Titolo: We'll
meet again soon
Personaggi: Shoma,
Ringo.
Pairing: Shoma/Ringo.
Rating: Giallo.
Genere: missing
moment, angst tendente al fluff - boh, non lo so manco io.
Avvertimenti: One-shot.
Note: Devo seriamente spendere qualche parola su ciò che ho scritto stavolta? xD No, vabbeh, il mio pensiero è sempre lo stesso. Se è la prima volta che leggete qualcosa di mio, allora andatevi a leggere le mie note negli altri "lavoro", se invece mi seguite da un po'... beh, sapete già dove andrò a parare, quindi è inutile star qui ad occupare spazio con dei caratteri inutili.
Disclaimer: Come al solito, questi personaggi non sono miei altrimenti The lives <- -> The Scorpion fire 'sta ceppa!
We'll
meet again soon
Il
vuoto in quella casa era percepibile anche da là, fuori al
freddo.
Sulla
porta di quella grigia abitazione colorata, Ringo aspettava fissando il
campanello in trepida attesa. Sapeva che Shoma non era ancora arrivato,
che
Himari se n'era andata e che Kanba li aveva abbandonati, quindi suonare
sarebbe
stato inutile. Rimase immobile, stringendo fra le mani la borsa.
“Oginome?”
Sentir
la sua voce la fece sobbalzare – era quella voce
così gentile e pacata allo stesso
tempo, quella voce che un tempo aveva detestato per le continue
proteste. Shoma
aveva sottobraccio la solita borsa di scuola e attorno al collo portava
una
sciarpa lilla, segno che l'inverno era arrivato anche per lui
– nonostante la
settimana prima avesse insistito tanto che infondo non
sentiva così
tanto freddo quando usciva di casa. Aveva i vestiti un po'
stropicciati, come
se non fossero stati stirati ed era una cosa insolita conoscendolo bene.
“Bentornato
a casa, Shoma.”
“Cosa
ci fai qui? Lo sai che...”
Senza
aspettare che finisse, Ringo gli afferrò una mano,
spingendolo con un sorriso
verso la porta. Sapeva, non c'era bisogno che lui le ricordasse ogni
cosa, non
aveva bisogno che anche lui provasse ad inculcarle del buon senso.
Aveva deciso
ormai da tempo, Ringo, e non si sarebbe di certo tirata indietro in
quel
momento – non quando Shoma era rimasto solo, non quando
sapeva benissimo che
era più vulnerabile che mai e che sarebbe bastato poco
perché cadesse a pezzi.
“Perché
non entriamo in casa a parlare, eh? Qui fa così freddo, non
trovi?”
Gli
regalò un grande sorriso insieme alle sue parole. Non
avrebbe permesso a
nessuno – nemmeno al destino – di rendere triste
Shoma. Questo perché quel
ragazzo si meritava un po' di felicità, un po' di
quell'illusione che gli
individui spesso condividevano e che, col tempo, finiva per diventare
una
realtà. Infondo, nulla era veramente reale in quel mondo,
finché veniva provata
da una persona sola. Nessuno poteva esistere da solo nel proprio mondo,
perché
quella non era un'esistenza completa – era vuota, come casa
Takakura in quel
momento. Perciò, lasciare solo Shoma in quell'istante
– quando gli aveva
promesso che non lo avrebbe abbandonato – sarebbe stato come
colpire le
fondamenta di quel fragile mondo che il ragazzo s'era costruito per
ovviare
all'assenza dei genitori e all'odio che le persone provavano nei
confronti
della sua famiglia.
Quando
entrarono nella piccola e calda casa dei Takakura, senza bisogno che si
scambiassero alcuna parola, Shoma iniziò a sfilarsi la
giacca e Ringo l'aiutò,
afferrandola e reggendola mentre lui si sistemava la camicia ed i
pantaloni.
Sedendosi davanti al basso tavolino, l'uno di fronte all'altra,
però,
quell'intimo silenzio iniziò quasi a sembrare imbarazzante e
scomodo per Ringo.
“Hai
sentito i telegiornali? Dovrebbe nevicare a giorni!”
