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Autore: GreedFan    25/09/2012    1 recensioni
Nel muso allungato brillavano occhi di un'intensità stupefacente, obliqui e misteriosi, silenti, ma al contempo umani, quasi quella creatura covasse nel profondo un'intelligenza e una consapevolezza scevre dalla sua natura animale. Azzurri, o forse dello stesso blu cupo dei lapislazzuli. Elisej deglutì, la mano che stringeva il pugnale scossa da tremiti, e osservò in silenzio il corpo del lupo, le ossa sporgenti sotto la pelliccia color acciaio, le zampe smagrite e le orecchie tirate all'indietro, che lo privavano di tutta la sua attitudine battagliera. Eppure, era terrificante.
Breve fiaba soprannaturale ambientata in Russia, in un periodo imprecisato del diciannovesimo secolo.
{Following the Big Damn Table #61, "Inverno"}
{Scritta per l'iniziativa "Prompt Mania" indetta da Alih sul Circolo dei Recensori di White Pages}
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Serjj


I am so alone, so cold
My heart is to scared to glow
I wish the sunrise to come
Take my soul from this cold
Lonely shell, I am free
Opeth ‒ Forest of October


I am the voice in the wind and the pouring rain
I am the voice of your hunger and pain
I am the voice that always is calling you
I am the voice, I will remain
Wolf Song


I boschi del Rjazan' erano i più belli di tutta la Russia.

Tra le paludi mefitiche che si stendevano a perdita d'occhio, fino a trascolorare nella linea sfocata dell'orizzonte, torreggiavano selve fitte e impenetrabili, stagliate sul manto candido della neve come colonne di ardesia nera che sostenevano la volta biancogrigra della cattedrale del cielo. Gli alberi erano neri, antichi quanto gli innumerevoli inverni che avevano indurito la loro corteccia, e protendevano i rami carichi di aghi scuri e minuscole pigne in raggiere perfette e imponenti, spesso ammantate di brina.

Elisej Nikolaevič Bogdanov viveva quasi al confine con la foresta, in un piccolo podere che la sua famiglia amministrava e coltivava per conto di un padrone lontano, che viveva quasi tutto l'anno tra Mosca e San Pietroburgo.

Per vivere raccoglieva la legna secca che trovava sul terreno gelato e disseminava la foresta di trappole; appena dodicenne, era il sesto di otto fratelli, e i proventi del podere non erano sufficienti per sfamare a dovere la sua numerosa famiglia. Spesso suo padre aveva parlato di cercare un nuovo posto dove stare, di rifugiarsi nella capitale ‒ dove pareva che il lavoro abbondasse e le occasioni di fare fortuna non finissero mai ‒ ma nessuno di loro era mai riuscito davvero a staccarsi dalla terra selvaggia a cui i Bogdanov erano rimasti aggrappati per generazioni. Non esisteva un passato che non comprendesse le insidie delle paludi e la bellezza maestosa e silente della foresta nera, non era nemmeno lontanamente concepibile un futuro immerso nei torbidi vicoli fumiganti di una città.

A volte, verso il finire dell'autunno, Elisej si sedeva nel terreno già coperto di neve e osservava il cielo. Specialmente di notte, quando il freddo si faceva pungente e la Luna brillava di un chiarore indicibilmente bello, come una lanterna magica che - il bambino l'aveva sentito dire da sua nonna - richiamava dal fitto della selva i demoni e la Baba Jaga. Ne aveva paura, ma al contempo sentiva una sorta di attrazione insopprimibile per il buio, che lo copriva di una coltre rassicurante appena venata d'argento; e poi, quando era particolarmente fortunato, Elisej riusciva a sentire i lupi.

Vivevano nelle profondità della foresta, molto più a nord dei villaggi. Il loro canto, però, proveniente da chissà quali regioni remote, squarciava il velo della notte come una nenia dalla delicatezza ineffabile, suggestiva; era un richiamo così dolce che a volte gli occhi di Elisej si riempivano di lacrime, e il cuore del ragazzino diventava un unico, pulsante nodo di struggimento.

