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Autore: Dira_    30/09/2012    47 recensioni
Sono trascorsi cinque anni da quando Al, Tom e Lily hanno messo fine alla vicenda terribile che ha segnato la loro adolescenza. Grazie al mondo fuori da Hogwarts sembrano essersi lasciato tutto alle spalle. Chi è un promettente tirocinante, chi si è dedicato alla ricerca e chi, incredibilmente, studia.
Un'indagine trans-continentale, il ritorno di un vecchio, complicato amico e una nuova minaccia per il Mondo Magico li porteranno ad affrontare questioni irrisolte.
"Perchè quando succede qualcosa ci siete sempre di mezzo voi tre?"
Crescere, per un Potter-Weasley, vuol dire anche questo.
[Seguito di Ab Umbra Lumen]
Genere: Azione, Introspettivo, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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Tutto quel che accade una volta potrebbe non accadere mai più.
Ma tutto quel che accade due volte, accadrà certamente una terza.
(L’Alchimista, Coelho)
 
 
15 Giugno 2028
America.
 
Milo Meinster.
Ogni giorno, appena cadeva dal letto il suo stupido cervello scandiva quel nome. Come se avesse bisogno di ricordarsi chi era!
Lo so benissimo chi sono da più di dieci anni, grazie tante…
Sbadigliò e aprì le imposte della finestra su una gloriosa giornata di sole; merce rara nel buco piovoso dove era finito ad abitare.
Non doveva esser però pretenzioso: Lubecca con il suo clima da congelarsi le palle era stato un soggiorno di gran lunga peggiore. Per non parlare di un certo castello.
Aveva viaggiato per quella che si poteva definire una vita – almeno in termini di esperienze – e se aveva deciso di metter radici da quattro anni un motivo c’era.
Motivo che quella mattina non gli andava di ricordare, visto che il motivatore l’aveva fatto dormire poco o niente.
Rompicoglioni. Quelli della sua schiatta son tutti dei gran rompicoglioni.
Scavalcò la finestra con un salto e finì sul balcone che faceva il giro di tutta l’appartamento. Lì, con la schiena e le gambe nude scaldate dal sole, si buttò su una vecchia sedia di vimini lasciata dai precedenti proprietari – Babbanofili o Babbani, direttamente – e lì dimenticata.
Nella sua visuale entrò l’ansa di uno dei due fiumi che bagnavano la città, il Charles. Scorreva placido nel riverbero solare e sembrava che nulla al mondo potesse disturbare il suo corso. Passò un dito sulle mille scaglie che vi si riflettevano e lo invidiò.
Dormito un cazzo.
Dalla finestra alle sue spalle afferrò a tentoni il porta tabacco, le cartine e l’erba. Per certe cose l’erbologia magica non riusciva ad eguagliare quella Babbana. O forse era lui che di tutte quelle piante strane di cui era pieno il Mondo Magico proprio non si fidava.
Chiamatemi scemo. Alcune son capaci di bruciarti il cervello, altre di fartene crescere uno sotto le ascelle.
Sbriciolò, scaldò, mischiò con il tabacco e leccò. Poi accese e finalmente si concesse un sorriso.
Ecco. Buongiorno, adesso.
Non aveva sul serio dormito, ma non aveva importanza: non aveva impegni durante la giornata e per quanto riguardava Il Principino, quest’ultimo sarebbe stato via fino a sera. Per cena si sarebbe riscaldato qualcosa.
Sempre che non dia fuoco alla casa nel tentativo di usare il microonde.  
Quattro anni prima non avrebbe mai pensato di finire a fare quella vita, ma tutto sommato non poteva lamentarsi. Aveva un tetto sopra la testa, la pancia sempre piena e tutto il tempo del mondo per curare i suoi affari e il Suo Amore – la sua arte, ma era così trito chiamarla a quel modo. Quello che gli veniva chiesto, rispetto ai lavori che aveva avuto in precedenza, era niente.
Per non parlare del penultimo lavoro … È un miracolo se non mi ci son giocato le chiappe.
La vita era un continuo mutamento, precisamente come l’acqua del Charles, che non aveva forma e che dunque non poteva essere irreggimentata.
Cioè, sì, teoricamente può, ma alla prima pioggia… Un disastro. La vita è così. L’essere umano, magico o no, è così. Costringilo in un sentiero che non è il suo e prima o poi esonda.
Quel giorno si sentiva piuttosto filosofico. O forse era l’erba. L’erba, decise. Soffiò il fumo sulla brace dello spinello e lo fece riaccendere con un guizzo. Ne fumò metà però, per non inficiare i suoi esercizi mattutini. Dopo pochi minuti di raccoglimento interiore per ritrovare un minimo di concentrazione, con lo stesso movimento all’indietro prese la custodia di cuoio lucida che faceva ben mostra di sé sul davanzale alle sue spalle. Ci passò un dito e poi fece scattare la chiusura svegliando il violino dal suo letto di cuoio e materiale isolante. L’archetto passò con piacere sulle corde e da esse ne trasse le prime note della giornata. Si alzò in piedi, perché suonare a sedere era una bestemmia.
Buongiorno America. Paganini, Capriccio numero 13, la risata del diavolo.
Ridacchiò. Che fosse sotto l’effetto dell’erba o meno, gli piaceva annunciare i suoi pezzi ad un pubblico immaginario o, nel migliore dei casi, ignaro.
Al violino Milo Meinster. Magonò, strafatto e nel tempo libero, babysitter. Un’esecutore, Signore e Signori, d’eccezione.
Godetevelo.
 
****
 
Inghilterra, Londra, Center London. Charing Cross Road.
Paiolo Magico.
 
Erano giorni che l’ospite della diciannove non usciva di camera; nessuno aveva il coraggio di dirlo ad alta voce, ma tutti pensavano fosse morto.
Deirdre Santini era una delle tante cameriere che si occupava del piano superiore della locanda. Ogni giorno entrava nelle stanze, le puliva, rifaceva i letti ed arieggiava. Anche sua madre aveva fatto quel lavoro, e la madre di sua madre, sebbene fosse stata Babbana e avesse dovuto usare le mani invece che la bacchetta.
Deirdre era stata assegnata all’ala ovest – dava prestigio, secondo Tom, chiamarla a quel modo – e quindi le camere dalla dieci alla venti erano di sua competenza. Sua e di una ragazzina Maganò che avrebbe dovuto esser un aiuto, ma nei fatti era imbranata come poche.
“Signora, io lì dentro non ci voglio entrare, signora…” Balbettò questa con forte accento gallese. “Quel tipo io l’ho visto e faceva paura si…”
“Ho capito Daisy, ci andrò io!” Sbuffò esasperata, dandole il carrello fornito di stracci e spazzolone. “Almeno prendi questo!”
Arrivata di fronte alla diciannove si sentì però molto meno coraggiosa di quanto avesse dato a vedere. Daisy aveva ragione; quel tipo, dal primo giorno che aveva alloggiato lì, aveva messo a tutti una gran inquietudine addosso. Si faceva portare i pasti in camera, ma i vassoi non tornavano mai indietro. Quando Tom aveva provato ad entrare per reclamarli era stato aggredito da rauche parole e una borsa piena di Galeoni sonanti. Dopo essersi consultato con la moglie aveva detto loro di non chieder più indietro un bel niente.