Shoma
fece appena un cenno con la testa, continuando a fissare lo schermo
vuoto e
pulito del televisore. C'era tristezza nei suoi occhi, non serviva
chissà che
cosa per capirlo. La sua famiglia l'aveva abbandonato, era rimasto solo
con il
fantasma dei ricordi che lo tormentava.
“Ehi,
Shoma...”, allungò la mano sul tavolo, incontrando
quella fredda del ragazzo.
Fu
quel gesto a costringerlo a voltarsi verso di lei e, per la prima volta
da
quando l'aveva incontrata sulla porta di casa loro – sua,
ora che anche
Kanba ed Himari s'erano andati – accennò un
sorriso. Un sorriso falso,
comunque, e Ringo se ne accorse subito. Non avrebbe detto nulla,
però, avrebbe
lasciato che lui le mostrasse quell'illusione e di certo non l'avrebbe
nemmeno
fermato quando avesse intrecciato le dita con le sue.
“Scusami,
Oginome...”, la sua voce non era altro che un sussurro che si
perdeva fra
quelle quattro mura e quel tavolino che li separava.
Un
caldo sorriso si dipinse sulle labbra della ragazza, che strinse con
forza
quelle dita fra le sue ed abbassò lo sguardo. Com'era finita
per innamorarsi di
quel ragazzo che, appena conosciuto, aveva considerato solo un ostacolo
fra lei
e Tabuki? Come si era innamorata di quel ragazzo strambo che non aveva
fatto
altro se non rovinare tutti i suoi piani per sedurre il professore?
“Vuoi
un po' di tè?”
Forse,
però, ripensandoci col senno di poi, era sempre stata
innamorata di Shoma... o
era sempre stata destinata ad innamorarsi di lui. Era precipitato nella
sua
vita in un lampo e l'aveva cambiata completamente, stravolgendo tutto
ciò in
cui aveva creduto e tutto ciò che aveva perseguito per anni.
Era stato lui a
far terminare quella follia che l'aveva spinta ad essere una stalker,
era stato
lui a salvarla svariate volte... e adesso toccava a lei aiutarlo,
tendergli la
mano quando ne avesse avuto bisogno.
“Mh,
sì. Grazie.” Ringo rispose esitante, lasciando
andare quella mano riluttante,
stringendo poi l'aria quando lui sparì in cucina.
“Posso accendere la
televisione?”
“Certo.
Siediti pure sul divano, se per te è più
comodo.”
“S-sto
bene qua a terra. Grazie.”
Prese
il telecomando fra le mani ma, nonostante gli avesse chiesto se poteva
accendere il televisore, non toccò alcun tasto e rimase a
contemplare lo
schermo nero. Preferiva ascoltare i rumori della strada, l'acqua che
bolliva e
il rumore delle tazze mentre Shoma le posava su un piccolo vassoio.
“Vuoi
dello zucchero?”
“Un..
un po' sì, grazie.”
Non
passarono troppi minuti prima che il ragazzo tornasse nel silenzioso
salotto,
porgendole la tazza ed allungando verso di lei un piccolo barattolino
– era
decorato, con disegnati dei fiori colorati sotto la scritta zucchero.
“Mettine pure quanto vuoi.”
“Grazie...”
Un
sorso, il silenzio quasi palpabile che permeava quel piccolo angolo di
mondo.
“Mh,
non volevi accendere il televisore?”
“Ho
cambiato idea...”, la tazza stretta fra le mani, poggiata
alle labbra. Lasciò
che il calore la riscaldasse, le gambe ben strette contro il petto.
“Shoma”, un
sorso breve, “ti do fastidio?”
Voleva
saperlo. Alcune volte – spesso – aveva il
presentimento d'essergli fra i piedi,
un'inutile distrazione che lo scocciava soltanto. Infondo, lei aveva
pensato lo
stesso di lui all'inizio.
“Certo...”,
Ringo sentì una stretta alla bocca dello stomaco e subito
alzò lo sguardo verso
di lui, “... che non mi dai fastidio. Perché
dovresti?”