Tutte le mattine, quando si recava nella foresta con la sua slitta per raccogliere legna da ardere, sentiva lo stomaco torcersi ad ogni scricchiolio, ad ogni ombra sospetta che credeva di scorgere dietro i profili degli alberi. Per quanto amasse ascoltarli, Elisej sapeva che i lupi erano creature pericolose da cui guardarsi, e temeva che l'inverno particolarmente rigido di quell'anno li avrebbe spinti fino ai centri abitati, in cerca di cibo. Tentava di tenersi al confine del bosco, ma quanto più tempo passava, tanto più diventava difficile trovare legna secca su percorsi battuti già mille volte; spesso era costretto ad avanzare per lunghi tratti nella boscaglia inesplorata, e allora infilava la mano sotto il caftano e accarezzava l'impugnatura gelida di un pugnale che suo padre gli aveva donato e che portava sempre con sé, alla cintura, per potersi difendere in caso di aggressione. In realtà era ben consapevole che un così misero pungiglione sarebbe servito a ben poco, qualora fosse stato preso di mira da un branco di lupi.

Era un giorno come tanti, quello in cui incontrò per la prima volta Serjj.

La neve scendeva dal cielo in fiocchi grossi e candidi, e la slitta piena per metà scivolava sul terreno con un silenzio irreale; Elisej aveva deciso di spingersi più in là del solito alla ricerca di legna, e, in previsione di un viaggio più lungo del solito, aveva portato con sé una fiaschetta di kvas e una pagnotta imbottita con due grosse salsicce affumicate. Era stato effettivamente un gesto poco saggio da parte sua, ma era ormai da mesi che non si sentivano più ululati ‒ forse, aveva detto suo padre, i branchi erano migrati da qualche altra parte.

Si chinò a raccogliere un ramo particolarmente robusto, che afferrò con entrambe le mani e cercò ‒ inutilmente ‒ di sollevare; stava per recuperare la posizione eretta e cercare un ciocco più piccolo, quando un gorgoglio basso e cupo lo fece sobbalzare.

Schizzò in piedi e sguainò il pugnale quasi per un riflesso involontario, le pupille che saltavano alternativamente dalla neve ai tronchi alle ombre nere che si addensavano in alcuni punti del sottobosco. In realtà non dovette cercare molto: ad appena un paio di metri, dritto davanti a lui, lo vide.

Si era avvicinato senza fare rumore.

Era un lupo grigio, né particolarmente grosso né particolarmente ferino, che lo fissava con le fauci appena spalancate e quel ringhio cupo che vibrava nel profondo della gola.

Nel muso allungato brillavano occhi di un'intensità stupefacente, obliqui e misteriosi, silenti, ma al contempo umani, quasi quella creatura covasse nel profondo un'intelligenza e una consapevolezza scevre dalla sua natura animale. Azzurri, o forse dello stesso blu cupo dei lapislazzuli. Elisej deglutì, la mano che stringeva il pugnale scossa da tremiti, e osservò in silenzio il corpo del lupo, le ossa sporgenti sotto la pelliccia color acciaio, le zampe smagrite e le orecchie tirate all'indietro, che lo privavano di tutta la sua attitudine battagliera. Eppure, era terrificante.

La sua sola presenza infondeva al ragazzo un'inquietudine insopprimibile, istintiva, che non riusciva a spiegarsi semplicemente con il fatto di trovarsi davanti ad un predatore. C'era qualcos'altro, qualcosa che aveva a che fare con l'inspiegabile solitudine del lupo - non attaccavano mai se non in branco, e questo Elisej lo sapeva per certo - o forse con l'espressione quasi triste di quegli occhi blu.

Molto probabilmente era stato attirato dal profumo della carne, e vista la sua magrezza non era difficile pensare che non mangiasse da giorni.

Diviso tra un terrore cieco che gli piegava le ginocchia e un senso quasi di compassione, Elisej staccò l'involto di carta con le provviste che aveva assicurato alla cintura e tentò di aprirlo con una mano sola, mentre l'altra brandiva ancora la lama. Il ringhio del lupo si fece più forte, ma l'animale non accennò ad attaccare: rimase perfettamente immobile, le orecchie piegate all'indietro e una supplica muta nello sguardo glauco. Non si mosse nemmeno quando il ragazzino riuscì ad aprire l'involto e gettarne il contenuto sulla neve.

