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Autore: Ariadne_Bigsby    17/09/2012    3 recensioni
{OTTAVO CAPITOLO AGGIORNATO}
(ATTENZIONE, LA STORIA CONTIENE SPOILER)
Una Fan Fiction basata sul monologo di John Blake a Wayne Manor: l'infanzia "arrabbiata" di John, la perdita dei genitori, la scoperta dell'identità di Batman, la sua idea di giustizia e la sua crescita, da me immaginate ed elaborate in questa storia che ingloba luoghi e personaggi del film.
“John Blake hai detto? Ma, è il tuo cognome o quello della tua famiglia adottiva?”
“E’ il mio..”rispose Blake a voce bassa.
“Beh, è strano! Qui c’è un John Cain e un John Maislee, ma nessun John Blake.”
Blake si morse di nuovo il labbro e, senza volerlo, assunse un’aria colpevole che non passò ignorata da Shannon.
“Allora…non vuoi dirmi chi sei?” gli chiese in tono gentile. Quante volte aveva avuto a che fare con bambini del genere, che si rifiutavano di usare il loro cognome, usando quello della famiglia adottiva, quasi a voler rinnegare le loro origini?
“Robin. Mi chiamo Robin Blake..” cedette alle fine il bambino, abbassando gli occhi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Batman aka Bruce Wayne, James Gordon, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
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Allora, un po’ di spiegazioni: sono una grandissima fan di Batman, tempo fa mi ero cimentata con un ipotetico sequel di “The Dark Knight”, immaginando una Gotham in balia dei due pazzoidi numero 1, ovvero Joker e dolce metà, Harley Quinn. Ben presto ho realizzato che avrei rischiato di fare uno schifo un gran casino e ho abbandonato la FF.

Ho visto il sequel da poco uscito “The Dark Knight Rises” per tre volte e per tre volte ho pianto come una disperata (sono un caso grave), mi sono venuti i brividi, mi sono emozionata come un’adolescente alle prese col suo primo amore.

Arriviamo al sodo: fra tutti i personaggi (oltre a Batman, che rimane il mio amore super-eroico di sempre) sono rimasta colpita da uno in particolare, ovvero John Blake. (interpretato dal quel gran gnoccone da un eccellente Joseph Gordon-Levitt.) Cosa mi ha colpito di Blake? In realtà, essendo io stessa attrice, facevo molta attenzione alla recitazione, alla mimica etc. (deformazione professionale) ma una scena  in particolare ha catturato la mia attenzione, ovvero la scena in cui John Blake parla con Bruce Wayne e gli dice di  aver capito la sua identità. La scena non era basata solo su questo, il caro John parlava della sua infanzia, della sua rabbia repressa, in quanto orfano di genitori morti in circostanze che possono essere “assimilate” a quella di Bruce. Mi ha colpito molto il suo discorso sulla rabbia, sui suoi sentimenti e di come sono serviti per determinare il finale del film. (Attenzione, stiamo entrando nella zona SPOILER)

Dunque, cosa ho fatto io? (“Ho preso il paladino di Gotham e l’ho trascinato al nostro livellooo..”Scusate, non ho resistito) Data la mia passione per tutto quello che riguarda l’introspettività e i trascorsi dei personaggi, ho cercato di ricordare per bene il monologo di John Blake (cavoli, dopo aver visto 3 volte il film, qualcosa ricorderò) e l’ho trasformato in questa Ff che state per leggere. E’ divisa in capitoli, anche se avevo pensato di fare una One-shot (che sarebbe diventata una specie di poema epico) ed ognuno di questi riguarda un pezzettino del discorso di John Blake. Chi ha visto il film forse li riconoscerà!

Soliti bla bla bla: "The Dark Knight Rises" e personaggi non mi appartengono, bla bla bla, non è a scopo di lucro e bla bla bla.

 

AVVENTUROSI ATTENZIONE!

Non cominciate se non intendete finire (cit. “Jumanji”), se non volete spoilerarvi il film (come è successo a me…TT__TT) non la leggete. Se siete masochisti fate pure. Se siete bravi mi lascerete un commento . Il migliore riceverà in premio John Blake. (no scherzo. Me lo tengo io, gli voglio troppo bene. )

Hasta la vista, baby!, (stasera ce l’ho con le citazioni).

