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Autore: Mao_chan91    02/04/2007    5 recensioni
“Cos’hai? E cos’è che non vuoi dirmi?”
Lei fissa i propri piedi timidamente, stringendosi una spalla come se fosse dolorante in cerca di comprensione, con un’aria colpevole che è sempre stata più propria a lui che a lei, ed è immancabile notarlo. [EdWin]
Genere: Triste, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Elric, Winry Rockbell
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#05 Waiting for the night- Black hands on a white dress

There is a sound in the calm
Someone is coming to harm
I press my hands to my ears
It's easier her just to forget fear

[Waiting for the night, Depeche Mode]

-

Il primo sintomo di rottura del loro equilibrio si presenta quando, mano graffiando le punte delle dita dell’altra, ella si sente pulsare le tempie a qualcosa rimestarsi ribollendo nelle ginocchia, che cedono, e deve dirgli qualcosa.

E’ come se fosse liquida sul fondo opaco dei muri dall’intonaco qua e là un poco scrostato, liquida o comunque pronta a liquefarsi all’istante con un tremolio angosciante e violento che la tira giù, priva di energie.

Lui è turbato quando lei cade, e la fissa brevemente prima di allungarle una mano, scendendo dalle lenzuola più chiare per la luce dell’alba.

Lavorando sempre fino a tardi non è affatto normale che si sia svegliata così presto, ma lui ha pensato subito a problemi di stomaco, stropicciandosi gli occhi al suo fianco.

Si reggeva lacrimante scaraventandosi in bagno per poi sostarvi a lungo.

Ne è uscita solo ora, e tutto rende Edward inquietantemente nervoso.

E’ stato raramente così nervoso.

E’ stato raramente così nervoso da quando è andato a vivere con lei.

E’ stato raramente così nervoso da quando è andato a vivere con lei ritrovando un minimo di pace e frammenti di vita.

Ora i di lei occhi cerulei si aprono del tutto, ed ella si svuota ancora di forze in un tic nervoso che le piega ripetutamente l’angolo di uno di essi; così prosciugata ha attenuanti per sostare ed essere salva ancora un po’, ancora un po’, ma lui è troppo preoccupato per usarle anche questa gentilezza.

Ed è troppo fiero e fiero di sé per mostrarle di essere preoccupato ed usarle gentilezza, il che lo porta quantomeno a godere del beneficio del dubbio sulle condizioni di lei, e seri dubbi su cosa esternare, ma senza trattenersi poi troppo la tira su con gesto deciso ed appena garbato, e la interroga con occhi silenti, fisso e scostante, vincolante e quasi minaccioso.

Abbattuto.

“Cos’hai? E cos’è che non vuoi dirmi?”

Lei fissa i propri piedi timidamente, stringendosi una spalla come se fosse dolorante in cerca di comprensione, con un’aria colpevole che è sempre stata più propria a lui che a lei, ed è immancabile notarlo.

Non va bene. Non va affatto bene. E’ terribile. Non dovevo...no, non va bene niente. Non volevo saperlo.

“Win.”

Il suo rimbeccarla è accorto ed affettuoso, con la rassegnatezza paziente di chi ha imparato che la tolleranza salva dall’estraniamento dalla società, ma lei non coglie alcun segnale nelle sue parole.

Sente solo nel proprio corpo un rigetto psicologico all’accettare la propria condizione quasi di supplice dinanzi a lui, che potrebbe essere rifiutata anziché rifiutare.

Abbandonata.

E pur se senza reale, appassionato, accanimento, ora è spaventata da lui, dal pensiero di una sua reazione.

Si stringe forte per difendersi nelle spalle, quasi nascondendovicisi, e si accosta alla porta, fissandolo lontana e con sguardo scostante.

“Io...io...”

Si sfiora poi il ventre con le dita, accentuando il gesto con uno sguardo da reietta, timoroso ed incerto, tutto per lui.

Per farlo sentire in colpa.