Elisej lo fissò, aspettandosi un qualche movimento brusco, ma la tensione che gli correva lungo la schiena in una serie di brividi freddi finì per sciogliersi quando si rese conto che non sarebbe stato assalito. Forse, rifletté, tra i due il più spaventato era quell'animale affamato e debole che non doveva aver mai visto un umano ed era stato separato chissà come dal suo branco. Forse l'avrebbe lasciato andar via senza ucciderlo.

Lentamente, ogni nervo teso nel tentativo di non compiere gesti avventati, fece un passo all'indietro. Quando vide che la cosa non aveva suscitato nessuna reazione nell'animale, ne fece un altro e poi un altro ancora, fino ad urtare il bordo della slitta con il tallone.

A quel punto il lupo sollevò le orecchie e smise di ringhiare. Attraverso il velo della paura, Elisej riuscì comunque a pensare che quel gesto sembrava quasi incuriosito, come se il lupo si aspettasse di venir attaccato a sua volta e non riuscisse a comprendere del tutto i gesti dell'umano.

Era una supposizione completamente folle.

Eppure, quasi a dargli conferma di quanto aveva appena pensato, l'animale fece un passo in avanti ‒ circospetto, senza staccare lo sguardo dal suo ‒ e raggiunse la salsiccia; la afferrò tra i denti e la mandò giù praticamente intera, palesemente affamato, poi fece lo stesso con il pane. Quando sulla neve non fu rimasta che l'impronta del cibo, sollevò la testa di scatto e mosse la coda da destra e sinistra in quello che, seppur fugace, assomigliava inequivocabilmente ad un moto di allegria.

Nonostante tutto, però, Elisej non lasciò la presa sul pugnale.

La neve si accumulava sulla pelliccia del lupo.

Improvvisamente, dopo un tempo che al ragazzo parve infinito, la bestia voltò il capo e corse via, sparendo ad una velocità incredibile nel folto della foresta. Senza un rumore, così com'era arrivato, e lasciando dietro di sé soltanto una fila confusa di impronte.


***


Arrivò a casa con il fiatone e il cuore in procinto di esplodere.

Gettò la slitta semivuota in un angolo della legnaia e spalancò la porta di casa con una spinta frettolosa, entrò e se la richiuse alle spalle con più veemenza di quanto avrebbe voluto. I suoi genitori e i cinque fratelli più grandi erano fuori, forse a spaccar legna o a sorvegliare il lavoro degli altri contadini - benché povero, Nikolaj Bogdanov era lo starosta del podere; accanto al grande camino acceso giocavano Nataša e Fjodor, i più piccoli della famiglia, mentre una vecchia vestita assai miseramente ricamava accanto ad una finestra, il viso morbido solcato da una miriade di profondissime rughe e incorniciato da una nuvola di soffici capelli bianchi. Deklabrina Ljubova aveva ormai quasi sessantadue anni, ed era l'unica nonna vivente di Elisej.

«Babuška!» Esclamo il ragazzino, avvicinandosi quasi di corsa alla vecchia «Babuška, è successa una cosa terribile!»

Deklabrina sollevò lo sguardo dal lavoro di cucito, non senza una certa flemma, e fissò Elisej con i suoi piccoli occhi infossati, gli stessi occhi grigio chiaro di tutti i Bogdanov. Poi accarezzò la testa bionda del nipote, la mano tremante, e lo attirò delicatamente a sé, abbracciandolo piano.

«Che ti è accaduto, moj malenk'ij?»

«Nella foresta, io...» il ragazzino rabbrividì, prima di affondare il viso nel grembo della nonna «... ho visto un lupo, babuška... un lupo grigio con gli occhi blu al margine della foresta».

