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Autore: theGan    14/09/2012    1 recensioni
C’è una casa nel bosco sempre aperta.
C’è una casa nel bosco che ti aspetta.
Legna buona, legna secca.
Brucia bene, brucia in fretta.
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa notte ho sognato una casa nel bosco. Eravamo in campeggio con mamma e papà in una cittadina di montagna di cui non ho memoria. Un lungo ponte in legno fatto di mille e mille tronchi rotondi divideva l'area dal bosco ed un fiume irruento ed azzurrissimo tuonava sotto di lui. C'erano anse di una tranquilla placidità in quel fiume che, per qualche ragione, io e te avevamo stabilito di esplorare armate di quelle vecchissime canne da pesca col galleggiante bianco ed arancione che ci aveva regalato papà tanti anni fa nella speranza, poi disattesa, di trovare in noi due partner in crimine. Io avevo tredici anni e tu diciassette ed era pomeriggio inoltrato con un sole alto e luminoso, benché le fronde degli alberi gettassero su tutto un'ombra calda e piacevole. Ad un certo punto decidemmo di abbandonare le canne e, dopo aver recuperato la borsa delle esche e le mille altre cose inutili che avevamo ritenuto indispensabile trascinarci dietro, dedicarci ad un po' di sana esplorazione. Non andammo troppo lontano, non ci addentrammo in qualche angusto pertugio, non scalammo maestosi alberi o provocato la fauna selvatica, non facemmo dunque niente che meritasse il tuo cadere, il tuo slogarti la caviglia ed il trovare la casa nel bosco.

Eri inciampata su una radice, il tuo piede era rimasto incastrato sotto ed ora il semplice camminare ti risultava doloroso. Forse avremmo potuto tornare al campeggio, superare il ponte di tronchi e tornare dai nostri genitori, ma non sarebbe stato piacevole. C'era una casa nel bosco. Un edificio come quello delle favole fatto di tronchi e nascosti mattoni con una parte così attaccata alla terra da sprofondarci dentro e sbucarvi con una finestrella scura e rotonda. Un oblò di un blu talmente scuro e denso, fatto di così tanti vetri spessi posti l'uno sull'altro da non riflettere né la luce né l'interno. La casa era bella, curata, chiaramente non abbandonata e quando bussasti la porta si aprì senza uno scricchiolio sotto le tue nocche ancora prima che la forza del colpo si fosse riversata sui cardini. Fummo non troppo sorprese di trovarla aperta, strano, sì, ma era come se non ci fossimo aspettate altro da quella allegra casetta di legno sperduta in un bosco e coperta di erba e terriccio. Entrammo ed il soggiorno che ci accolse era altrettanto gradevole. Pareti di mogano rosso scuro davano alla casa un aspetto caldo ed accogliente, un grosso tavolo ovale di noce troneggiava nel salone svasato contendendosi lo spazio con un grosso divano di pelle marrone un po' indebolito dai lunghi anni di servizio e un discreto camino circondato da pietre grigie. Ora spento o forse con tre o quattro scintille ancora danzanti nella legna scura. Scaffali.

E poi le borse.

Dappertutto borse e borsette, fatte di feltro, di plastica, persino una di quelle borse ecologiche che vendono adesso in ogni negozio. Rettangolare e con una fantasia a quatretti grandi e lische di pesce colorate. Mentre osservavo una borsa da signora fatta in un tessuto spesso e nero e con un fiore di stoffa proprio sulla cima, tu prendesti a curiosare la scala di pietra che saliva oltre la portata dei nostri occhi e ti abbandonasti su uno dei suoi alti gradini. La caviglia ti doleva davvero e non sapevi se saresti stata in grado di tornare al camper a piedi. Io, d’altro canto, piccolina e carica di mille borsette non sarei riuscita ad aiutarti. Pensammo, non ricordo se l’idea partì da me, da te o se fu invece uno di quei nostri strani momenti in cui sembriamo arrivare alla stessa conclusione nello stesso momento. Pensammo, ti dico e non con un pizzico di imbarazzo, di prendere in prestito una di quelle tante borse abbandonate, radunarvi tutte le nostre piccole ed ingombranti e lo scarpone abbandonato che avevi tolto per far riposare il piede, e tentare la sortita. Sarei tornata ovviamente io, indietro, più tardi per riconsegnare il maltolto alla casa, anche se devo ammettere che quelle mille e mille borse di ogni foggia e misura mi attiravano voracemente. Sembravano volere essere raccolte da me e portate via da quel posto. Sembravano volere dirmi di non avere un proprietario ed essere semplicemente lì, in bella vista, per essere prese. Volevo prendere la borsa da signora col fiore. Non so perché, ma lo volevo davvero. Però c’eri tu e quella fastidiosa vocina morale nella mia testa che mi diceva che sarebbe stata davvero una pessima idea.