E lui non capisce, ergendosi non alto ma senza dubbio fiero, fissandola penetrante e cercando di non capire.

“Qui...qui ora...”

I loro sguardi si incontrano scortesemente per poco, e senza l’intenzione di farlo.

Così lei chiude, chiude gli occhi con forza, e quando li riapre non c’è più uno stridere di violini stonati nelle sue orecchie, ma solo un mondo che, ai suoi occhi socchiusi, pare anche migliore di prima, più bianco e più tranquillo.

“Non ti capisco, Win. Parla più chiaramente.”

Lei lo guarda un poco, di sottecchi e colma di dolore, avvicinandoglisi piano, violenta nell’accostargli una mano al viso, ma gentile all’impatto; sosta un poco, e poi scivola via.

-

Questo ci ucciderà.

E tu mi ucciderai, senza orecchie per ascoltare, solo ferro per stridere sulle nostre membra spezzando ossa scomposte ed ossa innocenti.

Questo ci ucciderà, perché l’uomo che amo mi spaventa così tanto.

E’ disperato quando la trova più tranquilla di quanto non fosse negli ultimi giorni mentre si allontana da lui, bianca e svuotata e leggera.

“Non vedo il senso di andartene da casa tua. Non vedo il senso di restare in casa tua se non sei qui. Io andrò via. Perché non me lo dici ma lo so, sono io il problema.”

“Peccato che tu non capisca anche il resto della storia. Ma per favore, resta qui. Ora non puoi fare niente. Pensa, limitati a pensare. Penserò anch’io.”

“…tornerai?”

Lei sosta un poco, ancora sull’uscio della porta, valigia alla mano, senza dire niente.

Den compare alla porta annusando l’aria e fissando con intensità la padrona, che si china ad accarezzarla con sguardo vacuo, senza particolare attenzione né rispetto verso Ed che gli sta davanti, fermo e pronto a morsicarsi le dita non appena sarà abbastanza lontana da non poterlo vedere.

Egli non può tollerare questa visione, ma desiderare di distruggerla.

“Questa è la mia casa.” lei replica morbidamente “Non so solo se tornerò per te. Ma certo, tornerò presto.”

La sua triste immagine giace negli occhi dorati di lui per lungo tempo, e giacerà lì sino al suo prossimo risveglio dall’incubo.

Poi lei si volta verso lo spazio che li separerà.

-

Quando ha tirato le somme della sua vita, pochi anni prima, Winry ha realizzato, mestamente, di non avere vere e proprie amiche; è sempre stata orientata, anche per forza di cose, verso i ragazzi.

Ed e Al, per farla breve.

Tirava oggetti verso di Ed da quando nemmeno camminava ancora, per quanto può ricordare.

Lo rincorreva gattonando, gonfiando le guance già paffute irritata se non riusciva a prenderlo, ed affinando così la tecnica, mentre Ed scappava, più veloce di lei.

Ora ha un disperato bisogno di cambiare aria, e la stretta lista di amici cari, sufficientemente cari, le lascia come unica scelta Al; dopotutto è sempre molto gentile, di sicuro non le volterà le spalle.

Teme solo di metterlo in difficoltà con la richiesta per motivi prettamente pudici, ma dopotutto sono cresciuti insieme.

Si sono reciprocamente visti crescere e mutare di corpo, pur essendosi allontanati nel periodo di maggiore maturazione per una donna.

L’hanno lasciata appena morbida, e ritrovata prosperosa e succinta di vesti, quando un tempo tranquillamente dormicchiavano assieme dopo il gioco, lei adagiata al petto di Ed, Al al suo, a seconda della statura; ora lo trova un ricordo tenero e divertente, ma certo non cosa attuabile, Ed a parte.

Dormono ancora vicini, dopotutto, anche se più vicini di prima.

E se prima erano nudi di pregiudizi e pensieri complessi e pudore, ora sono nudi di fatto, quando dormono.

Non sono sposati; non hanno mai pensato di farlo, in verità.

