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Autore: LawrenceTwosomeTime    20/09/2012    3 recensioni
Ho preso l'idea per questa storia da un romanzo contemporaneo piuttosto conosciuto, che evito di rivelare per non rovinare la sorpresa. Detto questo, ho voluto fare un esperimento: in qualitò di maschio eterosessuale, ho provato a descrivere un'amicizia virile che sotterraneamente sconfina nella relazione omosessuale.
Genere: Drammatico, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo conobbi a una festa.

L’atmosfera era calda e avvolgente, la musica quasi evocativa, ma nessuno aveva l’aria di divertirsi molto.
È strano come le persone, anche quando sono insieme, sembrino sempre distanti, circondate da un’aura di vuoto che per uno strano paradosso le accomuna.
L’uomo finge di essere un animale sociale, ma in realtà io dico: ognuno ha i suoi problemi. Si tratta di una massima poco incisiva e spaventosamente vera. Piccoli o grandi che siano, collegati alle finanze, ai sentimenti, alle manie ipocondriache o che cazzo… sono sempre problemi, nessuno più importante di qualcun altro ma impossibili da comprendere, se non da chi li vive in prima persona.

Sono cinico, dite? Affatto. Io amo far finta di capire gli altri, così che gli altri possano ripagarmi regalandomi un pezzetto della loro alienazione, di cui sono un avido collezionista.

E così oscillavo sui calcagni per far finta di andare a tempo con la canzone più trendy dell’album più ricercato, scambiavo mozziconi di conversazione con persone di cui non sapevo nemmeno il nome, e lo vidi: totalmente insignificante, senza dubbio originale nel vestire e dotato di una certa grazia felina. Mi piacque subito perché era chiaro che non intendeva fare nulla per adattarsi all’ambiente; era lì, riservato e senza pretese, in attesa che qualcuno gli facesse cambiare idea sulla tragica condizione solipsistica in cui versava il genere umano.

Ammetto che gli parlai solo per fargli un dispetto: avevo finalmente trovato qualcuno che non fosse a proprio agio quanto se non più di me, e l’idea di stuzzicarlo mi avrebbe fatto sentire superiore, provocandomi al contempo un tardivo senso di rimorso.

“Non sei un tipo loquace”, gli dissi con aria distratta.
Lui mi guardò in tralice.
“Offrimi da bere e vedrai che la lingua mi si scioglie, ma non azzardarti a farmi delle avanches: non cedo mai al primo appuntamento”
Di colpo mi sentii in imbarazzo.
“Scusa, io… non avevo capito che… che tu fossi, diciamo, gay”
Il tipo rispose con una risata fragorosa che indusse un gruppetto di ragazze a voltarsi.
“Non sono gay! Però ti do atto che in molti lo pensano”
“È plausibile. Voglio dire, scusa, se ti esprimi come se lo fossi…”
Lui agitò la mano in un gesto spazientito.
“Va bene, va bene, ho capito, ti perdono. Il fatto è che un giorno ho pensato: se agli altri piace tanto scherzare sulla presunta omosessualità dei loro amici, io potrei dileggiarli mettendo in dubbio la mia supposta eterosessualità”

Un personaggio contorto, non c’è dubbio, ma aveva stile.

“Io mi chiamo Pietro”, dissi tendendogli la mano.
Lui sputò sul palmo della sua e mi diede una stretta umida che somigliava a un cinque.
“E io rispondo al nome di Paolo, ma tutti mi chiamano Paul, perciò fai come gli altri, omologati e chiamami Paul, ti prego, o la mancanza di normalità mi provocherà una crisi di nervi”

Trascorremmo il resto della serata a parlare del più e del meno: i nostri gusti in fatto di donne, le nostre passioni, i posti in cui eravamo stati, le scuole che avevamo frequentato. Eravamo molto diversi, sia per quanto riguardava l’approccio all’arte, alla scienza e alla religione, sia per il modo di esprimerci e di porci, eppure c’era qualcosa che me lo rendeva familiare; quasi fosse un fratello che non avevo mai conosciuto.
Ci salutammo con una virile pacca sulla spalla (a dire il vero lui mi strizzò i gioielli di famiglia), con la promessa di risentirci nei giorni successivi.

