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Autore: Timcampi    01/10/2012    3 recensioni
Tre coppie.
Sette giorni.
La meravigliosa capitale ceca, con le sue incredibili tinte gotiche e quasi fiabesche, fa da palcoscenico a situazioni comiche e romantiche, in cui i sei protagonisti si ritroveranno a vivere situazioni singolari e a rievocare esperienze passate sullo sfondo dei luoghi più noti e degli angoli meno conosciuti di Praga.
Il sipario si alza sull'aeroporto di Berlino-Schönefeld, e si chiuderà...
Soltanto al lettore è dato saperlo.
Pertanto, buona lettura!
E se recensite mi rendete tanto felice! :)
NB: Il titolo di ogni capitolo è il nome di una canzone, ascoltata durante la stesura del testo. Ascoltatela, magari, mentre leggete.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland, Prussia/Gilbert Beilschmidt, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Ungheria/Elizabeta Héderváry
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quinto giorno: Drunken lullabies

 

Avevano deciso di concedersi una giornata di tregua, alla larga dalle infinite file dei musei e dalle piazze affollate di turisti. In fondo, avevano visto praticamente tutto quel che c'era da vedere e avevano ancora due giorni a disposizione.

Così, quella mattina si erano alzati con molto comodo e si erano dedicati alla ricerca di una buona macchia di verde in cui improvvisare un picnic. La loro scelta era infine caduta su Petřín Hill, uno dei parchi più grandi di Praga. Era già passata l'una, quando presero posto in un'accogliente radura tra i salici, solitaria e soleggiata.

Rivestirono un piccolo quadrato d'erba con una tovaglia di carta rossa e bianca, acquistata poco prima, che poi coprirono di vivande che facevano capolino da contenitori di plastica.

-Non sarà granchè, ma ci accontenteremo.- sbuffò Arthur, facendo scorrere lentamente lo sguardo sulla piccola tavola imbandita, con pacata sufficienza.

L'idea di organizzare un picnic era partita da Elizaveta, la quale, anche nei momenti di maggiore stanchezza, non mancava di buon umore e di spirito d'iniziativa, trascinando tutti gli altri.

E così, in breve tempo avevano allestito un lauto banchetto a base di panini, panini e ancora panini. E, per volontà di Gilbert, di un'industriale quantità di birra di ogni tipo.

Quel giorno, però, il prussiano appariva insolitamente pensoso.

-Gil, va tutto bene?- gli sussurrò Francis in un orecchio, cercando di non farsi notare. Gilbert annuì.

-Sono... soltanto un po' nervoso.- rispose di rimando, lanciando occhiate agli altri, assicurandosi che non potessero udirlo. -Venite con me.- mormorò poi, rivolto a Francis e Antonio, che lo seguirono senza esitazione qualche metro più in là.

-Che cacchio fanno quei tre?- borbottò Lovino, rimasto solo con gli altri due, che fecero spallucce.

-Mi domando cosa staranno confabulando...- fece eco Arthur, ma Elizaveta scosse la testa.

Parlottavano in cerchio, ognuno con le braccia sulle spalle degli altri due, sollevando il capo di tanto in tanto per assicurarsi di non avere intorno orecchie indiscrete.

-COOOOOSA?!- gridò a un tratto Antonio, un attimo prima che Gilbert gli rifilasse un'indelicata manata dietro la nuca.

-Che idiota.- commentò Lovino, a quella vista.

I tre si riunirono agli altri continuando a lanciarsi complici occhiate, che il prussiano si affrettò a far concludere con un brusco ed eloquente gesto della mano.

-Ci state... nascondendo qualcosa?- domandò Elizaveta, schioccando la lingua.

-No.- rispose in coro il trio, scuotendo il capo.

Per nulla convinta, decise di archiviare comunque la questione: Gilbert non aveva mai avuto segreti, per lei, perciò era solo questione di tempo.

Così, senza ulteriore indugio, diedero inizio al banchetto.

-Ci vorrebbe una chitarra.- osservò Antonio, tra un sandwich e l'altro.

-Ci vorrebbe un aquilone.- aggiunse Francis, quando un fresco sbuffo di vento gli scompigliò i lunghi capelli dorati.

Ma non avevano né l'una né l'altro, così finirono per cantare canzoni stonate, improvvisando le strofe che non ricordavano. Erano canzoni da taverna, dei tempi andati e da molti dimenticate; canzoni che puzzavano d'alcol e di sudore, di mare e di legno marcio.

Perfino Lovino, dopo aver protestato per un po', si unì al coro.

Erano fuori tempo, senza accompagnamento se non il cozzare delle bottiglie di birra durante i ripetuti brindisi, ma il canto, il cibo e la birra li avevano privati dei freni inibitori sufficientemente a farli sentire allegri e soddisfatti di quella loro maldestra esibizione.