Ricostruire una vita così spezzata era stato già di un’enorme complessità: pensare di fare altro era davvero irragionevole, dunque si sente ancora più insicura nella sua condizione, mentre bussa alla porta della vicina casa di Al e lo vede aprirle, sorridente e curioso con il viso più sottile ed allungato di prima, ma sempre ugualmente lieto e bambino.

“Ciao, Winry. Come mai qui?”

“…posso entrare?”

“Oh, certo, scusami, scusami. Entra.” la raggiunge gentile la voce di lui, mentre le accompagna garbato il braccio per trarla dentro e chiudere la porta, con gesto tenero e casuale.

Un tipo di gesti che lei non è affatto solita riconoscere in Ed.

“La valigia…?”

Lui la osserva sorpreso, realizzando or ora la presenza del bagaglio retto tra le di lei dita ben serrate e chiare; un poco assorto gliela prende dalle mani per posarla vicino al divano, e le allunga la sedia con un gesto da gentiluomo di fascino antico, impressionantemente delicato.

E lei sedendosi si chiede, stranita, per quale assurda ragione non abbia ancora una fidanzata.

“Ecco…la mia situazione è…complicata.”

“Sono qui per ascoltare.” le sorride lui incoraggiante, sbiadendo il turbamento in un’aura rassicurante e familiare.

Aria di famiglia.

Piccoli quadretti che incorniciano momenti lieti tra loro bambini, Ed e Al, i bambini con i genitori, ornano le pareti verde chiaro della casa, discrete e dense di sentimenti ad entrambi cari, strappati e poi conservati con nostalgia.

Lei li guarda e pian piano realizza perché si senta così bene ed al sicuro.

E’ al cospetto di qualcuno di conosciuto, qualcosa di conosciuto che non ha il potere di ferirla perché non può toccarla nella carne.

Non come Ed.

Ed che le faceva del male in ogni stretta e respiro poco accorto.

Ed che non aveva uno spirito responsabile come quello di Al.

Non così tanto.

“Aspetto un bambino.” lei si fa forza, pacata e distruttrice nella quiete che aleggia nella piccola casa ospitale.

Al allarga un poco le pupille, passandosi una mano tra i capelli, senza fiato ed emozionando, stemperando la tensione in carezze profonde ad un gattino bianco che gli è appena saltato sulle ginocchia.

Giochicchia piano con le sue zampine senza guardarla più negli occhi, timido e riservato come un adolescente un po’ ribelle.

“B-beh…wow, ecco. Non me lo aspettavo. Credevo che nii-san avesse combinato qualcosa, ma…”

“Sì, ha effettivamente combinato qualcosa.”

“E…a parte questo, ecco…lui…?”

Lei lo guarda e ride, riempiendo l’aria una rete acuminata, che più si tende e più ferisce, senza che vi sia nemmeno il tempo di accorgersene; e poi le guance sanguinano, come le sue quando si stringe prima le unghie al viso e poi ai capelli, rossa e sfumante risate in lacrime.

“Non…vuole…capirlo. Se glielo dico…se glielo dico e basta lui…io…mi lascerà, capisci? Sola e…così…così.”

“…per determinate cose nii-san non capisce facilmente. Non pretendere che intuisca da solo. E’ chiedere troppo. Non credo possa averti capita se non parli. Tu puoi capire lui se non parla, a volte, ma lui è ottuso. Non pretendere poi che intuisca una cosa che non vuole rischiare di intuire, ma preferirebbe sapere con certezza. E’ dura, ma è dura per tutti.”

Lei guarda in basso, come una bambina colpevole, tormentandosi le mani in grembo.

“Senti…io…posso restare qui…un giorno o due…o qualcosa di più…senza che tu dica ad Ed che sono qui?”

Alphonse le si avvicina per accarezzarle una spalla amichevolmente, ed annuisce comprensivo.

