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Autore: Noth    25/09/2012    4 recensioni
(Lo sai, delle rondini?)
« Hai perso il lavoro? »
« In realtà non lo ho mai avuto. » sorrisi. « I miei mi hanno ripudiato. »
L’uomo fece saettare le sopracciglia fino alla parte più alta della sua fronte spaziosa e sbattè più volte le palpebre.
« Dovevi essere proprio un figlio terribile. » commentò, ridacchiando tra sé per la battuta appena fatta.
Sorrisi di rimando, appoggiando la custodia per terra e sedendomi al bancone, sentendo i jeans bagnati squittire a contatto con la pelle dei sedili.
« Solo un po’ troppo gay per loro. » alzai le spalle.
Il barista mi imitò e passò uno straccio sul bancone coperto di briciole.
« Ah, ragazzo, certa gente non sa capire l’amore. » disse.
Genere: Angst, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Do you know about swallows?
-Capitolo 13-

 
 
 




 
Era come se mi fosse passata sopra una mandria di cavalli imbizzarriti ed io non me ne fossi nemmeno accorto. Attorno a me tutto rimaneva ovattato, e mi scossi solo quando sentii un tonfo grave proprio sopra la mia testa. L’uragano doveva essere iniziato. Kurt sobbalzò al mio fianco, e decisi che volevo allontanarmi da quella donna, per il momento, non era il caso di parlare di ciò che mi aveva appena detto. Non era il momento, ed il mio cervello era troppo spaventato e preoccupato per tutto ciò che stava succedendo per poter pensare anche a quello.

Con uno strattone mi allontanai da lei, afferrando Kurt e infilandomi nel fiume di persone che correvano spaventate nelle varie stanze disposte sulle pareti. Prima che scomparisse alla vista gridai a zia Deliah:

« Ne riparleremo dopo. » anche se le mie intenzioni erano ancora quelle di sparire il più lontano possibile e fingere di non conoscere quella che era stata una notizia che non sapevo come avrebbe dovuto farmi sentire, perché non riuscivo a percepire niente.

Oppure non volevo.

Ci rintanammo in una stanza piena di gente che sbraitava e cercava parenti nel mezzo della folla. Ancora tenevo Kurt per il braccio ed evitavo di
guardarlo negli occhi. Ad essere sincero non so perché. La confusione riempiva l’abitacolo, eppure sembrava che stessimo ignorando il gigantesco
elefante rosa nella stanza. Sopra di noi sentivamo i tonfi e l’ululare selvaggio del vento che soffiava a non so quanti chilometri orari.

« Perché non sono rimasto a parlarle? » domandai ad alta voce, come a dare voce ai pensieri di Kurt. Lui scrollò le spalle.

« Non te lo ho chiesto. » rispose.

« Ma lo hai pensato. »

Lui silenziosamente ridacchiò, e mi domandai se non si sentisse fuori posto a ridere in mezzo a tutta quella gente che gridava.

« Perché mai avrei dovuto? » chiese, sinceramente sorpreso.

«Perché tutti, sempre, si chiedono perché mi comporti come mi comporto. C’è sempre qualcosa di molto stupido ed insolito nelle mie azioni. »
spiegai, ed una donna mi urtò, sobbalzando dopo aver udito un tonfo più forte proprio sopra di noi. La stanza ammutolì, ma solo per qualche
secondo, perché il silenzio era insopportabile e presto il caos riprese il suo dominio.

« Devo ripeterti per la millesima volta che non sono la tua famiglia e non mi devi alcuna spiegazione a meno che non voglia darmela tu? » disse,
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Come il fatto che la terra fosse rotonda.

Perché era rotonda vero?

Bè, a quanto pareva da dove stavo, Colombo c’era arrivato in America, dunque supposi di sì.

Tacqui qualche secondo, non sapendo se ridere o abbassare lo sguardo. Optai per entrambi ma la risata suonò terribilmente disarmonica.

