Film > I tre Caballeros
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Autore: Feel Good Inc    25/09/2012    2 recensioni
(Post 'Adelante {sempre adelante}' di Ray08)
«Mi prendo una settimana di ferie.»
Lo zio Scrooge alza piano gli occhi dalla pila di monete antiche che sta lucidando personalmente, chiaro segno di quanto ci tiene. Se ha appena fatto una cosa come
distoglierne lo sguardo vuol dire che Donald lo ha spiazzato sul serio. Con la stessa lentezza si abbassa gli occhialini rotondi sulla punta del naso e gli lancia il lungo sguardo penetrante che tutti i suoi nipoti hanno imparato a riconoscere e a etichettare della dicitura ‘allarme diseredazione’.
[...]
Si sveglia di soprassalto e si ritrova seduto nel letto in un mare di sudore.
È passata una notte e ora ha la
certezza di essere impazzito.
{José/Donald | hints Panchito/José/Donald | gijinka, no!furry}
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: José Carioca, Panchito Pistoles, Paperino
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Triangolo
- Questa storia fa parte della serie 'Adelante'
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Adelante II

{ sei mai stato a Baía? }

 

 

 

 

 

 

 

È passato un mese dal Bar Cachaça – trenta giorni, un’ora e sette minuti.

Il treno fila così veloce e sicuro che Donald pensa che se i binari s’immergessero di colpo in un fiume o in un lago o in un mare la corsa continuerebbe imperterrita senza fermarsi. Non sa bene perché, ma è grato di questa certezza. Immagina le nuvolette di vapore della locomotiva trasformarsi in bolle d’ossigeno ed è quasi tentato di scoppiare a ridere, ed è la prima volta che ha voglia di ridere da molto, troppo tempo. Affacciato al parapetto dell’ultima carrozza osserva i miliardi di sfumature del Brasile scorrere rapide nella direzione opposta, eppure è come se quel mondo gli venisse incontro, addosso, travolgendolo. Forse, se fosse solo, ne avrebbe quasi paura – ma non è solo: un’altra cosa di cui essere grati.

Panchito ha apparentemente rinunciato al folle proposito di imbrigliare la lunga schiena lucida del convoglio come quella di un toro scatenato e ora si spenzola nel vuoto alla destra di Donald. Dall’altro lato José fuma un onnipresente sigaro e sorride vago alla scia di cenere che il treno si lascia alle spalle mentre li porta adelante.

È passato un mese da quel giorno al Bar Cachaça e Donald pensa che è abbastanza tempo, che non c’è niente di male in fondo, e allora trova chissà come il coraggio di fare una confessione e sa già che quasi certamente non sarà l’ultima di questo nuovo, insperato, prevedibilissimo viaggio.

«Mi siete proprio mancati, amigos

Panchito si tira su di scatto, gli molla una poderosa pacca sulle spalle che rischia di fargli perdere il berretto tra le rotaie e poi torna allegramente a spenzolarsi, canticchiando più che mai. José scrolla ancora un po’ di cenere oltre la balaustra, sorride e non dice nulla.

Tra poco saranno a Baía.

 

 

 

*

 

 

 

È passata una settimana e oggi Donald è al cospetto dello zio, il berretto stretto tra le mani come un’arma di difesa, i polmoni pieni d’aria e le guance rosse per le tante cose che lo zio non può e non deve sapere.

«Mi prendo una settimana di ferie.»

Lo zio Scrooge alza piano gli occhi dalla pila di monete antiche che sta lucidando personalmente, chiaro segno di quanto ci tiene. Se ha appena fatto una cosa come distoglierne lo sguardo vuol dire che Donald lo ha spiazzato sul serio. Con la stessa lentezza si abbassa gli occhialini rotondi sulla punta del naso e gli lancia il lungo sguardo penetrante che tutti i suoi nipoti hanno imparato a riconoscere e a etichettare della dicitura ‘allarme diseredazione’.

