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Autore: Neal C_    15/09/2012    3 recensioni
Parte I: Crisi di astinenza
Parte II: Iniezione
Parte III: Disintossicazione
Parte IV: rinserimento nella vita sociale
Parte V: Crisi di astinenza
Parte VI: ...
********************
Julien, a slow motion suicide
Brian, the friend in whom HE can confide; he never thought he’d have to retire
Stefan, no one here gets out alive, he said
Genere: Angst, Drammatico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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BROWN SUGAR
 


 

ATTENZIONE: contenuti espliciti e forti, per le persone facilmente impressionabili astenersi dalla lettura.

 

DISCLAIMER: non sono miei, non li conosco, tutto inventato…destrasinistradestrasinistradestrasinistraBAASTA!

"Well," he pauses. "Everyone’s asked me ‘Are you a junkie? Were you addicted?’ And I’m not and I wasn’t, so I’ve always said ‘No’ But I did do it. There was a period where a friend - no on In the band - was… and I… but I was lucky. I didn’t get addicted. I gave it up quite easily." [Brian Molko Interview, 2002 ]
 


 


Un cucchiaino. Dov’è l’accendino? Dove cazzo sarà finito quel fottutissimo accendino?
I denti battono, le mani tremano e scivolano sulle piastrelle del bagno, forse bianche, forse grigiastre, eternamente luride, i piedi, costretti in un paio di vecchie scarpe da ginnastica dalla suola di gomma semi staccata sguazzano nell’acqua sporca e fangosa, rigettata dallo scarico di quello che un tempo doveva essere un water quasi rispettabile. Lo stomaco si contrae, le fitte gli irrigidiscono le spalle magre, nude – dove cazzo è finita la maglietta? Ma chi se ne fotte – ha la pelle d’oca ma non riesce a sentire il freddo.
Sente solo spasmi che lo divorano, un mostro nero che si arrampica attraverso gli arti, che morde lo stomaco, graffia i muscoli – quali muscoli? Patetici stralci che vorrebbero assomigliare a fasci muscolari e invece sono solo campi di pelle fiacca e penzolante, come la pelle di serpente che invecchia e, prima o poi, si sgretolerà – che artiglia i suoi nervi facendolo gemere di dolore, con piccoli lamenti strozzati ogni qualvolta che colpiscono.
Non è più nausea, è delirio, da poche ore è uno strazio.
Non è riuscito a racimolarne nemmeno mezzo grammo, sa già che è troppo poco.
Non basterà nemmeno per ammansire la belva, mai per soddisfarla.
Non riesce a tenere in mano quel fottuto cucchiaino, nello stringere l’accendino si pianta le unghie lunghe striate di smalto grattato, secco, forse nero, comunque scuro.
Incassa le spalle nella parete di materiale plastico, sulla carta appiccicata, sulle gomme da masticare, alcune vecchie come il caucciù, altre fresche che solleticherebbero i pori della sua pelle se gli fosse rimasta ancora un minimo di sensibilità. Questo lo aiuta a trattenere le convulsioni, non deve cadere per terra.
NON. DEVE. CADERE.
La fiammella riscalda. Il cucchiaio comincia a fumare. Odore di amaro.
è marrone come cioccolato, come le Marron Glacé. Come lo zucchero di canna.
Adesso deve solo versarla lì.
Lascia andare l’accendino con un movimento scomposto, inconsulto, avvicina il naso come se, da chef esperto, volesse gustare il profumo di una prelibatezza, il suo naso è sordo, umido, pieno di muco, insensibile.
La gola è secca, arida come il deserto crepato vittima della siccità, la lingua è ispida, batte contro i denti in preda ad un tic nevrotico, sfiora il palato, l’ugola in un gesto abitudinario che non funge più al suo scopo.
Non ha niente da vomitare, le budella attorcigliate ogni tanto, schizzi di sangue incolore, rifiuto delle arterie malate.
A terra, fra le sue gambe incrociate giace una busta di plastica marroncina e zuppa, e là c’è la sua dispensatrice di salvezza. Sarà da più di due settimane che lo accompagna, stretta al cuore, piccola e discreta nella tasca della giacca, fedele come famiglia, amici e nemmeno i cani saprebbero essere.
è così bella, di plastica opaca, anche lei vagamente marroncina.
E la bevanda fumante scivola lungo le sue pareti, deborda, si morde il labbro, non deve sprecarne nemmeno un millilitro. Sta scendendo, lentamente, mansueta, lui sprofonda sempre di più nel muro, è così vicino.
Così dannatamente vicino…
SLAM
La porta del bagno si spalanca, l’aveva lasciata aperta, e due corpi si scaraventano contro la sua parete.
Il suono è attutito, non c’è spavento, a stento un cenno inconsulto e brusco con il capo lo fanno sbattere la cervice contro il muro.
La vista gli si appanna per un attimo, i due corpi si dibattono l’uno contro l’altro, si strusciano scomposti, ansimano stravolgendo i ritmi cardiaci sempre così regolari e fiscali con i tempi, ma lui non li vede arrivare.
Poi uno dei due inciampa nelle sue fatiscenti scarpe, gli cade addosso, e si puntella con una mano sul muro e una sulla sua testa.
Adesso non c’è più niente. La disperazione arriva in ritardo, lenta e pachidermica come un macigno, vorrebbe tempestare di pugni quello stronzetto, figlio di puttana che lo ha condannato ad un altro giorno di dolori sconquassanti. Vorrebbe gridare ma non ha voce. Vorrebbe fargli male ma non ne ha la forza.
Lo stronzetto figlio di puttana nel frattempo gli tocca la fronte, lo schiaffeggia sulle guance scavate quanto una valle di montagna, lo prede a pugni sulle spalle ma lui a stento si accorgerebbe della sua presenza.
Gli sta gridando qualcosa, ha un enorme buco al posto della bocca, serpenti che danzano intorno al volto allungato e due squarci di cielo pallido e invernale che lo investono come fari nella notte.
è un gatto. Lui ha avuto un gatto a suo tempo. I gatti miagolano.
Sta miagolando anche lui:
"…LIEN"
"JU…"
"UL..ENN"
"UUUUULIIII…"
La faccia del gatto si allarga sempre di più, un buco nero che inghiottisce l’universo.
E i gatti neri portano sfiga.


