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Autore: _Pulse_    15/09/2012    6 recensioni
Ad un tratto però scorse una massa color vermiglio sporgersi verso l’esterno del carro e sentì come se… come se il suo cuore immortale avesse perso un battito, sì, quando realizzò che si trattava ancora una volta dei capelli di Cassandra, la quale si era voltata per cercarlo con lo sguardo.
Apollo alzò una mano, come manovrato dal canto di una sirena, e pensò che mai nessuna donna, anche se quella era ancora una bambina, avesse avuto lo spirito conforme a guardarlo negli occhi con tanta fierezza e determinazione. Due caratteristiche che in capo a qualche anno avrebbero portato Cassandra alla rovina.
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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Painful Triumph (Forgive me)

 

«Eleno… Eleno, andiamo fuori a cercare le lucciole?».
Il bambino tirò su il capo ciondolante e la guardò con occhi acquosi, dopodiché sbadigliò e si portò entrambe le manine sotto una guancia, accoccolandosi accanto alle gambe della sorella gemella.
«Perché invece non ci facciamo un pisolino, Cassandra?».
Un momento dopo la bimba sentì il suo respiro farsi più pesante, già dolce prigioniero di Morfeo, il quale l’aveva trascinato lontano da quel santuario dedicato ad Apollo e dalla festa che sua madre Ecuba e tutti i migliori amici di suo padre Priamo, re di Troia, avevano organizzato in onore del suo regale compleanno.
Posò lo sguardo sulla lunga tavola che solo qualche ora prima era stata colma delle prelibatezze più desiderabili e costose di tutta la Grecia, ancora teatro di festeggiamenti sfrenati e di risate fin troppo allegre e squillanti a causa del vino che scorreva a fiumi come il nettare ai banchetti olimpici.
Guardò di nuovo suo fratello e non riuscì proprio a capire come riuscisse a dormire con quel baccano, ma non appena si fu sdraiata al suo fianco la stanchezza le impedì di tenere le palpebre sollevate e cadde nel mondo dei sogni.