«Chi ti dice che te lo permetterò?»

Donald stringe più forte il berretto, così forte da sentire le unghie affondare nei palmi attraverso la stoffa leggera. Del resto è un berretto così vecchio. Tutto quanto nella sua vita è vecchio. C’è stato solo un periodo, solo un breve e lunghissimo istante in cui il mondo attorno a lui ha avuto profumi e colori e sentori nuovissimi e lui si è sentito vivere e – forse perché scappava, forse perché rinasceva – si è sentito una persona diversa. Ma questo è stato prima di avere paura, prima di tornare indietro.

Sa già che cosa verrà dopo. Sa che lo zio si gonfierà e arrufferà come un grosso papero e che pronuncerà il nome di Gladstone a mo’ di ammonimento e che l’ultima fase sarà la minaccia di una sempiterna lista di debiti. Gli ricorderà che dopo i suoi precedenti – partenze improvvise e mai annunciate, ritorni imprevisti e neanche voluti – nessuno avrebbe assunto uno scansafatiche come lui, nessuno se non quel povero vecchio parente abbindolato dalla faccenda del sangue del suo sangue e carne della sua carne. Storia vecchia, già sentita. Donald non gli dà il tempo di dire o fare niente. Ha deciso ormai: vuole continuare a essere quella persona tanto diversa da fargli paura.

Se sia stata la samba o sia stata la cachaça, non gli è dato sapere.

«Non te lo sto chiedendo.»

Si volta e lascia l’ufficio.

È passata una settimana e ancora non riesce a togliersi dalla testa la domanda di Panchito e il modo in cui la freddezza di José è ruotata tutta intorno a quelle poche parole.

 

 

 

*

 

 

 

Trenta giorni, un’ora e ventisei minuti.

La prima immagine di Baía è un incrocio, un punto qualsiasi in cui, dopo aver lasciato la stazione, José li ferma e mostra loro le semplici armonie architettoniche e i colori, soprattutto, quei colori che da quando sono arrivati in Brasile sembrano aver preso possesso di tutto il mondo, molto più dell’ultima volta. Donald ricorda bene che a bordo della trecentotredici il suo umore era così nero da spingerlo sempre avanti senza mai guardarsi intorno – è anche per questo che stavolta ha voluto che fosse diverso, ha eliminato quel filtro di metallo e gasolio tra sé e i cari vecchi compañeros e ha lasciato che l’assolato Sud scorresse libero attorno a loro. Ha subito capito che un treno preso al volo grazie all’ultimo sudato stipendio e una passeggiata a piedi tra Panchito e José l’avrebbero portato non avanti, ma adelante.

Non avrebbe mai immaginato, però, che José si animasse tanto.

Quasi non sono ancora entrati a Baía e la sua lingua già si è sciolta, volge intorno uno sguardo sorprendentemente luminoso e quel sorriso vero che Donald ha imparato a conoscere nei momenti più impensati, complici le canzoni strillate da Panchito o la tequila più forte del Messico e dintorni; punta quel suo inseparabile ombrello nero verso tutto ciò che vede e parla a raffica e lo tocca così spesso, prendendolo sottobraccio, circondandogli le spalle, addirittura pizzicandogli le guance – e questo, davvero, Donald non se lo sarebbe mai aspettato, e dev’essere la sorpresa, solo la sorpresa a fargli sussultare lo stomaco ogni volta che le dita affusolate di José lo colgono impreparato e che le risatine di Panchito assumono di colpo significati oscuri e intimidatori.

«Vamos sair por aí, vai conhecer o Baía! Vamos a todos os lugares!» José si volta di colpo ed è vicinissimo, vicino come è stato solamente una volta negli ultimi due anni, ma adesso non c’è il velo di una sbornia a offuscargli la vista e Donald può constatare che i suoi occhi sono verdi e vivi e non hanno proprio niente di misterioso. Se sia stato il tempo o sia stata Baía, non gli è ancora dato sapere. «Ora, pato, ti mostrerò il paese della samba.»