Sì, ora lo so che lo sarebbe stata.

Concludemmo che il Piano, prendere borsone, accatastarvi tutti i nostri averi e partire alla ventura con una sorella senza scarpa, era da escludere: il camper era troppo distante, io troppo bassa e la tua gamba troppo dolorante. Sarei andata io sola. Sarei tornata al camper, avrei avvisato mamma e papà e saremmo tornati a prenderti. Tu avresti aspettato nella casa. Se fossero arrivati i proprietari avresti spiegato la situazione ed aspettato con loro il nostro arrivo. Decidemmo di lasciare a te scarpone e borsette, in modo da farmi partire più leggera ed arrivare coi soccorsi prima. Ci salutammo e non fu un addio sdolcinato, solo un arrivederci un po’ rassegnato alle moine ed alle preoccupazioni che nostra madre avrebbe fatto seguire al mio ritorno. Mi allacciai gli scarponi e corsi, saltai radici e tronchi, respirai l’aria di muschio, sorrisi nelle ombre degli alberi sentendomi viva come quel giovane stambecco impacciato che ero io a tredici anni e che forse, dopotutto, sono ancora. Forse dovrei sentirmi in colpa nel confessartelo, ma non ero preoccupata per te, non ero preoccupata per la casa nel bosco e, forse, ero anche segretamente soddisfatta nell’interpretare per una volta la parte dell’eroe solitario al salvataggio. Anche se stavo andando a chiamare i rinforzi. Passai il ponte, il fiume sbadigliò e tuonò sotto i miei piedi, raggiunsi il camper ed i nostri genitori occupati a gironzolare pigramente al sole ed a preoccuparsi (nostra madre) o a studiare il barbecue portatile nell’attesa che questi rivelasse i suoi più arcani segreti (nostro padre). Gli occhi di mia madre si puntarono su di me. Io sospirai ed iniziai la storia.

Non arrivai mai alla casa nel bosco. Tu eri dietro di me.

Non so come riuscisti ad arrivare così in fretta. Cioè, ora lo so, da sveglia e con le ore del pomeriggio davanti per prendere in considerazione il tuo aspetto accaldato, i tuoi vestiti stropicciati e leggermente bruciacchiati, i tuoi capelli arricciati ed il tuo piede ancora scalzo. Allora no. Nel sogno ero semplicemente stupita e leggermente umiliata e nostra madre solo preoccupata di ogni tuo bene ed a chiedere se ti sentivi bene e nostro padre a chiedere dov’era finita la tua scarpa. Quante volte ancora dovrò vergognarmi di stare raccontando questa storia dal mio punto di vista? Sorellina, io ero offesa. No, ero oltremodo offesa. Come avevi osato salvarti da sola, quando avevamo accordato un così bel piano insieme, sicuro, tranquillo, pulito per poi fare di testa tua? Offesa mi tirai indietro ed offesa tornai nel bosco a recuperare le buste che avevi lasciato indietro e che ora papà mi accusava di essere stata troppo pigra per riportare e che mamma diceva avevo voluto lasciare a te, povera ferita, per non faticare. Ero offesa e triste ed arrabbiata e tu non dicevi niente e mi lasciavi andare. Forse, almeno uno di noi si sarebbe dovuto accorgere che da quando eri tornata non avevi parlato. Forse i nostri genitori erano troppo preoccupati per accorgersene, forse io ero troppo arrabbiata perché me ne importasse. Così tornai alla casa nel bosco e tu forse avresti voluto dirmi di non andare.

Le scale. Ora, da sveglia, mille particolari mi ritornano alla mente e mi fanno distinguere i segni del tutto innaturali che avrei dovuto cogliere, allora, nel sogno. C’erano delle scale in quella casa e dall’esterno un solo piano.

Trovai la strada senza fatica. Sono sempre stata brava ad orientarmi nei boschi, ma questa volta si era trattato di qualcosa di più. Era come se fosse stata la casa stessa ad attirarmi come un ciclone verso il suo occhio ed io avevo gli occhi umidi di lacrime furiose e non vi badai. La porta si aprì prima che io la sfiorassi ed io avevo la testa piena di pensieri rabbiosi e non vi badai. Il camino era acceso e la casa ancora deserta ed io avevo il cuore colmo di una devastante tristezza e non vi badai. Non trovavo le nostre borsette. Non trovavo la tua scarpa. E sotto il tavolo non c’erano, vicino alla scala neppure e la casa sembrava srotolarsi ed allungarsi attorno ed il salone diventare uno di quei luoghi immensi e fatati delle regge dei re antichi, pronti per balli e serate in maschera. La porta si aprì nell’esatto momento in cui trovai le nostre cose. Allineate sugli scaffali.