************************

"…lien! Julien!"
è sul pavimento. Fa freddo ed è tutto intorpidito.
è un buon segno il fatto che riesca a sentire qualcosa che non sia quella morsa di dolore, tenaglie di fuoco che lambiscono i tessuti lentamente, sadiche.
"ah! Gnhhhsh! AH!"
"Shshshshsh! Sono io! Cristo, sono Brian!"
Schiaffi, li sente a malapena. Perde sensibilità alla pelle, poi la riacquista, è questione di pochi secondi, va in tilt come una macchina scassata. È l’anarchia, i nervi non gli rispondono più.
L’unico pensiero fisso che non lo abbandona, deve bucarsi e subito. Non può morire senza un’ultima dose.
Ma ha bisogno di soldi, la roba si compra. Avrebbe dovuto racimolare di più quella sera. Perché si era accontentato di quel quarantenne pompato, fatto di viagra?
Gli bastano altre quindici sterline, può procurarsela tagliata, tagliata di brutto ma non ha molto tempo per fare lo schizzinoso. Un pompino basta per raccogliere quindici sterline? No. Ne approfitteranno sicuramente per incularlo.
Brian lo stringe per i polsi, cerca a tutti i costi di richiamare la sua attenzione, angosciato, pallido almeno quanto lui. Gli batte i palmi contro il petto, lo insozza di acqua di water come se una secchiata di merda in faccia potesse davvero risvegliarlo.
Ma dove cazzo lo trova il coraggio per alzarsi e fare un pompino ad uno? E dove lo prende? In mezzo alla strada?
Forse è il pensiero, forse scatta qualcosa, gli si mozza il respiro e la bile ottura la sua gola e lui non riesce a mandarla giù come al solito.
Solleva il capo di scatto e ha un capogiro, gli pulsa una tempia, l’altra la sente a intermittenza come le frecce della macchina, e si riversa sullo stomaco, sulle mani e sulle braccia di Brian, davanti a lui.
Adesso puzza anche di vomito. Potrebbe affogarci nel suo vomito e farla finita.
Ma non può morire, non prima dell’ultima rota.
"Ju ! Che devo fare?! CAZZO, DIMMI CHE DEVO FARE! LO FACCIO!"
Sta tossendo, le sue corde vocali navigano nella bile, vibrano fioche, grugnisce e annaspa, Brian tende l’orecchio, sta dicendo qualcosa:
"…a …r..a.."
"CHE COSA?"
"rrr…ta…aata"
Non ce la fa. Quella puttana della sua lingua non lo aiuta, i denti battono, freme incontrollato e incontrollabile, deve farglielo capire in un altro modo.
Rovescia gli occhi e la testa all’indietro, la abbatte sul braccio, con l’altra mano colpisce l’incavo del gomito dove una grossa vena affiora prepotentemente in superficie, bordeaux, secca ma ancora sanguigna e ammiccante.
Potrebbe morire, se Brian non capisce, lo farà sicuramente. Sente le ossa che scricchiolano, schioccano assordandolo, le gambe si accartocciano su sé stesse in una posizione innaturale, prima stese, poi contro il petto.
Deve sperare che il suo amico non la scambi per epilessia e non lo porti da un medico.
è così semplice, cazzo. Deve bucarsi. Tutto qui.
Cinque secondi, poi minuti, poi ore, improvvisamente giorni. I denti a furia di battere si stanno consumando, i muscoli stanno congelando e le ossa si sciolgono come una compressa nell’acqua, una lastra di ferro nell’acido.
Poi un calore familiare e la felicità, tutto in uno. Il sole gli scotta la pelle, fa ribollire il sangue tanto che potrebbe evaporare, rinsecchisce le vene, il tutum rallenta, va a scatti come un automa, può contare anche un battito al minuto – reggerà fino alla fine? Quando arriva? Quando arriva? – il muscolo della vita è allo stremo.
Esplode il big bang. Eccitazione, spasmi, e poi il flash. Il Nirvana.
Come un orgasmo. Anzi meglio di un orgasmo. Altro che endorfine.
Brian lo osserva sbigottito mentre si scioglie in un grido osceno, il sudore freddo si asciuga, il corpo ha bisogno di liquidi. E dopo qualche minuto lo vede riaprire gli occhi vuoti eppure sinceramente sereni, la bocca aperta e la lingua che penzola e schiocca a ritmi alterni, tutto il resto del corpo è rigido, Brian gli sfiora la fronte gelida e tiepida allo stesso tempo, se è possibile.
Non osa muoverlo. Lui se ne sta lì fermo e rigido per quanto la sua espressione sembri assolutamente rilassata, come stesse sognando il paradiso ad occhi aperti ma dopo poco meno di un quarto d’ora la schiena cede, non riesce a mantenerlo ancora eretto. Si accascia a terra, cade sulla spalla, si sente un sibilante CRACK, mentre il braccio sinistro è ripiegato per terra sotto la schiena, attorcigliato su sé stesso.
Ma lui sta bene. Sta bene mentre irrompe la sirena che viola le loro orecchie, sta bene mentre viene trasportato a braccia fino alla barella e poi viene issato sul mezzo, con le braccia spalancate e ancora la siringa nella vena.
Dopo mezz’ora è già finito tutto. Ha un’ora. Poi ricomincia da capo.

**********************

" I bet your mama was a tent show queen, and all her boy
Friends were sweet sixteen.
Im no schoolboy but I know what I like,
You should have heard me just around midnight.

