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Autore: Morrigan_Ohlin    15/09/2012    1 recensioni
François Gaultier de Claireux non piangeva: i suoi occhi erano più aridi del suo cuore immobile.
François Gaultier de Claireux non amava: la Decadenza e il Sangue erano i suoi soli compagni.
François Gaultier de Claireux non moriva: la Cupa Mietitrice lo seguiva soltanto.
..E posava i piedi scheletrici sulle insanguinate impronte del mostro, sui passi del sadico artista - sul sentiero del Vampiro.
-
Freya Wolfstone non aveva mai creduto nei romanzi.
Freya Wolfstone non aveva mai creduto nei principi azzurri.
Freya Wolfstone non aveva mai creduto che qualcuno le avrebbe insegnato a vivere.
..Freya Wolfstone credette a chi le insegnò a morire.
Genere: Dark, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Hands.

 

Le grandi città del Nuovo Mondo gli piacevano.
Con quel loro brulichio anonimo di potenziali prede, con quella loro vita palpitante e convulsa, dal punto di vista puramente gastronomico erano un vero Paradiso, l’unico paradiso realmente esistente: e gli angeli che lo abitavano, dieta varia ed eclettica come poche, erano quanto di più patetico e desiderabile ci fosse al mondo.
Ma perfino il Paradiso, dopo qualche decennio, può diventare scomodo.
Troppe luci che gli ricordavano il giorno negato, troppo rumore insopportabilmente moderno.
Aveva lasciato Los Angeles per fare ritorno nella sua vecchia Europa, alla ricerca di un luogo che gli ricordasse i tempi andati: e l’aveva trovato, fra le dolci colline del sud dell’Inghilterra.
Ventimila anime di cui nutrirsi a piacimento, clima mite, vicoli, strade lastricate e un’antica villa settecentesca in vendita avevano attirato la sua attenzione, e l’avevano conquistato: stabilirsi a Thunderbridge gli era parso come prendersi una vacanza, un piacevole diversivo all’inevitabile noia che assale un predatore fuori del suo contesto. Sapeva di suoi simili che si erano perfettamente integrati alla vita frenetica della modernità: ma lui, sfortunatamente, era un tradizionalista.
Dopotutto, adeguarsi alle piccole, futili vicende umane era piuttosto degradante.
Niente di meglio, quindi, di una cittadina medievale: sentir parlare finalmente le antiche memorie, riviverle attraverso i muri di pietra e i boschi disseminati di rovine, era di quanto più dolce potesse trovare.. Oltre al sangue umano, s’intende.
Elegantissimo, nella sua giacca nuova da magnate della finanza e le scarpe a punta lucide, girovagava fra le alte case, strette le une alle altre, e i villini con rispettivo giardino. Lasciava vagare il suo sguardo ovunque, sui muri e sulle fontane, sui lampioni dalla luce appena accennata e sulle ombre dei passanti che si allungavano, sinuose e distorte, sui ciottoli della strada: chiunque avesse incrociato i bagliori smeraldini dei suoi occhi vi avrebbe letto l’incrollabile orgoglio di chi possiede tutto ciò che vede. Si aggirava in città come i padroni delle piantagioni degli Stati del Sud facevano entro i loro possedimenti, ammirando la propria ricchezza e i propri schiavi: stessa aria di superiorità, stesso sprezzante orgoglio che si palesava tanto nel suo sguardo quanto nel suo passo scattante e sicuro.
Così era, d’altronde: tutto in quel luogo, da quando vi aveva messo piede, gli apparteneva. Non aveva solo acquistato l’ex residenza di una famiglia di Lord squattrinata, ma l’intera Thunderbridge, forse l’intera regione: perché chi non aveva che se stesso, non avendo nulla da perdere, poteva arrivare a conquistare qualsiasi cosa.

