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Autore: Brin    17/09/2012    11 recensioni
“Cosa faresti se non potessi morire?” è un problema che Gemma non si pone, non quando il cancro si sta portando via il suo ragazzo. L'unica soluzione che riesce a vedere è rappresentata dal Vitotal, una medicina che tutti hanno imparato a conoscere come “il farmaco dell'immortalità”. Un miracolo realizzato che ha privato il mondo della propria umanità. Per averlo Gemma è disposta a tutto, persino a gettarsi tra le braccia di quelli che dal Vitotal si sono fatti corrompere fino al midollo. Persino ad appartenere ad “Hannibal”. Così infatti è conosciuto Dante, uno che dal Vitotal è stato compromesso talmente a fondo da portare gli effetti nel corpo e nella mente.
In un mondo che assieme alla morte ha perso anche la sua umanità, come può ancora esistere l'amore?
Genere: Angst, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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3
ATTENZIONE!
Vitotal NON È una storia per stomaci delicati. E' violenta, e gli argomenti che verranno trattati non saranno, diciamo, felici. Se siete impressionabili, allora probabilmente questa storia non fa per voi. Per tutti gli altri invece, buona lettura.


COLONNA SONORA!
Si riprende questa usanza a me tanto cara. Per chi vuole, questo capitolo avrebbe una sua colonna sonora. Si tratta di “Numb” di Alanis Morisette.