« Blaine, non devi nulla a quella gente, e lo sai, devi decidere tu se vuoi sapere di più su tua madre, se vuoi essere coinvolto. Io non posso vederla
la mia, quindi darei qualsiasi cosa per poter stare un po’ con lei, ma qui non si tratta di me e non voglio obbligarti a fare ciò che farei io. » disse, e
nel frattempo due poliziotti entrarono nella stanza e portarono fuori una bambina in preda a quello che pareva un attacco di panico e, sporgendo
la testa fuori dalla porta, notai altre persone assistite dagli infermieri nel corridoio.

Tornai all’interno della stanza e, quasi per errore, incontrai gli occhi di Kurt e mi resi conto che trasparivano molta più preoccupazione di quanta
credessi.

« Devo pensare, credo. » spiegai, lasciando infine andare il suo braccio, mentre lui continuava meccanicamente a fissare con aria assente il punto
dove lo avevo stretto tutto il tempo.

« Sì, anche io credo. » mormorò, ricominciando a lanciare inconsce occhiate alla folla alla ricerca del padre.

« Lo troveremo. » ripetei per la millesima volta, cercando di farmi udire oltre la confusione.

Kurt mi guardò negli occhi, e fu davvero un colpo basso.

« E se non succedesse? » mi sfidò, dando voce al tarlo che gli stava divorando il cervello.

« Saremmo entrambi nella merda, perdonami l’espressione, ragion per cui lo troveremo. »

C’era poco da fare, in realtà, eravamo due idioti. Ce ne stavamo lì a concentrarci l’uno due problemi dell’altro, mostrando quando saremmo stati
coraggiosi a situazioni invertite.

Ed il tutto era parecchio inutile.

Si sentirono nuove urla e nuovi tonfi, e Kurt estrasse una bottiglia dalla sua borsa. Lo guardai accigliato.

« Nel caso te lo stessi chiedendo, sì, giro sempre con una bottiglia di scotch in borsa, ed ho voglia di bere, ti va? » domandò, sorridendo un po’ di
sbieco, speranzoso che gli facessi compagnia nella sua disperazione, e non ebbi il cuore di dirgli di no ed, in mezzo a tutte quelle persone troppo
occupate a badare a loro stesse per pensare a noi, ci scambiammo la bottiglia e tracanniamo un liquido che ci ustionava la gola, mentre i poliziotti
ci guardavano inermi. Nemmeno loro avevano il cuore di impedircelo.

Ed io continuai a seguire Kurt, perché non avevo la forza per oppormi e perché volevo essere almeno un po’ come lui. Nonostante la convivenza,
questa era una cosa che non era cambiata nel tempo. Lui che m’era parso un angelo ma che, alla fine, si era fatto contaminare dalla sua umanità
che fungeva da veleno e se ne era ammalato. Stare accanto a me non avrebbe mai funzionato come cura, ero un portatore neanche troppo sano.

Però lui era comunque bellissimo.

E che c’entrava questo pensiero sconclusionato con tutto il resto?

Davvero non lo so.

 

**

 

Erano passate le ore, non so quante, non volevo nemmeno saperlo, ma di colpo all’esterno cadde il silenzio, e le varie radioline degli agenti
iniziarono a gracchiare parole a me incomprensibili. Fuori doveva essere cessato il disastro, ed entro mezz’ora iniziarono ad evacuarci e a
liberarci all’esterno. Prima di lasciarci andare, all’uscita per le scalette, Zia Deliah chiedeva i nominativi e segnava una “V” accanto alla casella
compilata in precedenza. Quando arrivai mi chiese il nome e mi porse un biglietto sul quale scorsi un indirizzo che mi rifiutai di leggere e mi ficcai
in tasca, decidendo che ci avrei pensato. Se volevo sapere, se volevo parlare. Se volevo ricominciare ad avere un rapporto.

Per quel momento la risposta era no, ma chissà cosa avrei potuto decidere in futuro.

Io e Kurt uscimmo e ci guardammo attorno, in mortuario silenzio, e con un sorriso ebete e poco da sobri spalmato sulla faccia a causa della
residua semi-ubriacatura. Iniziammo ad allontanarci dalla folla e a camminare. Scoppiammo a ridere, sguaiatamente, e piangemmo per il
disastro che ci circondava, troppo brilli e sconvolti per smettere. Gli alberi erano sparsi come bastoncini di Shangai sulla strada e le foglie
formavano un tappeto cucito da mani inesperte che copriva ogni cosa. I grattacieli avevano i vetri rotti, e dentro le stanze si vedevano rami e
disordine dove il vento aveva passato la sua mano omicida.