“Sicuro, non preoccuparti. Prenditi tutto il tempo che vuoi…oh, non so bene come gestire una donna in casa. Ed una donna incinta, ma ti prego di dirmi ogni cosa ti serva e farò del mio meglio per renderti la permanenza confortevole. Non farti scrupoli, ci tengo. Hai dentro il mio nipotino, tra l’altro. Ah, un nipotino…”

E ridacchia, timido e gioioso nel farle forza, arrossendo un poco.

Ella sente tutto molto distante, perché nonostante tutto il tocco freddo e villano di Ed le manca particolarmente.

Era uno sfiorarsi sapiente ed equilibrato che le era necessario; senza di esso era sola.

E forse la sua è stata tutta una bieca, miserabile sceneggiata per vittimizzarsi un poco, ma già ama profondamente la sua creatura; l’idea di saperla infelice ed abbandonata come è stata lei è qualcosa di assolutamente inaccettabile per la sua testa.

“Vieni, io dormirò sul divano. Lasciamo la valigia nella mia stanza.”

Lei annuisce, un poco svuotata, e lo segue con passi infiacchiti, senza nuovi pensieri, sfregandosi una mano al ventre ancora piatto per proteggerlo da un vento assente, da mani infelici che non sono lì e non è certa di rivolere indietro.

-

Edward si chiede, francamente, perché lei non sia ancora tornata.

Ha pensato, ha sperato che scherzasse, perché tutto questo lo turba in una maniera assolutamente inattesa.

E così quel di lei indicare il proprio ventre.

Perché una corsa in bagno collegata ad una donna e collegata ad un ventre ha un significato preciso, che preferisce ignorare, ma questo semplicemente perché la cosa è totalmente inattesa.

Convincersi fermamente che lei sia incinta per magari sbagliarsi gli comporterebbe un crollo troppo pesante, poiché la cosa non è leggera da aspettare.

Suo padre lo ha lasciato quando era piccolo di propria volontà, dunque non sa nemmeno cosa debba essere un padre per un figlio.

Se abbia a che fare con soggezione e rispetto, ammirazione e devote distanze; ma questa probabilmente è una sua troppo rosea visione.

Suo padre era un idiota, dunque di padri veri ha letto solo in qualche libro da bambino.

Le favolette con protagonisti cuccioli che giocavano, protetti e custoditi dal sorriso austero e dolce del papà.

Gli occhi grandi di Al che si stringeva alla sua maglia implorando per una figura da seguire con rispetto quando erano molto piccoli, poi sviluppando una costante autonomia, forse perché alla fine aveva realizzato anche lui che uno come Ed non era un buon esempio.

Non volevo esserti un peso, nii-san.

Parole, parole, miserabili parole e basta.

Probabilmente non aveva voluto ferirlo, semplicemente, dandogli dell’inetto.

Ed ha ormai solcato fossati profondi con i suoi passi selvaggi di piedi nervosi sul pavimento, girando in tondo sotto lo sguardo perplesso del cane di casa, ringhiando, passandosi una mano alla tempia, crollando esasperato sulla poltrona di velluto densa di cuscini.

Sono due giorni che lei non torna, ed ha momentaneamente mollato anche il lavoro, perché l’officina è lì ed in quella casa c’è lui, degno d’un odio che non comprende appieno, ma un motivo c’è sempre, lo si può sempre trovare.

E’ così colpevole, sino alle viscere, che una vita sola non basterà mai a fargli soppesare ogni singola colpa appieno, anche se ha già pagato, ha già pagato così tante volte…

E non so nemmeno dove sia, e non posso stare tranquillo. Se si fosse persa? L’avessero rapita? Trucidata? Sedotta?

Rabbrividisce leggermente, nonostante sia appena primavera, e va a chiudere la finestra che aveva appena aperto perché aveva caldo.

Pochi minuti dopo, la riaprirà.

-

Sono sempre stata così brava a sorridere, constata ella fingendo accuratamente un nuovo e sfavillante tender di labbra, senza minima traccia di turbamento o nervosismo.

