La leggenda di Ippodamia.
Ogni finale mi sconvolge e mi tormenta.
Tormenta perché mi chiede di essere scritto.
Sconvolge perché non vorrei scriverlo.
Cit. Lunadreamy.
Ho amato questa storia, grazie a chi mi ha seguita.
Sconvolgi con le tue furie gli empi
Dèi protettori della casata.
Che la rabbia dei progenitori
perduri e una lunga serie d’infamie passi ai figli dei figli.
Nessuno abbia modo di aborrire il
crimine compiuto, ma sempre ne sorga uno nuovo, e da uno più d’uno.
Perché la somma dei delitti deve
crescere ogni volta che uno di essi trovi vendetta.
testo
latino e traduzione sono di Giancarlo Giardina, in Seneca, II, Tragedie.
“Pisa rinascerà.” Capitolo N13
Il pretendente
vincitore fu issato come un prezioso oggetto di cristallo.
Accorsero migliaia di
persone, quando la voce della caduta del Re si sparse; c’era paura eppure
gioia, negli occhi storditi della gente che acclamava il nuovo sovrano di Pisa.
Quel giovane dallo sguardo ferino, aveva spazzato via in un sol colpo il passato,
spalancando le porte al futuro.
Ippodamia scivolò via dal nugolo di folla impazzito, correndo
alla volta del padre; il cuore straziato doleva ad ogni passo in più verso ciò
che restava del carro e delle bestie. Non aveva fiducia di trovarlo vivo, non
dopo quello che aveva visto.
Mirtilo fu il primo ad apparire alla sua vista, a poche
spanne dai detriti, dolorante e lamentoso; gli si avventò contro, urlandogli
addosso.
“Alzati auriga!” Lo
scalciò fra le costole senza alcun riguardo, ridestandolo. “Mio padre giace fra le macerie!”
Quello imprecò,
provando ad alzarsi; barcollando riuscì ad alzarsi e a mani nude cominciò a
scavare.
“Non si capisce nulla qui sotto!” Mia piangeva e imprecava, graffiandosi le dita. “Papà dove sei?!
Riesci a sentirmi?!”
Un flebile filo di voce
si levò fra le zampe monche di Filla.
Mirtilò accorse sotto al carro; la puzza di morte lo colpì
allo stomaco provocandogli singulti. La vista del baio dilaniato riempì i suoi
occhi di lacrime.
Scalciò la bestia che
aveva amato e nutrito come un figlio e intravide le braccia di Enomao; con quanta più forza avesse cercò di trascinare il
Re verso lo spazio aperto, ma il peso del cavallo morto schiacciava il corpo al
terreno senza tregua.
Enomao bisbigliò. “Ippodamia.”
“Padre!” La
giovane si buttò sul corpo inerme del genitore, baciandolo sulle guance. “Resisti padre, stanno arrivando i
soccorsi.”
“Ippodamia.”
“Sono io papà. Sono qui non mi vedi?!” La voce si ruppe in gola. Era ridotto male; le
costole erano schiacciate sotto lo stesso peso di Filla
e probabilmente avevano compromesso i polmoni in quanto l’uomo annaspava.
“Padre..” Era
come se parlasse al cielo, con gli occhi vitrei, spalancati; Mia alzò lo sguardo in alto, nel preciso momento in
cui un ombra saettò nelle pupille del genitore. “..perdonami. E perdonami tu Mia
per averti lasciato sola.”
“Sarai sempre al mio fianco. Nel mio cuore.” Sussurrò al suo orecchio; capì che era arrivato il
momento, sentiva la presenza di Ares come un fuoco tutto intorno, “chiudi gli occhi e riposa grande Enomao di Pisa.” Una
lacrima le rigò il volto e scivolò sulla guancia di Enomao
esanime, “il tuo nome sarà leggenda, le tue
gesta riecheggeranno per secoli e la tua memoria non verrà mai dimenticata.” Accarezzò i riccioli dell’uomo, aggrappandosi un
ultima volta alla sua essenza, “il tuo regno non avrà mai fine. Te lo prometto
padre.”