Però adesso eran giorni che i vassoi restavano intoccati di fronte alla porta e Deirdre non era una stupida. Qualcosa era successo e anche se Tom assicurava loro che il non gradito ospite se ne sarebbe andato presto, non sembrava che quel presto fosse destinato ad arrivare.
“Signore?” Bussò alla porta. “Signore, pulizie in camera! È lì dentro? Mi risponda!” Bussò un altro paio di volte e poi, scambiandosi un’occhiata con la sguattera, fece un sospiro pescato direttamente dal robusto petto scozzese. “Bene Daisy, va’ a chiamare Tom. Io entro.” Decise su due piedi. Per quanto sinistro le fosse sembrato quel mago poteva comunque essersi sentito male o essere in difficoltà.
Ci manca solo un morto nella locanda. Come fa colare a picco gli affari un cadavere in una stanza…
Aveva due ragazzini che andavano ad Hogwarts, una piccola che la aspettava a casa e un marito sfaccendato. Non poteva permettersi di vedersi decurtato lo stipendio o peggio. Prese quindi una chiave dal grosso mazzo appeso al carrello delle pulizie e fece scattare la serratura; quando vide che la stanza era immersa nell’oscurità più completa, accese subito un Lumos vivace.
Quella faccenda cominciava a puzzare. Puzzare di pozioni bruciate, resti stantii di cibo e un odore che le sue narici, seppur allenate alla selva di odori presenti in una locanda, non riuscirono ad identificare.
“Signore…?”
Vide qualcosa muoversi nel buio, simile ad un ratto, simile ad un serpente, simile a … niente, niente che avesse mai visto in vita sua.
Allora gridò.
 
****
 
Londra, Farringdon, West Smithfield.
Mattina.
 
Tim Colvile era un tipo metodico.
Ogni mattina si svegliava alle prime luci dell’alba, abbandonava l’umido appartamento che condivideva con almeno una mezza dozzina di coinquilini dalle parti di Camden Town e si recava di buona lena a prender la metro per raggiungere l’università che aveva scelto di frequentare non appena aveva avuto abbastanza senno in zucca da capire che il paesino da cui proveniva era troppo stretto per le sue ambizioni.
Ramanujan – coinquilino numero sei - gli aveva consigliato di allentare quella sua presa puntigliosa su orari e riti, così da potersi trovare finalmente una ragazza.
Lui dissentiva. Perché non era il solo al mondo ad apprezzare la metodicità. Non era l’unico che ogni mattina che Dio metteva in terra prendeva la colazione da asporto e la consumava seduto su una delle caratteristiche panchine di legno del West Smithfield Garden¹, nome pomposo che designava una piccola isola erbosa in mezzo al caos della metropoli.
Non era solo perché ogni giorno alle otto in punto una ragazza si sedeva sulla panchina accanto alla sua. Era il genere che entrava subito nell’occhio anche se eri preso dai tuoi casini.
I capelli rossi, tanto per iniziare. Erano di un rosso violento persino alla luce diretta del sole, ma non era una tinta – Tim lo sapeva bene, con una sorella minore che aveva la testa di un camaleonte.  
La ragazza era sempre allegra, come se non avesse un problema al mondo. Era un piacere guardarla mangiare con appetito e sentirla ridere alle battute che ogni tanto si scambiava con i suoi improvvisati vicini di panca. Era piccoletta, ma sprizzava energia concentrata come una supernova.
Si era anche chiesto se non fosse da stalker fissarla tutti i giorni senza tentare un approccio, ma del resto la Ragazza della Colazione – l’aveva ribattezzata così - non aveva mai dato segno di aver fatto caso alle sue occhiate.
Sperava fosse single. Certo, almeno una volta a settimana faceva colazione con un ragazzo, ma questo non lo preoccupava: prima di tutto, da come si vestiva e comportava, il tipo sembrava dell’altra sponda. Dopo un accurato origliare, aveva inoltro dedotto con minimo margine di incertezza che fosse il fratello maggiore. Sentendoli chiacchierare di cene di famiglia e amici comuni aveva scoperto parlassero con l’accento del Devon, a lui tanto familiare. Ecco, quello avrebbe potuto essere un argomento di conversazione: la difficoltà di vivere nella Capitale venendo da un posto che aveva più campagna che centri urbani.
Oggi vado lì e mi presento. Sicuro. Ci vado.
Lo diceva tutte le mattine, ma mai una volta che avesse trovato abbastanza coraggio per farlo.
 
Quel giorno Tim, dopo essersi seduto e aver posato la colazione accanto a sé, si accorse che la sua compagna di spuntino non c’era. Deluso si guardò attorno, scandagliando le panchine e occhieggiando le gradinate che portavano alla fontana. Nessuna traccia.
Dovrebbe già essere qui…
Ma non c’era. Che avesse deciso che quel parco non le piaceva più? O se si fosse accorta delle sue occhiate e ne fosse rimasta turbata? O forse aveva preferito abbandonare Londra per prepararsi alla sessione di esami estiva?
Le possibilità erano molteplici e una più deprimente dell’altra.
Hai perso la tua occasione bello mio. Un anno che sei qui ed un anno che non manca un giorno. Hai mai fatto qualcosa? Ben ti sta, coglione.
Sospirò profondamente abbandonando la colazione e preferendo accendersi una sigaretta.
 
“Ciao, questo posto è occupato?”
 
Quasi gli cadde la sigaretta dalle labbra quando si rese conto che la Ragazza della Colazione non era seduta da nessuna parte perché era dietro di lui.  
“Io … oh, sì, certo!” Balbettò quasi gettando a terra lo zaino per farle spazio. “Prego!”
Tim aspirò il suo buon profumo floreale e pensò che avrebbe dovuto dire qualcosa per rompere il ghiaccio, che l’occasione era troppo buona per esser buttata al vento.
Ovviamente non riuscì a spiccicar parola.
La ragazza diede un morso alla ciambella – che era sempre la stessa, integrale e con i frutti di bosco – e bevve un sorso dal suo bicchiere di cartone. Poi parlò. “Tu vieni qui tutti i giorni, vero? Per colazione.”
Mi ha notato!
Si sentì ghignare come un idiota. “Sì, tutti i giorni! Come … cioè, come te.”
L’altra annuì. Guardava la fontana che si ergeva in mezzo allo spiazzo erboso con aria meditabonda. “Sei del Devonshire?” Forse l’aveva capito dalle poche frasi che le aveva balbettato contro? “Ti ho sentito rispondere al cellulare una volta, l’accento di casa si riconosce sempre.” Gli spiegò quasi gli avesse letto nel pensiero.

“Già, sì … Sono di Ilfracombe.” Fece un sorrisetto. “Devonshire², è tanto che non lo sentivo chiamar così!” Si accorse di aver detto qualcosa di sbagliato quando la vide guardarlo stranita.
“Perché, tu come lo chiami?”
“ … Devon?” Suggerì. Doveva aver detto qualcosa di decisamente idiota se l’altra lo fissava così.
Per fortuna il suo imbarazzo durò poco perché l’altra gli sorrise con aria di scuse. “Giusto. È che nella mia famiglia abbiano questa fissa di chiamarlo col nome…” Esitò.
“Arcaico?” Offrì volenteroso. “Cioè, credo lo chiamassero così nell’ottocento o giù di lì.”