***

Una breve folata di vento lo accompagnò nell’atterraggio e con un gesto aggraziato posò i piedi sull’erba.
Alzò gli occhi verso il suo stesso tempio e capì subito che doveva essere successo qualcosa lì dentro, quella notte. Quindi posò una mano sulla porta socchiusa ed abbassò le palpebre, mentre le mura stesse gli rivelavano ogni cosa del loro passato.
Il potente re di Troia aveva osato festeggiare il suo compleanno nel suo tempio, infrangendone la sacralità, senza nemmeno versare un degno sacrificio sul suo altare!
Il mio santuario profanato, reso alla pari di una squallida osteria!
Il suo viso divino si contrasse in una smorfia di disgusto e i suoi occhi scintillarono di collera, certo che prima o poi Troia intera avrebbe pagato per l’insolenza del suo prolifico re.
La sua ira aumentò a dismisura quando entrò nel tempio, abbandonato la sera prima ancora sporco e maleodorante a causa dei resti della lauta cena e del vino rimasto in certi bicchieri.
A quella vista trattenne un urlo furioso e il suo corpo emanò una luce abbagliante, dalla potenza così devastante da poter uccidere intere schiere di soldati in armature di bronzo, che rischiarò il tempio e lo riportò alla sua bellezza originaria.
Un rumore improvviso però lo interruppe, facendogli voltare di scatto il viso.
«Chi va là?», domandò e la sua voce da ragazzino echeggiò in modo quasi sinistro in quel silenzio rotto solo da un respiro lieve e al contempo affannoso.
«Non ti vuoi mostrare? E va bene… verremo noi da te».
Si chinò e con un sibilo richiamò all’interno del santuario due serpenti, animali a lui sacri e abbastanza scaltri da poter andare in avanscoperta e far sì che colui che si nascondeva ai suoi occhi si mostrasse alla luce del sole.
Il dio seguì con attenzione i movimenti sinuosi e silenziosi dei due serpenti fino a quando non furono inghiottiti dalle tenebre di quel cantuccio. Li sentì sibilare e in quel momento giunsero alle sue orecchie dei gemiti soffocati.
La persona che si nascondeva ai suoi occhi capaci di vedere persino il futuro era terrorizzata, poteva sentire l’odore della sua paura, ma era ostinata a rimanere nascosta nell’ombra, anche a costo di farsi mordere dagli animali velenosi.
Apollo, stanco di quel gioco, si avvicinò con poche decise falcate ed immerse un braccio sottile nell’oscurità, dove la sua mano si posò con sorpresa sopra un tessuto simile a seta pregiata, lievemente ondulata.
«Per la barba di Zeus, sei tu forse…?», esclamò pieno di stupore, prima di farsi coraggio e di sollevare il gracile corpicino di una bambina.
Con le lunghe braccia stese e le mani sotto le sue ascelle, la volse senza alcuna difficoltà verso la luce dell’alba che entrava dalle porte aperte del tempio. La osservò attentamente e si rese conto del suo errore madornale: non era solo una bambina, era una bambina la cui bellezza superava ogni legge della natura, nei cui occhi lucidi come specchi brillava la fiamma di un futuro già scritto in tutta la sua magnificenza.
«Qual è il tuo nome, piccola?», le chiese, ancora un po’ rapito dalla sua innocente e quasi divina bellezza, al pari di Afrodite. (Oh, che guai se l’avesse sentito!)
«Cassandra».
«Figlia di Priamo e Ecuba, dico bene?».
La bambina annuì con un gesto del capo, facendosi cadere sul viso alcune ciocche dei suoi capelli setosi, rossi come il sole incandescente del tramonto, la cui sfumatura era così ben conosciuta dal dio, dato che ogni sera si occupava personalmente della sua caduta negli abissi.
Apollo le rivolse un sorriso affettuoso, che gli illuminò gli occhi dorati e lo rese molto più umano.
«Il tuo nome è sinonimo di trionfo e non ci sono dubbi che un giorno tu…».
Un inaspettato scalpitare di zoccoli equini lo costrinse ad interrompersi e a lasciare la bambina di nuovo con i piedi per terra. Solo ora che la guardava dall’alto si rendeva conto della sua reale età, che doveva aggirarsi per forza intorno ai sei anni. Era così piccina!
La guardò negli occhi un’ultima volta e le sorrise brevemente, dicendo: «Ci rivedremo, Cassandra». Quindi uscì in fretta dal santuario e con agili balzi si sedette su uno dei rami più alti dell’albero accanto al ripido sentiero che in passato i brav’uomini e le loro povere mogli, piegati dal timore reverenziale che riservavano agli Dèi dell’Olimpo, solcavano per pregare e lasciare le loro offerte.
Da quella privilegiata posizione, nascosto tra le fronde rigogliose, poté vedere i due purosangue dai lucidi mantelli trascinare di fronte al tempio il carro reale, da cui scese in tutta fretta la regina Ecuba.
Quella sciocca, come il suo reale marito e tutti gli invitati alla festa, a causa del vino si era dimenticata i suoi stessi figli, i quali erano stati costretti a dormire rannicchiati sul pavimento freddo e sporco. Non proprio il meglio per due principi.
«Oh, tesori miei!», esclamò la donna portandosi una mano al petto quando vide la piccola Cassandra e il suo gemello Eleno comparire sulla soglia, con un braccio a proteggere gli occhi ancora abituati al buio.
«Andiamo a casa. Andiamo a casa e dimentichiamo questo spiacevole incidente. Dobbiamo solo ringraziare gli Dèi che non vi sia accaduto qualcosa di male!».
Apollo roteò gli occhi al cielo, infastidito, e le fece il verso. Poi si sporse un po’ di più sul ramo per poter osservare meglio quel piccolo prodigio che d’ora in avanti avrebbe riempito le sue notti senza sonno.
I due bambini salirono sul carro prima della madre e quando il conducente frustò i cavalli per farli tornare sulla via di casa si alzò un gran polverone che giunse fino al dio. Trattenendo un’imprecazione saltò giù dal ramo su cui si era appollaiato e si portò nel bel mezzo del sentiero, dove rimase ad osservare il carro mentre si allontanava sempre più, andando incontro alle abitazioni, così piccole da quell’altezza!, e alla reggia.
Ad un tratto però scorse una massa color vermiglio sporgersi verso l’esterno del carro e sentì come se… come se il suo cuore immortale avesse perso un battito, sì, quando realizzò che si trattava ancora una volta dei capelli di Cassandra, la quale si era voltata per cercarlo con lo sguardo.
Apollo alzò una mano, come manovrato dal canto di una sirena, e pensò che mai nessuna donna, anche se quella era ancora una bambina, avesse avuto lo spirito conforme a guardarlo negli occhi con tanta fierezza e determinazione. Due caratteristiche che in capo a qualche anno avrebbero portato Cassandra alla rovina.