CAPITOLO 3

Hannibal



*




Siete il trofeo.
Una manciata di semplici parole; un mare sconfinato di nausea, di pugni nello stomaco, di immagini che neppure la mente aveva il fegato di affrontare.
Gemma se ne restò lì, immobile, a fare i conti con ciò che quelle tre parole avevano aperto in lei, le mani legate dietro la schiena e il cuore che avrebbe voluto gridare per il disgusto. E poi... poi c'era l'altro cuore, quello innamorato; quello costretto a vivere nella disperata sete di un'opportunità. Quel cuore che non era disposto a cedere.
La dignità in cambio della vita di Curtis.
Fu imposto loro il silenzio.
Mentre Agatha si intratteneva in compagnia di alcuni uomini in giacca e cravatta, con un occhio sempre e comunque puntato su di loro – perché non poteva mai accadere che quella donna le lasciasse da sole, naturalmente -, Gemma trovò il coraggio di alzare lo sguardo.
Guardò quell'umana desolazione che le si apriva davanti, le facce di quelle persone attorno a lei; volti di uomini e di donne comuni, in apparenza proprio come lei, corrosi talmente a fondo dal Vitotal da essere lì, in quell'albergo di facciata in cui si vendeva ogni tipo di piacere. Persino quello del sangue. E poi...
Poi guardò di sotto.
Mentre tutte le donne del suo gruppo restavano con lo sguardo basso, proprio come era stato detto loro da Agatha, Gemma allungò il collo quanto più possibile per guardare oltre la balaustra. Non vide molto, naturalmente: ogni tanto qualche braccio, una porzione di schiena, la luce argentata di un'arma bianca.
Hannibal, Hannibal!, chiamava a gran voce la folla, questo sì che Gemma riusciva a vederlo. Più a fondo, Hannibal! Più violento! Più sangue, più carne, più rabbia, e smembra e spezza e massacra come se non dovesse morire! E in qualche modo, forse, quella gente s'era dimenticata che quel povero diavolo davvero non poteva farlo.
Quel pensiero fu letteralmente agghiacciante.
E noi dovremmo essere il trofeo di queste bestie?
Fu un attimo, un istante breve e tremendo in cui la disperazione per se stessa ebbe la meglio su quella per Curtis, e ricordarsi di lui fu un po' meno semplice. Probabilmente si sarebbe vergognata di quella debolezza, se non ci fossero state quelle grida. Quegli urli terrificanti che provenivano dal centro dell'arena, il campo del massacro.
Erano grida disumane, grida che non potevano in alcun modo appartenere a una persona normale, non in normali condizioni. Erano grida strappate da morsi di bestia; il rumore di un'anima che veniva lacerata dal corpo assieme alla carne.
«Buon Dio, che cosa sta succedendo lì sotto?»
Perfino la folla era rimasta ammutolita. C'era ancora un lieve chiacchiericcio, per lo più di qualcuno incredulo e sgomento, ma gli altri... Le altre persone erano senza parole, sui loro volti un'espressione sgomenta che probabilmente era la stessa che aveva anche lei.
«Che cosa succede?» questa volta Gemma si rivolse alla donna che le stava accanto, anche lei prigioniera strappata al calore della sua casa, una ragazza trentenne che la guardò torva.
«Cosa vuoi che ne sappia, io? Si staranno ammazzando, o almeno mi piacerebbe tanto.»
Gemma fu sul punto di ribattere qualcosa di altrettanto inacidito, quando il movimento repentino di Agatha attirò la sua attenzione. A insospettire Gemma non fu semplicemente la velocità con cui si congedò dall'uomo con cui stava parlando fino a poco prima, tutta sorrisi calibrati e tocchi leggeri, ma anche – e soprattutto – la luce preoccupata che le aveva acceso lo sguardo nel momento in cui le era cascato l'occhio sull'arena. Aveva visto qualcosa, lì dentro. Aveva visto ciò che aveva scatenato le grida atroci di quel gladiatore, e tanto era bastato per farla sbiancare.
Seguirono momenti confusi, attimi in cui quelle grida s'intrecciarono al chiacchiericcio della folla. Minuti in cui le persone andarono avanti e indietro, cercando posizioni migliori da cui poter guardare di sotto; istanti in cui le guardie appostate vicino alle porte si fiondarono giù per le scale, verso la pancia dell'arena ingravidata di sangue.
Gemma non perse mai di vista Agatha, neppure per un attimo. Nemmeno quando andò a parlare con il ragazzo che le aveva fatte scendere dai camion soltanto poche ore prima, quando erano arrivate all'Overlook. Allen, se non sbagliava a ricordare il suo nome.
Quando le raggiunsero, quel cruccio preoccupato non era ancora sparito dal viso di Agatha e soltanto allora, guardandola così pensierosa, Gemma si accorse che la vita lì dentro le aveva procurato più di qualche ruga.
«L'incontro è finito. Ha vinto Hannibal, com'era prevedibile.»
«Ha vinto per forza, non c'era rimasto molto altro contro cui lottare» commentò Allen con un'alzata di spalle.
«Chi è Hannibal?» domandò Gemma, incapace di tacere. Quel nome era rimbalzato continuamente sulla bocca del pubblico, l'aveva fomentato come se fosse una bestia, per lasciarlo quindi ammutolito e disorientato. Una reazione affatto normale.
«E questa?» Allen la avvicinò, salvo poi voltarsi verso Agatha. «Cos'è, adesso fai la guida alle puttane?»
Lei gli rivolse un sorriso largo, tirato agli estremi della minaccia velata, trentadue denti esposti tanto quanto le sue intenzioni. «Non parlare a una puttana di altre puttane con quel tono, Allen. Puzzi ancora da latte, ma fai già certe porcate che ti varrebbero di certo una punizione, se il signor Benedict lo venisse a sapere.»
Una frase ben assestata che bastò per metterlo a tacere, anche se Gemma poté giurare di scorgere una certa irruenza, una fame di rivalsa in quel ragazzo così giovane e già così irrimediabilmente incastrato dal Vitotal. Aveva degli occhi grandi e luminosi, bellissimi, pieni di una tempesta d'orgoglio che non si sarebbe accontentata di restare soppressa nel silenzio. Il suo era uno sguardo di chi avrebbe facilmente portato guai.
Ma quelli veri – quelli impellenti, quei problemi affilati e pericolosi, quei guai inevitabili che si sarebbero frapposti tra lei e l'obiettivo che Gemma inseguiva -, beh, quelli li chiamò Agatha.
«Sono entrati a pulire l'arena. Tra poco Hannibal sarà qui.»