E lo prende ancora sottobraccio e ripartono vicini, e Donald sa benissimo che quell’invito non ha espresso Panchito perché probabilmente quei due sono già stati qui insieme, ma non può impedirsi di provare di nuovo, per un attimo, quella fitta di fastidio e quella vecchia e sconosciuta paura che solo un mese fa è riuscito ad affogare nella cachaça.

Ma oggi si va adelante.

 

 

 

La ragazza è comparsa all’angolo dell’incrocio dopo che la sua voce aveva già raggiunto i porticati e le mura di pietra. José si è illuminato di un altro sorriso, ha continuato a trascinare Donald per il braccio e ha agganciato quello di Panchito con il manico dell’ombrello. Si sono fermati sotto una volta e l’hanno vista comparire.

Sul momento, Donald non può non pensare che è bellissima.

Porta un vassoio in equilibrio sulla testa e veste di quello che sembra un abito tradizionale che le lascia scoperte le spalle dorate dal sole. Si muove lungo quel marciapiede come se danzasse su una lastra di ghiaccio. Canta una canzone lenta e dolce di cui lui non capisce una sola parola, ma che fa sorridere José e Panchito più che mai.

José incontra il suo sguardo. «È Yayá» dice, come se bastasse un nome perché il mondo intero risponda con un ‘oh, certo!’.

Inarca le sopracciglia. «Chi è Yayá

Panchito ridacchia e mormora qualcosa del tipo «muy bonita», ma ‘Yayá’ ha sentito la voce di Donald. È un po’ difficile non sentire la voce di Donald, ovunque egli vada e chiunque lo conosca – Daisy lo diceva sempre e persino ai nipotini piaceva scherzarci su. È strano; pensare a loro è diverso adesso, quasi ovattato.

La ragazza si volta, li vede, punta gli occhi su José ed è costretta a una morbida piroetta perché il vassoio non riversi a terra quello che si rivela essere un carico di dolcetti di uno sgargiante color giallo.

«Avrei dovuto capirlo» dice in inglese, un sorriso molto simile a quello che ancora illumina il viso di José, «solo tu mi chiami così.»

Si corrono incontro e si abbracciano e José la fa volteggiare in aria come una bambina. Il vassoio è prontamente salvato da Panchito che atterra con una mezza capriola accanto a Donald, che guarda la scena e si chiede perché, se tutti ridono tanto, di colpo gli sembra di essere stato tagliato fuori.

«Obrigada» ride Yayá, o qualunque sia il suo nome, quando José la posa di nuovo a terra con delicatezza e Panchito le rende i dolci sani e salvi. «Volete un quindim? Gli amici di José sono miei amici.»

Panchito ringrazia con un inchino sfarfallante, uno di quelli che a José vengono naturali e che lui riesce solo a trasformare in spettacoli comici, ma Yayá continua a sorridere come alla cosa più bella che abbia mai visto – poi offre un dolce a Donald, e lui è un po’ incerto se ritenerla un’insopportabile smorfiosa o prendersi all’istante una cotta per lei. Nel dubbio, si limita ad accettare il quindim e scopre che sa di cocco e di limone e che è una delle cose più buone che abbia mai assaggiato, buono quasi quanto le torte della nonna.

José circonda con una mano la vita della ragazza. «Yayá, conheça o meus amigos, Donald e Panchito.»

Lei solleva un lembo del vestito e si esibisce in una riverenza; Panchito scherza sull’aria di Baía che evidentemente non è fatta d’ossigeno ma di elegancia; José incontra di nuovo gli occhi di Donald e di nuovo sorride. Per quanto lo riguarda, lui non riesce a smettere di pensare che è la prima volta che Joe lo chiama per nome.

Tutto sommato, dev’essere proprio Baía.