La ragazza annuì facendo un sorriso proprio carino, del genere che faceva venire il desiderio impellente di chiederle il numero. Si controllò piuttosto bene. “Mi chiamo Timothy.” Disse porgendole la mano dopo essersi premurato di pulirla doverosamente sui jeans. “Ma tutti mi chiamano Tim.”
“Lilian.” Non poteva che avere un nome adorabile. “Ma tutti mi chiamano Lily.” Lo imitò scherzosamente.
Sentendosi insolitamente disinvolto si arrischiò a rivolgerle qualche domanda. “È il tuo primo anno qui a Londra?”
“No, il terzo. Studio solo da un anno però.”

“… cioè?”
“Mi sono presa un paio d’anni … come si dice? Sabbatici?” Tim si stupì. Non aveva affatto l’aria di una ventenne. Aveva pensato sul serio andasse a scuola finché un giorno non l’aveva vista tirar fuori dalla borsa libri di testo che nulla c’entravano con l’istruzione superiore. A dirla tutta quei libri non avevano l’aria di centrare con niente. Vecchi e persino rilegati in cuoio – nell’epoca dei tablet esistevano ancora esemplari simili in commercio?

Comunque sia la notizia che fosse più grande di lui di ben due anni lo smontò un po’. L’avrebbe considerato uno sbarbatello adesso?
Lily, forse notando la sua espressione, lo guardò divertita. “Pensavi andassi ancora a scuola?”
“Beh…” Borbottò preso in contropiede. Era già la seconda volta che anticipava i suoi pensieri. “No, è solo che … Dove studi?” Preferì glissare.
“Qui vicino.” Un breve attimo di incertezza poi indicò di fronte a sé. Tim collegò quell’indicazione approssimativa con il Barts³, l’ospedale del quartiere, la cui università di riferimento era anche la sua.
“Ah, ma allora studi alla Queen Mary, come me!”
“Sì, Mag…” Si bloccò e fece un altro sorriso iper-carino. “Studio Psicologia.”
“Forte.” Forse era per questo che i suoi vestiti avevano un taglio un po’ stravagante, dal vintage evidente delle cose che indossava alle svolazzanti stole colorate con cui si era coperta per tutto l’inverno. Dopotutto era risaputo che chi studiava i matti era un po’ eccentrico. “Non ti ho mai visto in giro per il campus però…” Di certo l’avrebbe notata. L’altra non ribatté, così decise di cambiar discorso prima che sopravvenisse un silenzio disagiante. “Quale parte del Devon?”
Lily inclinò la testa da un lato, in una buffa posa interrogativa. “Ottery St. Catchpole. Normale se non l’hai mai sentito…” E infatti era così. “… è un villaggio, poche case, tante fattorie, una chiesa e un fiume.” Snocciolò. “Dev’essere bello vivere vicino al mare invece.”

“Non se comunque vivi vicino a poche case, tante fattorie ed una chiesa.” Non era troppo bravo nel dire spiritosaggini ma l’altra ridacchiò e quindi era un punto andato a segno, giusto?
Non credeva alla propria fortuna comunque. La Ragazza della Colazione gli si era seduta accanto e stava parlando con lui, in una versione decisamente più soddisfacente delle simulazioni che aveva fatto nella sua testa. Doveva dunque tirare fuori le palle e farle la fatidica domanda. “Senti … stai spesso da queste parti? Intendo, hai un appartamento qui?”
“No, torno a casa tutte le sere.”
“… Tutte le sere?” Forse non aveva capito bene. “Ma da qui al Devon sono un milione di ore in treno!”
La ragazza per un attimo sembrò non sapere che pesci prendere. Poi sorrise di nuovo e scosse la testa. “Abito vicino a Charing Cross, questo intendevo.” E diede un consistente sorso al suo caffè. “Più o meno vicino.” Soggiunse.

Tim si trovò nella scomoda posizione di non sapere cos’altro dire. Dietro l’aria amichevole l’altra non sembrava disposta ad intavolare una reale conversazione, anzi. Forse era il genere di tipa che si aspettava che fosse il ragazzo a fare la prima mossa.
Coraggio, vecchio mio. Ora o mai più.
“Te lo chiedevo perché … cioè, io sto qui da un anno e abito a Camden che non è proprio a due passi, no? Mi piacerebbe conoscere qualche altro posto che non sia il quartiere in cui vivo e…” Non stava andando tanto male se Lily lo guardava con interesse. In realtà lo guardava come lui avrebbe studiato un esperimento al microscopio, ma decise di soprassedere. “… e mi chiedevo se ti andasse di prendere un caffè.” Concluse pregando di non essersi mangiato le parole. “Con me.” Puntualizzò.
Lily batté le palpebre e poi fece un sorriso, quel genere di sorriso che il povero Tim conosceva bene dato che gli era stato propinato in più declinazioni da ragazze che si credevano troppo per lui.
“Mi dispiace, ma mi vedo già con qualcuno.”
Per l’appunto.
Curiosamente però l’altra non aveva ventilato l’ipotesi che potesse essere un’uscita amichevole. Tentò dunque quella carta perché imbranato sì, ma non sprovveduto. “Guarda che non parlavo di un appuntamento.” Riuscì persino a suonare ironico. “Solo…”
“Sì invece.” Lo congelò sul posto. Poi gli strinse leggermente la mano. “Sei carino Tim, ma credi a me, non potrebbe funzionare. Siamo troppo diversi.”

“Ma se non mi conosci neanche!” Era questo che non andava, con le ragazze. Non potevano fare a meno di rifilare palle elaborate perché non avevano il coraggio di dire la verità alla persona che avevano di fronte. Non avrebbe potuto semplicemente dirgli che non era il suo tipo?  
“Vero.” Convenne con l’aria di non convenire affatto. “Allora facciamo così, fidati sulla parola.” Si alzò in piedi e recuperò la borsa di tela. Era stracolma e doveva pesare tantissimo ma la portava con leggerezza, quasi fosse imbottita di nulla. “Grazie per la compagnia!”

Non gli diede il tempo di aprire bocca che era già scomparsa oltre le siepi che recintavano il parco. Proprio così, scomparsa come se fino a cinque secondi prima non fosse stata seduta accanto a lui. Solo un po’ di briciole e la busta appallottolata della ciambella testimoniavano che la Ragazza della Colazione gli avesse davvero rivolto la parola.
 
****
 
Ministero della Magia, Secondo Piano, Dipartimento Applicazione della Legge sulla Magia.
Ufficio Auror. Mattina.
 