*


Lo fecero salire in ascensore, scortato da due agenti che impugnavano pistole elettriche in grado di tramortire un bestione tre volte più grande di lui. Entrò nel piano più alto dell'arena, nel trionfo della folla perduta in un delirio malato; zuppo di sangue dalla testa ai piedi, il volto ridotto a un'alternanza disgustosa di chiazze e schizzi, la bocca sporca dalle labbra agli zigomi, in rivoli che gocciolavano corposi lungo il mento.
Gemma restò raggelata quando lo vide attraversare la porta: aveva ancora il suo nome nelle orecchie, gridato al vuoto come se fosse quello di un eroe, ma vedere quale fosse il viso che portava quel nome...
E questo dovrebbe essere un uomo?
Non riusciva a distinguere le fattezze del volto di Hannibal: tutto il sangue che portava addosso gli cancellava i lineamenti, rendendoli spaventosamente vicini a quelli di un demone fatto di fiamme e oscurità. A turbarla più di qualunque altra cosa avesse visto in lui, però, era la luce che gli accendeva gli occhi.
Più del sangue concentrato sulla sua bocca – Dio, non voleva neppure pensare a come avesse fatto a finire proprio -, più di quello che gli imbrattava il petto nudo e i pantaloni bianchi, più dei suoi capelli biondi rappresi in ciocche grumose e sanguinolente, erano i suoi occhi castani a sconvolgerla. Sembravano guardare ciò che gli stava attorno senza vederlo davvero, quasi che il mondo circostante non fosse altro che una sequenza di immagini senza senso; perduti in un mondo che apparteneva a lui e a nessun altro, a un mondo che gli stava dentro e che non avrebbe mai potuto espandersi al di fuori dei confini del suo corpo. In quel mondo in cui ribolliva la violenza, la stessa che aveva sfogato nell'arena; quella che annegava la sua bocca nel sangue e che, persino in quel momento di trionfo, spingeva il suo sguardo verso orizzonti che nessuno di loro avrebbe mai potuto raggiungere.
Erano occhi di chi aveva venduto l'anima al diavolo.
«Dante, complimenti per la tua vittoria. Il signor Benedict è stato trattenuto da affari di lavoro e mi ha mandata a fare le sue veci. Vieni» Agatha gli fece cenno di raggiungerla, sfoggiando tra le mani una boccetta di vetro che conteneva chissà quale liquido. «Le opzioni sono quelle di sempre: o la morfina, oppure una donna viva da usare a tuo piacimento.»
Usare. Era una parola che, in quel contesto, a Gemma faceva letteralmente ribrezzo.
Probabilmente Agatha aveva un'idea ben precisa di quale sarebbe stata la risposta di quel tizio – ma non si chiamava Hannibal? -, almeno a giudicare dalla sicurezza con cui andò verso di lui, quasi a porgergli la morfina che reggeva in mano. Ma poi... Poi quell'uomo si scostò.
Si allontanò da Agatha, lo sguardo che puntava verso di loro - donne in fila davanti al plotone di esecuzione. Le avvicinò nel silenzio generale, quasi fosse una novità; quasi la scelta della morfina fosse una certezza assodata come parte integrante dell'universo. Un passo dopo l'altro, lento, attento a tutto quello che poteva raccogliere con gli occhi.
Passò davanti a loro in un esame scrupoloso dei loro volti, degli sguardi intimoriti, dei tremiti che squassavano le gambe; chiuso in un silenzio rigoroso, l'olezzo disgustoso del sangue che lo seguiva come una compagnia fidata e immancabile, neanche fosse stato l'angelo della morte. Nulla sembrò accendere i suoi occhi, fino a quando non arrivò davanti a Gemma.
Fu in quel momento, che qualcosa in quel volto coperto dal sangue cambiò. E lo vide, Gemma, oh se lo vide: l'istante in cui si accorse di qualcosa in lei, quel lampo di consapevolezza, una curiosità che arrivava da chissà dove. Era qualcosa che l'aveva bloccato lì, davanti a lei, mentre l'intenzione di proseguire oltre l'aveva costretto a voltare soltanto la testa nella sua direzione.
Cristo santo, tutto ma non questo tizio!
Le si avvicinò senza mai distogliere lo sguardo da lei. Da qualcosa che dal suo collo spariva sotto la maglia che indossava.
Gemma mantenne la testa alta, lo sguardo sempre puntato su di lui, mentre il cuore batteva furioso in petto la propria fame di libertà. Avrebbe voluto sottrarsi al suo interesse, alla sua vista, a qualunque cosa le fosse costata quell'attenzione per la quale avrebbe davvero barattato il proprio corpo con altri uomini, pur di sottrarsi a lui.