“Mi dispiace così tanto di stare approfittando tanto della tua ospitalità.”

E’ nonostante tutto imbarazzata e china lo sguardo al suolo, mentre lui esce ancora di casa, ancora sorridente, ancora gentile.

“Non pensarci neanche, dai. Sto così poco a casa, e mi aiuta tanto trovare un pasto caldo al ritorno. Mi dispiace solo di lasciarti sola, se non fosse un’urgenza, specie vista l’ora tarda, non andrei.”

“Ma no, hai il lavoro, sono io che sono di troppo, davvero, forse...”

“Win, calmati, per favore, va tutto bene. Dai, ora vado. A domani.”

La addolora sommamente, involontariamente e dunque d’una pena più pesante del necessario, perché il problema è solo di lei.

L’ha chiamata Win.

Win.

Win come la chiama sempre Ed, sempre.

Il tuo nome è troppo sdolcinato e lungo, sai. Sembra di parlare di miele, e si parla dell’ ape. No, cazzo, no, sei violenta! Non sei proprio una donna, eh.

Ed dalle mani che erano un tempo solite essere unte di sangue con la stessa saltuarietà con la quale quelle di lei lo erano d’olio.

Ed che non ha mai capito subito. Niente.

Non che potesse saltarmi al collo gioendo a gran voce, ma insomma, un…segno…

Osserva Al scomparire tra le ombre, borsa da lavoro alla mano, e si sente particolarmente afflitta, trapassata da brividi.

Aspetta che sia totalmente scomparso dalla sua visuale e sosta un poco.

E’ quasi notte.

E’ quasi notte e può nascondersi, celarsi in ogni ombra senza dover accampare scusa alcuna perché nessuno le chiederà spiegazioni, trovandola serena al mattino, se ora seda il dolore in violento stremarsi.

Chiude la porta di getto e corre d’ampi passi, incespicando tra l’erba nociva senza cadere, e se cade si rialza, e se non cade corre sempre più in fretta, scaldandosi i muscoli e cessando dopo lunghi solcar di campi, cadendo incauta sul ventre, esanime e senza scopo.

Tutto è verde ed il cielo si scurisce ancora da già buio che è, pian piano, leggiadro e trasparente ancora mentre lacrima acqua già sporca sulle sue giunture inerti e pulsanti, sul suo viso ora scuro di fango, i suoi gomiti su cui ancora striscia, crollando quando è troppo ammaccata e striata per poter sentire altro, ed ora è felice, assurdamente felice, perché ora è sola ma va tutto bene.

Si accarezza leggermente il ventre, sentendo l’odore dei gigli che la abbracciano piacevolmente.

E’ di nuovo la piccola regina che siede nella parte più importante della scena; siede e guarda il mondo con un bianco, perfetto sorriso che illumina la notte –come si frantuma, tutte le certezze diventano grigie e senza valore, esattamente come polvere.

Sono sempre stata così brava a sorridere. Così brava. Anche se non sorrido da tanto in maniera così…così bianca.

E’ la piccola regina coperta di gigli –i gigli appaiono tanto più belli degli altri fiori. Più grandi e vistosi delle margherite, non pungono come le rose né hanno un profumo peggiore. Sono solo così tanto più belli…

Ed e Al solevano intrecciare diademi floreali per lei, la piccola regina tra i gigli, decidendo che chi avesse fatto il più bello l’avrebbe potuta prendere in sposa –e quelli di Ed erano sempre così brutti e stropicciati, le sue mani quasi logore per l’impegno e il suo viso contratto in grande frustrazione; Al vinceva sempre, con le sue mani piccole e pazienti, laboriose ed amabili.

Solevano anche sorridere molto, come lei.

Solo, in maniera più realistica.

“Andrà tutto bene, sai.”

Il bambino accarezzò la testolina bionda gentilmente, guardando le lapidi bianche, ma lei non stava piangendo.