Dalla porta entrarono diverse persone. Per quanto io ora mi sforzi non riesco a ricordarne l’esatto numero o l’esatto ordine. Furono sicuramente meno di una decina e solo quattro mi rimangono ancora impresse, quindi, forse, non sarebbe del tutto sbagliato dire che dalla porta entrarono quattro persone. Uno era un uomo alto, magro, dinoccolato, coi capelli grigi tirati indietro, due possenti baffi ed un vestito scuro ed elegante. Una era una donna opaca, coi capelli castani sbiaditi, un volto olivastro e due occhi vivaci e sottili. Poco discosta e non di molto più giovane a quella c’era un donnone, biondo, una specie di piccola balena coi fianchi larghi ed un sorriso gioviale su un volto spento. Ma fu l’ultima a restarmi impressa. Allora non potevo sapere perché: niente di quel viso giovane dai lineamenti un po’ banali, le labbra rosse e gli occhi neri, pareva degno di nota. Non quanto gli straordinari baffoni dell’uomo, almeno. Quella ragazza dai capelli biondi e le sopracciglia scure sarebbe passata inosservata attraverso qualsiasi folla. No, non era il suo aspetto a distinguerla dagli altri invitati, ma qualcosa di più subdolo. Un qualcosa che aveva dentro, quel qualcosa che fa di un oggetto banale un qualcosa di straordinario. Sembrava quasi che in quella casa non ci fosse nessuno di vivo se non lei e quando incrociai il suo sguardo mi ricordai improvvisamente del perché mi trovassi lì.

Ricordo che balbettai qualche cosa su scarpe e caviglie, qualche scusa che non impressionò nessuno degli invitati. Perlomeno non la donna opaca che sollevò un cesellato sopracciglio nel suo lungo abito in seta verde. Perlomeno non l’uomo dei baffi che borbottò qualcosa e mi domandò come fossi entrata da una porta chiusa a chiave. Perlomeno non la donna pasciuta che ridacchiò in cerca di qualcosa di forte in cui affondare grasso e dispiaceri. Per lei era naturale che fossi soltanto un’altra degli invitati alla festa. Questo piacque all’uomo, non molto all’altra donna ed a me parve una buona scusa per cercare di raggiungere lo scaffale con borse e scarpe ed andarmene al più presto. Almeno, so che è quello che avrei dovuto fare, ma per qualche ragione mi scoprii congelata sul posto, incapace di muovermi. Gli occhi della ragazza erano su di me. Non incrociai mai il suo sguardo, un filo invisibile sembrava partire dal mio naso e tenerlo saldamente ancorato in direzione del suolo, ma ad un certo punto la sentii annuire e forse sorridere come a decretare l’appropriatezza della mia presenza. Avrei dovuto avere paura. Avrei dovuto andarmene al più presto. Ma, dopotutto, mi conosci: una parte di me si domandava soltanto se sarebbe stata servita della pizza. Ricordo vagamente di averne domandato alla donna verde, reggendo con una mano la tua scarpa e la borsa con le esche. Ricordo la sua risata, quieta ed al tempo stesso vivace e di come un sorriso compiacente si fosse allargato su quel viso e lo avesse reso improvvisamente giovane e gentile. No, mi disse, non credeva ci sarebbe stata la pizza. Ricordo di esserne stata leggermente delusa e di essermi avvicinata alla ragazza bionda che tanto mi aveva affascinato. La luce del cammino fiammeggiava viva e vivace, ma non ricordo chi lo avesse acceso, chi lo avesse rintuzzato e riempito di legna marrone e crespa o chi avesse avuto la pessima idea di accatastare insieme alla legna grassa e secca, un tronchetto verde ed insignificante. Pensai al fumo che avrebbe fatto una volta acceso, ma non ricordo se ne parlai con la ragazza bionda.

Non ricordo di cosa le parlai, del tutto. Non ricordo nemmeno se ci furono parole o se invece mi limitai a fissarla come un pesce spiaggiato, mentre lei mi guardava di sottecchi sorridendo un po’ sorniona. Ricordo però dello champagne e di quando fu servito e di come io abbia ritrovato l’ultima delle nostre buste in quell’esatto momento. Ricordo che fu la ragazza a servirlo e di come abbia esitato a porgermi la prima coppa e di come io abbia esitato a mia volta e rifiutato di prenderla e di come lei abbia annuito e preferito passarla alla donna verde. Di come le mie mani si siano strette in due nodi attorno alle buste di plastica bianca ed al tuo scarponcino marrone. Di come io abbia osservato l’ultima coppa, le mani bianche attorno ad essa. Di come io abbia alzato lo sguardo ed incontrato due pozzi neri. Ed abbia capito.