 

 

 

*

 

 

 

È passata appena un’ora e al Bar Cachaça si è sostituita la House of Mouse, il pub aperto da Mickey giusto qualche mese fa, quello nel quale Donald va a dare una mano quando i miseri salari dello zio Scrooge non bastano a portargli sulla tavola neanche un trancio di pizza surgelata. Gli piace quel posto perché è nato come lui vive: per scommessa. Casa del Topo, rideva Mickey i primi giorni, proprio perché con tutte le ristrutturazioni che andavano fatte non era da escludersi il rinvenimento di una colonia intera di ratti. E d’altro canto Mickey non è come lo zio, non fa mai troppe storie quando lo vede trascinarsi al bancone col muso lungo, ed è ben felice di fargli lavare i piatti in cambio di una cena degna di questo nome, e finge sempre di non sentire quando la cucina echeggia delle sue imprecazioni brontolate tra uno schizzo di detersivo e l’altro.

Eppure anche Mickey resta sorpreso nello scoprire che per una volta Donald non è qui per un pasto, ma per qualcosa che neanche lui è ancora riuscito a definire.

«Te ne porto un altro?»

Donald spinge via il bicchiere vuoto e scuote la testa. Ha bevuto abbastanza per oggi. Per quanti litri d’acqua possa ingurgitare, il sapore aranciato della cachaça è ancora un calore indelebile in fondo al suo stomaco arrabbiato.

Senza accorgersene comincia a parlare e con le parole arrivano anche le immagini, vivide come se le avesse appena vissute, come se non fossero passati due anni – due anni eterni, lunghissimi, vuoti di tutto, dannazione, di tutto – e a poco a poco diventa sempre più facile ricostruire quelle immagini per gli occhi attenti di Mickey che lo seguono passo passo ma che non erano , non erano lì a guardare la prima aurora dell’universo, non erano lì a vedere la polvere entrare in macchina insieme a Panchito, non erano lì a specchiarsi letteralmente dentro quelli di Joe, José, quel fumatore incallito che blaterava sempre le stesse domande senza senso. Mickey non era lì e allora Donald cerca di portarcelo, perché forse il suo amico così accorto, così acuto, quello che gestisce un pub ma fa anche il consulente investigativo e che vede tante cose che lui non potrà mai vedere – forse sarà lui a fargli capire perché la cachaça brucia ancora così tanto nel suo stomaco e perché la domanda di Panchito gli abbia fatto un male diverso da quello che si aspettava e perché, soprattutto, perché la freddezza di José gli abbia fatto venire tutti questi strani pensieri.

La storia finisce e Mickey non apre bocca. Donald gliene è quasi grato, in realtà. Ha l’impressione di non voler davvero sentirgli dire nulla.

È passata appena un’ora e già gli sembra di impazzire.

 

 

 

*

 

 

 

Trenta giorni, tre ore e quarantotto minuti.

Yayá ha indicato loro un ristorante e Donald non ha potuto fare a meno di tornare indietro con la mente a quella mattina, quando quello che fino ad allora gli era sembrato il ricordo di un sogno ha pensato bene di squillargli forte nelle orecchie per ricordargli che i tre Caballeros erano davvero tornati a cavalcare.

Ha cercato in tutti i modi di non dare a vedere nulla, di tenersi tutto per sé, ma a ogni passo si è rivelato più difficile.

Baía è una città in cui persino i lampioni, le cassette delle lettere, le case, i balconi e gli idranti ballano. Se socchiude gli occhi gli sembra di trovarsi nel cuore di un acquerello vorticoso, una macchia blu confusa tra il rosso e il giallo, e il fatto che Yayá li abbia accompagnati per un tratto di strada danzando letteralmente al braccio di José gli ha fatto girare la testa – ma non quanto il fatto che José abbia trovato il modo di coinvolgere in quella stupidaggine anche lui, cogliendolo di sorpresa mentre Yayá volava incontro a Panchito e tornando a insinuare il braccio attorno al suo nella più sconcertante quantità di contatti fisici che si siano mai instaurati tra loro. Quando raggiungono la meta consigliata, dal nome tutt’altro che inaspettato di Café do Samba, Donald si blocca sul marciapiede e scopre di avere il fiato corto.