Ah brown sugar how come you taste so good
(a-ha) brown sugar, just like a young girl should " *

La radio canticchia al suo fianco. Rende tutto meno deprimente con il suo ritmo di chitarra stoppate e batteria, la voce di Mick echeggia roca persino fuori alla finestra eppure il volume è basso, per non stordire il paziente; lo ha raccomandato il medico.
Sarebbe ora che riaprisse gli occhi, dannazione, pensa Brian in preda alla frustrazione mentre si mordicchia le unghie smaltate di nero, inghiottendone i pigmenti con la voracità di un avvoltoio.
Dio, quanto tempo che non lo vedeva. Come diavolo gli era venuto in mente di tornare in quel buco di cittadina* a suonare? Ripercorrere strade anche troppo conosciute per poi finire al Centre Hospitalier de Luxembourg per trascinarci un vecchio… amico? Si può chiamare un amico qualcuno che ti svuota le tasche dopo averti fatto ubriacare e averti sbattuto sul letto di una camera di albergo,affittata per ripicca dopo che il tuo ragazzo ti aveva buttato fuori per darti una lezione? Erano solo trenta fottute sterline ma è il gesto che conta.
Ed erano passati a stento cinque anni, pensava ormai fosse collassato con tutta la merda che gli scorreva avanti e dietro nelle vene.
Tra l’altro se c’è qualcosa di orrendamente deprimente quella è una stanza di ospedale. Bianca, non il bianco romantico della neve ma quello putrefatto delle larve, è dovunque come un cancro in metastasi, nelle pareti, nelle coperte, nei catini chiazzati e puzzolenti, dei pavimenti – di cosa cazzo saranno fatti i pavimenti? Non saprebbe dirlo neanche se osasse toccarli – dei camici lerci dei pazienti e quelli immacolati dei dottori. E poi ci sono le flebo, gli apparecchi di rilevazione della frequenza cardiaca con quelle ondine e quelle curvette che svettano e poi precipitano nervosamente.
Dio, che orrore gli ospedali. Nemmeno la musica a basso volume riesce a renderli meno bianchi.
Due letti più avanti ci sono un vecchio paralizzato, un sub con un embolo che promette di partire da un momento all’altro, una bambina sotto shock per un micro trauma cranico. E poi tanti altri, sono almeno una decina in un’unica camerata, ciascuno con una storia diversa.
Luxembourg, la città più deprimente del mondo, con quel cielo grigiastro, l’aria di pioggia che filtra dai vetri appannati e nebbiosi della camera. Mick Jagger nel frattempo tace, partono gli applausi entusiasti del pubblico, nelle vecchie registrazioni di live sono più scroscianti e rumorose che mai, tanto più se sono trasmesse per radio, quasi a singhiozzi.
Accanto alla sua sedia Julien stringe le labbra, muove impercettibilmente il braccio e poi è la volta degli occhi che si spalancano. Sentire gli impulsi nervosi dopo tanto tempo è quasi uno shock, irrompe un dolore che non provava da mesi. È un dolore sano, il dolore di un braccio rotto e una spalla lussata. Non è abituato, vorrebbe urlare ma il grido è strozzato. Si agita, il tubo della flebo oscilla pericolosamente, si sente un cigolio metallico, perfino il letto traballa.
"Dottore! Infermiera! Cristo… Ju? Calmati. Mi senti? Ferma…fermafermaferma!"
"Infermiera, due compresse di dividol, immediatamente."
Il paziente viene costretto contro il letto, a ingoiare le pasticche di viminolo paradrossibenzoato da 50 mg ciascuna e solo allora, in preda alle vertigini ricade sul cuscino che lo tiene alto con la schiena per prevenire i disturbi di stomaco con relativo rigetto.
"Lei è un parente di Julien?"
"No."
"Amico?"
"Non lo so."
Brian non distoglie lo sguardo dal volto contratto del sedato che si distende lentamente come se gli stessero stirando via le rughe dal volto pallido ed esangue.
Davvero gli importa qualcosa di quel junkie, quel figlio di puttana con un piede nella fossa?
"Ha parenti?"
"Non che io sappia."
"Dunque posso parlare con lei dello stato di salute del mio paziente?
Altrimenti sappia che sarò costretto a mantenere il segreto professionale."
Ad un cenno di Brian ecco che il medico lo costringe a firmare una carta dall’aria tremendamente seria, piena
zeppa di clausole in piccolo, porgendogli la sua stilografica pellikan. Per firmare Brian è costretto ad appoggiarsi sulle proprie ginocchia. È da un paio d’ore circa che è seduto su quella sedia, accanto al letto, ad eccezione di qualche minuto in cui sente il bisogno di tenere sveglie le gambe e alzare le chiappe.
"Il suo amico è molto grave. Credo che sia arrivato ad assumere quasi quattro grammi di eroina al giorno.
Dalle analisi mi risulta che ne aveva assunto poco meno di un grammo e tre prima di essere portato al pronto soccorso.
Ha detto di averlo trovato nel mezzo di una grave crisi di astinenza?"
"Si."
"E ha deciso di iniettargli quasi un grammo e mezzo per farlo stare buono…"
Brian alza il capo, infastidito da quel commento, come se vi fosse una nota stonata, un rimprovero, addirittura una velata accusa dalla quale difendersi con le unghie e con i denti.
"Non sapevo cosa fare."
"Il suo amico aveva già il braccio rotto?"
"Se l’è rotto cadendo all’indietro."
"Non riesco a seguirla. Si spieghi meglio."
Brian non riesce a trovare niente di meglio se non mimarlo, lasciandosi scivolare ai piedi della sedia e poi sul pavimento. Tanto ormai quei jeans sono andati, quindi sudiciume per sudiciume.
Gli mima la caduta, precisa che Julien è caduto sul suo braccio con tutto il suo peso, per quanto ormai sia esiguo rispetto al peso forma di una persona sana. È il peso di un cadavere ambulante ma è pur sempre qualcosa.
"E così si è talmente abbandonato che il braccio si è attorcigliato e poi si è spezzato."
"Capisco."
Il dottore prende appunti su un blocchetto, convincente quanto un pizzaiolo prende le ordinazioni ai tavoli e Brian, dopo un po’, si sente stupido a stare così per terra, seduto, mentre si sorregge sui palmi delle mani, dietro la schiena, pronto a simulare di nuovo l’accaduto se l’altro ne avesse ancora bisogno.
"Si può alzare."
Decreta il dottore e mentre quello si rimette in piedi, il medico si sposta velocemente per controllare il flusso di liquidi della flebo con le goccioline d’acqua sulla parete di plastica.
"Per il momento ho somministrato al suo amico del dividol, per il trattamento del sintomo dolore, efficace per fratture e lussazioni così come per il trattamento del dolore da crisi di astinenza, almeno fino a domani. "
"E poi?"
"Poi dovrò sottoporre il suo amico ad un programma intensivo di disintossicazione."
"Metadone?"
"Precisamente."