Una palla di carta, debitamente pressata per avere il peso specifico e la massa di un proiettile, sfrecciò tra le scrivanie dell’ufficio Auror puntando verso la nuca dell’Auror Malfoy, numero distintivo duemilaottocentoquarantacinque.
“Pre…” Si sentì esclamare dalle retrovie. La voce sfumò presto in delusione quando la vittima si girò di colpo e fece Evanescere la pallottola. “… so? Ah, andiamo!”
“Potty, dovrà ancora nascere l’uomo capace di prendere alle spalle Scorpius Malfoy!” Ghignò il ragazzo, dondolandosi sulla sedia girevole. “Comunque ho vinto io.” Si indicò. “Oggi la scrivania è mia.”
“Non vale, è facile per te arrivar prima, a casa hai il camino collegato direttamente con il Ministero!” Si lagnò l’Auror Potter, numero distintivo … non riusciva mai a ricordarselo, aveva poi importanza?

“Non capisco questa smania di condividere le scrivanie! Vabbeh, che non abbiamo spazio, però…” Continuò, sedendosi sull’angolo del tavolo e mettendo un broncio da decenne. “… e poi, sei tu il pivello!”
“Oh, oh. Ben tre anni di servizio effettivo contro i miei miseri due!” Replicò l’altro sgranchendosi voluttuosamente sulla sedia. “Sono intimorito.”
“Va’ a farti divorare dagli Inferi, Malfuretto.” Fu l’affettuosa risposta, corredata da un tentativo di pugno sulla spalla che l’altro eluse finendo di stiracchiarsi all’indietro.

 
Scorpius sorrise. Ogni mattina che Merlino metteva in terra era sempre la stessa storia. Non se la prendeva mai perché sapeva che dietro le lagne del suo migliore amico c’era sincero piacere di averlo a fianco. 
Era persino più contento di me quando ha saputo che sarei venuto ufficialmente a lavorare qui.
L’Accademia non era stata una passeggiata. Gli Auror erano una forza di polizia magica speciale, e avevano criteri di selezione trai più duri del mondo Magico. Per quanto fosse passato al primo colpo, aveva poi trascorso tre anni a sputare sangue e sudore sotto un istruttore che ce l’aveva avuta a morte con lui per motivi che non gli erano mai stati chiari.
Anche se scommetto venti Galeoni che mi ha odiato dal momento che ha letto il mio cognome nella lista degli ammessi.
Oppure perché sono biondo e bellissimo.
Alla fine tutte le palate di cacca patite erano state ripagate da un superbo risultato al test finale, che doveva aver fatto mangiare il distintivo a quel trippone dell’Istruttore Auror Anderson.
E visto che la commissione era composta da Auror veri, non ha potuto proprio farci niente.
Passato con punteggio massimo. Attaccati al mio manico di scopa.
L’unica nota dolente di tutta la faccenda era suo padre: continuava a mal digerire il fatto che avesse preferito una rude carriera fatta di incantesimi e distintivo a quella ben più elegante e soprattutto, politica nell’Ufficio Cooperazione Magica Internazionale.
Credo che mi butterò dalla finestra se alla prossima cena in famiglia mi parlerà ancora di quanto si trovi bene Mike a lavorar là…
“Ohi, Malfuretto, ti sei incantato?” Vide la mano dell’altro ondeggiargli davanti e scosse la testa, rientrando nella caotica realtà che lo circondava: promemoria ministeriali che svolazzavano ovunque, gente che parlava ad alta voce, odore di caffè tostato e sudore.
Ah … Delizia.
“Stavo pensando. So che il verbo ti sfugge…” Schivò un nuovo tentativo di pugno, ridendo.
Il fatto è che adorava essere un Auror. C’era azione, c’era pericolo, c’erano uniformi fighissime e cameratismo. E quando veniva pronunciato il suo cognome aveva sempre quel meraviglioso suffisso.
Auror. Auror Malfoy.
Nessuno in ufficio lo diceva con sospetto o disgusto, ma con simpatia e stima. Era la sensazione più meravigliosa del mondo.
Vorrei solo che papà lo capisse … Ma temo che per certe cose saremo sempre distanti continenti.
“Ohi, concentrati!” Lo riscosse di nuovo James. “Prima che arrivi il Sergente e ci trascini verso l’ignoto mi devi dire cos’hai intenzione di fare per il tuo addio al celibato!”
“Eh?” Gli uscì piuttosto intelligentemente. “Celi che…?”
“Secondo me ti ci diverti, a fare il Purosangue scemo.” Sbuffò l’altro. “Sbaglio o qualcuno si sposa con mia cugina questo Agosto?”

“Io!” Esclamò compiaciuto. “Io con Rosie!”
“Sì, forse c’è ancora qualcuno nell’emisfero australe che non lo sa…” Motteggiò James, ma con divertito affetto più che con sarcasmo. “Dobbiamo fare una festa prima, tra uomini, così dirai addio alla tua condizione di uomo libero come si deve. Ci arrivi?”
“Sono fidanzato ufficialmente, non credo di potermi considerare libero da anni.” Gli fece notare, scoccando un’occhiata ad una foto appiccicata con lo scotch magico alle pareti del box. Tra i miliardi di cianfrusaglie con cui l’aveva intasato James, spiccava, almeno a parer suo, l’enorme sorriso di Rose e il bacio da film che si erano dati alla cerimonia dei Diplomi cinque anni prima. L’altro aveva tentato di scoraggiare le effusioni dei due avatar, ma aveva ottenuto solo di intensificarle di più.

Sono ganzo anche in foto.
“Non fare il guastafeste!” Lo riprese, dandogli uno scappellotto. Chiunque li vedesse temeva sempre che quelle schermaglie finissero in rissa. Erano pochi quelli che li conoscevano e sapevano che non si sarebbe mai verificato.
A meno che non  ci sia di mezzo una bottiglia di Ogden Gran Riserva e il Campionato di Quidditch.
“Dai, che ti va di fare? Prenoto qualche Incantatrice? Una bella danza dei sette veli?” Lo incalzò. “Mio cugino Freddie dice che quella roba dei sette veli è una figata.”
“Rosie finirebbe per pugnalarmi sette volte se me ne facessi fare una, lo sai.”
James fece una smorfia. “Beh, allora fatti venire qualche idea che non preveda la tua morte. In quanto tuo testimone…” Ogni volta gonfiava il petto d’orgoglio, era uno spettacolo esilarante. “… sarà io ad occuparmi di ‘sta roba. Quindi vedi di dirmelo per tempo!”
Scorpius sorrise. “Promesso.” Gli diede una pacca sulla gamba. “E tu, a quanto il lieto evento con Lupin?”
L’altro fece una smorfia sbalordita. “Malfoy, gli uomini non si sposano tra di loro!”
“Sai, per essere in parte gay sei proprio omofobo.” Schivò il conseguente lancio di un tagliacarte “Ti farei anche da damigella!”
“Per essere quello etero sei una femminuccia!”

“Dirò a Rosie di lanciarti il bouquet, vedrai che poi mi ringrazierai. Ti vedo benissimo, in bianco.”
“Fottiti!”

 
“Avrò mai il piacere di non vedervi litigare, Matter?”
Il sergente Liam Flannery guardò i suoi due sottoposti con un misto di esasperazione e divertimento. Aveva coniato per loro quel nomignolo – fatto dall’unione dei due cognomi – quando aveva realizzato che sarebbero sempre stati inseparabili come una chiappa con un pantalone. Si narrava che persino il Capo avesse apostrofato Malfoy – per una volta da solo - con il nome di battesimo del figlio, assolutamente certo che l’altro fosse nei paraggi.