E nei giorni successivi io feci tutt’altro che pianificare un incontro. Avevo ricevuto una proposta di lavoro per un restauro ed ero in fibrillazione dalla contentezza; Paul era l’ultimo dei miei pensieri, come se non fosse mai esistito.
Poi, un giorno, uscii dal bagno con indosso un accappatoio e me lo ritrovai in soggiorno.

“Co-cos… Come diavolo hai fatto ad entrare?”
Lui rise nel modo quasi piacevole che ricordavo dalla festa e batté le mani.
“Amico, dovresti vedere la tua faccia! Cioè, calmati… La finestra era aperta e ne ho approfittato per farti un saluto”
“Ma… ma… siamo al secondo piano!”
“In caso non lo sapessi, esiste una scala di servizio; il passaggio per il proletariato, percorsi che usa la gente come me e chi mi conosce”

Mi scossi l’acqua dai capelli e ripresi il controllo della situazione.
“Bè, potevi almeno avvisare. Non ti ho mai detto dove abito”
Paul mi fece l’occhiolino.
“Ma l’hai accennato. A quel punto ho chiesto ad amici di amici di amici. Io me l’intendo con tutti”
“Su questo non avevo dubbi”
“Sai com’è: la solita idiota cortesia piccoloborghese, roba in cui si rifugiano gli imbecilli; ma se la sai padroneggiare, diventa un’arma molto potente”

Mi vestii e feci strada nella cucina, che supposi non avesse ancora esplorato.
“Caffè, tè?”
“Tè, grazie. Con una bustina di zucchero greggio, se ce l’hai”
“Sono sorpreso. Ci piacciono le stesse cose, almeno per quanto riguarda le sane abitudini pomeridiane”

Sorseggiammo senza sentirci in obbligo di parlare.
Una volta finito, feci pressione per farlo uscire di casa. Mi era piaciuta quella parentesi di calma conviviale, ma avevo degli affari urgenti da sbrigare. Cercai di spiegarglielo con la massima delicatezza.
Lui non se la prese, più che altro fece finta di offendersi; mi meravigliai di quanto bene lo conoscessi, neanche fossimo amici da una vita.
“Certo, bello, sei un businessman a tutto tondo che trova a malapena il tempo di pulirsi il culo. Ma non è con un perdigiorno che favelli, buon uomo! Anch’io sono una persona molto impegnata”
“Oh, giusto. Tu… cos’è che fai?”
“Disegno fumetti. Scrivo… Faccio cose, monto filmati, doppio spezzoni di pellicole. Cose così”
“C’è molta ‘occupazione’ in quel ‘campo’?”, chiesi senza reale malizia.
“Che ne so! È una questione filosofica, più che statistica. Insomma, io possiedo già i soldi per mantenermi, perciò: non si tratta tanto di quanta’occupazione’ c’è, ma di cosa faccio io tutto il santo giorno; la vendita del prodotto è materia di ordine secondario, capisci?”
“Credo di si”, dissi dubbioso.
“Ma dal mio punto di vista, se non se ne trae un ricavo effettivo, non si tratta di lavoro”
“E dal mio punto di vista, riportare ai passati splendori un’opera che sta cadendo a pezzi, il ‘lavoro’ di cui vai tanto fiero, è come fare i rasponi a un cadavere”

Non so perché ma mi scappò da ridere. Avrei dovuto sentirmi offeso, eppure… La schiettezza quasi gentile di quell’individuo mi piaceva, in un certo senso la trovavo rassicurante.

Disse addio con un inchino formale e si defilò dalla porta d’entrata.

All’incirca una settimana dopo il nostro secondo incontro, ricevetti una mail da una ragazza per me molto importante: ebbi un tuffo al cuore quando vidi il suo nome nell’elenco di posta da smistare, pensai che si trattasse di un messaggio personale. Invece era una circolare. Leggermente deluso, lessi che aveva un annuncio straordinario da fare ad amici ed ex compagni di liceo. Non mi suonava affatto bene.
Decisi di chiamare Paul e chiedergli di accompagnarmi. Per fortuna accettò di buon grado.