“E-era
solo una domanda...” il tè le riscaldò
la gola e subito il groppo che le
provocava quell'insopportabile dolore all'altezza dello stomaco si
sciolse,
scomparendo quasi come non fosse nemmeno mai esistito. Shoma era in
grado di
farla preoccupare con niente, ed era altrettanto capace di
tranquillizzarla con
poche, semplici parole pronunciate con la lentezza di una calda
giornata estiva
che tardava a cessare.
Quel
sottile velo di silenzioso imbarazzo tornò ad aleggiare fra
di loro e Ringo,
posando delicatamente la tazzina nel suo piattino, sospirando e
lanciando uno
sguardo carico di determinazione verso il ragazzo, allungò
una mano sul
tavolino, verso quella di lui. L'avrebbe afferrata, se lui non si fosse
ritratto tanto in fretta.
“Che
c'è, Oginome?”
“No, nulla...” ogni tentativo era vano. Era come se
avesse il timore di
toccarla, anche solo di sfiorarla. Forse, alla fin fine, il suo istinto
non
l'aveva tradita: Shoma non provava per lei ciò che lei
sentiva nei suoi
confronti. Probabilmente la vedeva solo come un'amica di Himari, una
stalker
che aveva messo apposto la testa, ma che rimaneva tuttavia invasiva.
Eppure
Shoma aveva rischiato la vita per lei, quella volta che s'era buttato
di
slancio fra Ringo e quella macchina in corsa sotto la pioggia battente.
Shoma
s'era preoccupato per lei, l'aveva spinta a vivere la propria vita, non
quella
che Momoka aveva pianificato sul diario.
“Shoma,
io...”, la mancina stretta al petto e lo sguardo basso, fisso
sul tavolino.
“Qualcosa
non va, Oginome? Oggi sei strana...”, anche
più del solito meditò
d'aggiungere alla frase, optando poi per la scelta migliore: tacere.
“Posso
stare a casa tua stanotte?”
L'aveva
detto d'un fiato, rossa in volto, ma con uno sguardo deciso negli occhi
ora
fissi in quelli del ragazzo che la guardava stupito, come se non avesse
afferrato il senso della sua domanda.
“...
Perché?”, fu l'unica parola che riuscì
a proferire, prima d'immaginarsi steso a
terra accanto a Ringo, la schiena di lei rivolta verso di lui, i
capelli che
ricadevano morbidi sul cuscino e quel corpo che se ne stava
là, muovendosi
ritmicamente ad ogni respiro, chiedendogli di toccarlo. C'era tuttavia
qualcosa
di sbagliato in quell'immagine e Shoma scosse la testa, chiudendo per
un attimo
gli occhi.
“E-ero
solo preoccupata per te! Volevo assicurarmi che tu stessi bene... sai,
ti vedo
un po' giù da quando...”
“Ti
sarei
grato se restassi per questa notte, Oginome.”
Ringo
alzò il capo di scatto, incredula delle parole che Shoma
aveva appena detto.
Era imbarazzato, nervoso, tuttavia Ringo percepì ancora in
lui quel vuoto che
l'aveva portato a chiudersi in sé. Si costrinse a sorridere
la ragazza,
decidendo di non domandare nulla – per non costringerlo sulla
difensiva, per
evitare che cambiasse idea e la mandasse a casa.
Shoma
aveva insistito tanto perché non dormisse a terra nel
salotto. Le aveva
proposto il divano (decisamente comodo, ma un po' troppo piccolo per
lei) e le
aveva addirittura preparato una coperta e diversi cuscini per
assicurarsi che
non le mancasse nulla – un'ospite, per quanto stalker fosse,
era sempre
un'ospite.
Quando
spensero il televisore e decisero che era giunto il momento di dormire,
Shoma
si distese su di un fianco, dando la schiena alla ragazza che lo
fissava
preoccupata da ore. Non riusciva a sopportare il peso del suo sguardo
carico
d'apprensione nei suoi confronti. Era troppo per lui, che non meritava
di
ricever nulla di buono dalla vita.
“Shoma”,
parve più un respiro che il suo nome, sovrastato dal rumore
di un'auto di
passaggio davanti a casa loro. “Shoma, parlami.”