“Dubito!” Esclamò Malfoy con uno dei suoi sorrisi spigliati, alzandosi in piedi e facendo scattare il taglio della mano sulla fronte, nel classico saluto formale. Per certe cose era terribilmente legato alla forma. “Sergente, Bobby.” Apostrofò il terzo e ultimo auror della loro squadra che li guardava con la rassegnazione tipica di chi subiva quei diverbi dall’adolescenza. “Buongiorno!”
Al di là di tutto, erano una buona squadra. La calma del giovane Jordan controbilanciava gli eccessi di Potter e le polemiche di Malfoy. Era una buona cosa quando ci si stimava tra compagni e quei tre ne erano la prova.

“È che Malfuretto è un coglione.” Replicò serenamente Potter, tirandogli un ceffone sulla spalla. “E non sa rispettare la gerarchia.”
“Ma se siamo entrambi Auror Semplici!”

“Gerarchia d’età.”
Anni di onorato servizio avevano insegnato a Liam Flannery che era meglio non assecondare le teste calde, quindi si limitò a scuotere la testa. Dopotutto non facevano neanche mezzo secolo in due ed erano stati grifondoro: non poteva pretende maturità dove doveva ancora arrivare.
Malfoy non sarebbe così matto se non si alimentasse dell’energia di Potter. Ma va bene così … Sanno salvarsi la pelle a vicenda e pensare con un mago solo. Non si può chiedere di meglio ad un giovane Auror.
Batté le mani per richiamarli all’ordine. “Fatevi belli, oggi iniziamo col botto.”
Vide una scintilla di eccitazione percorrere lo sguardo di entrambi. Potter quasi saltò dalla scrivania. “Sì?” Chiese infatti. “Abbiamo ricevuto una chiamata? Quindi niente scartoffie stamattina!”
“Evvai!” Gli fece eco il biondo dandogli il cinque. “Giorno glorioso!”
“Dal Paiolo Magico.” Convenne fingendo di non aver notato il palese lassismo burocratico di entrambi. “È arrivato un Gufo Espresso dal vecchio Tom. Abbiamo una segnalazione per Arti Oscure.”
“Arti Oscure?” Chiese Malfoy tornando serio. Per quanto la loro fosse la divisione ministeriale dedicata, era raro dovessero affrontare maghi davvero Oscuri. Più che altro si trattava di assicurare alla giustizia gente che aveva provato a passare al lato sbagliato della Magia, ma con più danni per sé stessi che per gli altri.
Grazie a Merlino il mondo sta diventando un posto migliore. Meno malvagi, più idioti.
Ad ogni buon conto per i tre giovani Auror sarebbe stato il primo vero caso, quindi poteva capire l’eccitazione che trapelava dalle loro espressioni.
“Segnalazione, non certezza.” Replicò per non farli surriscaldare nel caso si fosse dimostrato un buco nell’acqua. “Mettetevi i Mantelli, assicuratevi che la fondina non sia slacciata e andiamo.” Fece un sorriso. “Si va’ a far un po’ di luce!”
 
****
 
Farringdon, Magazzino Purge&Dowse, ovvero…
Ospedale San Mungo per ferite e malattie magiche.
 
“Albus, ehi! Aspetti tua sorella?”
Il ragazzo ormai ventiduenne che rispondeva a quel nome alzò lo sguardo dalla contemplazione dei propri zoccoli ortopedici. Comodi ma orrendi, questo riusciva a capirlo persino lui.
Ho dovuto spiegare dieci volte a Mike che dobbiamo portarli tutti, senza nessuna eccezione …
 Fece un mezzo sorriso all’interlocutore, allungando le gambe sotto il tavolo.
“Ciao Seamus.” Sospirò appena. “Caffè con zenzero?” Occhieggiò la tazza fumante dell’altro Guaritore, decano ed eroe di guerra, nonché amico del padre. “Un giorno ti esploderà lo stomaco.”
“Lo dici ad un irlandese? Deve ancora arrivare bevanda capace di mettermi al tappeto!” Esclamò l’uomo, passandosi una mano tra la folta zazzera color sabbia che si stava progressivamente imbiancando ai lati. “Guarda che rischi di arrivare in ritardo, Smethwyck ti farà a pezzi.” Soggiunse canzonatorio.

Il ventenne deglutì, e a ragion veduta, pensò l’uomo. Il Guaritore in carica nel reparto Lesioni da Incantesimo era un tipo arcigno, incapace della minima empatia, come capitava spesso a chi esercitava quella professione da tanto tempo. Il figlio di mezzo di Harry era uno dei suoi tirocinanti e, a detta delle voci di corridoio, una delle sue vittime predilette.
“Ho ancora tre minuti … e una manciata di secondi, credo.” Si dondolò sulla sedia per occhieggiare l’orologio a pendolo accanto al tavolo delle bevande. “… Okay, due minuti.” Si corresse.
“Non l’ho mai vista saltare una lezione.” Gli fece notare con un sorriso. “Non serve che controlli tutti i giorni, sai.”

Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. “Non dirlo ad alta voce … se sapesse che la aspetto per questo motivo mi ucciderebbe. Anche se oggi ho una scusa da favola. Deve portarmi i biscotti di nonna.” 
Seamus vuotò la sua tazza e diede una pacca sulla spalla dell’ex serpeverde. Gli pareva incredibile che un ragazzo tanto mite e disponibile come Al fosse stato appartenuto a quella Casa. “Tempo di andare.” Lo informò. “Alza il sedere, Guaritore Tirocinante Potter.” Imitò il tono di voce del Professor Smethwyck con gran divertimento dell’altro. “Ho promesso a tuo padre che ti avrei tenuto fuori dai guai … ed incorrere nelle ire di Smeth è finirci a testa bassa!”
Albus ridacchiò, ma scosse la testa. “Come se avessi accettato.”

“Come vuoi, ma nel caso avessi bisogno di un posto in cui nasconderti…” Ghignò. “Il mio ufficio è sempre aperto.”
 