***

«Odio fare la guastafeste, ma temo di dovervi chiedere di andarvene».
Le Muse smisero di danzare sulla superficie piatta del lago, su cui si rifletteva in maniera sorprendente la luna appesa nel cielo scuro punteggiato di stelle, e si voltarono verso la voce di Artemide, dea della caccia e dei boschi, nonché sorella gemella di Apollo, dio della medicina, della profezia, del sole e delle arti, tra cui la musica e la poesia.
Calliope, la maggiore e la più saggia tra le Muse, fece un passo avanti con sicurezza. «Se il nostro signore…».
Apollo si stiracchiò sul tronco cavo su cui si era seduto ed ordinò, annoiato: «Andate, svelte».
Le Muse allora si inchinarono e si allontanarono fino a scomparire tra i fitti alberi ombrosi aldilà del lago.
Apollo strimpellò ancora qualche nota con la sua lira, poi percorse dal basso verso l’alto la fine figura della sorella: gli occhi argentei brillavano tanto da eclissare persino la luna, i lunghi capelli biondi come i suoi erano legati in una treccia, adornati da piccoli fiori azzurri; indossava un succinto vestito fatto di foglie, ma il suo intento non era quello di sedurre – lei stessa aveva pregato Zeus, suo padre, perché restasse sempre vergine – bensì quello di mimetizzarsi nella vegetazione per sorprendere le prede con le sue frecce mortali.
«Qual buon vento, sorella?», domandò alla fine, siccome la dea lo fissava imbronciata e con le braccia incrociate sul petto.
«Dimmi che mi sono sbagliata. Dimmi che non hai davvero intenzione di fare quello che penso».
Apollo scrollò le spalle, sollevando le mani. «Non so di cosa parli».
«Per tutti gli Dèi, fratello, è solo una bambina!».
A quelle parole il dio si alzò di scatto, lanciando a terra la sua preziosa lira, e si parò di fronte alla gemella con gli occhi fiammeggianti.
«Lei non è una bambina qualunque! Diventerà la più grande profetessa che la Terra abbia mai visto, te lo assicuro!».
«Se fosse solo questo ciò che ti interessa, farla diventare una tua sacerdotessa, non avrei nulla da ridire, ma si dà il caso che tu voglia –!».
Le posò un dito sulle labbra e Artemide notò il suo sguardo spegnersi lentamente, tormentato dal desiderio.
Dopo qualche istante Apollo si scostò e si lasciò cadere di nuovo sul tronco cavo, i gomiti puntati sulle ginocchia e le mani a sorreggere il suo viso da eterno adolescente.
«Oh, fratello…». La dea si portò alle sue spalle e gli fece posare la testa contro il suo ventre, in modo tale da poterlo guardare negli occhi mentre gli accarezzava i capelli. «Io l’ho sempre detto che l’amore è una cosa per umani, ma nessuno mi ha mai dato ascolto. È troppo… rischioso per noi Dèi, perché è l’unica cosa che raramente siamo in grado di controllare, sia nel bene che nel male».
«Ma lei è così bella! I suoi capelli, i suoi occhi…».
Artemide sospirò. «Te ne sei innamorato davvero, dunque».
«Sì, sorella, io… aspetterò che diventi donna e poi sarà mia».
«E se non dovesse ricambiare il tuo amore?».
Apollo la fissò con aria sperduta. Non aveva neanche preso in considerazione quell’ipotesi, era impossibile che una donna mortale rifiutasse l’amore di un dio!
«Lo farà», dichiarò con voce sicura, anche se in realtà il tarlo del dubbio aveva già raggiunto il suo cuore.

***

Quella sera, come sempre, dopo il bagno fu accompagnata nella sua stanza da un’ancella di sua madre. Fu messa a letto e le venne persino cantata una ninna nanna, ma Cassandra fece solo finta di addormentarsi, riuscendo così a rimanere sola.
Erano già passati diversi giorni dal suo incontro con il dio Apollo e non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno con il suo gemello Eleno: era il suo segreto e desiderava custodirlo gelosamente.
Da quando il dio le aveva detto che si sarebbero rivisti aveva sempre fatto in modo di tenere una finestrella aperta, anche se sapeva benissimo che gli Dèi non avevano di certo bisogno di simili trucchi per entrare furtivamente in qualsiasi palazzo della Grecia.
Per ore, prima di abbandonarsi al sonno, restava appoggiata al davanzale ad osservare il cielo, la luna e le costellazioni, e il mare in lontananza, oltre le mura di Troia. E non dubitava che prima o poi Apollo sarebbe davvero giunto da lei.
Accadde proprio quella notte, molte ore dopo che si fosse coricata. Fu il dio in persona a svegliarla, accarezzandole i capelli sparsi sul cuscino come rivoli di sangue fresco.
«Scusa, non volevo svegliarti», bisbigliò non appena si accorse dei suoi occhi aperti nell’oscurità. Cassandra però fu in grado di scorgere il sorriso colmo di tenerezza dipinto sul suo viso, una tenerezza che suo padre Priamo le riservava in rarissimi casi.
La bambina si tirò su a sedere e rimase in silenzio di fronte a lui, a guardarlo negli occhi per un tempo che le parve infinito, col sole che non poteva spuntare oltre la linea dell’orizzonte.
Ad un tratto Cassandra prese la sua decisione più irrevocabile e forse sciagurata. Prese la mano del dio tra le sue piccine e vi posò le labbra sulle nocche.
«Voglio pronunciare i tuoi oracoli, mio signore. Voglio che tutti sappiano che tu sei il migliore tra gli –».
«Shhh, Cassandra». Apollo ridacchiò e le accarezzò le labbra con il pollice. «Sono onorato di ricevere le tue lodi, ma non è carino parlare in questo modo degli Dèi: è vero quando i saggi dicono che siamo tutti molto suscettibili, lassù sull’Olimpo».
La bambina ricambiò il sorriso e lasciò che il dio le posasse entrambe le mani ai lati del viso, avvicinandosi sempre di più.
«Cassandra…», mormorò, posandole le labbra sulla fronte e poi sulle palpebre abbassate. «Tu diventerai la migliore profetessa mai vissuta sulla Terra».
«Ti ringrazio, mio –».
«Io mantengo sempre la parola data, ma vorrei che anche tu mi faccia una promessa».
«Qualsiasi cosa, mio signore».
Apollo passò a baciarle le orecchie, prima la sinistra e poi la destra, e respirando il profumo agli agrumi dei suoi capelli sussurrò le sue ultime parole prima di correre a far sorgere il sole, con il cappuccio del lungo mantello nero a coprirgli il capo: «Devi promettermi che mi amerai».