Camminando al centro della strada, attraversò la città: i volti corrucciati delle chiese, le porte strette e tinte a colori vivaci che risaltavano sull’opaca freddezza della pietra, le forme aggraziate avviluppate nel marmo delle fontane, gli parevano nuove e sconosciute, e al tempo stesso straordinariamente familiari. C’era qualcosa, in quelle costruzioni umane, che gli ricordava la sua Claireux, a Sud di Parigi, dimora millenaria della sua famiglia: il guizzo di un’ombra sulla pelle marmorea di una ninfa, la ragnatela fra gli interstizi delle pietre delle case più antiche, l’acciottolio cadenzato dei passi sul lastricato, era come un canto che, attraverso il tempo e lo spazio, gli dava il bentornato.
Secoli prima, perfino Claireux era stata così, relativamente piccola e con pochi abitanti, eppure era tenuta in grande considerazione dall’intera nazione dal punto di vista commerciale: adesso, cittadine come Thunderbridge rappresentavano soltanto le ultime vestigia di un passato destinato a soccombere alla velocità dei tempi moderni. C’era una certa ironia, a ben pensarci: ciò che una volta era temuto e rispettato, ora diventava insignificante, quasi un’attrazione turistica. Ciò che era stato grande diventava piccolo, e soccombeva alla potenza del Nuovo.
Ecco perché aveva desiderato tanto ardentemente tornare nel Vecchio Mondo: non riusciva a sopportare oltre quell’ingiusto mutamento, si sentiva un rudere fra migliaia di vite giovani quanto le primule in primavera. Cercava solo il conforto dell’antico, e l’aveva trovato.
Questi i pensieri che si agitavano nella sua mente, mentre le ombre si allungavano attorno a lui e le strade si facevano deserte per l’approssimarsi dell’ora di cena: stava tendendo l’orecchio, ascoltando l’allegro chiacchiericcio delle famiglie riunite attorno alla tavola apparecchiata, felici e ignare della sua presenza, quando ad un tratto la sua attenzione venne attirata da un rumore alle sue spalle.
Si voltò, e vide un cane color miele e dal muso nero, alto e lanoso come una pecora, che correva (o meglio, galoppava) lungo la strada con la lingua penzoloni. Un gatto bianco e nero superò François, fulmineo come una saetta bicolore, e il molosso continuava imperterrito a seguirlo: solo quando fu accanto allo straniero rallentò la corsa, guardandolo con occhi spaventati, ma poi si riprese, e lo superò con un solo balzo sulle sue enormi zampe.
Il gatto, nel frattempo, si era arrampicato su un cipresso ai lati del viale, e soffiava in direzione del cane: il quale, senza scomporsi, si era seduto ai piedi dell’albero, e fissava il felino con aria offesa e, a dirla tutta, un po’ stupida.

François stava valutando se proseguire la passeggiata o attendere i successivi sviluppi degli eventi (il gatto sarebbe sceso dall’albero? Il cane avrebbe abbattuto il cipresso spingendolo con la testa massiccia? Di certo il loro sangue non sarebbe stato all’altezza delle sue papille raffinate..), quando un odore diverso da quello degli animali raggiunse le sue nari, costringendolo a voltarsi nuovamente.
Odore di donna, ne era certo: e non si sbagliava.

Da un vicolo laterale, comparve all’improvviso una giovane, di corsa e abbigliata in modo oltremodo bizzarro: aveva un paio di ciabatte da casa ai piedi, e il suo unico indumento consisteva in un maglione blu notte esageratamente largo. Il maglione le copriva le gambe fino a metà coscia, ma si alzava impudicamente ad ogni scatto delle gambe della ragazza: capelli castani e scarmigliati, occhi scuri contornati da due occhiaie violacee, pallore e totale assenza di trucco completavano la sua figura, l’immagine personificata della preoccupazione. Correva, per l’appunto, guardandosi attorno terrorizzata come in cerca di qualcosa: passò oltre François senza nemmeno vederlo e si gettò letteralmente ad agguantare il collo peloso del cane, coperto da una sorta di criniera.
Lo strinse al petto mentre questo le leccava la faccia, per poi tornare a puntare il gatto acciambellato sul cipresso.
« Bjørn.. Sei.. Un.. Vero.. Cretino.» , lo stava rimproverando, affannata e perfettamente incurante del mare di peli che il cane le stava sicuramente depositando sul maglione: pareva distrutta, e poco mancava che iniziasse ad ansimare con la lingua di fuori come il molosso.