 

Una volta terminato il pranzo e scolate tutte le birra disponibili, nel tardo pomeriggio, per la prima volta dal loro arrivo decisero di prendere strade diverse.

Inaspettatamente l'idea era venuta a Francis, di punto in bianco. Aveva pronunciato qualcosa nell'orecchio di Arthur, e l'inglese aveva assentito. E quando Lovino aveva affibbiato una gomitata nello stomaco di Antonio, quest'ultimo gli aveva sussurrato un sorridente “Poi ti spiego”.

E così, Gilbert ed Elizaveta erano rimasti soli.

 

-Tu mi stai nascondendo qualcosa.- scandì la donna, scoccandogli un'occhiata carica di sospetto, mentre passeggiavano sotto le bianche carezze d'una luna appena sorta.

Il prussiano scosse il capo, stringendo la mano intorno a quella di lei.

-Mi conosci troppo bene, non riuscirei mai a nasconderti qualcosa.- ridacchiò.

-Abbastanza bene sa sapere che lo stai facendo.

Gilbert non riusciva a non stupirsi di quanto bene potesse comprendere tutto quel che c'era dietro ogni suo singolo gesto. Si conoscevano da sempre, questo era vero, ma mentre Elizaveta restava per lui una costante scoperta, gli sembrava di non avere più segreti, per lei.

Eppure, lei non se ne stancava mai.

Era anche per questo, dopotutto, che l'amava.

-Dove vorresti andare?- sorrise, vertendo altrove la conversazione. Questo, però, sembrò non irritare l'ungherese, che alzò al cielo i grandi occhi verdi, pensosa.

-Ponte Carlo.- dichiarò, e Gilbert non potè che esserne felice: era lontano, molto lontano.
Per quanto avesse ripetuto mentalmente il suo discorso un'infinità di volte, ringraziò il cielo di avere il tempo necessario per un'ulteriore ripasso.

-Gil, sei silenzioso.- mormorò Elizaveta, quando furono ormai a metà strada.

-Scusami, pensavo.

-A cosa?

-A... Guarda, c'è luna piena stasera!

-Gilbert!

Inutile continuare a fingere, pensò, ormai rassegnato all'idea di capitolare.

-Hai detto “Ponte Carlo”, e ti prometto che, appena ci arriveremo, ti dirò tutto quel che vuoi sapere.- affermò, premendo d'istinto la mano libera contro tasca interna del cappotto.

Ma per quanto cercasse di intraprendere le strade più lunghe, giunsero comunque a destinazione, e fu impossibile rimandare ulteriormente il momento fatidico, nonostante avesse ancora un gran timore e le mani sudate.

Era buffo, che fosse così nervoso, lui che aveva affrontato dure battaglie e temibili nemici.

-Allora?- sillabò Elizaveta, inarcando un angolo della bocca in un mezzo sorriso, premendo la schiena contro il piedistallo di pietra di una delle statue.

Così, con quell'aria di sfida e impazienza, stretta in quel lungo cappottino beige da cui spuntava una riccioluta gonna bianca... era bellissima, pensò, sentendosi d'un tratto terribilmente in imbarazzo.

-Allora, Gilbert?- insistette, incrociando le mani al petto.

L'altro sospirò, infilando una mano nella tasca interna della giacca ed estraendone un piccolo oggetto che Elizaveta non riuscì a definire, e che l'uomo nascose repentinamente dietro la propria schiena.

-Elsie...

-Sì, Gil?

-Ti ricordi cosa facevo quand'eravamo piccoli... e tu eri ancora convinta di essere un maschio?- domandò, lasciandosi sfuggire una risata sull'ultima parte della frase.

Vederla ora, piena e formosa, perfetta nella sua generosa femminilità, rendeva difficile immaginare il maschiaccio che era stata un tempo.

-Tutte quelle cose che continui a fare. Scrivevi i tuoi diari, sbattevi i tuoi presunti pregi ai quattro venti, andavi in cerca di guai...- ridacchiò la donna.

-No, no. Cosa facevo a te?

-Nessun effetto, se è quel che vuoi sapere.- rispose, e Gilbert stava già per protestare, quando aggiunse: -E cercavi sempre di mettermi dei fiori tra i capelli, quando dormivo. Ma io ti coglievo sempre sul fatto...-

-...e ti arrabbiavi, perchè i fiori non si addicono a un maschio.

-Precisamente.

-E allora?

-Avrei voluto regalarti un altro fiore, per questa occasione, ma... spero ti accontenterai.- sorrise, prima d'inginocchiarsi su una gamba e prendere un lento, profondo respiro.

-Gil, ma che stai...?- fece per domandare l'altra, prima che il prussiano le mostrasse cos'aveva in mano.

