.
Pareva divertirsi un mondo a propinarle battutine sciocche su relazioni con altre donne, presunte e reali.
- Qualche volta, ma non creda che siamo solo noi uomini a tentare l’abbordaggio. Oggi, ad esempio, una tizia ha tentato di rimorchiarmi spudoratamente al supermercato con la scusa d’insegnarmi a scegliere il sugo.
- Non era affatto una scusa! – appoggiò il bicchiere sul tavolo, difendendosi dalla folle accusa che lui le stava molto poco velatamente muovendo.
- Vero, mi perdoni, – si scusò lui – era una tecnica. Dello sguizzo, ad essere precisi, o almeno è quello che mi ha detto lei. Non aveva un aspetto raccomandabile.
- Troppo emotiva, umana e graziosa per sembrare rispettabile?
Achille ignorò deliberatamente la frecciatina e continuò con la sua dettagliata descrizione dell’incontro al supermercato. Dal suo punto di vista, ovvio.
- Si è inventata di tutto pur di non smettere di parlare con me, avrebbe dovuto vederla.
- Sbaglio o è stato lei ad avvicinarsi per aiutarmi con la lonza?
- Sono un gentiluomo, mi ha circuito e si è approfittata di me.
- Infatti la vedo davvero provato – scherzò lei.
Lui si mise entrambe le mani sul petto e da perfetto attore consumato, recitò la sua battuta colma di dolore.
- Solo perché non riesce a vedere le ferite interne.
Azzurra si trovò su un piatto d’argento la ghiottissima occasione di terminare il gioco verbale tra i due e farlo volgere in qualcosa di più interessante. Achille, comunque, auspicava che si rimanesse in ambito linguistico.
- Questa ragazza l’ha proprio segnata, nonostante la conosca da meno di ventiquattr’ore…
Lui mangiò la foglia, il ramo e pure la pianta.
- E pensi che abbiamo già litigato un paio di volte, fatto pace, fatto la spesa insieme, mangiato sul divano, io l’ho già rincorsa fino a casa e fatto il cretino per farla ridere.
Azzurra, per un riflesso condizionato, gli sorrise complice. Sì, era proprio un cretino, ma lei lo era ancora di più a barcollare emotivamente per le idiozie che lui le stava rifilando.
Perfetto, il tontolone la stava intontendo.
Lei lo guardava con occhi indecisi, lui non la sapeva decifrare. Non solo il suo sguardo, non sapeva decifrare lei tutta. Il silenzio che regnava in quel momento, ad esempio, che significava? Un tacito assenso a realizzare quello che lui aveva in mente o semplice imbarazzo e ritrosia a dirgli di andarsene per mera educazione?
O forse era questione di palle.
Dai, cazzo, ti chiami Achille!
Sull’onda emotiva provocata dal ricordo di antichi eroi omerici, il riccio si spostò di qualche centimetro sul divano, sporgendosi verso di lei. Azzurra non si mosse, lasciò che lui si avvicinasse al suo viso e strofinasse la punta del naso prima contro la sua guancia, poi contro il suo, di naso. Non riuscì ad impedire a se stessa di respirare rumorosamente, chiuse solo gli occhi, mentre lui cominciava a baciarle leggero la fronte, le palpebre, per poi scendere sulle gote accaldate e infine sulla bocca. Achille socchiuse appena le labbra per sfiorare le sue, con lentezza, non voleva affrettare le cose e rischiare di spaventarla, anche se una parte di lui premeva perché accelerasse. E avrebbe premuto parecchio entro poco, sulla zip dei pantaloni in particolare.
Decise di osare di più, lei sembrava abbastanza rilassata da permettergli di approfondire il contatto. Le mise una mano sul fianco ed una sulla schiena per spingerla più vicino a sé e… se fosse scappata qualche strusciatina di certo non si sarebbe lamentato.
Ma Azzurra scattò in piedi con la velocità di una saetta e l’espressione indignata.
- Sta cercando di approfittarsi di me? – lo accusò ad alta voce.
Il ragazzo la fissò incredulo, la sua bi-tri-tetrapolarità cominciava davvero ad alterarlo. Prima si era goduta le moine, poi ora se ne stava con l’indice puntato verso di lui ad attribuirgli false imputazioni.
- No, i-io credevo che…
Fabrizio avrebbe potuto tranquillamente potuto definirla una figura di merda. E non solo Fabrizio. Non ricordava di essere mai stato respinto in quel modo da una donna. Gli sembrava un po’ di capire ora come si era sentito il buon vecchio Pelide originale quando lo avevano colpito al tallone destro, il famoso tallone di Achille. Solo che, a giudicare da quanto gli bruciava la ferita nell’orgoglio, gli pareva di essere stato colpito in un’altra parte anatomica.
- Lei credeva che cosa? – continuò Azzurra – Che bastassero due battutine del cavolo per farmi cadere ai suoi piedi? Pensava di riuscire a portarmi a letto?
- No, certo che no.
D’accordo che era un uomo e che aveva i suoi bisogni fisiologici, ma non era pervertito al punto da voler concludere la prima sera. Almeno, non era così ottimista.
- Ne è sicuro? Perché a me è parso proprio il contrario – continuò imperterrita lei.
- Stavamo solo parlando! – si difese – Le assicuro che non l’avrei mai spinta a fare nulla che non avesse voluto.
- Oh, bene. Devo anche ringraziarla per questo?
Achille stava per gettare la spugna: cercare di avere una normale conversazione con Azzurra era come cercare di ottenere un alano dall’accoppiamento di due babbuini.