François approfittò del momento per studiarla meglio, ma pensò che quel maglione era decisamente troppo largo per valutare a dovere le sue forme: in ogni caso era molto giovane, (diciassette, diciotto anni al massimo), dal viso grazioso ma non eccezionale, belle gambe ma non perfettamente toniche.
Una preda ordinaria: eppure, quella ragazza scarmigliata e scomposta lo attraeva.
Non per la sua maschera disordinata, ma per ciò che nascondeva sottopelle. Il suo sangue ribolliva per effetto della corsa, forte, passionale: un richiamo irresistibile a prenderla, dilaniarle il collo, bere da lei fino all’ultima goccia.
Le pupille di François, illuminate di bagliori di fiele, le narici dilatate, i canini appuntiti che facevano capolino fra le sue labbra scarlatte e socchiuse, erano il chiaro segnale del suo desiderio: fissava il petto della giovane alzarsi e abbassarsi, affannosamente, e le vene pulsare nel suo collo simile all’alabastro, che lei, perfettamente incurante del pericolo, pareva offrire innocentemente alle sue brame. Era ipnotico il loro ritmo, anche un vampiro con più autocontrollo avrebbe perso le staffe di fronte a una simile provocazione..
..Ma poi, quando fece per avvicinarsi, deciso a iniziare con lei la serata, la giovane prese con forza il suo cane per la pelle e il pelo del collo, guidandolo verso il vicolo da cui era comparsa e borbottando parole di rimprovero: e lo sguardo del vampiro, involontariamente, gli cadde non più sul collo, ma sulle mani della ragazza. Più belle perfino delle splendide mani dello stesso François.
Il palmo era magnificamente proporzionato al resto del corpo, le lunghe dita affusolate ed eleganti, le unghie a punta laccate di nero perfettamente curate: leggermente arrossate sulle nocche, ma la pelle era cerea, quasi trasparente, su cui risaltava l’acceso, addirittura sontuoso blu delle vene. Mai aveva visto mani così belle, nemmeno fra le principesse dei secoli passati: a confronto, le loro erano piccole e dalle dita tozze, mentre quelle della giovane inglese parevano petali di magnolia.
Lei gli camminò accanto, ma lo degnò soltanto di un’occhiata distratta, prima di condurre il suo cane nel vicolo e sparire, nell’intrico delle viuzze di Thunderbridge: e ancora, alla soffusa luce dei lampioni, François riusciva a scorgere l’assoluta, traslucida perfezione delle sue mani.
La sua inconsapevolezza che quel fascino manuale, distraendolo, l’aveva salvata da una morte orribile, lo fece sorridere.
Non avrebbe esitato a bere la sua linfa, data la spossatezza di lei e la strada deserta, se non fosse stato affascinato da quel particolare: lei non lo sapeva, ma alle sue dita doveva il fatto di respirare ancora. Da cose come quelle dipendeva il destino umano: da un cane che corre, da un maglione blu, dalla bellezza di due mani..

L’ironia della vita, che si lasciava cogliere solo da esseri distaccati come lui, ora gli appariva nitida, e anche un po’ crudele.
Giusto un po’, ma non tanto da destargli alcun rimorso.

Lui non era mai stato il genere d’uomo che si faceva prendere da quella debolezza: non rimpiangeva nulla, né l’avrebbe mai fatto.
C’era chi gli aveva dato del mostro: lui era un predatore.

C’era chi gli aveva dato del sadico: lui era un artista.
Era la catena alimentare, d’altro canto, era l’ordine precostituito della natura: e chi era, lui, per sovvertire quest’ordine? Luce, piante, animali inferiori, animali superiori, uomo, vampiro. Non poteva certo mettere in discussione Madre Natura, e non l’avrebbe mai fatto: così era scritto, doveva essere bramoso, doveva essere crudelmente democratico quanto la Morte stessa.
Non c’era spazio per la pietà.
Il lupo aveva forse pietà verso la pecora?
Il leone aveva forse pietà verso la gazzella?
O la volpe verso il coniglio?
D’altra parte, lo stesso uomo, che da secoli accusava la sua specie di essere la progenie del Diavolo o amenità dello stesso genere, provava pietà?
Verso le sue prede, verso la sua stessa casa, verso la sua stessa stirpe?
No, l’essere umano non provava pietà verso nulla: era questo il grande paradosso degli uomini.
Perciò, per quale motivo il suo predatore naturale avrebbe dovuto essere magnanimo, e lasciarsi morire di fame per una razza di distruttori e ingrati?
Per François Gaultier de Claireux la cosa non aveva alcun senso, né si interrogava per trovarlo: era una questione inesistente, un’illusione, una chimera.
L’unica cosa reale, tangibile, era che aveva fame.