Attorno a noi la gente usciva dai rifugi e si riversava nelle strade piangendo, chi rumorosamente, chi silenziosamente, mentre io e Kurt ridevamo
tra le lacrime, attraversando rovine e scarti, diretti verso un bar che speravamo fosse ancora in piedi.

 

**

 

Quando scorgemmo la facciata del locale Kurt alzò la testa ed iniziò a ridere, partendo a correre sconnessamente verso la porta. Si accorse in
ritardo che non vi era nulla sull’uscio, il tutto era stato divelto dai cardini e le finestre dell’abitacolo erano state sfasciate. Lo spettacolo era
grottesco e Kurt rallentò, quando raggiunse il buco lasciato dalla porta volata via, e vi si appoggiò con aria sconcertata, come se non si aspettasse
di vedere il risultato dell’uragano. Come se credesse che sarebbe rimasto tutto uguale e salvo. Probabilmente non era solito vedere il mondo
sbriciolarsi sotto suoi ai piedi. Io reagii diversamente, mi trovai a stringere i pugni e deglutire un nodo rigido in gola.

Kurt si voltò verso di me, con aria confusa, come se non capisse. Poi spalancò gli occhi, ed emise un suono come un fischio sussurrato, e capii che
aveva realizzato che ci trovavamo davanti a quello che era il cadavere della sua vita, della sua casa, di quella che era stata la sua realtà.

Si precipitò all’interno, ed era come se fosse passato qualcuno ed avesse rotto tutto ciò che era possibile. Il disastro era evidente. Kurt arretrò,
fino ad arrivare con le spalle al muro.

Non rideva più.

Ora nulla era divertente.

Mi girava la testa e volevo solo che smettesse, desideravo solo essere lucido. Mi maledissi per aver accettato quella bottiglia di scotch da Kurt.
Avrei dovuto essere responsabile, visto che sapevo quanto poco stabile sarebbe stato lui.

« No. » sussurrò Kurt, prendendo di tasca il cellulare come se tutto quanto gli stesse ricrollando sulle spalle all’improvviso. Digitò un numero e se
lo portò all’orecchio.

« Dai, dai, dai, dai. »

Ma nulla.

« Rispondimi, cazzo! » gridò, tentato di buttare l’apparecchio a terra, ma rendendosi conto che era il suo unico ponte con il padre, e che non
poteva rischiare di tagliarlo per nessun motivo.

Mi avvicinai, appoggiando la custodia della chitarra, che continuavo ad avere in spalla, sul pavimento, quasi come un mazzo di fiori su una tomba.

Kurt tratteneva i singhiozzi con forza, e sobbalzava per questo, con le labbra sigillate. Alle lacrime, però, non servivano palpebre per cadere dagli
occhi ed, infatti, gli si schiantarono sulle guance, e mi sentii come se fosse colpa mia.

Eppure non lo era.

« Kurt, risponderà, ascoltami Kurt… » cercai di prenderlo per la testa, appoggiandogli le mani sulle guance, appena sopra il collo, ma lui si
dimenò, con lo sguardo fisso, assalito da fantasmi che non riuscivo a vedere e, per la seconda volta in vita mia, non riuscii a trovare nulla di
divertente da dire che potesse sdrammatizzare.

« No, non dirmi nulla di tutto questo, non ti voglio sentire, sono le stesse cose che mi hanno detto quando… » gridò, nascondendosi dietro le
braccia e tenendomi lontano, come un incubo, come un mostro. Mi sentii di violare un luogo terribilmente intimo della sua mente, e feci un passo
indietro.

Quando andai via Kurt si immobilizzò, e mi chiesi se smise di respirare.

« Quando… »

Cercai di farmi piccolo, perché c’era del dolore che non avevo voluto vedere nello sguardo terrorizzato di Kurt.

Silenzio. Urla di persone fuori dal bar, lacrime e nomi che venivano chiamati per trovarsi. Era un disastro. Un disastro in piena New York.