La donna tacque per un attimo, profondamente assorta, poi la sua bocca sottile e raggrinzita si distese in un sorriso dolce e appena ironico; gli occhi fattisi improvvisamente più sottili, come lame di acciaio scintillante, parlò con voce particolarmente carezzevole.

«Devi averlo sognato, moj malenk'ij. Forse è stato il freddo eccessivo... dirò a tuo padre di non mandarti più fuori quando nevica».

«Ma-»

«Non esistono lupi dagli occhi azzurri, Elisej. Essi sono figli della notte e delle tenebre, per questo i loro occhi non rifletteranno mai la purezza del cielo... avrai certamente visto un cane randagio, o forse uno spiritello della neve ti ha giocato un brutto tiro».

Il ragazzino sollevò gli occhi grigi e guardò la nonna con espressione trasognata. Uno spirito... forse che così si potesse spiegare il comportamento del lupo?

«Lo pensi davvero?»

Annuì stancamente, Deklabrina, prima di riprendere il proprio lavoro di cucito e ricominciare pazientemente dal punto in cui si era interrotta; le dita rugose dalla pelle sottile vagarono per un po' sulla stoffa lisa, prima che riuscisse a trovare l'ago. A quel punto, rispose.

«La foresta non ci racconta tutti i suoi segreti, Elisej. Essa vive e respira e conosce da tempo immemore, e noi non siamo che granelli di sabbia trasportati dalla corrente di un fiume rispetto a lei. Quel che è certo è che un lupo con gli occhi azzurri non esisterà mai».

Il ragazzino annui, poi ringraziò la nonna e si sedette in un angolo, pensieroso, osservando distrattamente le fiamme che guizzavano nel caminetto.

In quel momento germogliò in lui la segreta speranza di rivedere il lupo ‒ lo spirito della neve ‒ i cui occhi così meravigliosamente azzurri non volevano saperne di abbandonare la sua mente.


***


Lo incontrò una seconda volta soltanto dopo sette giorni.

Ogni mattina aveva setacciato la foresta, battendo nuovi percorsi ed errando senza motivo in luoghi sempre più lontani, nella speranza di imbattersi di nuovo nel suo lupo. Sapeva che si trattava di un comportamento arrischiato, che quella era pur sempre una belva affamata e che per poco non l'aveva morso, ma un angolo recondito del suo cuore gli sussurrava, traditore, che non c'era nulla da temere in quella creatura ‒ che l'umanità insita nei suoi occhi sarebbe bastata a garantirgli la salvezza.

Vagabondò così a lungo che ‒ quando finalmente si imbatté nell'oggetto della sua ricerca ‒ ne avvertì quasi la presenza fisica, un'entità che galleggiava a metà tra il sogno e la più spietata concretezza e attendeva ferma, nella neve, che il piccolo umano dall'aria spaurita facesse la sua mossa.

Se lo trovò alle spalle, in una piccola radura delimitata da un ovale di bassi cespugli spinosi.

Nessun ringhio, stavolta, e le orecchie erano ben dritte e l'aspetto un po' meno smunto. Elisej sapeva perché: non aveva più raccolto i conigli catturati dalle trappole, immaginando che il lupo ne avrebbe approfittato per sfamarsi. Persino il pelo sembrava più lucido, folto e sano.

«Hai...» si schiarì la voce, in imbarazzo davanti allo sguardo obliquo dell'animale «... hai mangiato i miei conigli, non è vero?»

Per qualche assurda ragione, poteva quasi credere di venir capito.

«Sai, noi abbiamo dovuto farne a meno. Però noi non siamo magri e affamati come eri tu, perciò credo che sia giusto così».

Aveva portato con sé della carne affumicata tagliata a strisce sottili ‒ anche quella, per far sì che l'animale lo localizzasse in qualche modo. Ne prese una fetta, ruvida e indurita dal freddo, e allungò la mano verso il lupo, scuotendo piano il polso. L'aveva visto fare a molti dei suoi coetanei con i propri cani.

«Potrei chiamarti Serjj». Sussurrò, senza staccare gli occhi da quel muso allungato, elegante «Tu non ce l'hai un branco, vero? Non hai una famiglia o un posto dove stare».