«Stai bene, pato

Ignora la domanda divertita che José gli soffia nell’orecchio. È tentato di mangiarselo seduta stante, ma preferisce tacere. Fa dannatamente caldo in Brasile.

Dalla porta del locale sbuca di colpo un bizzarro personaggio. Non può essere più giovane né più vecchio di loro, ma ha la faccia sorniona di un adolescente pronto a combinare guai. Donald lancia un’occhiata ai suoi capelli rosso fuoco e poi a quelli di Panchito, e si chiede se per caso non siano parenti. Anche le due smorfie sogghignanti si somigliano come gocce d’acqua.

«Bem-vindo! Bem-vindo!» Lo sconosciuto zompetta verso di loro agitando una biro e un taccuino. Non si è mai visto un cameriere meno cameriere, pensa Donald. «Ma guarda, è il nostro vecchio José! quanto tempo que eu não o vejo! E hai portato degli amigos con te! Encantado, encantado!»

José alza gli occhi al cielo e poi si china ancora a sussurrare nell’orecchio di Donald. «Sinto muito, pato. Noi lo chiamiamo Aracuán, como o pássaro, perché non sta mai zitto. Ele é meio maluco... Un vero stupidone.»

Donald si porta le mani alla bocca e soffoca sul nascere una risata. Non ha capito tutte le parole, naturalmente, ma si concentra su quelle comprensibili e riesce così a ricacciare in un posto inaccessibile il disagio che tutta questa inedita vicinanza gli fa tremolare nello stomaco assieme al quindim di Yayá.

Aracuán, o qualunque sia il suo nome – José deve avere un problema con i veri nomi della gente. Magari è per questo che gli ha sempre permesso di chiamarlo Joe – è intanto impegnato con Panchito in una poderosa stretta di mano della quale non si riuscirebbe a stabilire quale dei due sia il più entusiasta. Si parlano fitto fitto in una lingua a metà tra lo spagnolo e il brasiliano, e José guarda di nuovo Donald muovendo un dito in cerchio accanto alla tempia e facendolo scoppiare in una nuova risatina che si sforza in ogni modo di non far suonare isterica. Il tentativo richiama l’attenzione dello strano cameriere, che per qualche assurdo motivo appare deliziato da ciò che vede.

«Bem, bem, bem. Un tavolo per due, pombinhos

A Donald non è chiaro il significato di ‘pombinhos’, ma il senso del tono e della domanda è inequivocabile. Si sente avvampare e si ritrae da José come se si fosse scottato. Dal canto suo José sorride amabile, ignorando a bella posta la risata di Panchito che è evidentemente sul punto di crollare a terra rotolando su se stesso.

«Muito obrigado, Aracuán, ma Donald ed io non siamo una coppia. Un tavolo per tre andrà benissimo.»

Il tipo si limita a guardare Panchito con aria significativa, facendolo sbellicare ancora di più, ma non dice altro e con un gesto fa strada a tutti e tre verso il locale.

Donald tiene lo sguardo ostinatamente fisso sulle proprie scarpe da tennis arancioni e mezze sfondate, perché ha già constatato la bravura di José nel leggergli le cose negli occhi e non intende lasciarsi sfuggire una sola fottuta sillaba sui ricordi che le sue ultime parole hanno risvegliato in lui.

Non è affatto Baía. È José. È sempre stato José.

 

 

 

*

 

 

 

È passata una notte. E c’è qualcosa che non va.

 

 

 

Probabilmente è un sogno, perché solamente in un sogno Donald potrebbe mai immaginare di indossare un vestito bianco munito di velo.