Enomao chiuse gli occhi ed esalò il suo ultimo respiro;
anche in punto di morte la sua forza si palesò, tanto che il suo corpo tremò
all’ultimo alito.
“Enomao non è più di
questo mondo. Lo lascio alle tue braccia nonno.” Mia si rivolse all’ombra che le aleggiava attorno.
“Stai serena nipote. Per compiersi il destino chiede
grandi sacrifici.” Ares le fu
accanto circondandola con la sua aurea, “Siamo nati per affrontare
grandi gesta, non possiamo sottrarci a questo.”
La ragazza annuì,
toccandogli una mano. “Perseguirò il
fato finche vita batterà in me. Lo giuro.”
“Preparati Ippodamia, sarà
un lungo viaggio.”
****
Mia si lasciò andare al
pianto senza freni; aveva tenuto duro mostrandosi forte per infondere coraggio
all’uomo, lungo la dipartita per la vita eterna. Non aveva mai desiderato la
morte di suo padre, voleva solo andare incontro al suo destino e mai avrebbe
immaginato che giorno tanto bello fosse oscurato da un evento tanto triste.
D’ora in avanti sarebbe rimasta solo lei a perpetrare la stirpe dei nobili di
Pisa e avrebbe dato qualsiasi cosa pur di tenere alto il buon nome del suo
casato; non avrebbe permesso a nessuno di spodestare il suo potere e con il
nuovo Re, il suo amato Pelope, avrebbero reso grande la Lidia proprio come suo
padre bramava.
Lo aveva giurato -il
cielo e il fato le erano testimoni- e lo avrebbe fatto.
Avrebbe cominciato
dall’uomo responsabile di tutto quello che le stava accadendo, colui che si era
macchiato di alto tradimento; Mirtilo l’auriga.
Le leggi del più forte
erano chiare; uccidi chi ti aiutato a tradire perché potrebbe tradire anche te.
E lei non aveva nessuna
intenzione di farsi uccidere da un uomo bercio come Mirtilo.
Senza contare che c’era la riscossione del premio per averla aiutata a rovinare
suo padre. Era inorridita al solo pensiero di essere posseduta da lui.
Gli si avvicinò
leggiadra, in punta di piedi, sfilando dalla coscia il pugnale che Enomao le aveva fatto dono; quello era accucciato su
stesso, con la testa fra le mani, preda di lamenti e lagne degne di un
poppante.
Un sasso urtò i sandali
di Mia e si andò a scontrare contro le gambe di Mirtilo;
quello alzò lo sguardo sulla giovane e la sorprese con il coltello a mezza aria
e gli occhi assetati di sangue. In un attimo la colpì alle caviglie facendola
cadere all’indietro; le si avventò addosso e puntando al pugnale le strinse i
polsi, schiacciandola sotto il peso della sua mole.
“Lasciami andare maledetto!” Strattonò le braccia cercando di liberarsi, “Tu non meriti di vivere!”
“Ho fatto quello che mi avete comandato
principessa.” Gli si strusciò addosso
lezioso, “è ora di riscuotere la
ricompensa.” La baciò sulle labbra
pigiando forte con il muso ispido; ridiscese lungo il collo, le scapole, il
petto roseo. Il suo respiro affannato era disgustoso. Mia urlò, dibattendosi
con forza dinnanzi quella prepotenza, “è inutile che urlate. Quando arriveranno a
prenderci voi sarete già deflorata.” Rise
di gusto, sfilandole il pugnale dalle mani e gettandolo lontano; con l’altra
mano libera si aiutò a tirarle su lo Xystis e
scoprirle le gambe. Era nuda.
Si leccò le labbra
alzandosi la veste. Mia chiuse gli occhi terrorizzata.
Li riaprì all’istante,
sentendo il corpo di Mirtilo afflosciarsi addosso;
oltre le sua figura un collerico Pelope brandiva un bastone.
Non gli dette il tempo
di dir nulla, lo afferrò per le spalle e se lo caricò addosso; lo legò ad una
corda trascinandoselo dietro con il carro, in direzione del dirupo. Era
acciecato dalla rabbia, una furia indomita.