Serjj si avvicinò con molta lentezza, un passo alla volta; allungò il muso verso la carne, ed Elisej poté vedere come il suo collo fosse grosso e forte, eppure scosso da tremiti, mentre le zanne ‒ candide e ben più lunghe di quelle di un cane ‒ biancheggiarono per un attimo quando spalancò la bocca per addentare il cibo.

Il ragazzino trasalì, ma non si scostò.

Ci fu un momento, con i suoi occhi grigi riflessi nelle iridi blu, in cui Elisej si sentì completamente rapito - ipnotizzato, quasi, caduto sul fondo della voragine silenziosa che si spalancava nelle pupille del lupo. Era come se gli parlasse ‒ in un modo tutto suo, certo, fatto di guaiti e brevi scatti della coda e tremori del pelo ‒ comunicandogli che, comunque il ragazzino si fosse comportato, non gli avrebbe fatto del male. Non più.

Si era forse conquistato la fedeltà della fiera? Un'idea lusinghiera, quella: la prospettiva di ricevere gratitudine da parte di una creatura tanto sfuggevole e ‒ a quanto se ne diceva ‒ maligna, faceva sentire Elisej speciale, come se la foresta avesse scelto proprio lui, accogliendolo amorevolmente tra le sue braccia irte di spine e aculei di ghiaccio. Sapeva per certo che un simile onore non era toccato a nessuno degli altri bambini che conosceva, e tantomeno ai suoi fratelli maggiori ‒ che suo padre apprezzava tanto perché potevano aiutarlo con il lavoro nei campi, mentre lui era di costituzione troppo fragile per i lavori di fatica.

Spinto da un desiderio che non fu in grado di ‒ o non volle ‒ frenare, il ragazzino protese con lentezza una mano e sfiorò il capo di Serjj, esitante. Quello ringhiò ‒ e fu un momento di terrore assoluto, in cui il cuore di Elisej smise di battere e le sue membra si irrigidirono di colpo ‒ ma poi sembrò calmarsi, e sostituì a quel verso un silenzio carico di tensione. L'umano sapeva che, se avesse sbagliato qualcosa, molto probabilmente tutti i progressi fatti fino a quel momento sarebbero sfumati come neve al sole; sapeva anche che non avrebbe avuto una seconda possibilità, e che un amico come Serjj non si sarebbe mai più ripresentato, nella sua vita.

Così, preso un respiro profondo, abbassò delicatamente il palmo e lo fece scorrere nel pelo grigio, carezzandolo.

Fu un sensazione incredibilmente dolce. La pelliccia era folta, serica e calda, probabilmente la cosa più soffice che Elisej avesse mai toccato; poteva sentire le ossa definirsi sotto la pelle, ad un soffio dalle sue dita, e le curve svettanti e più rigide delle grandi orecchie. Per tutto il tempo in cui gli accarezzò la testa ‒ e fu molto, quel tempo, anche se nei ricordi del ragazzino si condensò in pochi attimi di felicità pura ‒ il lupo rimase perfettamente immobile, lasciando che le dita dell'umano lo toccassero come avrebbero fatto con un qualsiasi cane. Alla fine mosse persino la coda in brevi oscillazioni nervose, da destra a sinistra, a testimoniare che quei gesti non gli dispiacevano affatto.

Elisej ritrasse la mano a malincuore. Serjj scodinzolò, drizzando le orecchie, poi scosse piano la testa e, dopo essersi guardato intorno, enigmatico, per qualche secondo, corse via.

Scomparso, un'altra volta.


***


«Oči golubije, oči strastnye, oči žgučie i prekrasnye...»

Elisej cantava, avanzando nella neve che gli arrivava fin quasi alle ginocchia. Cantava un po' per sentirsi meno solo ‒ la foresta appariva ancora più enorme, ammantata di quel silenzio innaturale ‒ un po' per farsi coraggio, perché non era sicuro che, quando suo padre avesse scoperto quello che aveva combinato, sarebbe riuscito a trattenersi dal prenderlo a bastonate.

