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Autore: Vortex    23/09/2012    3 recensioni
Pensavo che mi sarebbe piaciuto rinascere in un batterio e vivere dentro una goccia d’acqua, isolato dal mondo esterno. Non avere contatti con gli altri mi avrebbe impedito di stare male.
La mia vita non doveva avere alcun sapore, se non quello amaro della sofferenza.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Naoyuki Murai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Disclaimer: i personaggi presenti in questo brano non mi appartengono, al contrario dello scritto che è di mia proprietà.



Un Solo Sapore.




Era stato facile, all’inizio. Bastava smettere di mangiare quando avevo ancora fame, poi saltare qualche pasto una volta ogni tanto fu la conseguenza automatica. Mi piaceva quella sensazione di vuoto, dico davvero. Smisi addirittura di stordirmi con la musica sparata ad un volume inimmaginabile, per la gioia dei miei vicini ai quali non parve vero potersi beare del silenzio che tante volte gli avevo precluso; è che avevo sempre delle voci in testa, o magari era solo la mia voce che pareva non fermarsi mai, neanche quando la musica era altissima; mi sembrava che i pensieri fossero in grado di riempirmi, rendermi del tutto saturo. Per questo la pancia vuota mi faceva stare meglio. E poi non so spiegare bene perché, ma desideravo il dolore che mi provocava la fame.

Spesso mi guardavo intorno, rendendomi conto che gli altri avrebbero benissimo potuto fare a meno di me, le loro vite sarebbero continuate. Non fraintendetemi, ero sicuro che la mia mancanza l’avrebbero sentita: se mi fossi allontanato avrei fatto loro del male, ed era proprio questo il punto. Niente pensieri depressivi del tipo: “nessuno soffrirebbe per me”, assolutamente no, io volevo che gli altri stessero male, mi emozionava pensare che avrei trovato un modo per provare piacere vedendoli fare ciò che io desideravo. Proprio perché la vita continua a scorrere, immaginavo la sofferenza dentro i loro petti che non avrebbero potuto esternare. E lo sapevo che un limite da non superare c’era, perché il loro male non potesse aggredirmi, ma fu come scordarsene quando mi resi conto del fatto che a dire il vero non importava a nessuno. Più ignoravano ciò che facevo, più mi sentivo spinto a negarmi un bisogno primario come quello. Mi sentivo solo ed avido di affetto; la chiamano “malattia dell’abbandono”, l’anoressia, tutt’ora sono convinto che non se ne possa comprendere il motivo finché non ci si finisce dentro.

Comunque ero giovane, nemmeno mi accorsi di quello che stava accadendo, preso com’ero a crogiolarmi in quel dolore che mi ricordava di essere vivo e di avere delle esigenze in quanto essere umano. Odiavo quando mi rendevo conto che il mio stomaco si era abituato a sopperire la mancanza di cibo, perciò diminuivo il mio pasto sempre di più, in attesa che ricominciassi a stare male.

Per non venir colto dalla tentazione di ingerire qualcosa in un momento di particolare debolezza, avevo anche imparato a non pensarci mai, al cibo, perché se riuscivo a tenerlo fuori dalla testa allora ero sicuro che avrei messo una barriera vera tra me e lui, tanto che alla fine persi addirittura il senso del tempo, ritrovandomi senza la capacità di calcolare l’arco orario frapposto tra i miei pasti.
Anche il mio contatto con la realtà divenne sempre più esiguo, a legarmi ad essa c’era solo il filo di uno spago, i miei occhi erano offuscati dalle lacrime che non mi ero mai permesso di lasciar scorrere. Tutto ciò che volevo era sparire, diventare sempre più piccolo, sempre di più, assottigliarmi così da rendermi invisibile, e poi, una volta pronto, dileguarmi nel vuoto.

Pensavo che mi sarebbe piaciuto rinascere in un batterio e vivere dentro una goccia d’acqua, isolato dal mondo esterno. Non avere contatti con gli altri mi avrebbe impedito di stare male.

La mia vita non doveva avere alcun sapore, se non quello amaro della sofferenza.

Andò avanti per un bel po’ di tempo, prima che si accorgessero che avevo smesso di mangiare. Ad un tratto mi sentii anche potente, riuscivo a provare un senso di soddisfazione che fino ad allora mi era sempre stato estraneo. Era quanto di più vicino alla felicità riuscissi a provare. Ma poi dovetti fermarmi, prima di morire dovetti fermarmi perché altrimenti il piacere sarebbe finito.

Ricordo ancora il senso di annebbiamento che provai, l’incapacità di percepire il mio stesso corpo e la lontananza del resto del mondo rispetto a me, prima che arrivasse l’ambulanza. Le mie ossa erano troppo fragili ed i muscoli talmente deboli da non riuscire a sostenere il mio esiguo peso. La pelle tirata ed i capelli opacizzati erano ciò che rimaneva di quello che ero stato un tempo, il pallido ritratto di un ragazzo che mi somigliava.