Mirtilo riprese i sensi e gridò sorpreso; le sue gambe
penzolavano oltre il nulla sotto di lui. “Ecco che fine fanno gli infami.”
Pelope tagliò di netto
la corda e l’auriga precipitò nel vuoto; nel cadere, come la storia racconta,
pronunciò una maledizione contro la dinastia del giovane e della sua amata Ippodamia. Erano destinati a sofferenze e morti brusche. E
così i loro i figli e i figli dei figli.
E mai gesto fu più
sbagliato.
Mirtilo era un semidio ma discendeva pur sempre da Ermes,
figlio prediletto di Zeus, il quale mimetizzato nelle radure aveva visto tutto;
il padre degli Dei aveva un codice personale delle ingiustizie da infliggere e
come, quando, soprattutto a chi.
I figli erano sacri. Specie
i suoi e quelli della sua disendenza.
A nulla valsero le
suppliche di Ares, fratellastro ed eterno rivale di Ermes; Zeus adirato scagliò
la folgore contro il castello di Pisa che prese inesorabilmente fuoco.
****
L’odore acre del fumo
copriva ogni respiro.
La gente urlava da una
direzione all’altra, in preda al panico; molti abbandonarono le proprio case e
fuggirono per l’Elide alla ricerca di un nuovo regno.
Le
strade erano distrutte, le cinta murarie danneggiate gravemente. Il castello,
come una maledizione, bruciò senza sosta.
“No! Lasciami andare!” Mia scalciava in aria sorretta dalle braccia forti
di Pelope.
“Non possiamo fare più nulla Mia!” La strinse
forte, bloccandole il respiro, “Pisa è distrutta, ormai.”
La ragazza si arrese,
scemando la resistenza. “Cosa faremo adesso?!”
“Partiremo alla volta di Olimpia. E mano a mano
percorreremo tutto l’Elide, unificando il territorio con la forza della nostra
ascendenza.” La girò guardandola
intensamente negli occhi, “chiederemo
perdono agli Dei, omaggiando Zeus con una festa dedicata.”
“Potremmo dedicargli dei Giochi, Pelope!” Si ridestò come punta da uno spillo.
“Dei giochi?!”
“Sì pensaci bene.” Mia si battette il pugno sulla mano aperta, “ogni quattro anni si festeggia la
Grande Madre Era sua sposa, potremmo conciliare questa festa con dei Giochi
sportivi che inneggino alla forza di Zeus. Era solerte seguire Mirtilo nelle corse perché ama i cavalli e lo spirito
combattivo.” Gli occhi di Mia si
illuminarono. “Sì, istituiremo per lui i Giochi di Olimpia.”
Pelope annuì
lasciandosi andare ad un sorriso, il primo della giornata, dopo la sua
vittoria.
Ippodamia era quanto di meglio gli fosse accaduto in vita,
una donna caparbia, coraggiosa e con lo spirito di una vera guerriera; non si
era fatta scoraggiare alla vista del suo regno in fiamme, aveva presto trovato
una soluzione che poteva riportarli fra le grazie degli Dei.
L’abbracciò forte baciandole i capelli, “Prima però
voglio sposarti Regina di Pisa.”
****
Le nozze furono celebrate il giorno stesso al
cospetto di pochi reduci e di Atreo.
I preparativi furono
sbrigativi perché si animava in loro la voglia di riconquista; volevano partire
non appena il sole fosse calato, protetti dal buio e da occhi indiscreti. Non
avrebbero portato nessun seguito, il loro arrivo sarebbe stato annunciato da un
emissario di corte e niente più.
Erano determinati a
farcela con le loro forze e il loro temperamento.
“Mia dobbiamo andare.”
“E’ così triste ora.” Ippodamia era rivolta con
lo sguardo al castello; bruciava ancora. “Ma rinascerà.” Inspirò. “Sì, come le fenici. Dalle ceneri, per un nuovo
lustro e allora la Grecia tutta si inchinerà a lei.”
“Torneremo Mia, te lo prometto.”