Tra le braccia stringeva un'oca sgozzata. Il sangue caldo scivolava sulla neve in gocce dense, dall'odore fortissimo e dolciastro, e il ragazzino si augurava che Serjj lo percepisse e arrivasse in fretta ‒ prima di qualche orso o, peggio, di un branco di suoi simili.

Aveva rubato quell'oca a una famiglia benestante che viveva a poca distanza da loro, ed era sicuro che l'avrebbero scoperto. Come poteva spiegare a suo padre che non era riuscito a prendere nemmeno un coniglio, che non poteva azzardarsi a sottrarre troppe provviste dalla cantina e che Serjj si era fatto sempre più magro, eppure sempre più amichevole e inspiegabilmente bello? No, non avrebbero mai capito.

Come potevano capire, quando non avevano mai compreso neppure lui, che pure era un essere umano e condivideva il loro stesso tetto? Se avesse raccontato qualcosa di Serjj, come minimo avrebbero disseminato il bosco di trappole per acchiapparlo e ricavarne pelliccia da vendere, oppure gli avrebbero dato la caccia per il puro gusto di farlo. Il solo pensiero lo disgustava al punto da fargli accapponare la pelle.

Poi, il filo dei suoi pensieri fu interrotto da una radice molesta che si frappose tra il suo piede e il terreno.

Inciampò, imprecando ben più volgarmente di quanto non fosse concesso ad un ragazzino della sua età, e cadde faccia avanti nella neve. Quando tentò di rialzarsi si accorse con orrore che la kosovorotka, laddove il cappotto si era aperto nella caduta, era tutta macchiata di sangue. Suo padre l'avrebbe ammazzato.

«Supponevo che fossi un pazzo avventato, ma fino a questo punto... mi stupisci, krapivnik».

Si voltò così velocemente da scivolare nella neve calpestata e cadere di nuovo, stavolta seduto. Il suo primo pensiero fu che non conosceva quella voce, e che quindi poteva escludere un contadino del villaggio alla ricerca dell'oca scomparsa. Il secondo pensiero si dissolse come nebbia, quando mise a fuoco esattamente chi aveva parlato.

«Serjj?» Sussurrò, come spiritato, inclinando la testa di lato e spalancando gli occhi «Allora la nonna aveva ragione... sei uno spirito della neve».

Davanti a lui, accucciato sul manto bianco senza sprofondare, c'era un ragazzo di forse sedici anni. Aveva la pelle così chiara che nell'incavo dei gomiti, sul petto e sulle cosce si potevano scorgere agevolmente le vene bluastre, e, nonostante fosse nudo, non sembrava aver freddo. Nel complesso era piuttosto gracile, e il viso, sottile e appuntito, aveva tratti molto delicati, scevri dalla pesantezza granitica di quelli russi: gli occhi grandi, che su quel viso umano sembravano ancora più blu, il naso dal disegno aristocratico e le labbra carnose, appena arrossate dall'aria fredda. Una matassa di riccioli neri come petrolio gli ricadeva sulla fronte e sul collo, in spirali aggrovigliate che riflettevano la luce e si coprivano di riflessi verdastri.

Era in assoluto la persona più bella che Elisej avesse mai visto, e registrò quel pensiero con una punta di imbarazzo.

«Non sono uno spirito della neve».

«Però sei Serjj, non è così?»

«Sono quello che tu vuoi che io sia».

Elisej tacque per qualche secondo, ragionando su quella frase complicata senza, alla fine, riuscire a comprenderla. Per interrompere il silenzio afferrò l'oca e la offrì a Serjj, scuotendola leggermente.

Il ragazzo-lupo increspò le labbra in un sorriso divertito, prima di afferrarla con un movimento fulmineo.

«Grazie. Ma si arrabbieranno con te».

«Come mai non sei più un lupo?» Era una domanda ingenua, ma Elisej era un bambino cresciuto per tutta la vita ascoltando leggende che parlavano di creature capaci di mutare forma, di corvi parlanti e streghe che risiedevano in case sorrette da zampe di gallina. Era più strana l'idea di aver fatto amicizia con lupo vero piuttosto che quella di aver incontrato uno spirito della foresta, anzi: il ragazzino si sentiva elettrizzato.