Si guarda intorno e scopre le pareti azzurrine dell’House of Mouse, un posto assolutamente inadeguato per un matrimonio, ma d’altro canto è un sogno, non deve stare a farsi tante domande. Ci sono un po’ tutte le persone che conosce. Huey, Dewey e Louie lo salutano con la mano mentre la nonna porta a termine l’ennesimo dei suoi lavori a maglia e gli ricorda, con quel suo fare spiccio ma gentile, che «è maleducazione per la sposa arrivare così in ritardo». Lo zio Scrooge bofonchia con Gladstone a proposito dell’eredità, e Donald si dice che non gliene può importare di meno – sul serio, non può preoccuparsi delle sue misere finanze persino mentre dorme. C’è anche Mickey, naturalmente, e sta mostrando un registro vuoto a un cliente. Un cliente dall’aria molto familiare.

«Lei è il testimone? Firmi qui, per favore.»

«Badi che ci vorrà un po’. Mi nombre es Panchito Romero Miguel Junipero Francisco Quintero González.»

«Oh, si prenda tutto il tempo che vuole, señor, lo sposo deve ancora arrivare!»

Donald comincia a sentirsi davvero, ma davvero a disagio. Anche per un sogno questa non è esattamente una cosa all’ordine del giorno. Quando sta già meditando di scappare via, ecco che una mano sicura che sa di viaggi, di sole, di parole e di tequila gli si posa su un fianco e lo ferma al suo posto.

«Sinto muito, pato. Ti sono mancato?»

 

 

 

Si sveglia di soprassalto e si ritrova seduto nel letto in un mare di sudore.

È passata una notte e ora ha la certezza di essere impazzito.

 

 

 

*

 

 

 

È passato più di un mese dal Bar Cachaça – trenta giorni, sei ore e cinquantatré minuti. Li ha contati tutti quanti.

Baía è un posto bellissimo, affacciato sul mare più blu che si sia mai visto, e al calare del sole tanto le stelle reali quanto quelle riflesse nell’acqua tremolano del vibrare della musica che fa da sfondo al paesaggio come un’imprescindibile colonna sonora. Nelle strade, nelle piazze, sui moli c’è gente che canta e balla come per un fatto dovuto, come se semplicemente non si potesse vivere a Baía senza cantare e ballare, come se senza la musica non fosse Baía – Donald pensa che sia un po’ stupido, sì, ma anche bellissimo: proprio come tutti i racconti di Panchito, che si è immerso senza difficoltà in questa nuova magica atmosfera e ora parla della samba con lo stesso entusiasmo che ha per el Jarabe Pateño.

Ed è scomparso al crepuscolo, Panchito, correndo incontro a Baía con l’aria di chi si prepara ad aspettare qualcuno che probabilmente non lo seguirà e che se ne diverte enormemente. Pazzo, stupido pazzo inimitabile Panchito. Donald sente di volergli bene sul serio – e questa è un’altra confessione che forse vorrà fare, prima o poi, ma non adesso. Adesso è seduto su una spiaggia pulita e vuota a guardare una notte che forse non sarà la prima dell’universo, ma la prima di qualcos’altro senza dubbio sì.

Sente il passo lieve di José che lo raggiunge e gli siede accanto in silenzio. Hanno bevuto ancora, tutti e tre, e non è un segreto il fatto che sia Donald quello che regge meno di tutti, ma questa volta non balbetta quando gli rivolge la parola.

«Hai visto? Alla fine ci sono venuto nella tua fottuta Baía...»

José non risponde. Donald lo sbircia e vede che non ha nessun sigaro con sé, né l’ombrello, neppure quel mazzo di carte da poker che ogni tanto gli teneva le mani impegnate quando ancora non c’era stato nessun contatto di nessun tipo tra di loro. Non sa come deve prenderla. Pensa solo che José ha delle belle mani e un bel sorriso e dei begli occhi e istintivamente proietta di nuovo i suoi verso il mare, confuso e nervoso. Non ha ancora imparato a convivere con le consapevolezze che la telefonata e la visita dei due Caballeros gli hanno fatto nascere nel cuore – nella testa no, non c’è modo di assimilarle, è troppo assurdo pensare di aver bisogno di loro, troppo strano pensare di aver bisogno di – comunque ha il sospetto che José capirebbe tutto, in questo stesso istante, se solo lo guardasse in faccia. È solo che non ha ancora deciso se farglielo capire o meno.