Non ti so dire precisamente cosa provai. Qualcosa di viscerale, credo, come quando ti perdi e trovi la risposta che non sapevi di cercare. Una paura terribile ed un senso di fascino trascinante. Il terrore antico che penso si provi quando ti trovi dinanzi a qualcosa di molto più grande di te, che il tuo cervello si rifiuta di spiegare, ma non di capire. Sei fregato. Sei piccolo, piccolo, piccolo e hai davanti qualcosa di grande, grande e così antico e così forte e così immenso che ti fa paura e ti fa cadere sulle ginocchia ed iniziare a pregare. A parlarne adesso gli occhi mi si riempiono di lacrime. Un ricordo, seppure fresco, è capace di farmi fare questo. Mentre la realtà, il sogno, il qui e l’ora del racconto che ti riporto fu immensamente più terribile e grande. Ricordo di aver provato tutto questo e di aver accettato il calice con le stesse parole che un peccatore usa durante l’eucarestia e della scintilla di compiaciuta sorpresa negli occhi del demone. Ricordo di averne bevuto e dell’improvviso senso di comunione di quel momento, lo stesso che provavo da bambina in chiesa con un’ostia nello stomaco, e di conoscere quelle persone da sempre. E sapere quello che sarebbe successo dopo.

Il fuoco.

Qui, perdonami, ma il mio racconto si fa confuso. Bruciare, il calore delle fiamme sulla pelle, lo spessore del fumo nelle narici, sono le prime cose che il tuo corpo cerca di dimenticare al mattino, da sveglia. La mente di un uomo non è fatta per ricordare cosa si prova a morire. Il che è stranamente buffo visto che fui l’unica in quella casa, quel giorno, a non farlo.
Sì, ricordo le fiamme, ricordo il fumo e ricordo le urla sorprese e la mano ad artiglio dell’uomo dei baffi chiudersi sopra la mia spalla. Ricordo il demone, la ragazza, sfumare nel nero e diventare solo denti e sorriso. Ricordo la casa allungarsi ancora ed ancora e la porta farsi lontana dalla donna verde. Ricordo la comprensione calare sulla donna grassa e la rassegnazione di un sorriso doloroso e ricordo di aver afferrato tutte le mie buste ed essere corsa alla porta. E di come la porta si sia aperta e la casa mi abbia lasciato uscire.

Forse perché ho bevuto dal calice. No, questo è sciocco. Forse è perché ho riconosciuto cosa fosse il calice e chi la ragazza. Forse perché ho compreso che sarei morta ed ho riconosciuto il mio peccato. Forse è solo perché ho chiamato Dio un demone. Non so. Non sono sicura di niente. Tranne che di essermi fermata fuori dalla casa con le narici piene di fumo e di muschio e di aver visto le fiamme bruciare attraverso il pesante vetro dell’oblò scuro. Di aver guardato nel volto del demone attraverso e di aver visto una bambina bionda ed una vedova crescerla e farsi grassa, i cortili di una scuola ed una maestra sottile ed opaca insieme ad un uomo elegante vestito di grigio in una macchina scura e la bambina spinta a salirvi e più non tornare. Ricordo di aver compreso il demone e di aver pianto nel vederlo bruciare. I miei occhi non lasciare i suoi e di aver detto ancora ed ancora, come un tamburo nella mia mente.

Sei molto amata.
Sei molto amata.
Sei molto amata.

Il demone sorrise. La ragazza pianse o forse fui io. La casa svanì alle mie spalle ed i miei piedi si ritrovarono nell’umidità del ponte di tronchi. Non ricordo se corsi o camminai o mi ritrovai semplicemente lì, con le mani piene delle buste di plastica bianca e della tua scarpa abbandonata. So di essermi svegliata e di avere pianto.

Ed ho pianto per le tante cose viste e le tante cose capite, ma soprattutto per l’improvvisa comprensione del perché quella casa coi suoi mille e mille piani sia piena di scaffali, del motivo per cui mille e mille borse e vestiti eleganti e cappelli a cilindro li occupino e di come ogni giorno il cammino si accenda e la casa si svuoti e si riempia.
Della certezza che la casa sia ancora lì da qualche parte e che da qualche parte un ciocco verde mi stia aspettando per bruciare.
Che da qualche parte una casa nel bosco, un giorno d’estate abbia quasi bruciato anche te.


























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Questo è il racconto fedele di una vicenda sognata.



  
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