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Autore: Timcampi    24/09/2012    5 recensioni
E poi, sul fondo della scatola, era adagiata una lettera la cui busta era ormai ingiallita dal tempo, ondulata e ruvida come se avesse assorbito dell'acqua. Incredulo, la tirò fuori per osservarla da vicino, rigirandosela tra le mani.
“Elizaveta Héderváry”, recitava la busta, nonostante l'inchiostro fosse sbiadito.
La scrittura, se pur tremante, racchiudeva nei suoi caratteri una profonda eleganza, donata dall'inclinatura perfetta e dagli accenti paralleli.
Improvvisamente colto da un'antica inquietudine, l'aprì.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Prussia/Gilbert Beilschmidt, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Questa fanfiction è nata dall'idea mia e di Snowhite_Queen, a cui la one shot è dedicata, di creare due diversi racconti con lo stesso titolo e con Prussia come protagonista.

Ho l'abitudine di collegare tra loro le mie fiction, pertanto ho scelto di ambientare “Tears in Rain” nel pomeriggio precedente l'incipit di “One week in Prague”, come un prequel, nonostante non vi sia alcun legame tra le due.

Senza ulteriore indugio, vi presento quindi la seconda delle due storie gemelle. Enjoy!

Ceol

 

Tears in Rain

 

Gilbert rimirò un'ultima volta la propria immagine che lo osservava con sguardo ammiccante dalla lucida superficie del grande specchio: l'inconfondibile sorriso sbilenco; la pelle chiara che faceva da sfondo ai suoi raffinati tratti germanici; il suo fisico statuario censurato da un maglione di lana azzurra e dai jeans consunti.

Era perfettamente conscio del suo innegabile fascino, e non mancava di compiacersene, di tanto in tanto.

Lanciò un'occhiata all'orologio a pendolo della camera da letto, abbandonandosi sulle coltri arabescate del letto matrimoniale. Tra mezz'ora Ludwig sarebbe venuto a prenderli per accompagnarli in aeroporto, insieme al resto della brigata, ed Elizaveta era ancora sotto la doccia.

Aggrottò la fronte, in una smorfia pensosa: stava dimenticando qualcosa, si disse, mettendosi di scatto a sedere.

Ecco! Era sul punto di lasciare a casa il bagaglio più importante. Si alzò in piedi e si diresse verso l'armadio di legno intarsiato, aprendolo e cominciando a frugare dentro i cassetti, certo di averlo nascosto tra le sue cose. Ed eccola lì, sommersa dai suoi boxer meticolosamente ripiegati uno sull'altro, una scatoletta rivestita di velluto blu, piccola e bombata. Sì accertò di udire ancora lo scroscio della doccia, prima di aprirla e di ammirarne ancora una volta il contenuto: un anello di tre fili d'oro, bianco, giallo e rosso, che s'intrecciavano creando la forma circolare del gioiello, fedele riproduzione d'una ghirlanda di rami, e creando una cornice di fiori e foglie attorno alla gemma centrale, un grande, limpido diamante dal taglio leggermente ellittico.

Con un ghigno soddisfatto, richiuse la scatoletta e andò a riporla tra i suoi effetti personali, nella valigia aperta, là dove sapeva che Elizaveta non sarebbe andata a frugare. Fece per richiudere l'anta dell'armadio, quando venne attratto da qualcosa che non aveva mai notato prima: accanto al cassetto contenente la propria biancheria, seminascosta dalla schiera di giacche e cappotti di Elizaveta, c'era una scatola di cartone decorata a découpage. Incuriosito, la prese tra le mani e tornò a sedersi sul letto, portandola sulle ginocchia.

In fondo, non c'era scritto da nessuna parte che non poteva aprirla...

Quando tolse il coperchio, il contenuto fece nascere sul suo volto un tenero e malinconico sorriso: vi erano petali di fiori essiccati, piccoli anelli ricavati da fili d'erba ormai divenuti secchi e scuri, qualche brandello di stoffa, un pezzo di metallo arrugginito che sembrava essere stato la punta di una spada. Una parte di lui non si stupì che avesse conservato, come una ragazzina innamorata, tutti i loro ricordi.

E poi, sul fondo della scatola, era adagiata una lettera la cui busta era ormai ingiallita dal tempo, ondulata e ruvida come se avesse assorbito dell'acqua. Incredulo, la tirò fuori per osservarla da vicino, rigirandosela tra le mani.

Elizaveta Héderváry”, recitava la busta, nonostante l'inchiostro fosse sbiadito.

La scrittura, se pur tremante, racchiudeva nei suoi caratteri una profonda eleganza, donata dall'inclinatura perfetta e dagli accenti paralleli.

Improvvisamente colto da un'antica inquietudine, l'aprì.

 

Vienna, 13 giugno 1867

 

Mi domando quanto sia saggio scriverti ora, Elsbeth. So che è tardi, ormai.

Mi chiedo cosa mai otterrò facendoti recapitare questa lettera ora, nel cuore della tua prima notte di nozze.

Odiami, ti prego, ma non ignorarmi. Non fingere che il passato non sia mai accaduto, non fingere di non capire quanto io ti abbia sempre, costantemente, amata.

Non smetterò mai di amarti, Elsbeth. Finchè avrò vita, ogni brandello della mia anima, del mio corpo e del mio cuore ti è eternamente consacrata, che tu lo desideri o no.