***

Una volta ottenuto il permesso corse all’interno della camera da letto della madre, dove la trovò ancora prostrata di fatica, la pelle imperlata di sudore e i capelli impiastricciati contro i lati del viso. Al suo fianco stavano diverse ancelle e la levatrice, la quale aveva appena posato il neonato, accuratamente avvolto in un panno, tra le braccia del re Priamo.
«Padre, madre! È una sofferenza per me dire questo del mio stesso fratello, ma ne varrà la pena se verrà salvata la nostra potente città…».
La regina Ecuba gemette e divenne di un pallore mortale, tanto che uno stuolo di ancelle si precipitarono ad inumidirle la fronte e le labbra. Ma il re non vi badò ed esclamò, con la fronte aggrottata in quel modo che dava ancora più importanza alle sue folte ed ispide sopracciglia bianche: «Che cosa stai dicendo, Cassandra?».
«Sto dicendo che quel neonato ci porterà alla rovina! Troia verrà distrutta a causa sua! L’ho visto!».
«Smettila subito, Cassandra. Non voglio mai più sentire una cosa del genere uscire dalla tua bocca, hai capito?».
Il suo sguardo severo la costrinse ad annuire, nonostante fremesse per urlare ancora il terribile futuro che attendeva la loro bella città – una guerra che sarebbe stata narrata per l’eternità, impossibile da dimenticare come le invalicabili mura distrutte, le morti innocenti, gli stupri, le fiamme, le fiamme! – nel caso in cui quel bambino avesse continuato a vivere.
«Hai sentito quello che ho detto?», ringhiò ancora suo padre, estrapolandola dai suoi stessi sciagurati quanto esatti pensieri. «Fuori!».
Cassandra scacciò con uno schiaffo la mano dell’ancella che le era andata vicino per accompagnarla fuori dalla stanza e quando fu di spalle alla porta socchiusa, in piedi nel breve fascio di luce calda proveniente dall’interno, udì il nome che aveva già visto nelle sue visioni.
«Paride. Mio figlio si chiamerà Paride».


Quella notte la piccola Cassandra invocò il dio delle profezie e Apollo le comparve innanzi quasi subito, trasportato da una nuvola così leggera da sembrare nebbia sottile. Lo guardò mentre agevolmente si sedeva sul parapetto del suo balcone e non obiettò quando la prese da sotto le ascelle e la accomodò proprio sulle sue ginocchia.
«Lascia che i tormenti ti scivolino addosso, mia piccola prediletta», le sussurrò all’orecchio, dopo averle scostato dolcemente i capelli.
«Tu dici sempre che sono la migliore, eppure mio padre Priamo non mi ha creduta».
«Tu sei senza dubbio la migliore, Cassandra, tanto da sembrare incomprensibile a normali occhi umani. Quante cose gli uomini come tuo padre non sanno sugli Dèi, su i loro desideri più profondi o sulle motivazioni delle loro azioni? Sono ciechi e non riuscirebbero a capire comunque, nemmeno se i loro occhi fossero aperti».
La bambina sospirò e posò la guancia contro la spalla del dio, gli occhi rivolti verso le luci della città circondata delle alte mura.
«Che senso ha essere i migliori, o Dèi, se non si viene capiti dalle persone che si amano? Se il tentativo di proteggerli viene interpretato come una specie di insulto?».
Apollo le posò una mano sulla nuca ed accennò un sorriso, chiedendosi perché ancora si sorprendesse di fronte ad un prodigio del genere. Ed era ancora una bambina! Una bambina in grado di far domande sconvenienti ad un dio, perfettamente a suo agio tra le sue braccia, sul bordo di un cornicione a vari metri d’altezza.
«Non ne ho la minima idea, Cassandra».
Quella volta fu lui a sorprendere lei, dato che si scostò un poco per poterlo guardare dritto negli occhi, senza alcun sotterfugio, con una profondità tale da costringerlo suo malgrado a deviare il suo sguardo e a saltare giù dal parapetto con lei ancora stretta tra le braccia. La condusse nella sua camera e la posò delicatamente sul suo letto, inginocchiandosi di fronte a lei già con il cappuccio nero sulla testa, a coprirgli i capelli scompigliati e dai mille riflessi dorati.
«Desideri forse che punisca tuo padre per averti mortificata in questo modo?», le chiese in un sussurro, un sorriso furbo dipinto sulle labbra.
Cassandra però gli posò le manine sulle guance, lasciandolo a bocca aperta, e fissò i suoi intensi occhi castani in quelli dorati del dio.
«La vendetta è cibo assai amaro, mio signore. Lo so per certo, come lo sai tu. Tutti, sia gli uomini quanto gli Dèi, commettono degli errori. Più l’errore è grande più è doloroso, ma mai quanto quello commesso a nostro discapito da una persona a noi cara. La vendetta sorge quando non si ama abbastanza da saper perdonare e io, lo giuro, amo mio padre e non desidero altro che la sua felicità».
Apollo si alzò in piedi e le rivolse uno sguardo circospetto, sulla difensiva. Gli erano tornate alla mente le parole di sua sorella Artemide e solo ora riusciva a credere che gli uomini potessero e sapessero amare molto meglio di loro, Dèi dell’Olimpo. Amare tanto da non ricorrere alla vendetta, tanto da porgere l’altra guancia. E Cassandra… lei era molto più che una semplice umana, quindi molto più sapeva della vita e dell’amore stesso.
Questa consapevolezza riportò a galla quel dubbio che col passare dei giorni si era assopito nel suo animo divino e per la prima ed unica volta in vita sua, seppur per un attimo fugace, ebbe paura.
«Come desideri», rispose quando si riprese, avvolgendosi nel proprio mantello e dirigendosi verso il balcone.
Saltò sul parapetto e prima di lanciarsi le rivolse un’ultima occhiata, grazie alla quale poté vedere il sorriso velato di compassione che gli rivolgeva, i suoi occhi fulgidi ora un po’ più spenti. Ma forse era solo una sua impressione.
«Fai bei sogni, mia profetessa», sussurrò quando ormai era troppo lontano per essere udito, sostenuto dal vento marino.