 

 

 

                  Anger.

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Il cortile era sovraffollato e rumoroso. Le grida dei bambini che giocavano riuscivano a sovrastare il rumore delle macchine che circolavano svariati piani sotto di loro.

 

Era il primo pomeriggio soleggiato, dopo una lunga serie di giornate piene di neve e di pioggia, giornate fredde, di un inverno che durava troppo a lungo e gli insegnanti del St.Switin’s avevano pensato bene di far prendere una boccata d’aria ai bambini, smaniosi com’erano di correre e giocare sulla terrazza dell’orfanotrofio, per quanto lo spazio glielo consentisse

 

Alcuni bambini parlavano tra di loro in modo concitato, seduti sulle panche poste contro la recinzione che delimitava la terrazza/cortile, battendo ogni tanto i piedi per riscaldarsi, le guance arrossate dal freddo, altri giocavano alla “campana” tracciando disegni con gessetti rossi e  bianchi, altri ancora leggevano, i più scalmanati si lanciavano la neve rimasta sul cemento e scivolando sul ghiaccio formatosi in più punti. I pochi adolescenti che erano rimasti ( di solito, al compimento dei 16 anni, i ragazzi potevano scegliere se rimanere e continuare la scuola, oppure lasciare il nido che li aveva protetti fino a quel momento e cercare di farsi una vita a Gotham) sedevano in disparte fumando di nascosto sigarette rimediate con dei piccoli espedienti o conversando fra di loro.

 

Nell’atmosfera di euforia generale, nessuno pareva fare caso a un bambino seduto in disparte, lontano da tutti gli altri, con le braccia piegate sulle ginocchia e lo sguardo fisso a terra, e a lui stava benissimo così. Gli piaceva questa specie di invisibilità, non aveva alcun interesse nell’unirsi ai giochi degli altri.

 

Aveva circa 10 anni, ma ne dimostrava meno, a causa della sua piccola statura. Strusciò le mani, coperte da guanti rossi a mezzo dito, sulle ginocchia, girando la testa verso quello che gli sembrava un universo a parte.

 

“Come fanno ad essere così felici?” si chiese, osservando due bambini che avevano tutta l’aria di stare divertendosi un mondo, neanche fossero in un parco giochi e non in una squallida terrazza con erbacce fra le crepe del cemento, due altalene e uno scivolo arrugginiti e le barriere del parapetto piene di buchi, anche quelli dovuti alla ruggine.

 

Il bambino sospirò, e una nuvoletta di condensa gli si formò davanti alla bocca.

 

 Era lì dentro ormai da due settimane, ma sapeva che non ci si sarebbe mai abituato. Odiava q uel posto.

 

In realtà, nessun posto gli sarebbe piaciuto: sia che fosse un cupo orfanotrofio nel centro di Gotham, con le sbarre alle finestre come all’Arkham Asylum, sia che si trovasse in un accogliente appartamento.

 

Uno degli insegnanti dei bambini, Padre Shannon, un uomo di 35 anni, dai capelli neri che stavano cominciando a diradarsi e ingrigirsi, notò quel bambino isolato da tutti, che sembrava perso nei suoi pensieri e gli si avvicinò piano, carezzando sulla testa i bambini che si trovavano vicino. Il bambino non batté ciglio, ma continuò a fissare gli altri con sguardo vuoto.

 

“Tutto bene?” esordì Padre Shannon in tono gentile.

 

Il bambino alzò un attimo gli occhi  per guardarlo, annuì in fretta e si girò nuovamente verso i bambini.

 

“Non ti va di andare a giocare con gli altri?” lo incoraggiò l’uomo.

 

“No.” Fu la secca risposta.

 

“Va bene..” Padre Shannon annuì con fare conciliante “allora, magari vuoi un bel libro da leggere! Ne è appena arrivato uno nuovo, molto divertente..” si bloccò un attimo e pensò che forse quel bambino non aveva ancora l’età per capire bene un libro “o magari vuoi un bell’albo da colorare!”