Eppure, nonostante ti ami con tutto me stesso e odi lui, non posso non pregare per la tua felicità, perchè lui riesca a donarti tutto ciò di cui necessiti per soddisfare i tuoi bisogni e i tuoi capricci.

Pregherò con sincerità e disperazione ogni giorno e ogni notte, perchè Roderich riesca ad amarti quanto ti amo io.

Ma c'è una preghiera, Elsbeth, che rivolgo solo ed esclusivamente a te: in memoria di ciò che fu, ti prego, ti supplico con la devozione d'un santo e d'un cavaliere di non dimenticare. Non dimenticare il suono delle nostre risate e i fiori che trovavi tra i capelli al tuo risveglio, quando ci addormentavamo l'uno accanto all'altra; non dimenticare quante volte ci siamo resi aiuto e supporto vicendevolmente, lo sguardo adorante e privo di alcuna malizia con cui ti guardavo, e che imputavi a un'imperdonabile mancanza di virilità.

Soprattutto, non dimenticare che, qualsiasi cosa accada, comunque cambino le cose tra di noi e per quanto il mondo intero possa mutare il proprio volto, Elsbeth, io sarò sempre il tuo più fedele cavaliere e servitore.

Eternamente tuo

Gilbert

 

Senza neppure rileggerla, sigillò la lettera dentro una busta bianca su cui scrisse il suo nome. Lanciò uno sguardo oltre la finestra: nonostante il buio della notte, lo scrosciare della pioggia e le gocce che schizzavano nella fioca luce delle rare lanterne lasciavano chiaramente intuire quale temporale dovesse imperversare oltre i vetri del piccolo appartamento.

Ma neppure un fulmine l'avrebbe fermato dal compiere quell'ultimo gesto galante, che sarebbe stato l'ultimo davvero, prima che il prussiano sparisse per sempre dalla sua vita.

Quando fu sull'uscio di casa, l'aria fresca s'insinuò sotto la sua camicia leggera, tra i suoi capelli, nelle sue narici.

Tenne la lettera stretta a sé, sperando si bagnasse il meno possibile, mentre si allontanava nella notte, tra i rari passanti, con la pioggia che martellava sul suo corpo. Nonostante fosse giugno, era scosso da lievi tremiti.

Non riusciva a credere che ciò che stava facendo rappresentasse il suo ultimo, estremo atto d'amore, quel suo amor cortese perpetrato e difeso per secoli e che era destinato a non trovare mai pace. L'avrebbe tormentato per l'eternità, quel sentimento così immenso, così devastante, così spaventosamente potente. Perfino più potente della sua fede, si ritrovò a pensare, stringendo i denti.

Prima di giungere a destinazione, era già completamente fradicio. Fitti rivoli scorrevano lungo il suo viso, sotto la stoffa bianca della camicia, appesantendola fin quasi a renderla un fardello insopportabile. Ma no, era una sua questione personale: non avrebbe mai potuto servirsi d'una carrozza. E neppure avrebbe resistito fino all'indomani, perchè forse, il giorno seguente, il coraggio necessario sarebbe venuto a mancargli.

Sotto la tiepida pioggia estiva, con gli occhi rivolti alla strada e al cielo, quasi a intermittenza, si domandò se fosse soltanto la pioggia, a rigargli il volto pallido. Se, forse, non stesse...

In fondo, però, era meglio non saperlo.

 

-Gil? Gil, svegliati. Sbaglio o stavi frugando tra le mie cose?

Una voce familiare lo riportò alla realtà, al febbraio del duemiladodici, all'asciutto del suo letto e della sua residenza berlinese, con la lettera ancora stretta tra le mani.

Si era addormentato.

Quando aprì gli occhi, trovò Elizaveta seduta accanto a lui, ormai vestita di tutto punto e pronta a partire.

-Ludwig e gli altri sono arrivati, li ho lasciati ad attenderci in soggiorno.- proseguì l'ungherese, ravviandosi i lunghi capelli castani e posando un tenero bacio sulle sue labbra.

-Certo, certo. Non vorremo perdere l'aereo!- saltò su l'uomo, passandosi una mano tra i capelli bianchi.

Mentre chiudeva finalmente la propria valigia, l'altra lo precedeva già sulla soglia.

-Elsbeth?- la chiamò. La donna si voltò, con un sorriso sereno sulle labbra rosee, i grandi e ridenti occhi verdi puntati su di lui.

Avrebbe voluto dirle, per l'ennesima volta, quanto l'amasse. Avrebbe voluto chiederle, ancora una volta, se per lei fosse lo stesso, dopo tanti anni, dopo il succedersi di tutte quelle burrasche.

-Ho fatto uno strano sogno. Un ricordo, ecco.- disse invece, ma l'altra scosse la testa.

-Me lo racconterai in aereo, è tardi.- ridacchiò, trascinando le valigie oltre la soglia e sparendo nel corridoio. Gilbert sospirò. La seguì, per poi richiudersi la porta alle spalle.

Prima che la porta si chiudesse del tutto, però, gettò un'ultima occhiata sulla lettera, ancora aperta, abbandonata sul letto.

-Speriamo che il tempo sia buono, a Praga.

   
 
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