***

Gli anni trascorsero velocemente e nonostante Cassandra non avesse perso la sua innocenza, col tempo era riuscita ad intendere perfettamente ciò che il suo dio aveva voluto dire quando le aveva conferito il dono della preveggenza.
La giovinezza le aveva impedito di capire il significato nascosto dietro quella promessa, ma ora ogni volta che vedeva Apollo, quando magari le era troppo difficile proferire da sola un oracolo oppure quando la passava a trovare di sua spontanea volontà, temeva che fosse arrivato il fatidico momento, quello che l’avrebbe annientata.
La sera del suo quindicesimo compleanno si ritirò nella sua stanza molto presto, a causa di una visione improvvisa che l’aveva lasciata senza fiato e pallida come un cencio proprio mentre stava danzando con suo padre.
Lasciò accese alcune candele sul pavimento e si inginocchiò di fronte al piccolo tempio che si era fatta costruire per pronunciare i suoi oracoli. Non ebbe però la forza per pregare il suo dio e le lacrime solcarono il suo viso candido senza che lei potesse fare qualcosa per impedirlo.
Fu così che la trovò Apollo, con la fronte posata sul marmo freddo e le mani tra i capelli rossi.
Preoccupato, corse all’interno della stanza e le posò teneramente le mani sulle spalle. «Che cos’è accaduto, mia Cassandra?».
«Nulla, mio signore», rispose, asciugandosi le guance umide con rapidi gesti delle dita.
«E allora per quale motivo piangi?».
Cassandra scosse lievemente il capo e si alzò, rivolgendogli un mezzo sorriso. Apollo però non si arrese e la cullò, attirandola contro il suo petto e cingendole la vita con le braccia. La giovane profetessa esitò, ma alla fine, aggrappandosi alla folle speranza che la sua previsione fosse errata, posò le mani sul suo petto muscoloso e si rilassò, traendo un profondo respiro.
«Da quando hai dei segreti tanto oscuri da non poterti confidare col tuo dio?», le chiese ancora e le posò due dita sotto al mento per poter immergere gli occhi nei suoi. «Mia Cassandra, sei così bella questa sera, nonostante le lacrime abbiano sfregiato il tuo volto…». Le accarezzò una guancia vellutata con il dorso delle dita e le fiamme delle candele sul pavimento si ridussero un poco, immergendo la stanza nella penombra.
«Rammenti la promessa che mi feci anni fa, quando ti conferii il dono della preveggenza?», sussurrò suadente, le labbra vicine al suo orecchio.
Cassandra trasalì e il suo cuore rallentò tanto da farle pensare che avrebbe raggiunto il regno di Ade da un momento all’altro.
«La rammento benissimo, mio signore», rispose con un filo di voce, iniziando a tremare tra le sue braccia forti e sottili.
«Molto bene, Cassandra; è giunto il momento di mantenerla».
Apollo le scostò i capelli dalle spalline del lungo vestito da cerimonia che indossava e lasciò che questo le scivolasse sulla pelle e cadesse sul pavimento con un fruscio a malapena udibile.
Cassandra lo guardò con occhi grandi, lucidi ed imploranti, ma il dio non vi badò, troppo impegnato ad ammirare il suo corpo nudo ancora acerbo, ma già bellissimo.
La prese per le ginocchia e la stese sul letto, senza mai liberarla dalla stretta delle sue braccia. In un attimo che fece tremolare le fiammelle delle candele anche il dio fu nudo e pronto a toglierle la verginità, con dolcezza e decisione, rendendola finalmente sua. Ma la ragazza, con gli occhi chiusi e le gocce delle lacrime sulle tempie, scosse il capo con vigore e gemette: «Ti prego, mio signore, non farmi questo».
«C-Cosa?». Con orrore, Apollo levò il capo. «Stai rifiutando il mio amore, Cassandra?».
La profetessa negò ancora. «Mai, mai, mio signore. Cerca di capirmi: io ti amo più della mia stessa vita, ma il mio amore è come quello che lega una figlia al proprio padre».
«Ma tu hai promesso, tu…».
«Mi dispiace. Mi dispiace…».
