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Autore: Dew_Drop    30/09/2012    3 recensioni
Quasi tutti ci siamo chiesti dove e soprattutto chi sia la madre di Yamamoto. La metà di noi, se scrivesse una storia in merito, aggiungerebbe Gokudera alla trama. Ben pochi però saprebbero dire con certezza cosa potrebbe accadere; si limiterebbero, come me, ad immaginarlo.
E allora immaginiamo che Yamamoto abbia veramente la possibilità di conoscere la madre; che decida di lasciare Namimori per incontrarla, e che un immancabile Hayato lo segua. Possiamo persino approfittarne per incorniciarli insieme in un bel motivetto di famiglia.
E adesso, partano le scommesse.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: G, Hayato Gokudera, Nuovo Personaggio, Takeshi Yamamoto
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO SETTIMO pozzanghere




 

CAPITOLO SETTIMO

POZZANGHERE

"And those nights are getting colder
And your heart is a frozen wound
Don't you wonder who'll be there when you awake?"

Avantasia - "Cry just a little"


    È bene sapere che gli occhi di Takeshi Yamamoto avevano un potere particolare. Dietro quelle iridi castane, dietro quella tonalità così simile al colore della più dolce delle nocciole, c’era più di quanto tutti, Gokudera compreso, potessero anche solo immaginare.
    Si trattava di comprensione, e non di una qualsiasi o di quella che gran parte della gente spaccia per comprensione autentica, ma della capacità di leggere fra le righe la più sottile e pallida sfumatura di chi o cosa aveva di fronte. Come quella foto e, ancor prima, come quelle sette parole.
    Voltò di nuovo la busta e lasciò scappare lo sguardo su ciò che Hayato gli aveva scritto. Cosa c’era lì, dietro l’inchiostro blu? Tacita frustrazione, forse; il fastidio di dover ammettere che qualcun altro al posto suo aveva l’occasione di riabbracciare la madre. Eppure, ancora oltre la trama di questi sentimenti, c’era il sollievo d’aver dato ad un amico la stessa possibilità che a lui era invece stata negata. Era un gesto di estremo altruismo.
    I suoi occhi tornarono alla foto
    Oyaji. Okaasan.
    proprio nel momento in cui sentì la porta aprirsi. Non aveva bisogno di sollevare le pupille per guardare chi si fosse fermato là sull’uscio, perché diede subito un nome a quelle iridi che, silenziose ma tangibili, gli spedirono un’espressione asciutta.
    “Ohi, baka.”
    Hayato.
    “La colazione.”
    Takeshi alzò gli occhi solo in quel momento, obbedendo al perentorio ordine dell’istinto. Tra le mani stringeva ancora la fotografia e in grembo aveva appoggiata la busta. Sotto i ciuffi scuri ancora scompigliati dal sonno, la sua fronte si corrugò in un gesto che era al contempo una domanda e un bisogno di risposta. Non parlò.
    Allora le sopracciglia di Gokudera si avvicinarono appena, un cipiglio di fastidio misto ad impotenza. Le dita strette attorno alla maniglia lasciavano trasparire la tacita eppure evidente minaccia di richiudere la porta senza dare alcuna spiegazione.
    “Tempo un’ora e voglio già essere per strada” puntualizzò.
    “Avresti dovuto dirmelo prima, Gokudera.”
    E non si parlava della partenza.
    Hayato si mosse nervosamente. Sviò con lo sguardo. Un mormorio: “Avrei potuto non dirtelo affatto.”
Yamamoto gli diede mentalmente ragione. Anzi, si scoprì a pensare che forse sarebbe stato meglio così: non sapere nulla, non condividere la verità. Almeno, si disse, non sarebbe stato costretto a abbandonare chi aveva per così tanto tempo cercato. E invece in salotto, là da qualche parte, c’era sua madre; una madre che non l’aveva nemmeno riconosciuto come suo figlio, ma di madre si trattava.
    Gokudera dovette cogliere qualcosa nello sguardo del moro, perché si passò la lingua sulle labbra e si lanciò un’occhiata alle spalle prima di tornare nei suoi occhi. “Avrai tutte le spiegazioni che vuoi” cominciò, e bisbigliava. “Dopo la colazione. Dopo che saremo fuori di qui.”
    Poi Takeshi vide la porta richiudersi e rimase di nuovo solo con quella fotografia.
    Restarsene nel silenzio con quei due volti di fronte, uno del suo vecchio e l’altro di Misako, era come rimanere in compagnia di un fantasma. In quell’assenza di suoni c’era la fredda eppur concreta presenza di un desiderio rimasto troppo tempo in fondo alla coscienza, inghirlandato di sorrisi troppo perfetti per poter essere giustificati; se lo sentiva correre lungo il braccio sino alle dita, dove fremeva sottoforma dei brividi dell’immaginazione, come se volesse ricordargli d’esistere ancora e d’essere pronto a prendere il controllo della mente.
    Ma lasciare che un desiderio solo, per quanto forte, divenga il burattinaio di decisioni future che da coscienti non prenderemmo una seconda volta è sbagliato. E questo lui lo sapeva bene.
 