Una scatoletta di piccole dimensioni, rivestita di velluto blu, che, una volta aperta, rivelò il suo contenuto: un piccolo gioiello composto da tre rametti d'oro giallo, bianco e rosso che s'intrecciavano formando una piccola ghirlanda circolare, e che s'incontravano in una cornice di arabeschi floreali al centro della quale brillava un limpido diamante dal taglio lievemente ellittico.

-Ho studiato questo momento fin nei minimi dettagli, ma sto improvvisando. Questo è il mio modus operandi, Elsie, e tu lo sai. Avrei dovuto immaginare che imparare un copione a memoria sarebbe stato inutile. Però, qualcosa devo dirla.- mormorò, ansioso come un ragazzino al primo appuntamento. Fece una lunga pausa, durante la quale l'altra rimase in silenzio, imperscrutabile come solo una donna sa essere.

-So bene che è da idiota chiedertelo ora, dopo essere stati insieme per così tanti anni... So che non è necessario, direi quasi che è un mio capriccio. Non voglio che sia un obbligo, non voglio che sia un'alleanza. Io voglio... voglio che sia un matrimonio. Elsbeth, vuoi...?- ma non riuscì a terminare la frase, che l'altra posò un dito sulle sue labbra, mentre un tenero sorriso sorgeva sul suo volto illuminato dalla luce della luna.

-Gil, Gil... Tutto questo non ha senso. Sai bene quanto io ti ami senza che ci sia bisogno di metterlo per iscritto. E stare in ginocchio non ti si addice per nulla. Ma, Gil...- Elizaveta s'interruppe, mordendosi il labbro inferiore.

Le era tornato in mente un ricordo di molti, molti anni prima.

Sorrise, spostando le dita fino ad accarezzare i capelli del suo amato. E poi, annuì.

-Sì, Gil. Voglio sposarti.

-Questo... è un sì?- mormorò Gilbert, quasi incredulo.

-È un sì.

Gli occhi del prussiano s'illuminarono di una luce nuova, che non era né quella della luna né quella dei lampioni che costellavano il ponte.

-È un sì!- ripetè, schizzando in piedi, con la scatoletta ancora tra le dita, e stringendola a sé fino a sollevarla da terra e trascinarla in una goffa piroetta. -Questo, però, sarebbe stato comunque tuo.- le sorrise, cercando l'anulare della sua mano sinistra, a cui infilò dolcemente l'anello. -Come la prima volta.

-Come la prima volta? Ma allora...?

Gilbert scosse la testa.

-Ricordo, sì. Non è una coincidenza.

Elizaveta rimirò l'anello, così grande ma così raffinato, studiandone i riflessi, i dettagli più insignificanti ma perfetti.

-Gilbert?- domandò poi, arricciando il naso. -Che ore sono?

-Quasi mezzanotte.- rispose l'altro, scrutando l'orologio da polso. Si era fatto tardi, e avrebbero impiegato quasi mezz'ora a tornare in albergo, a piedi e senza mappa.

-Gilbert... Niente fretta. Dopo mezzanotte, non c'è più l'inserviente dell'ascensore.- disse Elizaveta, imitando il suo mezzo, inconfondibile ghigno.

 

-Gilbert! Che stai facendo?

-Taci, devo concentrarmi!

-Io parlo quando voglio!

-Smettila, Elsie! ...Ecco, ho finito. Toh.

-Cos'è 'sta roba?- domandò la bambina, con una smorfia contrariata, esaminando tra le dita il piccolo oggetto.

-A te cosa sembra?

Sembrava, in effetti, un piccolo anello, ricavato da fili d'erba intrecciati tra loro e sormontati da un delicato fiore bianco.

-Roba da femmine.- protestò Elizaveta.

Gilbert scosse il capo. Possibile che credesse ancora a quella storia del pisellino che cresce quando diventi grande?

-È una fede nuziale, dovresti esserne felice.

-Ma io sono un uomo!

-Siamo nazioni, che importanza ha se sei uomo o donna?- sbuffò il prussiano, sfilandole il piccolo anello dalle mani. -Da' qua.- tagliò corto, facendo per cercare il suo anulare, ma la ragazzina si divincolò, stringendo a sua volta il polso dell'altro nella mano.

-Se non importa, allora indossalo tu!

Gilbert sospirò, rassegnato.

-D'accordo. Dovrai mettermelo tu, però.- obiettò, tendendole la mano.

Con un largo e soddisfatto sorriso, l'altra l'afferrò di malagrazia e infilò l'anello.

-Ecco fatto. Ora sei mia moglie, Gil.

Gilbert arricciò un angolo della bocca, inizialmente contrariato. Poi, però, il suo volto si distese in un sorriso sereno.

In fondo, andava bene anche così.

 

 

 

   
 
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