Farei volentieri la puttana di centinaia di uomini, piuttosto che diventare la proprietà di uno con tutto questo sangue addosso.
Ma poi rivide il volto di Curtis, consumato dal cancro.
Rivide i segni neri che gli circondavano gli occhi, rivide il suo pallore, quei chili che il tumore si era mangiato allo stesso modo in cui gli aveva mangiato il corpo.
Non poteva permettersi certi pensieri.
I cedimenti non erano concessi.
Non aveva tempo per essere debole.
«Quanti anni hai?» Dante - o Hannibal, o qualunque nome avesse – sfilò la collana che le scendeva lungo la clavicola, lasciando una scia di sangue sulla sua pelle.
Aveva le mani calde, esattamente come il liquido vermiglio che le insozzava.
«Venticinque» Gemma si costrinse a non cedere all'agitazione, a non scoprirsi debole e vulnerabile; a fronteggiare qualunque cosa fosse arrivata con la voce ferma e lo sguardo che mai avrebbe potuto vacillare. Così lo guardò negli occhi.
Guardò quel gladiatore, quello scherzo della natura, quel mostro ricoperto di sangue rubato ad altri con la forza. Lo guardò negli occhi e capì che lei, nella discoteca dove le puttane raccoglievano i clienti, non ci sarebbe mai andata a lavorare, perché sarebbe appartenuta a lui.
«Bene.»
Poi Dante abbassò lo sguardo sul medaglione di Gemma che reggeva tra le mani, e qualcosa che lei non riuscì a decifrare gli riempì gli occhi. Non era una luce particolare, nemmeno la consapevolezza di un pensiero ben formato. Si trattava di qualcosa di informe, qualcosa che emergeva sul suo volto anche attraverso il colore del sangue. Qualcosa che accompagnava il suo verdetto.
«Scelgo lei.»
«Lei? Sei sicuro? Non preferisci la morfina?» Agatha sembrò stranita, quasi lui l'avesse spiazzata con quella decisione. Gli si avvicinò, i tacchi che scandivano i suoi passi, ma Dante afferrò Gemma per un braccio e la costrinse a uscire dalla fila.
«La morfina posso procurarmela comunque. Voglio lei.»
«Per favore...» Gemma non sapeva neppure che cosa volesse dirgli, ma a lui non sembrò interessare: il modo in cui le rispose aveva un che di irritato, spazientito quasi. La guardò come se gli avesse appena fatto un torto.
«Per favore cosa? Tu sei un premio, io ti ho vinta. Non c'è nessun favore da fare.»
Poi la portò verso la balaustra, la mano impiastricciata di sangue che scivolava sul suo braccio in una stretta che cercava di mantenere il possesso della situazione.
La esibì come il trofeo che Gemma era in realtà e lì, mentre dichiarava a quel mondo folle e malato che da quel momento lei gli apparteneva, finalmente lo vide per ciò che Hannibal era oltre il sangue che gli schizzava il petto e gli copriva il viso: una di quelle stesse persone che stavano distruggendo il mondo dopo la Cura, una di quelle persone che si erano fatte consumare dal Vitotal e che ne portavano le tracce addosso e sotto la pelle. Vide l'avidità, la pazzia, la violenza che faceva girare il suo mondo e che regolava la vita di quell'uomo.
La stessa che da quel momento avrebbe piegato anche la sua.



*


NOTE DELL'AUTRICE



Questo capitolo è decisamente breve, lo so. E' che mi sembrava perfetto così.
Finalmente facciamo la conoscenza di Dante, detto Hannibal per gli amici, che – posso anticiparvi – sarà un personaggio estremamente complesso.
Che dire? Con questa long si profila all'orizzonte un'altra storia che tratta di un amore corrosivo e doloroso, e in qualche maniera decisamente inevitabile e chi ha già letto Obsession sa che quando accosto l'aggettivo corrosivo ad amore non è mai una buona cosa :P
Dal prossimo capitolo comunque conosceremo meglio Hannibal, o meglio, inizieremo a intravedere qualcuna delle sue numerose sfumature. Prima tra tutte – suppongo, devo farmi due conti – del perché del suo soprannome. Però se voi avete supposizioni fatevi pure avanti! :P
Spero ad ogni modo che la storia non vi stia annoiando: se è così fatemelo pure sapere, io sono aperta a qualunque tipo di osservazione e di critica!

Per chi volesse lascio i miei soliti contatti:
contatto facebook
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A me fa sempre molto piacere poter parlare con voi, quindi fatevi pure avanti ;)

A presto,

Brin




   
 
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