* * *

 

    È anche bene sapere che persino gli occhi di Hayato Gokudera avevano un potere particolare. Dietro quei suoi occhi all’apparenza immobili ed incuranti palpitavano più sentimenti di quanti ne lasciassero trasparire, un po’ come se il verde acquamarina delle iridi fiutasse le sensazioni altrui per poi analizzarle e catalogarle senza che alcun indizio di partecipazione potesse gocciolare oltre la parete con cui si teneva lontano dal mondo.
    Aveva così osservato Yamamoto dall’uscio e aveva capito che nemmeno con la verità tra le mani aveva intenzione di posticipare la partenza. Proprio per questo aveva anticipato il meraviglioso idiota e finito la colazione proprio quando il meraviglioso idiota in questione entrava in salotto. Si scambiarono uno sguardo, ma non perché si fossero cercati, quanto pur puro caso.
    Se Gokudera avesse capito che dietro quella casualità c’era quella dannata, insistente parola di cinque lettere, non avrebbe nemmeno alzato lo sguardo.
    Yukiko lasciò immediatamente cascare il cucchiaio nella tazza di cereali e filò svelta dal ragazzo chiamandolo per noi, prima di aggrapparsi di volata alla sua maglietta come a pretendere di essere sollevata in braccio; e Takeshi, le cui labbra si erano schiuse in una risata, la accontentò con il paziente, gaio atteggiamento del fratello maggiore.
    “Ohayou, Yukiko-chan.”
    “Non voglio che Takeshi-kun parta!”
    “Passerò a trovarti, promesso.”
    Daisuke li spiò da sopra il giornale scambiando un sorriso con la moglie e Gokudera, in un istinto di acido realismo, si chiese se veramente quella promessa sarebbe stata mantenuta. Eppure si limitò a storcere le labbra in un invisibile grugnito, neanche avesse avvertito una fastidiosa puntura nel fianco, mentre prendeva gli ultimi sorsi di tè.
    Yukiko scalciò un poco e gonfiò una guancia. Nei suoi occhi tanto simili a quelli di Takeshi c’era la fiducia. “Davvero? Takeshi-kun lo promette?”
    Lui lo guardò un momento, un piccolo ma affettuoso sorriso ad ammorbidirgli il volto. Ancora prima che potesse risponderle, la calda voce di Misako:
    “Sareste i benvenuti.”
    Allora Yamamoto si sentì in dovere di incrociare il suo sguardo. Non che lo volesse evitare, perché sapeva quanto sarebbe stato inevitabile; eppure, nonostante avesse ordinato al cuore il silenzio, percepì un indesiderato formicolio serrargli dita di disagio attorno alla coscienza come a voler spremere in quel pugno tutto quanto avrebbe voluto dirle.
    Invece, immancabile, il suo sorriso. “Torneremo” acconsentì, riportando di nuovo gli occhi in quelli della bambina. “È una promessa.”
    Allora Hayato capì ciò che avrebbe fatto. Capì anche che non voleva a tutti i costi impedirgli di continuare a nascondersi dietro quella sua perpetua serenità. Forse aveva la sue ragioni. Forse più avanti, tempo qualche minuto, qualche giorno o qualche anno, gli avrebbe spiegato il perché di quella decisione: Yamamoto lo avrebbe preso da parte e gli avrebbe sorriso e gli avrebbe spiegato tutto quel che c’era da spiegare e allora Gokudera avrebbe capito quanto fottutamente lo amava.
    Presto o tardi, sarebbe successo. Ma ora, da dietro una rassicurante distanza fatta di tazza di tè e tavolo da pranzo, poté solo restarsene a guardare l’idiota che scoccava un bacio sulla guancia di Yukiko, e Yukiko ridere, e Misako sorridere, e se stesso aspettare.
 