 

“No. E non voglio colorare, non ho 5 anni..” sbottò il bambino, lanciando a Padre Shannon un’occhiataccia.

 

“Scusami, è che non ti conosco. Sei nuovo qui, vero?” Padre Shannon si sedette sulla panchina, sorridendo.

 

“Sì.”

 

“Da quanto?”

 

“Due settimane. Prima stavo con dei tizi, con una famiglia, ma mi hanno mollato qui” rispose il bambino in tono amaro.

 

Padre Shannon lo vide stringere i pugni, mentre lo diceva.

 

“Capisco. Beh, allora forse è il caso di conoscerci meglio, non credi? Io sono Padre Mattatias Shannon e tu sei…?”

 

Ci fu un attimo di pausa, poi il bambino rispose “John Blake.”

 

“John Blake, eh?” ripeté Shannon, estraendo dalla borsa il regist ro con i nomi di tutti i piccoli ospiti dell’istituto.

 

John Blake trattenne il respiro, guardando nervosamente l’indice dell’uomo che scorreva sulla lista, cercando il suo nome. Quando Padre Shannon lo guardò, con aria interrogativa, lui si morse il labbro.

 

“John Blake hai detto? Ma, è il tuo cognome o quello della tua famiglia adottiva?”

 

“E’ il mio..”rispose Blake a voce bassa.

 

“Beh, è strano! Qui c’è un John Cain e un John Maislee, ma nessun John Blake.”

 

Blake si morse di nuovo il labbro e, senza volerlo, assunse un’aria colpevole che non passò ignorata da Shannon.

 

“Allora…non vuoi dirmi chi sei?” gli chiese in tono gentile. Quante volte aveva avuto a che fare con bambini del genere, che si rifiutavano di usare il loro cognome, usando quello della famiglia adottiva, quasi a voler rinnegare le loro origini?

 

“Robin. Mi chiamo Robin Blake..” cedette alle fine il  bambino, abbassando gli occhi.

 

Padre Shannon fece un verso compiaciuto, quando vide il nome del bambino nero su bianco. “Robin Blake..” ripeté, come se gli piacesse il suono “Robin. Bel nome!” esclamò, allungando la mano per scarruffare i capelli del ragazzino.

 

Robin si irrigidì, per tutta risposta, e scosse impercettibilmente la testa, come per indicare a Shannon che il suo gesto non era gradito. Lo guardò dritto negli occhi e disse a voce bassa “Non voglio che mi chiami così. John Blake va benissimo.”

 

“Non credo che…”

 

“Blake.” Scandì il ragazzino, a denti stretti.

 

A quel punto, Shannon si alzò in piedi e si allontanò, senza spiegarsi il perché di questo suo gesto, chiamando i ragazzi e dicendo che era l’ora di rientrare.

 

John Blake si unì alla coda di ragazzini, senza schiamazzare, senza agitarsi. Calmo, una calma innaturale in un bambino così piccolo.

 

Più tardi, quella sera, il piccolo Blake si rigirava nel letto, senza riuscire a prendere sonno. Lui ci stava provando veramente a seppellire tutto, ma proprio non ce la faceva. E quel nome non faceva che ricordargli cose che non voleva più ricordare.

 

Da qualche parte, nell’istituto,Padre Shannon capì perché si era allontanato così in fretta da quel ragazzino taciturno. Non era stato un “dargliela vinta”, no.. Padre Shannon era rimasto sconcertato dallo sguardo che quel ragazzino gli aveva lanciato. Uno sguardo adulto, una sguardo che tradiva una rabbia silenziosa, una rabbia che ribolliva sotto una superficie di calma apparente, una rabbia che non aveva visto negli occhi di nessun bambino, prima di allora.

Fuori, nel frattempo, aveva ricominciato a piovere.

 

E così eccoci con il primo capitolo! In realtà è ancora molto “introduttivo”, ma spero di aver fatto un lavoro accettabile! Aspetto con ansia i vostri pareri! A presto!

 

   
 
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