Apollo si alzò e le scoccò un’occhiata truce, tanto che le candele sul pavimento si sciolsero in un istante, sotto un fuoco dirompente.
«Io ti ho resa la più grande profetessa mai vissuta sulla Terra, Cassandra, e tu mi ripaghi in questo modo?».
La ragazza si tirò su a sedere, coprendosi il seno con un braccio, e gli mostrò gli occhi colmi di lacrime e di dolore straziante.
«Come dovrei comportarmi, ora?», le chiese in un sussurro, con un’espressione adirata e allo stesso tempo vagamente confusa.
«Rammenti, mio signore, quando mi posavi sulle tue ginocchia oppure quando mi accarezzavi i capelli? Anche quello era amore, glielo posso assicurare, e io lo ricambierò sempre. Perdonami, se ciò non ti basta più».
Apollo tornò a guardarla severamente, gli occhi ombreggiati di una sofferenza inconcepibile per un dio e perciò intollerabile.
Noi Dèi non siamo come voi umani, Cassandra. Noi Dèi non sappiamo amare come voi e le offese, ciò che tu diverse lune fa chiamasti “errori”, sono raramente degne di perdono. Forse perché noi Dèi non dimentichiamo, non dimentichiamo mai.
«Sta bene, Cassandra», esclamò all’improvviso, tornando persino a sorriderle dolcemente, come solo lui sapeva fare.
La profetessa però non riuscì a tranquillizzarsi: aveva capito, e senza l’ausilio della Vista, che il dio non ci sarebbe passato sopra così facilmente.
Apollo tornò vestito e a causa del fruscio provocato dal suo lungo mantello nero le candele ormai fuse si spensero, lasciando la stanza completamente al buio, con Cassandra ancora nuda sul letto.
«Mio signore…», mormorò quest’ultima, con voce tremante.
Apollo però le fece segno di stare in silenzio, posandosi un dito sulle labbra rosee, e i suoi occhi dorati furono attraversati da un lampo di malizia a lei sconosciuta.
«Hai preso la tua decisione, mia prediletta. Tu sai che le decisioni hanno un prezzo, nevvero?».
Cassandra annuì e le lacrime tornarono a scorrerle sul viso, mentre il suo corpo veniva scosso da forti brividi, ora di nuovo steso sul letto.
«Uccidimi pure, mio signore».
Apollo schioccò la lingua contro il palato e si inginocchiò ai piedi del letto. «Mia cara, non intendo privarmi della tua visione. Quello che ti chiedo, per alleviare un poco la mia delusione, è di concedermi un solo ed unico bacio».
Cassandra allora si rialzò a sedere e, seppure confusa ed incerta, si avvicinò al dio. Reclinò il capo e con l’ultimo briciolo di coraggio rimastole posò le labbra sulle sue, trovandole calde e morbide. Percepì perfettamente il dio sorridere mentre le portava una mano sulla nuca e le strattonava un poco i capelli.
«Ti maledico, Cassandra. Che le tue profezie rimangano per sempre inascoltate e che la loro sciagura faccia patire tutti coloro a cui tieni».
Aveva pronunciato quelle parole con un filo di voce, ma con una cattiveria tale da farle sfuggire dalle labbra un singhiozzo tanto forte da farla sobbalzare. Ma il dio le tenne la testa ferma, senza darle alcuna possibilità di divincolarsi, e le leccò le labbra per sigillare ulteriormente la sua tremenda maledizione. Quindi si alzò e senza più rivolgerle uno sguardo si diresse verso il balcone.
«Perché?!», urlò Cassandra, disperata. «Perché, mio signore?!».
«Lo sai benissimo il perché», rispose duramente. Ma alla fine cedette, con voce lugubre e stanca: «Non hai deciso di mentire ad un dio: hai deciso di mentire a me».
Detto ciò, Apollo saltò sul parapetto e poi giù, dove il vento lo sorresse e lo trascinò lontano dai singhiozzi e dai gemiti della bella Cassandra, la sua prediletta. D’ora in avanti, l’inascoltata.
Un improvviso dolore all’altezza del petto gli fece stringere un pugno sul punto esatto, oltre che comprendere le parole che la stessa Cassandra gli aveva rivolto quando era ancora una bambina: «Più l’errore è grande più è doloroso, ma mai quanto quello commesso a nostro discapito da una persona a noi cara».