Poi Kurt si decise a parlare.

« M-mamma. » disse solo, e per quanto avessi male la testa, fossi stanco, triste, demoralizzato, confuso, preoccupato, capii.

Sua madre doveva essere morta, e doveva aver fatto una brutta fine.

Molto brutta.

E Kurt non la aveva per nulla superata, semplicemente cercava di dimenticarsene per la maggior parte del tempo. Mi sentii così male, ed odiai
Burt per essere sparito, perché non sapevo cosa dire, non sapevo cosa fare in quel momento per cancellare l’espressione di assoluto dolore che
aveva preso il posto del viso di Kurt.

Dopo un paio di respiri profondi affondò la testa tra le mani e scivolò sulla schiena fino ad arrivare a terra e si appallottolò, mettendosi il viso tra
le ginocchia. Potevo percepire i suoi respiri tremanti oltre il caos generale che le mura bucherellate del locale non potevano tenere fuori.

Mi avvicinai lentamente, sentendomi incredibilmente ingombrante e fuori posto. Che dovevo dire, cosa avrei dovuto fare? Mi inginocchiai
accanto a lui e rimasi lì, sperando che la mia presenza fosse abbastanza.

Razza di idiota, mi dissi, ovvio che non lo è, questa non è una stupida telenovela argentina.

Però fu allora che accadde l’inaspettato. Due braccia mi circondarono e mi strinsero a sé, forte. Kurt mi stava abbracciando, e tremava, ed era un
abbraccio stretto che mi dava l’impressione di una fragilità paradossale.

« Non dirmi che andrà tutto bene. » balbettò, cercando di controllare la voce.

« Non andrà tutto bene. » ripetei, spaventato dalla carica emotiva che vibrava tra me e lui, sentivo le sue emozioni come elettricità statica e mi
sorpresi che non esplodesse in un’onda di disperazione.

Lo sentii quasi ridere, e credetti che stesse impazzendo. Rideva, piangeva, tremava, mi abbracciava, sussurrava. Era troppo per una sola
persona, come faceva a non spezzarsi? Non ero sicuro di aver mai sopportato così tanto. Forse sì, forse no, non riuscivo a pensare lucidamente.
Non riuscivo a far funzionare il cervello nella giusta direzione, allora avvolsi le braccia attorno al corpo di Kurt, visto che non sapevo proprio
come comportarmi. Lui lasciò andare un sospiro.

« Dimmi che saremo io e te a far andare le cose per il verso giusto. Promettimelo. Non voglio fra-frasi fatte che poi si trasformano in bugie. »
disse al mio orecchio, con il fiato tremante che mi scivolava tra i ricci.

Sconcertato aprii bocca più volte per rispondere.

« L-lo prometto. »

« Davvero? » fiatò.

« Sì. »

Le sue mani si strinsero sulla mia giacca e si concesse di fare uscire un singhiozzo dal suo petto.

« Grazie. » mormorò.

E rimasi immobile, pensando a cosa dire, ma non ero un poeta, o uno scrittore, o lo sceneggiatore di una di quelle stomachevoli telenovele
argentine, quindi l’unica cosa che riuscii a sussurrare fu:

« Prego. »






















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Spazio Autrice:
MIODDIO SONO RIUSCITA AD AGGIORNARE, ONORE E GLORIA!

No, veramente, mi sento in colpa da morire per questo assurdo ritardo. Purtroppo è l'anno della maturità
quindi devo mettermi sotto di brutto, in più devo fare esami di inglese, teatro, giornalino, canto, lavorare e 
in più la settimana prossima parto per lo stage di tre settimane, quindi la mia vita è un casino al momento
non abbiatemene a male se non riesco ad essere veloce ed efficiente, non ne sono in grado!

Per chi mi segue un po' conosce i miei enormi progetti, ed enormi progetti vogliono dire enorme lavoro!
In ogni caso grazie di cuore per l'attesa.
Siete fantastici, mamma mia.

Un bacio, e scusate l'angst, ma è una mia storia, prima o poi doveva spuntare per bene.

Noth
   
 
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