Ci volle un anno perché loro dicessero di avermi curato, io nel frattempo capii di non essere guarito. Dentro al petto continuavo a sentire quel dolore terribile che percepivo alleviarsi solo a pancia vuota, mi mozzava il fiato, e soprattutto nessuno sembrava rendersene conto. Era un dannatissimo circolo vizioso, un cerchio senza fine. Venivo additato, a volte, i giudizi delle persone trapelavano dai loro sguardi, mi si posavano addosso e pesavano come macigni, altre volte mi sentivo addirittura meglio, magari la terapia a cui ero stato sottoposto qualche frutto lo stava dando. Volevo andarmene, però, credevo che fuggire dove nessuno avrebbe più saputo niente di me, mi avrebbe consentito di scappare anche da me stesso.

Arrivato a Tokyo mi gettai nella musica di petto, vivevo per suonare e speravo che potesse essere il contrario. Feci parte di un paio di gruppi che divennero più o meno noti, soprattutto l’ultimo, prima di capire che se volevo davvero realizzare quel sogno al quale mi ero aggrappato per tutto quel tempo, avrei dovuto muovere il sedere e darmi da fare. Fondai il gruppo che per me sarebbe stato quello definitivo, credendoci come mai avevo fatto fino a quel momento.

E poi fu il botto. 

Cominciai a sentirmi pervaso da una sorta di felicità che in Hokkaido non avevo mai provato, tanto che pensai di voler ricominciare ad impegnarmi per vivere. Smisi di vedere nel cibo uno strumento per punire me e gli altri; qualcosa nel mio intimo era cambiato in modo così netto da udirne perfino il rumore, come uno scatto metallico. Per cinque anni la mia stessa voce cessò di urlarmi nella testa di smettere di mangiare perché sentire i morsi della fame era piacevole. Progettavo i pasti contando meticolosamente le calorie da assumere in una giornata, pesandomi ad intervalli regolari; ovviamente la cicatrice di ciò che mi ero fatto sarebbe rimasta per sempre dentro la mia anima devastata, ma sentivo l’ossessione per gli introiti di cibo farsi più esigua con il passare del tempo, tanto che credetti fosse scomparsa.

Ad un tratto, però, cominciai ad avvertire tutte quelle responsabilità di cui mi ero fatto carico, fu come se mi fossi accorto delle loro conseguenze solo in quel momento. Tipico di me. I membri della mia band erano diventati quanto di più simile potesse esserci a una famiglia, a quel punto mi resi conto di come fossi cambiato grazie al bisogno quasi morboso che avevo di non fargli comprendere che qualcosa non andava, solo per paura di farli soffrire. Ed ecco che i pensieri che mi riempivano la testa anche prima, ricominciarono a tormentarmi, mi sentii nuovamente colmo, incapacitato ad assorbire qualunque altra cosa. Le mie motivazioni erano cambiate radicalmente e non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che il risultato stesse coincidendo. Avendo riconosciuto i segnali del dolore che stavo per auto-infliggermi di nuovo, mi impegnai duramente per continuare ad alimentarmi con regolarità, mi impegnai perché la mia vita non ritornasse ad avere un unico sapore, costringendomi a bilanciare ogni pasto con scrupolosa meticolosità.

<< Mi ha appena chiamato Hiroto, è all’ospedale. >>
<< Ha fatto a botte in qualche bar e si sta facendo mettere i punti? >>
<< No, ha accompagnato Shou-kun. Tonsillite. Ancora. Non si sa quando ricomincerà a cantare, al momento ha la febbre alta, sembra che abbia avuto anche delle allucinazioni. >>
<< Oh. Capisco. Be’ dovremmo assolutamente raggiungerli allora, non credi? >>
<< Sì … Ma non finisci il pranzo? Non hai nemmeno fatto colazione questa mattina. >>
<< No, non mi va, raggiungiamo gli altri, è importante. >>


Finché, poi, non ce la feci più.







Note di Vortex: Salve!
Della serie che ogni tanto si ritorna, eh xD
Bene avevo voglia di parlare di un tema delicato come i disturbi alimentari e in questo caso l'anoressia; la scelta del personaggio non è stata affatto casuale, infatti non riesco a ricordare bene dove, lo stesso Nao aveva dichiarato di essere troppo grasso, di pensare continuamente alle calorie che ingurgita e di voler assolutamente dimagrire.
Non ho molto da dire ad essere sincera, soltamente volevo informarvi che c'è molto di personale qui dentro, pensieri che avevo buttato giù tempo addietro, ai quali sono molto legata ed è stato estremamente difficile decidere di renderli pubblici...
A questo punto dovrei dire che spero che possiate apprezzare o cose simili, del resto è un po' ciò che tendo a comunicare in ogni mia fic, ma non questa volta perchè ci troviamo in un caso particolare, la fic qui sopra è stata scritta da me esclusivamente per me. E' importante questa sottile differenza dal resto delle mie fic. Niente di più.
Vortex.

  
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