“Lo so.” Infilò
un mano nella bisaccia, e chiamò Atreo. “Prendi questo.” Tirò fuori il medaglione
che chiudeva il mantello di Enomao usato durante le
corse. “C’è
incisa la storia di Pisa su. E’ tuo adesso. Trova
Agrippina e fatti dire dove è il tesoro regale, insieme aiutate i sopravvissuti
a ricostruire la città.”
“Cosa
vuoi dire Mia?!”
“Che
Pisa è sotto la tua guida adesso.”
Atreo la guardò
commosso; gli stava donando la città a lei tanto cara, affidandogli il compito
di farla rinascere. Nessuno lo aveva trattato come un Re prima d’ora, nessuno
lo aveva creduto capace di comandare. “Sono
onorato Sua Maestà. Non vi deluderò.”
Mia annuì,
stringendogli le mani. “Ti faremo avere nostre notizie non
appena ci saremo stabiliti. Dì alla serva che la amo come una madre e di non
aver timore, io e la creatura stiamo bene.” Rabbuiò
lo sguardo, l’ultima visione di Agrippina era stata agli altari di Poseidone,
quando l’aveva vista gioire fra la folla; temeva per la sua vita, ma ce ne
erano tre più importanti adesso da salvare.
La sua. Quella di suo
marito. E quella del bambino che portava nel grembo.
Pelope schioccò un
colpo sulle natiche dei bai e questi risposero trottando alla volta di Olimpia.
Ippodamia si voltò ancora una volta verso Pisa, Atreo e la
sua gente; sarebbe tornata e avrebbe restituito loro ciò che spettava.
Onore. Grandezza.
Ricchezza.
****
Questo è solo l’inizio
di una lunga storia.
La storia della
dinastia dei Pelopidi, con a capo il Grande Pelope
signore di Frigia e Re di Pisa e della sua maestosa moglie Ippodamia.
L’unione dei due diede
frutto a una stirpe comandata da venti figli, precursori a loro volta, di dinastie
capitanate da grandi nomi quali Agamennone –re di Micene- e Menelao suo
fratello, protagonisti assoluti del raccoglimento delle forze Greche nella
conquista di Troia.
Grandi cose successero
quando i due partirono alla volta di Olimpia; Pelope riuscì a unificare il
territorio dell’Elide e a mano a mano allargare i confini delle sue conquiste,
assoggettando tutta la Penisola stretta fra il Mar Ionio e il Mar Egeo; a
questa dette il proprio nome, l’oggi conosciuto Peloponneso e culla, dopo la
sua venuta, della civiltà micenea.
Pisa rifiorì e una
volta rientrati Pelope fu fatto incoronare; la leggenda narra che alcuni
profughi della città, rientrati dalla guerra di Troia con il giovane Re al
comando, fondarono in Toscana l’attuale Pisa.
Ippodamia istituì i Giochi di Olimpia, meglio conosciuti
nella nostra epoca moderna come Olimpiadi, dando vita all’inizio del periodo
Greco Antico coincidente con la data della prima Olimpiade (776 a.C)
Le gare vennero
istituite ogni quattro anni, per favorire le grazie del Grande Zeus loro
malevolo e della moglie Era, alla quale Ippodamia
riversava gratitudine per il matrimonio realizzato con Pelope.
Le offese però non
vennero del tutto cancellate e la dinastia dei Pelopidi
fu tormentata fino alla morte degli stessi Pelope e Ippodamia;
oltre toccò ai loro figli, Atreo e Tieste in primis, che si odiarono a tal punto
da ripercorrere le gesta del truce Tantalo –macchiandosi di infanticidio-
scatenando altre ire fra gli Dei e dando vita a loro volta al dannato ceppo
degli Atridi.
Non v’era modo per loro
di scacciare la malasorte.
Avevano ottenuto tutto
ciò che l’oracolo predisse, ma i loro nomi nella storia vennero ricordati
grandi gesta e grandi dolori.
Come l’acqua è il più prezioso di
tutti gli elementi.
Come l’oro ha più valore di ogni
alto bene.
Come il sole splende brillante più
di ogni altra stella.
Così brilla Olimpia mettendo in
ombra tutti gli altri giochi.
Cit. Pindaro filosofo Grecia
Antica.
Fine.