Il silenzio si protrae e alla fine non trova nulla di meglio da dire se non quello di cui un po’ ha ancora paura.

«E tu... Lei, ehm – Rosinha. L’hai più sentita?»

S’irrigidisce e rivive come nel più beffardo dei déjà-vu quel giorno al Bar Cachaça – e non può fare a meno di pensare che forse, per l’ennesima volta, José lo sta guardando e sta vedendo se stesso. Quel che è certo è che la sua risposta è nitida e tranquilla, come è stata quella di Donald quando a chiedere è stato Panchito.

«Rosinha? No, non l’ho più sentita.»

Di colpo, neanche lui sa dire perché, Donald capisce tutto. Baía non è soltanto uno stupido ritornello per José. Baía è la sua Daisy, il suo zio Scrooge, la sua House of Mouse, è il mondo dal quale è scappato giusto prima di incrociare la strada di una vecchia cabriolet rossa e blu ed è il posto dove è tornato dopo la fuga – come ha fatto Donald. Lo guarda e si vede guardato, e così per la prima volta è lui a vedere riflessa la propria anima negli occhi di un altro, e a capire che andare adelante a volte significa anche tornare indietro.

Dura meno di un minuto. D’un tratto José sorride e torna la persona solare e vivace che è stato fin da quando ha messo piede fuori dal treno – e magari non è affatto Baía, magari è lui, Donald, magari è sempre stato Donald.

«Che te ne pare di Baía, pato? Dimmi la verità.»

Complice l’alcool, Donald ridacchia. «Tanto lo sai, pappagallo che non sei altro.»

«Certo che lo so. Non te lo sto chiedendo davvero.»

Il vento soffia aria di samba. Donald chiude gli occhi. Non sa dove saranno domani e non sa cosa succederà dopodomani, ma di una cosa è sicuro. D’ora in poi si andrà sempre adelante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spazio dell’autrice

 

Sarò sincera. Ho favoleggiato su un sequel di Adelante fin dalla pubblicazione della medesima. Solo che non avevo la minima idea di come scriverlo e di cosa scrivere, anche, finché la mia stupenda adorabile meravigliosa inimitabile Ray08 non ha pubblicato la sua versione di ciò che è accaduto dopo. E di fronte a un dono così inaspettato e così gradito (con il quale ho concordato in pieno) non ho potuto certo restare indifferente

Così, eccoci qua. È passato un mese da quel giorno al Bar Cachaça e ora the three Caballeros ride again. Per quanto il contesto sia sempre quello de I3C – come testimonia la presenza di Yayá – per questa seconda shot mi sono molto ispirata anche alle scene tra José e Donald integrate invece negli altri due classici Disney Saludos Amigos e Lo scrigno delle sette perle, nonché a un paio di episodi della serie animata House of Mouse. Anche e soprattutto perché mia mogliaH aveva espresso il desiderio di un Aracuán fanboy e di sposo!José e sposa!Donald (qui capirete il perché). Ancora una volta ho infarcito la trama di riferimenti e di nuovo vi sfido a trovarli tutti – voglio dimostrarvi una volta per tutte quanto mi sia FISSATA con questo fandom, ecco la verità XD

Non so cos’altro aggiungere, davvero. Onestamente questa shot non mi soddisfa la metà di quanto mi piace la mia prima Adelante, ma presumo sia il problema di tutti i sequel. Spero non siate severi come me (.__.) Moglia, mi odierei se ti deludessi.

Ultima doverosa annotazione: io continuo a vederli come un threesome perchéssì però questa volta la predominanza José/Donald è assolutamente voluta perché loro due sono canon e su questo non si discute, punto.

Adelante.

Aya ~

   
 
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