“Fa male, Ed. Non puoi dire quanto è doloroso, perché lo è troppo. Non lo sai. Non lo capisci.”

“…hai ragione, non lo capisco. Ma posso tentare.”

Lei lo fissò a lungo, prima di riabbassare ancora lo sguardo al suolo torturato dai propri piedi che senza riguardo lo pestavano, urtavano, rovinavano.

Il comportamento di lei era sempre così perfetto e dolce e vano.

Una brava bambina merita genitori.

So che non lo sono, quindi lo diventerò.

Mai seccare, mai urlare, mai agire.

Mai vivere.

Il suo vestito –lo realizza ora, ironicamente- era bianco, e già pienamente, irrimediabilmente infangato.

Non c’è alcuna differenza.

Questo senza alcun motivo la rende più triste, ferita e sconvolta.

Senza speranza.

Non mi è corso dietro. Né lo farà ora, ora che sono così sporca. Mi dispiace. Mi dispiace tantissimo.

Pensavo andasse bene se salvavo mio figlio dal conoscere suo padre e venirne abbandonato. Come me.

Non ho pensato che non mi va bene essere abbandonata. Come accadrà a lui.

Che ora non tornerà più che mai. Perché non può più amarmi.

Sono così sporca ed infangata nel torto. Perché preferirei ancora che amasse me che questa creatura.

Così macchiata. Nonostante ogni sforzo di pulire tutto.

Si sente dolere così tanto lo stomaco da smettere di respirare, smettere di pensare, meno razionale, più assente di prima.

Strappa con le dita petali di gigli lanciandoli in terra, bagnata dalla pioggia che la inonda e lava, inonda e lava e poi macchia ancora e ancora.

Ora vi sono petali laceri per tutto il verde vasto attorno a lei, strappati e non più belli come prima.

Si sente, per qualche istante, dolorante ma particolarmente sollevata.

-

Quando esce di casa non ha un istinto preciso.

Solo voglia di maledirsi e sbattere la testa contro qualcosa, vigorosamente, perché duole un sacco dai pensieri incoerenti e sempre più crudi contro le pareti della sua testa, una stanza metallica che rimbomba in maniera opprimente.

Questo simboleggia il suo vuoto, direbbe Win.

E lui si arrabbierebbe fortemente, ma se lo dicesse ora ne sarebbe al contempo incredibilmente, insostenibilmente contento.

Ha scorto nell’aere minaccia di pioggia, e stretto tra le dita il manico di un ombrello, fardello ingombrante tra le sue mani, ostacolo che rende più piacevole la sua fuga dall’oppressione di una casa troppo vuota per sostarvi ancora, cenare ancora da solo, dormire ancora tra lenzuola fredde.

Logorarsi nell’attesa d’un cenno di vita di lei era stato duro.

Perché lei non voleva essere trovata. Non voleva essere forzata a rivederlo se non se la sentiva.

E siamo entrambi adulti, avrebbe inoltre detto ella, ammonendolo con somma serietà, e non credo che questo ti ucciderà. Non ucciderà nessuno dei due.

E si era dolcemente sbagliata, quantomeno dal suo canto; perché pur non esternandolo, lui moriva dal nervosismo.

Si staccava quasi le unghie tra i denti in impeti furiosi ed incontrollabili, trattenendosi dall’andare a cercarla.

Può non sembrare. Non sembra affatto. Ma mi da fastidio. Mi secca. Mi rende ansioso. Non voglio. Non mi piace affatto.

Non c’erano così tanti posti in cui lei sarebbe potuta rifugiarsi, certa di trovarvi asilo, e lui li conosceva tutti, e quel tutti era uno.

Al.

Così ha resistito per puro rispetto e tenerezza nei confronti di lei, ma l’attesa, seppur breve, l’ha dilaniato.

Ora sa cosa ha lei dovuto soffrire per anni.

E c’è questo ostacolo tra le sue mani, peso leggero, ombrello ceruleo.