* * *

 

    Hayato uscì prima di Takeshi. Per portar fuori i due bagagli, aveva detto, e per portare la moto davanti al piccolo viale d’accesso. La realtà era un’altra: aveva sì sistemato i borsoni, ma il fatto d’aver varcato per primo l’uscio sottintendeva anche un proposito ben diverso dai preparativi della partenza.
    Anche l’idiota doveva salutare chi li aveva ospitati fino a quella mattina. La verità era che Gokudera fuggiva le dimostrazioni d’affetto un po’ come si eviterebbe il contagio della peste, e tenendo in conto che là dentro aveva lasciato un figlio ed una madre, le probabilità di contrarre troppi sentimenti altrui avrebbe raggiunto i massimi livelli storici.
    Evita, Hayato. Evita.
    Giusto. Si sfilò un pacchetto dal giubbotto e decise di acciuffare un accendino dall’altra tasca. Sì, il sapore agrodolce del fumo sarebbe valso come un vaccino. Lo avrebbe aspettato, forse per minuti, forse per ore, così come lo aveva atteso davanti a casa per la partenza. Così si accese una sigaretta e alzò gli occhi verdi al cielo. Profumo di pioggia.

 

* * *
 

    Lo stava aspettando. Appoggiato sul sedile della motocicletta rossa, la testa china, una sigaretta già mezzo consumata tra l’indice ed il medio. La mano libera in tasca e il piede sollevato sulla punta erano un ostentato sintomo d’impazienza.
    Esattamente come lo aveva trovato tempo prima fuori da casa, lì sul marciapiede, pronto a giocarsi una carta chiamata ‘È stato Juudaime a chiedermi di venire con te’. Con la differenza che ora sarebbero tornati indietro.
    Gokudera lo sbirciò, soffiò fumo dalle narici, lenti nastri di grigio che salirono verso il piombo del cielo, e con il capo gli fece cenno di muoversi; qualsiasi cosa là dentro avesse fatto, qualsiasi cosa a Misako avesse detto, di muoversi. Allora Yamamoto si avvicinò, le labbra atteggiate in un pallido sorriso, mentre Hayato buttava la sigaretta a terra e montava. Alla finestra, vide, si erano affacciati lei e lui, con il naso della pulce schiacciato contro il vetro. Dubitava che l’idiota si sarebbe voltato, e invece fu esattamente quello che fece, perché alzò la mano verso di loro in un gesto di saluto per la gioia della piccola Yukiko, che scalpitava tra Daisuke e Misako, intenti a ricambiare il saluto sventagliando in risposta le dita.
    Poi Takeshi salì dietro di lui e stavolta Gokudera gli permise di reggersi alla sua vita. Era troppo impegnato a crogiolarsi nel silenzio per potergli sputare addosso altro veleno. Azionò il motore e la moto scivolò docile sulla corsia. Nessuno di loro si voltò.
    Un quarto d’ora più tardi, quando imboccarono il primo cartello su cui spiccava il nome della loro destinazione, Hayato avvertì le labbra dell’idiota là dove tanto adorava che fossero. All’orecchio. Per un momento temette di perdere il controllo della due ruote.
    “Torniamo indietro” lo sentì dire. “All’appartamento.”
 
    Qualche minuto dopo la moto infilò la prima strada che avrebbe permesso loro di ripercorrere il tragitto nella direzione opposta.

 

* * *
 

    A distanza di giorni, sdraiato sul proprio letto, Hayato Gokudera si sorprende a ripensare a quanto è poi successo. Credeva che una volta lontano da Shiruka, da quella piccola cittadina in cui ha scoperto cosa veramente ci sia dietro i sorrisi dell’idiota, avrebbe semplicemente relegato i fatti in uno dei tanti cassetti della memoria, in attesa che la polvere si ispessisse abbastanza per illuderlo che si fosse davvero lasciato tutto alle spalle.
    Eppure ricorda ancora il discorso che hanno intrattenuto una volta tornati all’appartamento di Bianchi in cui si erano sistemati prima che il genio di Shamal gli infilasse sotto la porta quella fotografia. Si ricorda d’avergli spiegato il perché di tutto, compreso e soprattutto il motivo per cui Misako non sapeva e non sa ancora oggi di essere sua madre. Gli ha spiegato quasi tutto, vero, ma non la cosa più importante. Ai tempi, aveva ragione di credere che non fosse necessario sprecare parole quando era ormai chiaro come tra loro sarebbe andata.
 