***

Le fiamme. Non le aveva dimenticate, nonostante la visione che aveva avuto prima della nascita di suo fratello Paride risalisse ormai a tempi lontani.
Quelle stesse fiamme erano tornate a tormentare i suoi sogni da quando suo fratello, alla nascita esiliato ed affidato alle cure di un pastore fidato sul monte Ida, era tornato in città per partecipare ai giochi olimpici ed era stato riconosciuto. Aveva provato ad avvertire i suoi genitori, aveva persino pianto con i capelli sui piedi di suo padre, supplicandolo affinché lo uccidesse per allontanare la catastrofe che sarebbe piombata sulla loro ricca città, ma nulla: le sue urla erano rimaste inascoltate, proprio come aveva predetto il dio del sole, e qualcuno aveva persino iniziato a dire che era diventata pazza.
Paride, un ragazzo giovane e bello, era stato toccato dalla sciagura ancor prima che nascesse, poiché la regina Ecuba, sua madre, aveva avuto un sogno premonitore ed infausto prima di partorirlo: anche lei aveva visto le fiamme, ma quella volta le uscivano dal ventre assieme ad una catasta di serpenti velenosi e sibilanti. Fu grazie a quel sogno che suo padre alla fine cedette ed ordinò di allontanare il figlio sciagurato da Troia, ma Cassandra credeva profondamente che in qualche modo la sfortuna di Paride fosse rimasta tra quelle mura e lei per prima e più di tutti ne fosse stata toccata.
Paride era cresciuto quindi come un pastore, allevando mandrie di tori, e proprio in occasione di una gara tra contadini fu scelto per giudicare quale fosse il toro più bello. Fu allora che gli Dèi, in particolare Zeus, sovrano degli Dèi e padrone delle folgori, ed Ermes, il messaggero degli Dèi e il re degli inganni, gli comparvero innanzi per la prima volta, considerandolo tanto onesto da poter essere il giudice in un’altra gara, ben più importante e… tragica.
Paride infatti fu costretto a scegliere quale fosse la dea più bella tra Afrodite, dea della bellezza e dell’amore; Atena, vergine dea della battaglia e dell’intelligenza; ed Era, sposa di Zeus e dea della fedeltà coniugale. Ognuna delle tre, smaniose di vincere il pomo d’oro forgiato da Eris, dea della discordia, gli fecero delle promesse, ma per la mente di Paride nessuna fu tanto intrigante quanto quella di Afrodite, la quale gli promise che avrebbe ottenuto l’amore della donna la cui bellezza sfiorava persino la sua: Elena, regina di Sparta e sposa di Menelao. Paride consegnò il pomo d’oro ad Afrodite e questa sua scelta fu la causa scatenante della terribile sciagura che cadde su Troia, una guerra per tempo prevista da Cassandra, ma ignorata.
Ora le fiamme la stavano inseguendo, fiamme mille volte più dolorose di quelle delle sue visioni, che bruciavano la sua città, distruggevano il suo palazzo ed uccidevano la sua gente, tra cui la sua famiglia.
Entrò nella sala del trono e una vampata d’aria ustionante la investì, insieme al fumo che la fece tossire furiosamente.
«Padre! Padre mio, ti supplico…».
Il re Priamo, accasciato sul suo trono, aprì gli occhi vacui e fissò la figlia rivolgendole un sorriso mesto mentre le accarezzava i capelli con una mano debole.
«Cassandra, figlia mia… avevi ragione, vedi? Avevi ragione…».
«Lo so, padre, lo so», rispose in lacrime. «Ma non c’è bisogno che tu muoia. Sono sicura che puoi salvarti, tu…».
Re Priamo le rivolse uno sguardo truce e la spinse via con le sue ultime forze. La maledizione di Apollo era tornata a colpire.
«Vattene, strega! Lasciami morire con la mia città!».
Cassandra si tirò su da terra appena in tempo per evitare che una trave incandescente le cadesse addosso. Volse le spalle al padre e, sgomenta e con i polmoni doloranti, corse fuori dal palazzo. Senza sapere come riuscì a prendere una giumenta e al galoppo attraversò la sua città distrutta e saccheggiata dai barbari achei, fino a giungere sull’altura in cui si trovavano il santuario dedicato ad Apollo e quello dedicato a Pallade Atena. Con cuore stretto in una morsa entrò in quest’ultimo, a cercare un rifugio e la protezione della dea vergine.
Si prostrò di fronte all’altare, pregando ad alta voce, singhiozzando e strappandosi i capelli, ma venne bruscamente interrotta quando le pesanti porte alle sue spalle sbatterono contro le pareti nell’aprirsi. Tremante, si voltò e con orrore capì che quella volta non era stata ascoltata nemmeno dagli Dèi, tutti – o quasi – troppo impegnati ad assistere all’indimenticabile caduta di Troia.