«Mi irritava il fatto di non poterti parlare. Volevo... ringraziarti». La voce gli sfuggì in un sussurro dolcissimo, ed Elisej distinse le tracce di un accento diverso dal suo. Non seppe dire quale.

«Per la carne?»

«No. Per non essere scappato». Di fronte allo sguardo disorientato del ragazzino, Serjj sorrise di nuovo ‒ aveva un sorriso caldo, trascinante, eppure quasi ferino «Di solito tutti scappano, quando mi vedono. E io volevo sapere se saresti scappato anche adesso, adesso che‒»

Si interruppe di colpo e abbassò lo sguardo. Si muoveva a scatti, come un animale spaventato, ed Elisej non faticò a scorgere la mimica del lupo nei movimenti a tratti imprevedibili del suo corpo.

«Io non ho paura di te». Affermò, candidamente. Serjj arrossì, ma il ragazzino non ci fece nemmeno caso. «Non ho paura di te perché non hai tentato di uccidermi e perché hai mangiato dalle mie mani... ti sei fidato di me, no? Non temere, non racconterò a nessuno il tuo segreto. Possiamo essere amici?»

Serjj sorrise, poi si alzò in piedi. Gli appoggiò una mano sulla testa, tra i capelli biondissimi, e la mosse piano, come saggiando la consistenza della chioma dorata che gli scivolava tra le dita; Elisej, che non sapeva cosa fare o dire per evitare di spezzare l'atmosfera di quiete perfetta che si era creata tra loro, rimase semplicemente in silenzio e socchiuse gli occhi, contemplando minuziosamente le sensazioni che gli derivavano da quel contatto impacciato.

«Allora è questo,» mormorò Serjj «è questo che si prova».


***


Un anno dopo Elisej Nikolaevič Bogdanov scomparve e non fu mai più visto.

I paesani parlarono a lungo di un demone residente nella foresta, della Baba Jaga rapitrice di bambini. Cercarono il corpo di Elisej per molto tempo, e alla fine trovarono una traccia; a molte miglia dal villaggio, in una zona della foresta dove difficilmente i contadini e gli spaccalegna si spingevano, si imbatterono in diverse impronte di lupo.

"Sarà stato divorato". Ipotizzò qualcuno.

"Ma non dite sciocchezze!" Fu la replica "Questi sono soltanto due, una madre e un cucciolo, non si avvicinerebbero mai ai villaggi!"

E in effetti nella neve bianchissima spiccavano due file di impronte, che a tratti si confondevano le une nelle altre.

Grandi, alcune, eppure poco profonde.

Piccole, altre, e marcatamente più incerte e scavate.

























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Immagino vi sarete accorti che questa storia è praticamente l'idiozia più colossale che abbiate mai letto, e non mi opporrò se vorrete insultarla come vi parrà e piacerà. È molto affrettata, lo so, e ha pure il finale aperto (argh!) ma c'è un motivo ben preciso per tutto ciò: questa shot dovrebbe essere uno dei tanti prequel di una long a cui sto lavorando da un po' di tempo, e che vede coinvolte tutta una serie di creature del mondo sovrannaturale. Suddetta long non è stata ancora pubblicata, quindi cuccatevi l'orrido prequel xD

L'ho scritta per l'Iniziativa Prompt Mania indetta da Alih sul Circolo dei Recensori di White Pages, e ho utilizzato il prompt #20, "Lupo Grigio". White Pages è un nuovo sito di fanfiction senza restrizioni a cui vi consiglio vivamente di dare un'occhiata.

Ho usato anche il prompt #61 della Big Damn Table, "Inverno". Sì, sono una donna banale.

L'ambientazione russa deriva da una mia passione viscerale per Tolstoj e Dostoevskij... era da secoli che volevo scrivere qualcosa ambientato nella terra di quei grandi scrittori, e finalmente ci sono riuscita!

Ci vediamo, alla prossima!

See you soon,

Roby


   
 
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