******************************

Stefan Olsdal è seduto in un caffè, in Boulevard Pierre Dupong, a pochi passi da Parc Merl con una bibita gassata al limone sul tavolo, stringe il bicchiere battendo leggermente un ritmo sul vetro e accompagnando il gesto con piccoli cenni della testa, in balia di una qualche musica, forse in preda ad un momento di creatività.
A pochi passi da lui c’è una ragazzina scura, dalla pelle olivastra e i capelli ricci e neri che lo osserva con ammirazione spudorata, dietro la carta dei dolci. La ragazzina ogni tanto si aggiusta le ciocche ribelli intorno alle orecchie, arrotola qualche riccio, ravvivando la capigliatura con una mano e si gira continuamente verso la vetrina del bar per intravedere il proprio riflesso, in preda all’orrendo dubbio di non essere abbastanza affascinante per il cantante dei Placebo.
Come se non sapesse che Olsdal è gay. Ma in fondo è tutto così confuso.
Il cantante è bisessuale, perché non dovrebbe esserlo anche il bassista? E poi Stef è così sexy, completamente pelato salvo per una piccola crestina biondo platino che gli spacca il cranio esattamente a metà, la barba rasata, le orecchie a sventola e quel sorriso timido, un po’ sovrappensiero mentre si accanisce contro il bicchiere di vetro.
La ragazzina è indecisa se alzarsi per chiedergli un autografo ma teme di essere liquidata come fan, dovrebbe trovare un sistema per presentarsi e sedersi di fronte a lui. Chissà che figo sarebbe bere qualcosa al bar in compagnia del bassista dei Placebo.
C’è da chiedersi perché Olsdal sia seduto a quel bar in attesa, in un posto oltremodo piacevole e per di più vicino alla sede dell’AISL dove lui stesso ha studiato fino alla giovane età di diciotto anni.
Lei si sporge ancora un po’ verso la vetrina del bar, ancora non riesce bene a capire se l’ombretto è a posto e se il mascara non ha sbavato. Ogni tanto si strofina gli occhi, è una sua pessima abitudine, dovrebbe smettere.
Fa un sospirone, nota un cameriere che si avvicina ad Olsdal, lui richiede un’acqua tonica con limone.
Dopo il cameriere, pensa la ragazza e sorride forzatamente, dopo il cameriere mi avvicino e gli chiedo se ha una sigaretta da prestarmi. La scusa più vecchia del mondo, aggiunge subito dopo, ma cosa importa, potrebbe andarsene da un momento all’altro.
Nel frattempo Olsdal si è girato, osserva un taxi che si ferma proprio su quel marciapiede, a pochi metri dal suo tavolino.
Ne scende una figuretta interamente vestita di nero, jeans e maglietta aderente che gli cade un po’ morbida sulla pancia come quelle maglie di intimo vendute a due o a tre in un’unica confezione scontata. Eppure addosso a quel tizio non sono poi così squallide come nella maggior parte dei casi. Occhiali da sole neri, capelli corti e sottili neri, leggermente più lunghi davanti, labbra sottili, espressione accigliata, rughe che tradiscono preoccupazione e stanchezza persino sulla fronte e intorno alle tempie.
"Cristo, era ora!"
"Stef, hai una sigaretta? Sto morendo dalla voglia."
"In ospedale non si può fumare eh?"
"Si. Che rottura di coglioni. Ormai anche i mocciosetti di dodici anni fumano e io non posso farmi una sigaretta in una cazzo di sala d’aspetto."
Stefan ha già posato il pacchetto sul tavolo e l’amico vi rovista dentro furiosamente mentre borbotta fra sé e sé che non c’erano nemmeno i malati in quella cazzo di sala d’aspetto e che rischiava di rimanerci in quell’ospedale tanto era un posto merdoso. Gli ospedali, terminò nel pensiero mentre aspirava dal filtro nervosamente, quasi con violenza come se volesse aspirare e inghiottire l’intera sigaretta, sono loro che ti ammazzano.
"Come sta?"
Brian si rifiuta di rispondere. Tiene gli occhi fissi sulla ragazzina del tavolo di fronte che, presa alla sprovvista dall’entrata in scena di Brian Molko, frontman dei Placebo, quelli fortissimi di Nancy Boy e Every me and Every you.
La osserva a lungo, potrebbe star guardando dovunque dietro quelle lenti nere ma la ragazza si sente comunque tremendamente a disagio.
"Brian…non è affar nostro. Lo abbiamo portato in ospedale. Adesso sono cazzi suoi.
Ha sempre" prende un sorso, come per concedersi un po’ di fiato, un attimo per pensare alle parole giuste "sempre e solo pensato ai cazzi suoi, in fondo…"
è un eroinomane, Stefan, è per questo che ha sempre pensato ai cazzi suoi, pensa Brian, alzando gli occhi al cielo, ancora al riparo dagli sguardi altrui. La ragazza sembra agitarsi sulla sedia, che ci abbia riconosciuti?
Segue il suo sbattere di ciglia, un gesto impaziente come se fosse combattuta sul da farsi e dovesse decidere al più presto.
"Brian?"
"Non dire stronzate Stef."
"Si farà ammazzare. Presto o tardi, si farà ammazzare. Perché cazzo dovremmo essere lì a guardarlo mentre si rovina con le sue mani?!"
Stavolta Stefan alza la voce e un pugno sul tavolino con un grugnito rabbioso.
Brian non è l’unico ad essere nervoso stamattina, persino il mansueto svedese non riesce più a controllarsi.
Sono stati giorni di caos, di ecstasy, di festini post-concerto, di bevute per locali, due schiuma party, scopate, di concerti imbottiti di cocaina quanto bastava perché potessero fingersi sobri e prendere le note sulla chitarra, quanto bastava perché Brian mantenesse la sua voce nasale e lamentosa. Nella sua ultima esibizione, mentre cantava "my sweet prince" lo aveva visto seriamente barcollare. E poi lacrime, tante lacrime.
Si era rintanato nel backstage in preda ad un pianto nervoso, singhiozzi e singulti fortissimi, mentre ripeteva a pappagallo le battute della canzone. Stef sapeva che era la depressione post-sniffata eppure sentiva che c’era dell’altro. Era quel maledetto ospedale. Era quel maledetto Julien.
Quelle maledette parole lo avevano stordito e continuavano a tormentarlo:

"Never thought I'd have to retire
Never thought I'd have to abstain
Never thought all this could back fire
Close up the hole in my vain" *


Ma Stefan non è certo un idiota, Come si può ignorare l’ambigua sfumatura di voce quando pronuncia quella piccola insignificante parola, una "a" che vira pericolosamente verso la "e" ?
Una cosa è certa. Quel buco deve rimanere chiuso. Quella vena deve rimanere intatta.
Non permetterà più a quello stronzo di fare ciò che ha fatto cinque anni prima.
"Basta con questa storia, domani partiamo e continuiamo il tour in Germania." Decreta Stefan come se fosse stato tutto deciso e programmato nei minimi dettagli tempo prima.
"Ho bisogno di una settimana. Una settimana di pausa." Commenta Brian mentre schiaccia crudelmente la cicca consumata contro il bordo del tavolino e poi se la lancia alle spalle con nonchalance.
Ne accende un’altra, prende una boccata, ricomincia passandosela fra le dita, ottimo esercizio per le sue mani, un giochetto divertente, efficace contro la noia almeno quanto il fumare in generale.
"Scordatelo."
"Stefan…" il tono severo e minaccioso però non lo intimorisce neanche un po’. Piuttosto lo strangola con le sue mani.
"Devo ricordarti com’è stata l’ultima volta che, per così dire, abbiamo fatto compagnia a Julien?
Devo ricordarti in che condizioni ti ho trovato? Nudo, sul letto, tra lenzuola che puzzavano di sudore e di sborra, nel tuo braccio era infilata una di quelle schifose siringhe e tu non eri nemmeno vagamente consapevole della cosa, figuriamoci poi consenziente? Devo ricordarti che lui non c’era nemmeno quando ti ho trovato, in preda ad un attacco di brachicardia? Che eri semisvenuto e quasi in stato di shock?!"
"Stavolta sarà diverso."
La siringa non me la ricordo, pensa Brian mentre si accende una terza sigaretta, quasi senza guardare, non ne ha bisogno. A dir la verità non ricorda molto di quella sera. Ha solo promesso a Stef che non si sarebbe iniettato più niente.
"Ah si? E perché cazzo dovrebbe essere diverso?! Perché si sta disintossicando con quella merda del metadone?!
Così a fine mese, invece di una dipendenza ne avrà due!"
"Stef, smettila…"
"Vogliamo scommettere che lo dimettono domani, te lo scaricano addosso e ti raccomandano di fargli fare la cura di disintossicazione? In fondo ha solo un braccio rotto e ha bisogno di prendere qualche antidolorifico in pillola quattro volte al giorno e un po’ di metadone tre volte al giorno, ma non dopo i pasti.
Dopodiché lui tornerà a casa e ti chiederà di fargli compagnia. Ti offrirà un goccetto e tu dirai di si. Comincerà a fare uno dei suoi discorsi idioti e pseudofilosofici di quanto sia contento della sua vita, si sente un uomo nuovo, da oggi cambierà e non sarà più un povero tossico fallito. Poi ti offrirà la rota! E tu accetterai! Come fai a non capire, Brian?!"
"HO DETTO BASTA, CAZZO!"
La quarta sigaretta, appena iniziata, finisce schiacciata sul tavolino che trema tutto sotto il colpo di Brian, messa a tacere come una zanzara fastidiosa. È così rapido e incazzato nel gesto che non percepisce il calore e il bruciore della cenere all’estremità. Se ci fossero altri clienti fuori a quel bar allora quei due avrebbero già attirato l’attenzione ma vicino a loro c’è solo la ragazzina che si convince, ogni momento di più, che forse è meglio lasciarli stare.
Eppure c’è una pausa promettente, sono quasi due minuti di silenzio assoluto, un silenzio amaro e cinico per Stef, uno ferito e sanguinante per Brian. Solo allora si decide, non ha più senso aspettare.
"Scusate" ha la vocetta un po’ stridula, arrossisce vistosamente quando è costretta ad alzarsi per andare loro incontro.
"Voi…potrei avere un autografo?"
Stefan annuisce con un sospiro paziente, quasi si rilassa come se la voce di un’estranea avesse rotto una situazione e un clima di grande disagio.
"Come ti chiami? Dove scrivo?" stira le labbra in un sorriso finto e domanda cantilenante come se fosse costretto ad un gesto meccanico, nemmeno un operaio della catena di montaggio Ford.
"Io…Katy… sulla maglietta con…" rovista nella pochette, tira fuori un grosso pennarello nero indelebile, molto utile per scrivere sugli scatoloni durante i traslochi o sulle pareti dei bagni della scuola "questo"
"Aaa-Kaaaty…coon amooooree…Steeefaan Ooolsdaaal… Ecco fatto."
La ragazza trotterella entusiasta e si fa più vicina a Brian con gli occhi sognanti:
"Grazie! Eh…Brian? " le esce un po’ strozzato, davvero non sapeva come appellare il suo idolo e Molko, in effetti, non sta facendo nessuno sforzo per renderle più semplice la cosa.
"Scusa, devo andare, sono a pezzi." Si alza e liquida la cosa agitando la mano con un saluto sbrigativo, la quinta sigaretta in bocca, e le mani nelle tasche dei jeans, con un palese menefreghismo che irrita Stefan e lascia allibita la ragazza.
"Ma…" singhiozza lei mentre Stef lancia uno sguardo fulminante alle spalle del compagno, sa che Brian se lo sente addosso ed è anche per questo che non si gira proseguendo alla ricerca di un taxi.
"Cristo, ma cosa ti costa? Firmale quella stupida maglietta e falla finita!"
Brian si ferma sul marciapiedi, fa segno ad un taxi di fermarsi, lì intorno ne è pieno, ci sarà un deposito nelle vicinanze.
Dopodiché raccoglie la sfida del compagno urlandogli: "AL DIAVOLO! DETESTO I FAN ! LI ODIO TUTTI !"
Continua per conto suo, mentre apre la portiera davanti e ci si caccia dentro.
Se non ho voglia di fare qualcosa, non ne ho voglia. Punto.
"Monsieur, où conduis vous?"
""à le Centre Hospitalier de Luxembourg, s'il vous plaît. *