C’era un dio che in quel momento non era ancora a guidare la freccia di Paride perché colpisse proprio il punto debole di Achille, l’invincibile guerriero figlio della nereide Teti e principe dei Mirmidoni. Un dio che non era riuscito a resistere ed era accorso dalla sua Cassandra.
Chissà, forse sarebbe davvero riuscito a perdonarla e a salvarla dal suo infelice destino, se solo fosse entrata nel suo santuario, laddove tutto era iniziato anni orsono. Ma non l’aveva fatto, non aveva creduto in lui. Aveva forse smesso di amarlo? O pensava semplicemente che fosse ancora troppo arrabbiato con lei per poterla soccorrere?
Chissà. Da molto tempo ormai si era disinteressato delle menti e dei cuori umani, dopo la delusione che quella donna gli aveva provocato.
Nascosto dietro l’imponente statua di Pallade Atena, posata sopra l’altare, osservò Cassandra pregare furiosamente e piangere ed ascoltò i suoi gemiti e i suoi singhiozzi.
Ad un certo punto arrivò Aiace di Locride, un guerriero impetuoso ed insolente, il quale decise che lei sarebbe stato il suo tesoro da portare via da Troia.
Apollo rimase immobile persino alle urla strazianti della sua Cassandra, stuprata lì su quei gradini di marmo freddo, a pochi passi da lui, ma non ebbe la forza di guardare, proprio come quando non riusciva a fronteggiare il suo sguardo fiero e sicuro, da dea bambina.
Quando Aiace terminò, soddisfatto della sua conquista, Cassandra mormorò qualcosa di incomprensibile a lui come al dio.
«Come dici, principessa?», domandò il guerriero, con aria bellicosa.
Cassandra lo fissò con quei suoi occhi incredibili, fiammeggianti come torce, ed urlò rabbiosamente: «Come osi tu, mortale, contrapporti all’immenso dio Apollo, colui a cui appartiene tutto il mio essere?! Che tu sia maledetto, che tu sia…!».
Aiace la azzittì con un pugno sulla bocca, che le spaccò un labbro. Apollo, rinvigorito dalle parole d’eterno amore – seppur a modo suo – di Cassandra, non poté tollerare quell’affronto e decise che Aiace avrebbe pagato con la sua stessa vita.
Infatti, entrò nella sua mente e lo spinse a gettare a terra la statua di Pallade Atena senza un’apparente ragione. Questa si infranse in mille pezzi e il rumore fu talmente forte da celare la breve risata compiaciuta di Apollo. Di sicuro la dea avrebbe provveduto a vendicarsi anche per conto suo.
Ma il suo piano si rivelò impreciso, poiché commise il piccolo quanto fondamentale errore di togliersi la protezione che la statua della dea gli aveva offerto fino a quel momento.
Quando Aiace si caricò l’ormai sottomessa Cassandra sulla spalla e si diresse verso la porta, la profetessa aprì gli occhi e lo vide, lì dietro l’altare.
I loro sguardi si incontrarono e Apollo aprì la bocca per parlare, ma non un suono uscì dalla sua gola. Ciononostante Cassandra gli rivolse un tenero sorriso, imitando quelli che lui era solito donarle quand’era bambina.
Apollo sbatté le palpebre e in quella frazione di secondo Aiace e Cassandra scomparvero oltre le porte del tempio, come risucchiati dalla notte buia rischiarata dalle fiamme che incendiavano Troia.
Ancora una volta si portò un pugno sul petto, lì dove aveva sentito un’improvvisa fitta di dolore. Poi si fissò le mani, quelle stesse mani che avevano sollevato Cassandra nel suo santuario, quelle che le avevano accarezzato i capelli da bambina, quelle che non avevano preso arco e freccia per uccidere alle spalle il suo aggressore. Quelle mani non l’avevano protetta, ma sapeva benissimo, grazie a quel suo ultimo sorriso, che se solo avesse potuto Cassandra le avrebbe strette e baciate ancora una volta, come faceva da piccola, con innocenza e devozione.
L’aveva già perdonato.

 

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Era da tempo che volevo scrivere qualcosa riguardante gli Dèi dell’Olimpo, ma non avevo mai avuto né l’argomento né l’ispirazione adatta. L’altro giorno è arrivato tutto insieme e ho buttato giù questa one-shot.
Mettendo da parte che Apollo è in assoluto il mio dio preferito, mi piace moltissimo anche Cassandra, la trovo un personaggio dalle mille sfaccettature e spero di essere riuscita a dipingerla al meglio.
Ovviamente la storia è una mia reinterpretazione e persino i caratteri dei personaggi sono stati da me modellati, ma spero che il risultato sia comunque di vostro gradimento. Aspetto di sapere che cosa ne pensate! ;)
Alla prossima! Vostra,

_Pulse_

   
 
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