Il bar era tutto per noi, le luci accecanti e il riscaldamento un po’ troppo alto.
Lei era radiosa come al solito, calamitava l’attenzione di tutti senza nemmeno sforzarsi. Il suo compagno le sedeva di fianco, a suo agio e impassibile, accarezzandole la mano di tanto in tanto. Paul sembrò accorgersi del modo in cui li guardavo, e prese ad accarezzare la mia mano con tono di scherno; gli diedi uno schiaffo sperando che nessuno se ne accorgesse.

La mia amata parlò: “Grazie a tutti per essere venuti. Io e Michele volevamo che la cosa si sapesse il prima possibile, perché abbiamo bisogno del sostegno dei nostri amici, e anche di qualcuno che pensi in anticipo al regalo di nozze (ridacchiamo, io nervosamente). Per farla breve… sono incinta”

Un’esplosione di acclamazioni, suoni disarticolati, gridolini. Strette di mano. Congratulazioni. Era una femmina.
Che bello. Ero davvero felice per lei, ma in quel momento non riuscivo a spiccicare parola.
Lei si rivolse direttamente a me, inchiodandomi al muro con quattro semplici parole: “Pietro, che mi dici?”
Proprio quando il silenzio aveva cominciato a farsi pesante, Paul mi risparmiò una brutta figura.
“A titolo personale non ho mai avuto il piacere di partorire, dunque non posso saperlo con certezza, ma credo che per crescere un figlio non occorrano altro che amore e determinazione – due qualità che raramente camminano insieme”

Negli occhi della mia amata si accese una luce strana, compassionevole e minacciosa.
Rispose con cortesia, ma mentre parlava guardò me anziché Paul.
“Come hai detto tu, non puoi saperlo”

Uscimmo nella notte e l’incazzatura si fece strada fuori dal mio plesso solare.
“Ti pare il modo di rispondere a una che partorirà tra meno di otto mesi?”
“Quella ragazza è importante per te”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Non avresti chiesto al tuo amichetto dell’ultimo minuto di farti da spalla, se si fosse trattato di un banale raduno da pizza e birra”
Mi morsi le labbra pensando che forse era stato meglio così.
“Devi dimenticarla”
“Scusa?”
“Dimenticala. Conservi le crisalidi dei tuoi sentimenti putrefatti in una bustina di cellophane, e quel che ne ricavi è solo sofferenza. Smettila di pensare a lei. Hai avuto la tua occasione, l’hai buttata via. Fine. Il mondo è pieno di vagine disposte ad avviare relazioni ‘non basate esclusivamente sul sesso’”
“Forse hai ragione tu… Un momento. Che cazzo sto dicendo? Io ho tutto il diritto di crogiolarmi nei ricordi!”
Paul diede un calcio a una lattina e infilò le mani in tasca. Camminammo in silenzio.
Dopo un po’ lui estrasse le mani dalle tasche e mi cinse le spalle con il braccio.
“Sia chiaro che lo faccio solo per il tuo bene, amico
E mi tirò un pugno nello stomaco. Senza nemmeno rendercene conto stavamo facendo a botte.

Un’ora dopo, eravamo entrambi pesti e felici. Come se non ci fosse un domani. Come se quella notte potesse durare per sempre. Il dolore fisico era l’anestetico del mio dolore spirituale.
Non sapevo cosa rappresentasse per lui. Forse un’altra forma di passatempo. Oppure un genere di arte basato sulla distruzione, piuttosto che sulla creazione.
Alla fine il mattino giunse per tutti.

Stavo bene. La committenza era soddisfatta del mio apporto, e inoltre avevo avuto modo di rendere nota la collaborazione ad un nutrito gruppo di mecenati presso i quali, ne ero convinto, godevo ora di assoluta fiducia.
Pensai di chiamare Paul e proporgli di andare a festeggiare.

Mi disse che l’avevo preceduto di pochi secondi, ma i suoi progetti differivano dai miei per un piccolo particolare: lui voleva bere per ottenebrarsi la mente.
Ci ritrovammo calati nei rispettivi ruoli di ragazzo per bene, intrinsecamente snob e magari un pochino ossessionato dall’idea di piacere, e di strambo e scoppiato perdigiorno autodidatta. Calammo le maschere con rispettivi colpi di alcolici ad alta gradazione e pragmatici scalpelli ideologici.