*******************************

Brian ha ottenuto la sua settimana, ha annullato una data e ne ha spostate altre tre, lasciando tutti allibiti e nella confusione più totale. Non è tornato più in albergo, si è trasferito chissà dove, dalle parti di Betrange, in una delle piccole traverse di Rue di Luxembourg ed è da tre giorni che evita le chiamate di Steve e non parla con Stefan.
Stef non lo cerca, saprebbe perfettamente dove trovarlo se volesse.
è sempre lì, accanto al letto di Julien, a parlare con il medico, ad assistere alle cure distratte degli infermieri, a rassicurare il suo amico con qualche parola quelle volte che si tiene sveglio, quando gli antidolorifici non lo lasciano intontito e semiaddormentato, o almeno meno del solito.
Dopo altri tre giorni di ricovero lo dimettono. In totale sono cinque.
Diminuiscono le dosi, quel corpo disastrato e martoriato non finisce di stupirli, ha grandi capacità di recupero e Julien migliora molto il fretta. Ogni tanto stringe i denti nervoso e si morde le labbra a sangue, quando il dolore sembra riaffiorare prepotente ma subito si rimedia con una compressa ingoiata con l’acqua.
Si rimette in piedi, barcolla, ma è entusiasta di tornare a casa, con il suo braccio ingessato e stretto al petto, assicurato in modo che non possa fare danno.
La parola d’ordine del dottore: efficienza. Il suo motto: ve li rimettiamo a posto in tre giorni.
Questo pensa Brian ironico, con un mezzo sorriso quando vede il suo amico alzarsi e camminare lentamente, ancora appoggiandosi intorno a ciò che vede, alle pareti, ai letti, alla spalla di Brian. Lo supera di almeno cinque centimetri, ha il volto allungato e i capelli ricci e alti, non si fa la barba da secoli.
Brian gli ha procurato un paio di jeans più o meno nuovi e una maglietta che gli va leggermente corta, quasi scopre la pancia, ma non si nota troppo. Tutto quello che c’è è piatto, il piattume dei muscoli rosi dalla roba, dal digiuno, ha un’aria malaticcia e ogni tanto spunta fuori una vena evidentissima sulla pelle chiara.
Ma, tutto sommato, sta bene.
Brian ha affittato una stanza per quei giorni, un monolocale nei pressi della Rue di Luxembourg da due simpatici signori che erano diretti ad Amsterdam ed erano partiti in macchina, spensierati, lasciando al loro nuovo inquilino la casa.
Che coraggio, era venuto da pensare a Brian.
Non vuole immaginare come deve essere casa di Julien, se esiste ancora.
Forse semplicemente non è mai esistita, conclude scrollando le spalle mentre lo aiuta a sedersi davanti, accanto al tassista e poi si infila dietro scandendo l’indirizzo.
Innanzitutto ha intenzione di festeggiare il rilascio del suo amico con un bel piatto di spaghetti alla carbonara, vecchia ricette di famiglia, qualche fetta di salame e pane e una bella bevuta.
E stasera potrebbero andare a cenare cinese.
Julien è stranamente quieto in taxi, silenzioso, mentre osserva la strada, mentre il tassista guida come un matto ad ottanta chilometri all’ ora in pieno centro cittadino, giocando ad anticipare i semafori e a tagliare la strada agli autobus nelle corsie preferenziali.
Quando scendono Julien non ha nessun bagaglio degno di questo nome da scaricare, solo una bustina di plastica con le compresse, alcuni fogli delle analisi e le istruzioni del dottore per le dosi e per gli orari.
"è tua?"
"L’ho affittata per una settimana, mi ispirava. È carina, è piuttosto vicina al fiume e c’è un parco un isolato più in là. Davvero comodo per stare in città."
"Si. Ed è casa. Hai visto come ci si sente a casa? Persino le scale gioiscono e gridano e ci incitano a salire"
L’unica voce che danno le scale è lo scricchiolio del corrimano di legno e il rimbombo dei piedi sui gradini che reggono la camminata sgraziata e squilibrata di Julien.
Brian non fa molto caso a quelle parole, dette con l’euforia di un bambino. È un passo avanti il fatto che l’emozione basti a scuoterlo dall’apatia chimica degli antidolorifici che ingolla.
Si arrampica sulle scale senza fare troppa attenzione al gesso del braccio, fosse per lui potrebbe sbattere per terra, non se ne accorgerebbe nemmeno, tanto è euforico.
Ridacchia, lo provoca, gioca ad acchiapparello, gli fa la linguaccia e Brian si sente vecchio, come un padre che riaccompagna a casa, dopo una visita, il figlio di otto anni che si è slogato una caviglia giocando a pallone con gli amici.
Quando apre la porta di casa lui scivola dentro mancando di poco la maniglia con il gomito.
"Ehi Ju, hai fame?"
"Dio, mi mangerei un elefante!" Brian sorride, avviandosi subito verso il piccolo ripiano cucina, ben attrezzato con pentole, padelle e mestoli che penzolano, attaccati al ripiano, meticolosamente strofinati fino a sembrare lucidi.