Al si congedò con un cenno della testa dal Guaritore più anziano, rilasciando un lungo sospiro subito dopo. Sua sorella era in ritardo e stava facendo far ritardo anche a lui. Un classico che si ripeteva ormai da un anno, ovvero da quando Lily Luna aveva deciso che il suo futuro lavorativo apparteneva alla Psicomagia.
Il primo a rimanere di stucco era stato proprio lui. L’altra non aveva mai mostrato durante la scuola una predilezione verso la magia curativa, per quanto avesse avuto un discreto talento in Pozioni e non fosse stata una completa incompetente nel resto delle materie necessarie per iscriversi al corso.
Oltre a questo aveva sempre detto di non voler continuare a studiare, tanto che persino i loro genitori si erano rassegnati a vederla ammazzare il tempo tra lavoretti saltuari, feste e vacanze in giro per il mondo.
Lily aveva vissuto di fiore in fiore – espressione eufemistica utilizzata da nonna Molly – per i due anni successivi al diploma. Poi l’estate prima aveva sganciato la bomba, innescando una serie di reazioni che erano variate dalla sorpresa allo sbigottimento.
Vuoi continuare a studiare? Psicomagia, sul serio? Ma intendi lavorare al San Mungo poi? Non avevi detto che non avresti più preso in mano un libro in vita tua? Perché Psicomagia?
Ricordava l’aria disinvolta con cui l’altra aveva risposto all’ondata di domande, come ricordava l’urlo di trionfo che era conseguito alla consegna della lettera di ammissione all’Accademia di Medimagia.
Ricordava soprattutto di aver pensato una cosa.
Sul serio? Ma soprattutto, perché?
Forse era questo a farlo rimanere in caffetteria tutti i giorni. Era certo che prima o poi Lily si sarebbe stufata della mole di lavoro, dell’odore perenne di pozioni che impregnava tutto, e delle ore di lezione tediose. Senza contare quelle in reparto. Sua sorella aveva molti pregi, ma tra questi non vi era la costanza, né la pazienza. Non vi era mai stata, e con l’età questo suo difetto si era solo ingigantito.
E invece. Continua a frequentare. Ha quasi finito il primo anno. Fa esami, viene a lezione.
Certo, non fosse sempre in ritardo…
Sentì una pacca sulla testa che lo fece sobbalzare sulla sedia.
“Ciao pelatino!” 
Sua sorella aveva la disagiante abilità di arrivare alle spalle senza far rumore, neppure fosse stata un Auror con la licenza di maledire. “Lils!” Esclamò passandosi una mano trai capelli. Perché non era vero, non era pelato. “Sei in ritardo!”
Tu sei in ritardo. Nessun professore mi aspetta per iniziare la lezione … è te che aspettano per il giro di visite mattutino.” Ritorse frugando nella borsa ed estraendo un pacchetto legato in più giri da spago. “Direttamente da nonna Molly.” Ghignò occhieggiando la sua povera testa. “Ti serviranno per consolarti del fatto che sei…”
Rasato.” La anticipò afferrando l’involto e lasciandolo scivolare nella propria tracolla. “E ti sarei grato se la piantassi, non è come se avessi avuto scelta.” Borbottò ricordando l’orrore provato quando gli era stata diagnosticata un’infestazione di Chizpuffle⁴ … in testa.

Era uno dei lati negativi di lavorare in ospedale; bisognava mettere in conto lo scoppio di qualche epidemia che, anche se immediatamente contenuta, a volte finiva per colpire anche il personale curante.
Anche se in questo caso sono l’unico ad essermi ammalato … Gli altri hanno avuto problemi solo con le bacchette perché gli altri non hanno i capelli pieni di magia che hanno i Potter.
O semplicemente, non ne hanno la sfiga.
“Tom ti fa ancora dormire sul divano, eh?” Lily quel giorno sembrava propensa all’ironia stronza, quindi preferì non offrirle ulteriori spunti, scrollando le spalle evasivo.
Certo che mi fa ancora dormire sul divano, il bastardo. Non riesce proprio a capirlo che non mi sono preso la versione magica dei pidocchi. E che comunque mi è passata.
La sorella dovette leggere qualcosa nella sua espressione perché gli diede una pacchetta consolatoria sul braccio. “Ci vediamo a pranzo?” Offrì in segno di pace.
“A pranzo.” Confermò. “Ah, ricordati che stasera è il compleanno di Fergus e Abigail!” Soggiunse vedendola in procinto di correre via, verso le aule di lezione.
“Sì, lo so, alle nove al pub. Vorrei ricordarti che Gail è mia amica da dodici anni, ma non lo farò.”
“Perfetto, così non dovrò ricordarti che hai la memoria del Signor Allock.” Rintuzzò sapendo che l’altra avrebbe colto la presa in giro, dato che il paziente in questione lo conoscevano entrambi. Un signore distinto, di facile parlantina e, a causa di un Incantesimo di Memoria finito male, incapace di ricordarsi dal giorno alla notte e per questo lungo degente nel reparto Thickley⁵.
L’altra ridacchiò. “Povero Gilderoy, non esser cattivo … e non esserlo con me.” Gli mostrò la lingua.
“Lo sono troppo poco.” Replicò dandole un colpetto affettuoso sulla fronte. “Fa’ la brava.” Quella raccomandazione ormai era un marchio di fabbrica del loro rapporto.
E cos’altro potrebbe essere visto di chi stiamo parlando?
Lily roteò gli occhi al cielo. “Aye aye sir!” Esclamò abbozzando un saluto militaresco.
Albus osservò la figura della sorella finché non uscì dalla caffetteria. Non avrebbe mai smesso di controllare, per quanto la razionalità gli intimasse di smettere da anni.
Sono passati cinque anni … Smettila di fare la chioccia. Ormai ha smesso anche papà.
Con Lily era più facile a dirsi che a farsi.
 
****

Londra, Charing Cross Road.

Paiolo Magico.
 
“Eccovi!” Li accolse Tom, unico e fiero proprietario della porta per eccellenza tra il Mondo Babbano e quello magico. “Signor Flannery, finalmente! Posso offrirvi qualcosa?”
James e Scorpius si scambiarono un’occhiata divertita; l’anima da locandiere del mago era talmente radicata che persino di fronte ad una situazione d’emergenza non poteva fare a meno di cercare di raggranellare qualche zellino; infatti chiunque conoscesse il corpulento sergente irlandese sapeva che al primo giro offerto dalla casa ne sarebbe seguito presto un altro, pagato.
“Siamo in servizio amico.” Lo apostrofò l’uomo dandogli una pacca sonora sulla spalla. “Dov’è la camera?”
“Al piano di sopra Signore. Nell’ala ovest.” Si inserì una panciuta strega con capelli rosso fiamma acconciati nella crocchia tipica di chi non voleva sporcarli o perderli in giro. Nascosta dietro di lei c’era una ragazzina di massimo tredici anni, con enormi occhi sgranati e una cuffietta troppo grande. Una delle cameriere della mattina e una sguattera Maganò, stimò Scorpius. Sorrise all’adolescente che diventò rapidamente dello stesso colore dei capelli della strega.
“Ala?” Stralunò l’irlandese. “Di che diavolo stiamo parlando?”
“A sinistra Sergente.” Chiarificò Bobby. “La scala che porta alle camere sulla sinistra.” Tradusse.
“Per tutte le Banshee Tom, da quand’è che hai ‘ste pretese da grande albergo?”

“Ai clienti piace…” Si giustificò l’uomo stringendosi nelle spalle. “Deirde, accompagnali su.”
“Io?” La donna perse rapidamente colore. “Nossignore, non ci metto piede in quel posto indiavolato!” Sbottò di cuore. “Non ci andrei manco sotto Imperio!”

“Cos’è successo?” Si informò Flannery, adottando il tono professionale che richiedeva l’occasione. Dietro l’espressione cordiale di Tom e quella anodina della donna traspariva evidente nervosismo. Paura. 
I due si lanciarono un’occhiata, poi fu il proprietario. “L’ospite della diciannove …”
“Nome?” Bobby, chiamato anche il Registratore Vivente, era già pronto con il suo fedele taccuino. Si narrava lo tenesse anche sotto il cuscino e sopra il gabinetto. “Generalità?”