- Lei fraintende sempre quello che dico.
- Ah, io fraintendo? Quindi è colpa mia.
- Santo cielo! – gridò lui esasperato – Senta, faccia finta che non sia mai venuto qua. D’accordo? Ora io me ne vado, lei si rimette sul divano a mangiare il suo tiramisù, poi si fa una bella dormita e si dimentica di questa giornata assurda.
Mentre parlava, si era alzato per recuperare la giacca sullo schienale del divano e se l’era infilata convulsamente; d’improvviso non vedeva l’ora di levare le tende, ne aveva abbastanza di tentare di essere carino e gentile con una pazza furiosa che travisava ogni singola parola o gesto.
- Ora vuole pure dirmi cosa devo fare? – Gracchiò Azzurra, frugando nella propria borsa, alla ricerca di chissà che cosa: spray al peperoncino, la Sacra Bibbia, il cadavere di un cervo mummificato, davvero non gli interessava.
Prese la direzione dell’ingresso, per uscire da quella porta e tornare nella civiltà, in mezzo a gente normale, con personalità normali e non da manicomio.
- Addio, Azzurra. Buona vita – le augurò, senza cercare di stringerle la mano, perché la possibilità che lei lo accusasse di molestie sessuali non sembrava totalmente remota.
Lei però gli sorrise amabile, gl’infilò nel taschino della giacca un foglietto rettangolare e si piazzò davanti a lui. Si guardarono per una decina di secondi, Achille sempre più confuso, Azzurra con le idee sempre più chiare.   
Gli sorrise, gli mise una mano dietro la nuca e lo attirò a sé, baciandogli le labbra. Lui rimase pietrificato e disorientato, l’ultima cosa che si sarebbe aspettato era trovarsi da un momento all’altro la bocca di lei sulla sua. Non mosse nemmeno un muscolo, lei avrebbe potuto saltargli addosso e strappargli i vestiti di dosso o tirargli un pugno nello stomaco e piegarlo in due dal dolore.
Invece, Azzurra si limitò a staccarsi da lui e a guardarlo con aria critica.
- Mh. Piuttosto scarso come semidio. – Poi aggiunse sottovoce: – Buona notte, Achille. Chiamami domani.
Gli sbatté letteralmente la porta in faccia. Una faccia piuttosto sorpresa, a dire la verità. Cos’era appena successo?
Il ragazzo trasse dal taschino il piccolo cartoncino che lei gli aveva dato un attimo prima di decidere di baciarlo; era il suo biglietto da visita, con il numero dell’ufficio e il cellulare sul retro. Dunque lei voleva che lui le telefonasse…
L’aveva fregato alla grande, la sua era solo una commedia. Prima l’aveva assecondato, poi respinto, poi rimproverato, poi quasi cacciato di casa, poi baciato… e cacciato definitivamente di casa.
E lui si era esaltato, depresso, arrabbiato, infuriato e… incuriosito. Quell’andamento incostante lo irritava e attraeva allo stesso tempo. Ma non poteva lasciare ad Azzurra tutto quell’ascendente. In più, da buon cavernicolo – o eroe greco, il concetto era lo stesso – non voleva che fosse lei a condurre i giochi.
Senza pensarci due volte, prese a battere le nocche furiosamente sulla porta rossa.
- Azzurra, mi spiace rovinare il tuo momento di gloria, purtroppo ho dimenticato le chiavi!
Un attimo di esitazione, poi gli rispose.
- Dove sono? – gli urlò dall’interno.
- Ehm… incastrate nel divano, per terra, non lo so! – mentì – Apri, per favore.
Si sentirono dei passi veloci raggiungere l’uscio. La ragazza venne ad aprire annoiata, ispezionando il pavimento per individuare il fantomatico mazzo di chiavi perduto. Era visibilmente scocciata, non per la supposta sbadataggine di lui, ma piuttosto perché in quella giornata le sue amate uscite di scena ad effetto non parevano fungere come da copione: la macchina che si spegneva, il Pelide che bussava per rientrare…  Achille bloccò il flusso dei suoi pensieri quando la prese per il busto, la spinse contro la porta e la baciò. Stavolta niente buffetti o carezze, lasciò che la frustrazione di poco prima e la soddisfazione di zittirla agisse per lui. Le socchiuse facilmente le labbra, mordicchiandole piano con i denti e stuzzicandole con la lingua, che poco dopo le invase la bocca. La torturò per mezzo minuto, il tempo di annebbiarle i sensi e sentire i muscoli di lei rilassarsi sotto le sue mani. Quindi l’allontanò.
- Che il disgelo abbia inizio. – disse, ancora con il fiatone – ‘Notte Azzurra, ti chiamo domani.
Uscì sorridente dall’appartamento di via della Quercia con rinnovato spirito: la virilità e la nomea erano di nuovo al sicuro.
Azzurra, invece, rimase a fissare la porta, con lo stomaco sottosopra. Aveva pensato che la sceneggiata di poco prima bastasse a confonderlo al punto da non farlo reagire almeno fino al giorno seguente.  Al contrario, lui non aveva impiegato che una manciata di secondi ad elaborare una strategia per riequilibrare una situazione sfavorevole.
Forse Achille Quaresmini non era semidio per discendenza, ma c’era qualcosa al di là dell’umano nella sua tenacia.
A lei toccava la prossima mossa: avrebbe scoperto e trovato il suo punto debole, il celeberrimo tallone. Perché, a ripensarci meglio, non trovava più così sconveniente vederlo a piedi nudi… sperando che togliergli le scarpe fosse solo l’inizio.
 
 
   
 
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