“Non gliel’ho detto, ‘Dera”
“Cosa?”
“Che è mia madre.”
“...”
“Qualcosa non va?”
“Sei un coglione, Yamamoto Takeshi.”
 
    Ma se l’era aspettato, in fondo. Ora, lì con le dita intrecciate dietro la nuca, Gokudera stringe le labbra e l’angolo destro della sua bocca si solleva in un sorriso amaro. Non gli ha chiesto il perché, ricorda, eppure nella sua mente e nel suo cuore le parole di Yamamoto, voce non interpellata, pretendono ancora una volta di essere ascoltato. E lui è più che disponibile a porgere l’orecchio della memoria.

  
“Le avrei fatto solo del male.”
“Non ti capisco, baka.”
“Se glielo avessi confessato... se le avessi detto la verità, si sarebbe sentita colpevole di non riuscire a ricordare.”
“Sei complicato, Yamamoto Takeshi.”

 
    perché adorava accostare il suo nome e cognome.

 
“Sarò pure un coglione, sarò pure complicato. Ma sono tuo.”

 
    perché adorava sentirselo ripetere.
    Ricorda di aver voltato il capo e di avergli rivolto un’espressione che mai aveva rivolto a nessun altro. Ricorda di aver scostato lo sguardo, ricorda di aver farfugliato qualcosa. Ancora meglio, ricorda di averlo baciato per la seconda volta.
    Ricorda tutte queste cose, Hayato Gokudera, così come ricorda di aver condiviso il letto con lui quella sera. Non hanno fatto l’amore, ma si sono limitati ad ascoltare il silenzio e le parole e i baci e le carezze dell’altro. La mattina non c’erano più rimpianti. In fondo, si sente rispondere, l’idiota ha potuto abbracciare la madre tenendo il resto per sé e lui ha potuto baciare e farsi stringere da ciò di cui ha sempre avuto bisogno.
      La verità è che ora stanno bene entrambi.
    Un giorno torneranno a Shiruka senza rimorsi e paure, reduci di pozzanghere in cui ora si riflettono arcobaleni e non il grigio del cielo, si abbracceranno sotto le coperte e si confesseranno di amarsi. Ma questo ora Gokudera non può saperlo e nemmeno lo immagina, preso com’è ad aspettare che il suo idiota lo chiami per dirgli: “Ehi, sono sotto casa tua. Scendi.”    
   
    Vi basti sapere che così andranno le cose.




* * *


E ora vi chiederete: perché concludere la fic dal punto di vista di Gokudera se il protagonista dovrebbe essere Takeshi? Ma in fondo credo che a lui si debba gran parte dei risvolti della storia.
Eccoci alla fine di questa tanto sofferta fic. "Sofferta" perché ho spillato sangue dalle dita e dalla testa (?) per scriverla, e spero che il risultato sia soddisfacente.
Inutile dire che mi sono affezionata a quest'atmosfera perennemente angst, oltre che alla piccola Yukiko. Lei è troppo dolce *-*
E alla fine della fiera (?), il nostro Takè se n'è rimasto zitto. Ma in compenso il lieto fine va soprattutto alla relazione fra i due. Non potevo lasciare che si ignorassero, non sono così crudele.
...Soprattutto, adoro troppo questa coppia da poter lasciare il povero Hayato senza il suo idiota <3
Ahm, come al solito mi scuso per eventuali errori, ma al momento non ho tempo di rileggere né voglia di posticipare la pubblicazione -lol-

In conclusione, spero che questa storia vi abbia appassionato - oddio che parolona xD O almeno che vi sia piaciuta.
Mi farebbe non so quanto piacere ricevere, più che un commento sul capitolo in sé - che, oddio, sempre ben accetto LOL -, un commento sulla fic in generale.
Non so se pubblicherò presto qualcosa di nuovo sul fandom di KHR, soprattutto perché sono impegnata con un contest per originali.
Adesso vi lascio, sìsì.
Grazie per aver seguito fino in fondo, vi sono immensamente grata! *-*


Dew_










   
 
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