"E poi lo condirei con la maionese. Quant’è buona la maionese. So farne una stupenda! Se hai le uova te la faccio in quattro e quattrotto. Con un po’ di origano, basilico, prezzemolo…foglie di acanto, ragni, serpenti, scorpioni e zanzare…"
"Che diamine stai borbottando?" gli viene da ridere mentre Julien si mette a curiosare fra le sue carte, quelle che ha lasciato sul tavolino pieghevole che dovrebbe fungere da tavolo da pranzo.
"Urca amico. Questa è roba forte. Sometiiiiimeeees it's faaaaadeeed, disiiiintegraaaaated, for feeeeear of groooowing ooold * !" prende a cantare a squarciagola, mentre l’acqua bolle e la pentola fischia. Sono un duetto imperdibile ma Brian preferirebbe non avesse mai trovato quel foglio.
"Molla! " è costretto ad inseguirlo e a strapparglielo dalle mani una volta che lo ha intrappolato contro il divano letto color crema. Non osa gettarglisi addosso come avrebbe fatto un tempo, specie con quel braccio rotto, ma lo sospinge dolcemente mentre quello rimbalza sui cuscini ridacchiando, quasi isterico.
Si siede accanto a lui, in punta, mentre con un occhio segue la pentola della pasta che dovrà calare da un momento all’altro anche se con quei maledetti fornelli a gas non si sa mai.
Lui sorride, Julien ride di cuore.
Quel momento di confidenza fraterna sembra non finire mai.
Il compagno striscia verso di lui, le distanze si accorciano, così, all’improvviso.
Può sentire il suo respiro, l’alito non molto profumato e caldo come un forno, addirittura l’amaro della medicina, l’odore del sudore sul collo anche se più delicato rispetto al solito.
In un attimo le labbra si incontrano, si stringono e promettono di non separarsi, si mordono, si succhiano a vicenda.
Allo stesso tempo poi Brian può sentire le sue carezze sulla schiena, sull’addome, sotto la maglia, frenetiche, mentre sfiora la pancia, poi vampate di calore sulla coscia gli fanno trattenere il respiro, la mano promette di infilarsi nel pantalone e forzare la zip.
"La pasta…" si trattiene dal continuare a massaggiargli il collo e artigliargli il braccio sano, si stacca con forza dalla sua morsa e fugge verso il fornello. Scola la pasta nei piatti, facendo defluire via il liquido ma rimane comunque umida e impiastricciata nell’uovo mezzo sbattuto e mezzo liquido.
Julien si alza con fatica, corrucciato dal divano, non sembra poi così affamato come sosteneva un quarto d’ora prima.
Si lascia di cadere di malagrazia su una delle quattro sedie del tavolo e affonda la forchetta nella pasta che fa degli strani filamenti ogni volta che tenta di portarsela alla bocca.
"L’uovo è mezzo crudo…manca il sale… dio, scusa Ju, se Stef fosse qui mi prenderebbe a parole."
Stefan gli ribalza alla mente, si sforza di non pensarci, nascondendo il viso nel piatto.
Nel frattempo sente il calore delle parti basse scemare piano piano, troppo piano lasciandolo ancora rigido e quasi dolorante.
"Mgn pcgne uellgna robbaam hem taahi omponenndo..gnam…"
"Cosa?" aspetta che ingoi il boccone e rilassa le natiche sulla sedia, pian piano, allentando la presa sulla forchetta.
"Ho detto che mi piace quella roba che stai scrivendo."
"è solo un abbozzo. Non è neanche un’idea, ancora."
"Quella storia della vecchiaia… invecchiare è una brutta cosa, amico. È una roba che ti congela le ossa, e ti senti fottuto, a terra, come se stessi cercando a tutti I costi di tirarti su e qualcosa ti tiene incatenato ad un letto, una merdosa catena ecco. "
Brian annuisce mentre lascia la forchetta nel piatto ancora semipieno, non ha più fame e se ne avesse non mangerebbe quella roba. Davanti a lui invece Julien continua ad ingozzarsi, masticando rumorosament ; non è un bello spettacolo.
"Come quelli che si sentono vecchi dentro. E diventi un fottuto perdente che non sa più divertirsi, hai sprecato il succo della vita e l’albero non ti restituisce il frutto."
Lo ascolta affascinato. È come un’onda di pensieri che lo travolge, non ha mai saputo cosa Julien pensasse veramente almeno fino a quel giorno, qualunque fosse l’argomento in questione.
"E non si sfugge. Ci anneghi dentro. E nessuno ti tira fuori e ti deprimi in una fossa, un pozzo profondo, pieno di serpenti, di terra, di…" lascia andare la schiena che fa un leggero tung contro lo schienale della sedia "dio… non lo so…capito? Così."
"Si."
Brian lo vede alzarsi e lasciare il piatto sul tavolo, aggirarsi quasi sospetto attorno alla sedia per qualche secondo, vigile.
Poi gli strizza l’occhio e promette di tornare subito.
Molko non vorrebbe alzarsi, non gli va di sparecchiare, si sente improvvisamente stanco, come se avesse adempiuto al suo compito e adesso fosse costretto a portare avanti qualcosa che non gli riguardi più.
Beve un sorso di birra, nota che Julien non ha toccato la sua, tanto era impegnato a ingurgitare gli spaghetti.
Non ha neppure tirato fuori il salame, non ha voglia di tagliarlo e sa che ormai il suo amico ha perso ogni interesse per il cibo. Anzi, spunta fuori con un sacchetto di plastica opaco, davvero curioso e glielo agita sotto il naso.
"Il segreto, vecchio mio. Il segreto per non diventare vecchi è restare giovani. È restare giovani, fermare il tempo da giovani e impedirgli di scorrere, di portarci via le forze, di deprimerci. I vecchi non scopano, amico mio, i vecchi.
Non ricordano più cosa sia un orgasmo."
Con suo grande orrore, mentre si rivolge a lui, Julien tira fuori una bustina piena di una polverina scura, terra rossa, segatura scura, anzi… zucchero di canna.
"Ju, ti prego. Fermati" lo vede agitare la bustina ribadendo i suoi concetti; lui può sconfiggere la morte, vivere l’eterno presente e trovare pace, può fargli raggiungere altezze e vette inesplorate, picchi paradisiaci, paradisi artificiali immensi, oltre ogni immaginazione, altro che oppiacei.
"Ju, tu hai chiuso con quella roba" gli ricorda con un leggero tremito nella voce. Cerca di pensare a come ne sia potuto entrare in possesso appena uscito dall’ospedale. Poi ricorda di come Julien fosse improvvisamente sparito dalla circolazione mentre lui cercava uova e spaghetti, al supermarket sotto casa.
Ma come!
In così poco… e chi gliela ha venduta poi! Che buco di culo Lussemburgo, maledice Brian e il compagno già sminuzza con il coltello la polverina rimasta e la mischia alla birra del bicchiere.
Affiorano nella gola di Brian i conati di vomito, si sente impotente davanti al suo amico che procura un cucchiaio ed è alla disperata ricerca di un accendino, rovista proprio nella sua borsa da viaggio, tirando fuori le sue magliette, le sue mutande e lanciandole sul pavimento.
Il suo chiacchiericcio si trasforma in un rumore sottile e continuo, come il ronzio lamentoso di una radio che non prende le stazioni.
"Hai un laccio? Eh? Eh? Lo fai con me? Prima io e poi tu?"
Brian scuote il capo, avvilito, stringe un pugno sul tavolo torturandosi I palmi con le unghie.
"Pensavo che stavolta sarebbe stato diverso…"
"Sarà diverso! Sarà sempre diverso!" adesso la sua euforia sfiora l’esaltazione, si getta a capofitto nella sua ricerca rimediando, dal bagno la cintura di un accappatoio beige usato.
Incapace di assistere a quella scena, Brian finalmente trova la forza di alzarsi, e va raccattando tutto quello che ha potuto lasciare in giro in quei giorni, ma bastano pochi minuti. Non che avesse vissuto in quella casa più di qualche ora, la notte per dormire e al mattino per fare colazione.
Con il borsone da viaggio in spalla si avvia all’uscita ignorando Julien che gli si avvicina con la siringa in mano, impugnandola come un’arma.
"Questa volta sarà diverso! Sarà la migliore! La migliore che tu abbia mai fatto! L’ultima, ultimissima!"
"Vattene" prova a scacciarlo, ma la sua voce non ha alcuna convinzione e autorità, galleggia nell’aria come un suono che fugge via a velocità supersonica e non rimane più niente tantomeno il messaggio.
"Prima tu allora! Prima tu! Rimani con me! Sarà diverso!"
Con uno spintone alla porta colpisce Julien al braccio destro, quello sano, sbilanciandolo all’indietro.
Non si ferma neppure a vedere la sua schiena che si schianta a terra, la siringa che sguscia via, andando a rotolare sotto il mobiletto dell’angolo cottura, non lo vede trascinarsi per terra allungando disperatamente le braccia e artigliando il tappeto nella sua direzione, mormorando, con il fiato mozzo e un mormorio soffocato:
"Stavolta. Sarà. Diverso."