Sono i suoi occhi. I suoi occhi mi guarderebbero male, ora. Questi sono i suoi occhi che mi fissano insofferenti.

Non lo apre, non l’ha preso per quello, ma solo per usarlo in caso si calmasse, e non è certo di riuscirvi, per niente certo.

Queste sono le mie mani che feriscono. Queste le mie labbra pusillanimi che l’hanno messa in fuga.

Voglio essere felice. Dirò anche a lei che sono felice, e sarò davvero felice.

Sa che le piace guardare la pioggia al chiuso, ma se l’avesse sorpresa incauta potrebbe aver sostato ad osservarla, sgranando quegli occhi così incredibilmente grandi, ingombranti sul viso un poco paffuto.

Cammina e poi corre, poi cammina ancora, acqua penetrante sin nelle ossa in scrosci assordanti, giungendo in un luogo che rammenta appieno.

Qui riposano le loro speranze da lungo dimenticate, qui giace lei lungo distesa, che volge le spalle, accasciata sul grembo, alle lapidi bianche che proteggono i genitori di lei, la madre di lui, anche se i corpi dei primi non sono mai stati materialmente lì.

E pensa che deve essere stato terribilmente angosciante, per lei, sua presenza o meno, una vita senza supporti e piccoli vezzi infantili.

Abbandonata dai genitori ed anche da lui, ma lei piangeva senza lamentarsi, e mai irragionevolmente.

Lei diceva sempre che andava tutto bene perché lui aveva bisogno di sentirsi dire questo, perché l’avrebbe messo in difficoltà, quando le sue priorità erano altre.

Avrebbe ulteriormente appesantito il suo fardello, simile all’ombrello che ora erge sul corpo martoriato da fango ed acqua simili ad un mare di lacrime e sangue.

E’ come se fosse già morta, e per degli istanti gli pare quasi inutile proteggerla dalla pioggia chinandosi piano.

“Io sono felice, Win. Sono davvero felice, nulla può guastare questo. Puoi parlarmi. Voglio sentirti parlare.”

La solleva gentile sulle proprie ginocchia, coprendole la schiena con il solito, ormai corto e logoro, mantello rosso che è sempre stato avvezzo a portare senza sosta, agganciandosi l’ombrello al polso e facendole ancora scudo con il capo chino perché la pioggia non la tocchi oltre.

Perché? Sono così pulita, ora. Quando mi lava sono pulita ed innocente. Poi mi sporca ancora, ma sono al contempo pulita. E perché è felice? Perché vuole ascoltare quello che non è in grado di sopportare?

“Accidenti, dove sei stata fino ad ora? E…ehi, parla. Win, su, per…favore.”

La scuote gentilmente rialzandosi in piedi, iridi semivuote e semichiuse stagliate d’azzurro inconsistente, cuore lento, poi veloce da essere lacerante.

“Forse ho…ferito il bambino.”

Non voleva.

Non voleva davvero, ma è caduta urtandolo, senza violenza ma battendo il ventre.

Piange piano, stringendosi alle sue spalle non particolarmente ampie, al suo collo ruvido di barba ignorata per giorni, e trema forte.

“N-no, senti, va tutto bene, eh. Sono sicuro che sta bene. Ti farò vedere da un dottore, e starete bene tutti e due. E saremo ancora felici, tutti e tre.”

Lei può finalmente addormentarsi felice, alla notte tanto attesa per sedare il dolore nell’oblio, tra le sue rassicuranti parole spacciate per certe, ma simili ad i suoi sorrisi da piccolo.

Realistiche pur se bugiarde.

-

Note finali: Altra fic per il theme set Violator postato da Maki sul forum. Non sono particolarmente soddisfatta di questa one-shot, ma spero che a qualcuno possa piacere.
Non appena possibile, posterò le prossime fic del set, ne ho pronte altre tre, anche se questa credo sia la meno “forte” di queste.
E’ sottinteso che adoro ricevere commenti.

  
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