“Hai perso l’ispirazione, per caso?”, volli sapere.
“Tutt’altro. Mi hanno offerto un lavoro”
“Bè, è fantastico, no?”
“Si, e no. Da oggi mi sentirò schiavo di un inopportuno senso del dovere, sgobberò per compiacere chi mi paga e farò leva sul mio povero ipotalamo perché mi conceda di restare sveglio la notte a disegnare come un invasato pur di rispettare le poco amichevoli scadenze che mi verranno imposte”
Per una volta mi sentii autorizzato a dargli un consiglio. Che razza di amico ero se non riuscivo a consigliarlo sulle questioni di mia competenza?
“Tutto questo non è per te. Perché non molli e la fai finita?”
Paul lasciò che il collo ciondolasse avanti e indietro, indice del fatto che stava pensando – oppure che l’alcool cominciava a farsi strada nel suo cervello.
Infine disse: “Ah, questa è bella. Tu che insegni a me come si vive. Me lo ricorderò per sempre. Ma non è per il suddetto motivo che il destino ci ha fatti incontrare. Tu e io siamo complementari nella fortuna come nella sofferenza; fortuna e sofferenza si assomigliano, perché l’una completa l’altra, solo che la sofferenza si può controllare. La fortuna no”
“Scusa se te lo faccio notare, ma anche la sfortuna fa parte della vita”
“Errore. La sfortuna è un indice negativo, si smentisce da sola, esiste solo in relazione alle cose che capitano. La fortuna invece è qualcosa che l’uomo contribuisce a creare, è imparentata con l’amor proprio e l’autoconservazione, due sentimenti tipicamente umani. Prendi Satana. Secondo te è credibile?”
“Uhm, io… non saprei. Non molto, immagino”
“Non molto, proprio così. Sicuramente è meno credibile di Dio. È più facile convincersi che un’entità indefinita, un tutto che ci completa, ci ami secondo criteri che noi miseri mortali non possiamo capire, piuttosto che una presenza malefica ci spinga a compiere gli atti più efferati. In un caso, domina la volontà di donare un senso alla nostra esistenza; nell’altro, possiamo leggere il tentativo di giustificare un’indole votata alla corruzione. Un sentimento piatto come le tette di una dodicenne, quasi elementare, sicuramente meno evocativo del sostrato di fede che cementa la cultura cristiana”

Non so bene come successe, so solo che a un certo punto mi addormentai.
Quando ripresi conoscenza, mi ritrovai nel mio letto. Immaginai che Paul mi ci avesse scaricato la sera prima. Avevo una gran confusione in testa, unita alla sensazione che la vita mi stesse finalmente offrendo un’anima gemella con cui poter arricchire la mia coscienza.
Paul era la mia anima gemella. La mia anima gemella.

Un giorno che mi sentivo bendisposto verso il mondo e incline ad accrescere il mio livello di socievolezza, chiesi a Paul di presentarmi i suoi amici. Sulle prime fece il difficile, poi si lasciò convincere.
“Ma ricorda, l’hai voluto tu”, mi disse, “la gente con cui bazzico io va presa a stomaco pieno”

L’idea era di trovarci nella piazza davanti a casa mia nelle prime ore del pomeriggio, e dunque di optare per un cinema, o una passeggiata tra i mercatini dell’usato.
“Credi che gli piacerò? Nel senso, non è che mi azzannano il polpaccio?”
“In un modo o nell’altro, ti spolperanno”

Giungemmo al luogo dell’appuntamento, e Paul mi indicò due tipi vestiti di nero che sostavano vicino alla fontana.
“Bene bene, sono già qui”
Si avvicinò e fece le presentazioni.
“Ragazzi, questo è il mio amico Pietro. Pietro, questi sono…”
“Ma che vuol dire, scusa?”, disse il più alto.
“Come ‘che vuol dire’?”, disse di rimando Paul.
“Ragazzi, scusatemi, so che siete artisti eccentrici e tutto il resto”, mi intromisi per cercare di sbrogliare la situazione, “ma sappiate che ho trascorso quasi due mesi in compagnia del vostro collega, qui, e se non altro sono vaccinato per…”
Tu chi saresti?”, mi interruppe l’altro.
“Avanti, gente, sono Pietro. Paul vi avrà parlato di me”
Paul mi lanciò un’occhiata come a dire ‘lascia perdere’.
“Mi dispiace, ma hai sbagliato persona”, mi informò con un tono cauto uno dei due individui.
“Sentite, amici, il gioco non è più divertente…”
“Porta il culo lontano da qui, o ti rompo i denti. Non abbiamo soldi, drogato di merda”
“Va bene, va bene. Ho capito”
Paul mostrò indice e medio ai suoi ‘amici’ nel tipico gesto del ‘vaffanculo’, e ci allontanammo rapidamente dai due.