François si guardò attorno, e realizzò di esser appena uscito dalle mura della città: non si era accorto di aver ripreso a camminare, alla scomparsa della ragazza col cane. A giudicare dal cielo, fattosi scuro sulla sua testa e cobalto all’orizzonte, dovevano essere circa le nove di sera.
Si diresse verso il parcheggio fuori Thunderbridge, dove i residenti lasciavano le proprie auto: estrasse un mazzo di chiavi da una tasca della giacca non appena giunse di fronte alla sua Cadillac rosso scuro, acquistata in America anni prima, vi salì e mise in moto. Accese il motore e si immise nella strada principale che portava fuori città, con una certa aria schifata. Le considerava un male necessario, le automobili, ma pur sempre un male tremendamente fastidioso: odiava i fanali come un animale selvatico, e ancor di più il frastuono che producevano senza ritegno.
Più si allontanava da Thunderbridge, più si facevano palesi i morsi della civiltà alla campagna circostante: una strada statale che si snodava fra i lievi pendii e che collegava la cittadina ai capoluoghi più grandi; centri commerciali, McDonald’s, un carwash; case sparse, altri centri commerciali. Si chiedeva che senso avesse costruire simili brutture lungo una strada: ma quello era solo uno dei tanti enigmi che il genere umano chiamava idee, incomprensibili a qualunque creatura superiore, ma che riempivano gli “esseri ragionevoli” di quel loro inutile orgoglio..
François lanciò sguardi carichi di disprezzo ai simboli della stupidità umana.
« Avrei potuto diventare come loro.» , pensò, sollevato dal fatto di essere diventato qualcos’altro.
C’erano vampiri che rimpiangevano per tutta la loro seconda vita l’aver rinunciato alla loro umanità: ma non François. Diventare come quelle creature, non più complesse di un insetto qualsiasi, diventare ciò che voleva suo padre insomma, sarebbe stato il suo errore più madornale.
In molti maledicevano il loro Creatore: lui benediceva il proprio con la più grande devozione. Gli aveva permesso di liberarsi da ogni catena, gli aveva donato la libertà di fare ciò che voleva: niente errori, niente stupidità umana, lo aveva reso un essere perfetto. E aveva non un soffio effimero, una manciata di decadi, per dimostrarlo: aveva davanti tutta l’eternità.
Passò di fronte a una discoteca: i finestrini abbassati della Cadillac gli permisero di udire provenire dall’interno del locale un ritmo martellante e fastidioso, accompagnato da risate sguaiate e altri suoni non ben definiti. Svoltò, cercando un posto libero nel fatiscente parcheggio accanto alla disco: trovatolo, proprio sotto un lampione dalla luce sfrigolante, scese dall’auto e si lisciò la giacca.
Certo, avrebbe anche potuto permettersi un bordello decente: ma per quella sera non aveva voglia di spendere troppo.
Lanciò uno sguardo interessato a un paio di ragazzi piuttosto piacenti che si reggevano l’un l’altro, decisamente ubriachi: ma quando uno dei due si piegò in avanti e vomitò a poca distanza da François, il vampiro si allontanò disgustato, temendo di sporcarsi.

Mentre valutava se valesse la pena entrare o meno (le discoteche, si sapeva, non erano i luoghi migliori dove cercare prede: capitava spesso di trovarne qualcuna troppo fatta o ubriaca, e nutrirsi di sangue di un certo tipo non era auspicabile), diede un’occhiata al retro dell’edificio.
« Perfetto.» , valutò soddisfatto.
Di fronte a lui, fra scatoloni vuoti, siringhe e sporcizia varia, c’erano cinque prostitute: tutte bionde, in tacchi alti e minigonna, nonostante l’aria fredda dell’imminente Settembre iniziasse a farsi sentire. Non appena lo videro, le ragazze fecero a gara per mostrargli la mercanzia, attirate da quel completo che significava palesemente “soldi a palate” e dal suo bell’aspetto. Lui tastò il collo ad ognuna di loro, saggiando il calore e lo spessore della pelle, mentre quelle erano (o si fingevano, ma non aveva importanza) deliziate dal suo tocco glaciale. Alla fine ne scelse due, alte, leggermente più in carne delle altre e dal forte accento slavo, e le condusse gentilmente verso la Cadillac: quelle, squittendo eccitate, si sistemarono immediatamente sui sedili posteriori.
« Molto bene, Mademoseilles, quanto mi costeranno i vostri servigi?» , domandò loro, una volta messo in moto il motore. Le due sorrisero, affascinate dai toni cortesi del loro cliente e dal leggero accento francese che nemmeno un paio di secoli in America erano riusciti a cancellare.
Non tirarono sul prezzo, come se sapessero che, qualsiasi cifra gli avessero chiesto, non l’avrebbero mai vista.
E questo strappò al vampiro un ghigno aguzzo.

Una delle due, quella con la minigonna rossa e la vena tremendamente invitante sulla coscia sinistra, si sporse verso di lui, dandogli piccoli baci sul collo e accarezzandogli i capelli neri raccolti in una coda. « Perché un uomo come voi ha bisogno di due puttane?» , gli domandò, tastandogli poi la muscolatura da atleta attraverso la camicia. « Avrete di certo ogni donna che desiderate..»
Il sogghigno di François si intensificò: ma questo non bastò a spaventare la ragazza, ammaliata dalla perfezione del volto di lui, dal profilo greco, dalle labbra piene e rosse. « Niente è ciò che sembra, ma cherie..» , mormorò il vampiro e scoppiò a ridere.
Era una risata fredda, metallica, che fece correre un brivido sulla pelle delle due prostitute, ma lui non se ne curò: completamente dimentico della ragazza dal maglione blu e delle sue magnifiche mani, pensava solo al sangue giovane che avrebbe nutrito lui e la sua arte..
Sì, avrebbe composto musica superba quella notte.

« Dunque ditemi, Mademoseilles.. Vi piace la musica classica?»

 
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