“Sam Howe e… non so altro. Davvero!” Esclamò vedendoli scettici. “L’ho visto solo il primo giorno, quando si è presentato. Ha sempre voluto i pasti in camera e non è mai sceso. Ha pagato in anticipo però e quindi non ho potuto chiedergli, insomma… Non abbiamo pensato che fosse corretto dirgli di andarsene solo perché non metteva mai fuori il naso dalla porta.”
“Avremo dovuto farlo invece!” Replicò la cameriera in un tono e  modo che sia a James che a Scorpius ricordò Molly Weasley. “Quel tipo puzzava di guai lontano un miglio!”

“Ora che la bacchetta è rotta è inutile aggiustarla.” Replicò il locandiere spiccio, anche se era chiaro che la pensasse come la dipendente. Si rivolse di nuovo a loro. “Il fatto, agenti, è che da qualche giorno il Signor Howe lascia i piatti a freddare fuori dalla porta. Così ci siamo preoccupati, e…”
“Ed io sono andata a controllare, e per poco non son morta!” Si inserì la cameriera.
“Deirdre! Chiudi quella ciabatta, pensa se ti sentissero i nostri ospiti!” La redarguì l’uomo, ma la strega tirò avanti come se nulla fosse.

“Morgana mi protegga, quell’uomo…” Il poco colore che le era tornato per ribattere sparì di nuovo, e un nuovo sospiro uscì dal petto robusto. “… quell’uomo non è più una creatura di questo mondo!”
“Sarebbe a dire?” Il Sergente Flannery era un tipo concreto, per quanto potesse esserlo un mago. Scorpius non poteva che sposare la sua confusione: un uomo rimaneva uomo, a meno che, certo, non si verificassero circostanze particolari.  
La licantropia? È l’unica che mi viene in mente, ma … che c’entra? Il plenilunio è lontano.

“Se è un caso di Licantropia se ne occupa la Divisione Bestie.” Suggerì comunque.  
“Non è un licantropo!” Ribatté la cameriera, quasi ritenesse quell’ipotesi un affronto personale. “Nossignore, niente occhi gialli e zanne, e comunque quelli si trasformano una volta al mese, no?” Affermò sicura “Manco li  aveva gli occhi, quello. La pupilla era tutta bianca e… insomma, sì. Brillava.” Si torse uno straccio – come da copione – tra le mani. “Mi ha urlato qualcosa in una lingua che non conoscevo … e a me son sembrate tanto … ecco, tanto formule di Magia Oscura.”
“Una possessione spiritica?” Suggerì Bobby con aria meditabonda. “Parlare in altre lingue, un mago incosciente… Potrebbe essere, no?”

“E da quando chi viene posseduto ha gli occhi bianchi?” Replicò pescando dai ricordi dell’Accademia e quelli ancora più remoti di Hogwarts. Non era facile; di solito era piuttosto svelto nei collegamenti quanto nei rimandi bibliografici – anche se in questi il primato sarebbe sempre stato della sua Rosie. Ne andava fiero, ma stavolta gli indizi forniti erano … assurdi.
Non gli restò che sospirare, vinto. “Delle possessioni comunque se ne occupano quelli la Sezione Spiriti.” Si limitò a dire. “Mi pare di ricordare che tengano un Catalogo delle Apparizioni …”
Jordan fece una smorfia perplessa. “Se ci fosse qualche Entità Extracorporea aggressiva a Diagon Alley lo saprebbero prima di noi, anzi, sarebbero già qui.”

“Sì, svegli come sono!” Lo apostrofò James sbuffando. “Secondo me se c’è qualche fantasma incazzato in giro per Londra sono gli ultimi a saperlo!”
“Ragazzi, non date il via alla scopa prima di esserci saliti.” Li riportò all’ordine Flannery. “Credo che una possessione sia improbabile, la locanda non è infestata. La cosa migliore è verificare di persona senza abbassare la guardia.” Sorrise all’aria imbarazzata dei tre. “Forza, stanza diciannove? Conosciamo la strada.” Fece cenno a Tom e alle due donne di servizio di rimanere dov’erano e salì le scale, presto imitato dai tre giovani Auror.

 
“Se non è una possessione cosa può essere?” Scorpius fu così apostrofato da Bobby, tra di loro il più propenso a mettersi in discussione. Non gliene sarebbe mai stato grato abbastanza.
Tra me e Potty facciamo a gara per chi è più Primadonna … Lui, per inciso.
“Sempre che sia vero quel che ci ha detto quella là.” Sbuffò James tamburellando con le dita sul fodero, l’impazienza fatta Auror. “Lo sai come son fatte le donne. Suggestionabili.”
“Se ti sentissero quelle valchirie delle tue cugine ti toglierebbero la pelle dal sedere a furia di maledizioni, Jimmy. Per non parlare di tua sorella.” Ghignò il ragazzo di colore, dandogli una spallata. “Non ci diventare misogino, eh!”
“Miso … che?”

“È strano…” Meditò Scorpius osservando la schiena enorme e silenziosa del Sergente. Nonostante avesse mostrato calma e sicurezza di fronte agli spaventati locandieri, alla fine della storia gli era sembrato persino più confuso di loro. “… ma se è Magia Oscura è roba brutta. Ve lo ricordate no, a lezione, quando dicevano che se un Mago perde le caratteristiche umane vuol dire che ormai è andato oltre il punto di non ritorno?”
“Sei tu il secchione, mica io.” Replicò James scrocchiandosi il collo, ma si rabbuiò leggermente. “Però questa lezione me la ricordo. Roba da brividi.”
“Io direi che stasera una bevuta al Finnigan’s non ce la toglie nessuno.” Borbottò Jordan controllando per l’ennesima volta che la fondina fosse al posto giusto e debitamente pronta ad estrarre la bacchetta.

“Cazzo, mi son scordato il regalo per i gemelli!” James abbassò la voce, dato che erano ormai vicini alla stanza incriminata. “Vabbeh, mi aggrego a Albie o Lils.”
“Al non te lo lascerà fare e Lily potrebbe regalar loro qualcosa di osceno. Ti conviene sul serio?” Ridacchiò Bobby. “Dai, nessun problema Jimmy, lo fai con me e Janet.”

“Sei un amico!”
“Ragazzi, silenzio.” Li richiamò Flannery. A volte sembrava che il buon’uomo li considerasse come una cucciolata di labrador festosa ed agitata. Perlomeno, era quello il modo in cui li trattava.
Non posso dargli tutti i torti…
“Bacchette alla mano.” Li istruì e poi fece cenno a James, il più rapido in attacco, di nascondersi dietro uno dei due stipiti della porta, mentre lui faceva lo stesso. “Malfoy, Jordan, copriteci le spalle.” Si schiarì la voce e poi esplose nel tono stentoreo per cui era famoso in tutto l’ufficio. “Sam Howe!” Esclamò. “Sono l’Auror Liam Flannery, apra questa porta!” Non vi fu risposta. “Howe, in nome del Ministero della Magia Inglese sono autorizzato ad aprirla anche senza il suo consenso. Se non è intenzionato si faccia indietro e getti a terra la bacchetta!”
Stavolta qualcosa cambiò: vi fu un forte tramestio, come se l’occupante della stanza tentasse di nascondersi … o fuggire.
“Potter, ora!” Sbottò il sergente, forse pensando la stessa cosa. James non se lo fece ripete: lanciò un Confringo – ormai quell’incantesimo era diventato il suo marchio di fabbrica – che fece esplodere la porta con precisione netta, tanto che cadde dai cardini senza seminare una sola scheggia. “Dentro!
Scorpius si lanciò dietro i mantelli svolazzanti dei due e tossì all’odore acre che lo investì. “Ma cos’è morto…” Non fece in tempo a formulare la domanda che vide cosa, o meglio chi emetteva quell’odore nauseabondo di decomposizione.