“Puttanaccia la miseriaccia, non credevo che facessero tanto i difficili”, sbottò Paul, “Se pensi che quelli strafatti nove giorni su dieci sono loro…”
“Paul, dimmi una cosa… Sei proprio sicuro che quei due fossero tuoi amici?”
Stavolta lui parve offeso per davvero.
“Se li conosco dalle elementari! Avranno cambiato spacciatore, che vuoi che ti dica?”

Qualche tempo dopo, ci ritrovammo a leccare un gelato all’ombra di una cattedrale.
Paul era taciturno, sembrava rimuginare se fosse il caso o meno di rendermi noto il pensiero che lo rodeva.
Quasi mi spaventai quando disse: “Sono stato in clinica, sai. Una clinica psichiatrica”, aggiunse poi.
Ebbi un tuffo al cuore, ma le mie labbra rimasero serrate.
“Nessuno dei miei amici l’ha mai saputo, ma da quel momento, come dire… Mi sono sentito in dovere di interpretare il mio ruolo di maniaco depressivo fino in fondo. Gli amici veri li puoi distinguere, quando dopo un anno di silenzio ti rivolgono ancora la parola”
Avevo un nodo alla gola.
“Tu capisci che mi fido di te, che ho un gran bisogno della tua comprensione”, spiegò con fare quasi didattico, “E che sto compiendo un atto di fiducia nei tuoi confronti, per raccontarti queste cose”
Non riuscii più a trattenermi.
“È davvero buffo. Io ho passato un mese in ospedale, l’anno scorso. Reparto… reparto psichiatrico”
Paul mi osservò come se fossi un interessante reperto storico.
“Allora non ho bisogno di spiegare. Tu capisci. E non c’è niente di buffo”

Iniziai a singhiozzare senza ritegno, un fiume di ricordi pietosi che sgorgava dagli occhi. Mi sembrava di non esserci, in realtà.
“Tutti… tutte quelle persone malate… che mi chiedevano l’ora in continuazione…”
Paul mi prese il viso tra le mani. Sentivo la pressione delle sue dita sul volto.

“I pomeriggi infiniti passati a pensare al nulla… E l’odore di sapone, quel… disgustoso cibo precotto… Ma in fondo non mi ricordo quasi niente, ero sedato tutto il tempo”

Scese la sera come una coperta compassionevole, e noi eravamo ancora lì, incuranti del freddo.
Paul tirava su col naso, parlava poco.

“Passerà. Passerà”, ripeteva, forse a me o forse a sé stesso. Parole banali. Parole sincere. Un mantra. Un augurio.
“Non ti chiederò niente”, dissi in un empito di disperazione, “solo, non lasciarmi. Stammi vicino”
Lui mi diede un bacio. All’angolo della bocca.

Ero finito un’altra volta preda dell’amnesia, in quel caso non imputabile a un’eccedenza di bevande alcoliche, ma con tutta probabilità ad un sotterraneo desiderio di raccoglimento.
Scivolai fuori dal letto e infilai le ciabatte. Notai qualcosa sulla scrivania. Un biglietto.
Vergato nella mia calligrafia.

È tempo che io me ne vada. Non hai più bisogno di me. Ti faccio i miei migliori auguri.

Paul


E allora capii.
Paul ero io. L’amico a cui volevo tanto bene non era mai esistito.

Non seppi se sentirmi orripilato o rasserenato. Non riuscivo a conciliarmi con quell’idea.

Ma poi un sorriso spuntò con cautela sul mio volto.
Avevo appena compreso di aver compiuto qualcosa di importante.

Avevo fatto pace con me stesso.
  
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