" You can run but you can't hide
Because no one here gets out alive
Find a friend in whom you can confide
Julien, you're a slow motion suicide " *
 



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NOTE

* TRADUZIONE:
" Scommetto che tua mamma era una regina del circo
e tutte le sue amichette erano dolci sedicenni
Non sono uno scolaro, ma so quello che mi piace
Avreste dovuto sentirmi verso mezzanotte
Zucchero di canna com'é che sei così buono?
Zucchero di canna , proprio così dovrebbe essere una ragazzina "
[Brown Sugar – Rolling Stones - Sticky fingers 1971]

* 9 Settembre 2001 Terres Rouge Festival, Luxembourg, Luxembourg, Tour Black Market Music

* TRADUZIONE:
"Non avrei mai pensato che mi sarei dovuto ritirare
Non avrei mai pensato che mi sarei dovuto astenere
Non avrei mai pensato che tutto questo potesse ritorcersi contro di me
E chiudere il buco nella mia vena"
[My sweet prince – Without you I’m Nothing 1998]

* TRADUZIONE DIALOGO FRANCESE:
"Signore dove la porto?"
"Al Centro ospedaliero di Lussemburgo, per favore."

* TRADUZIONE
" Talvolta è scritto nel destino
  disintegrato
  Per paura di invecchiare "
[This Pictures – Sleeping with Gosths  2003 ]

* TRADUZIONE:
"Puoi scappare ma non puoi nasconderti,
Perchè nessuno ne uscirà vivo,
Puoi trovare un amico in cui confidare,
Julien, un suicidio a rallentatore "
[Julien - Battle for the Sun  2010]
 


Angolo dell’autrice

Volevo scrivere di eroina. Ecco l’ho detto.
Perché dopo aver letto la splendida storia "Second Sight" di Ardenspuffy non ho smesso di pensarci finchè non mi sono levata lo sfizio. E adesso guardo il prodotto della mia mente malata e dico a me stessa che ha una conclusione insignificante e che forse l’unica parte che mi piace veramente è la scena iniziale…
pazienza, fatto sta che eccoci qui.
Preciso che il titolo è tratto da una splendida canzone dei Rolling Stones, la mia preferita e che "Brown Sugar" non sta ad indicare lo zucchero di canna ma è anche un’espressione comune per indicare della roba tagliata piuttosto rozzamente, poco lavorata e raffinata e di conseguenza di minor pregio dell’eroina sotto forma di polverina bianca.
Termino con una parola, "slow motion suicide", un’espressione intraducibile a meno di non forzare la mano e tradurre come un "suicidio a rallentatore" che suona malissimo e risucchia via tutto il fascino che questa espressione esercita.
L’intervista che apre il racconto è tratta dagli archivi di Placeboworld.com.
E perdonate il francese, non l'ho mai studiato, faccio quel che posso <.<
Bye bye people,

Neal C.




 

  
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