Sapeva
di poter resistere alle suppliche di Oginome... almeno
finché non si girò e la
vide in volto, lo sguardo serio, le labbra piegate in un sorriso subito
tradito
dagli occhi lucidi.
“Oginome,
cosa...”
“Sono
un fastidio per te, non è forse vero?”
Era
la seconda volta quel giorno che quella parola usciva dalla labbra
rosee della
ragazza: “fastidio”. Com'era possibile che pensasse
una cosa simile? Certo, il
comportamento che aveva nei suoi confronti non era sempre stato il
massimo –
soprattutto in quelle settimane – però gli pareva
impensabile che lei credesse
d'esser un fastidio per lui, soprattutto quando la considerava... come
la
considerava? C'erano molte parole per definirla, ed erano una
più imbarazzante
dell'altra.
“Rispondi,
idiota!”, fu il cuscino che lo colpì dritto in
faccia a risvegliarlo dai suoi
pensieri.
Ringo
piangeva sommessamente, stretta alle coperte e col volto coperto dalle
mani – e
gli tornò in mente quella notte, sotto la pioggia battente.
“Non
sei un fastidio. Davvero. Quindi, per favore, smettila di piangere,
Oginome...”
Le sfiorò i capelli con una mano, in ginocchio davanti a lei
e lo sguardo fisso
laddove sapeva che avrebbe visto i suoi occhi, se solo avesse alzato
appena il
capo. “Perché credi di essere un
fastidio?”
“Tu...
per il modo in cui mi tratti, Shoma. Pensavo potessimo essere almeno
amici, invece tu ti comporti in quel modo... e poi io mi
sono...”
Era
spiazzante ascoltarla mentre singhiozzava, qualche parola incoerente
che ogni
tanto sfuggiva dalle labbra.
Era
imbarazzante pensare come sarebbe potuto finire quel 'e poi io
mi sono'.
E
Shoma,
arrossendo lievemente, mordendosi un labbro e decidendo infine che non
gli
sarebbe importato se Oginome l'avesse preso poi a pugni, le prese il
capo fra
le mani, costringendola a fissarlo negli occhi e posò le
labbra sulle sue –
bagnate di lacrime, ma pur sempre morbide come le aveva immaginate.
“Ecco,
non sei un fastidio... vedi?” ed il peso dello sguardo della
ragazza divenne di
nuovo insostenibile. La sua espressione era un misto di tristezza,
perplessità... e gioia.
Fu
lei questa volta ad accarezzargli il viso, scivolando dal divano per
poi
baciarlo – un bacio inizialmente casto, che divenne qualcosa
di più quando le
morbide curve sul suo corpo s'adagiarono su quello di lui.
Era
come l'aveva sempre immaginata – come l'aveva vista quella
notte, senza il
leggero abito da notte che nascondeva davvero poco del suo corpo che a
lui
parve così perfetto.
Era
l'unica ragazza che avesse mai visto con quegli occhi, che avesse mai
potuto
toccare... e con molta probabilità sarebbe stata anche
l'ultima. Era possibile
che qualcun'altra si innamorasse di lui, così... normale,
privo di qualsiasi
cosa che lo potesse rendere interessante?
“Perché
Oginome?”, le braccia che l'avvolgevano scesero verso i
fianchi per fermarla.
“Non
c'è un perché, Shoma”, la sua voce
ansimante era quasi un bisbiglio nel suo
orecchio, “potrebbe essere il destino... o la prova che
possiamo ribellarci al
nostro fato. Forse non eravamo nemmeno destinati ad incontrarci...
però è
successo e mi sono innamorata di te. E non so il perché, ma
non mi importa. Non
m'importa davvero, Shoma... e questo perché mi sento felice.
Voglio solo...
stare con te.” Sembrava quasi una supplica, sussurrata con la
voce più dolce
che avesse mai sentito.
Pensando
alla Ringo di qualche mese prima, quella infilata sotto la casa di
Tabuki, e
comparandola con quella che ora era stretta a lui ed impegnava ogni
fibra del
suo corpo, Shoma sorrise. Sorrise contro le labbra della ragazza,
pensando che,
probabilmente, il destino gli stesse seriamente ridendo in faccia.