Era Sam Howe. Alla luce lasciata entrare dalla porta era ben visibile, riparato dietro il letto.
“Porca Morgana…” Sussurrò Bobby, che non era incline ad imprecare. Di solito.
La pelle chiazzata da un reticolo di vene gonfie, gli occhi bianchi – non erano rovesciati all’indietro come aveva supposto la cameriera, la pupilla proprio non c’era! - e l’odore di cadavere.
È un Infero? 
Scorpius si trovò nella scomoda posizione di volersela dare a gambe, e non credeva di essere l’unico a giudicare da come tutti gli altri si erano congelati nelle loro posizioni, fissando la creatura che fissava loro di rimando.
Cosa … che diavolo è?
La stasi fu rotta proprio da quest’ultimo. Con un sibilo si lanciò oltre il letto, verso James. Questo rinculò immediatamente, lanciando uno Schiantesimo dei suoi, potenti e precisi come un colpo di pistola.
Non servì a nulla.
O meglio, il colpo lo prese in pieno ma una sorta di scudo si materializzò direttamente dalla pelle dell’uomo, come  un bolla gassosa priva di una forma definita.
Merda!
Scorpius lo pensava solo quando la situazione lo richiedeva, che ricordava bene l’educazione ricevuta.
Lo pensò moltissimo.
Howe, o quel che rimaneva di lui, aveva ormai puntato James con una tenacia che aveva del sovrannaturale e Scorpius si trovò a colpirlo più volte insieme agli altri, sebbene questo non si difendesse, non tentava neppure di levare la bacchetta, sempre che ne avesse una. Avanzava soltanto, e e verso James con quella che sembrava proprio bava alla bocca.
Potty manicaretto?
Li fece arrivare alla porta prima che il Sergente spintonasse il moro a lato e tentasse l’ennesimo Stupeficium. Stavolta funzionò perché finalmente la Cosa – chiamarlo mago era assurdo – fermò la sua corsa. Si bloccò e poi, sotto i loro sguardi si sgretolò.
Si sgretolò come avrebbe fatto una statua di gesso, dapprima crepandosi, poi crollando in una cascata di cenere.
Rimasero in silenzio un paio di attimi buoni, prima che James parlasse. “Cosa diavolo era?!” Sussurrò pallido come la morte. “Cazzo, sembrava avercela solo con me!” Fece una pausa. “Perché sempre a me?”
Scorpius capì che era giunto il momento di sdrammatizzare. Con il lavoro che facevano c’era sempre bisogno di una sana dose di coglionaggine – almeno così la chiamava Rosie – per non avere gli incubi ogni notte. Gli si avvicinò tirandogli un consolatorio ma virile schiaffo sulla nuca. “Piantala di fare l’egocentrico!” Esordì. “Sarà stato per via della tua Magia incasinata. Com’è che ti chiama Dursley?” Lo vide riprendere colore e indignazione alla menzione dell’insopportabile cugino acquisito. “Luminaria pacchiana del Mondo Magico? Sei la vittima perfetta per i mostri assurdi!”
Perché diavolo, sembrava proprio volerti mangiare…
“Ma vaffanculo.” Masticò malmostoso, mentre Jordan tentava una risatina, sebbene non distogliesse lo sguardo dal mucchio di cenere, quasi dovesse rianimarsi per attaccarli di nuovo.
Il Sergente Flannery si avvicinò alla cenere che era stata Sam Howe. Dalla poltiglia grigiastra di vestiti e residui organici tirò fuori un orologio da tasca e un portafoglio. Effetti personali veri, appartenuti ad una persona che si supponeva fosse stata normale. Da quest’ultimo oggetto estrasse un foglietto, che lesse. Poi sospirò.
“Non so cosa diavolo fosse, ma sappiamo da dove veniva.” Aggrottò le sopracciglia. “America.”
 
 
 
 
****
 
 
Note:

Più che un prologo, è un capitolo!

Ci siamo quindi. Siamo ufficialmente nella terza (e ultima, giuro!) parte.
La canzone del capitolo è questa perché se arriva il nuovo album dei Mumford&Sons, non si può non utilizzarlo. Punto.
La cover del capitolo e del profilo autore è stata fatta dalla bravissima Daphne Kerouac.

E ora, le note.
 
1. West Smithfield Garden: una rotonda al centro delle direttrici viarie principali di Smithfield, nella parte nord-ovest di Londra, zona famosa per ospitare l’ultimo mercato della carne ancora presente in città. Si trova nel distretto (o quartiere?) di Farringdon. Il giardino, una volta sito di esecuzioni pubbliche (dov’è la statua adesso c’era il patibolo) è pubblico, con panchine, alberi. Qui una foto.
2. Devonshire: una delle tante incongruenze temporali del Mondo Magico. Devonshire è il modo in cui veniva chiamato il Devon secoli fa (ovvero ‘Contea di Devon’).
3. Barts: contrazione dell’ospedale di San Bartolomeo, famoso per aver avuto trai suoi alunni un certo John Amish Watson, almeno, secondo Sherlock Holmes di Doyle. ;)
4. Chizpuffle: parassiti minuscoli dall’aspetto di un granchio. Si nutrono di magia, ed è quindi frequente trovarli nelle bacchette o nella pelliccia di creature magiche come i Crup. Solitamente sono eliminabili tramite pozioni, ma quando si nutrono troppo diventano pervicaci. Motivo onde per cui Albus ha dovuto rasarsi. Con i capelli che si ritrova – ereditati dal padre, capace di farseli ricrescere in una notte – gli animaletti sono andati in overdose.
5. Reparto Thickley: si riferisce al reparto Janus Thickley per i lungodegenti di Lesioni da Incantesimo. Annovera trai pazienti, oltre ad Allock, anche Frank e Alice Paciock.
 
Infine, alcune precisazioni doverose.
 
Precisazioni: Molte delle immagini usate, linkate e manipolate non appartengono a me, ma le ho trovate sul web. Chiunque le rivendicasse, è pregato di inviarmi un pm, sia se voglia che le ritiri, sia che voglia essere creditato. Thanks!
Le canzoni, frasi e varie citazioni non appartengono a me, ma a chi le ha ideate.
E per finire, l'impianto dell'intera storia, luoghi, personaggi etc appartengono a J.K. Rowling, Dio l'abbia in Gloria.

Considero questa storia una sorta di ‘tributo’ alla sua opera, niente più che il lavoro di una fan.
 
 
  
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