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Autore: BeautifulMessInside    02/10/2012    11 recensioni
"Eden Spencer rapinava banche. E non solo. O almeno è quello che faceva prima di essere presa. Oggi collabora con l'FBI. Ma c'è stato un tempo in cui Eden era solo una ragazzina di buona famiglia, figlia di una ricca imprenditrice dell'Upper West Side di Manhattan... Poi un giorno si era innamorata. Della persona sbagliata. Che era anche la persona giusta." Per tutti gli altri Eden è morta quel giorno. Oggi, quasi cinque anni dopo, è costretta a tornare allo scoperto per aiutare l'FBI ad arrestare quelli che una volta erano i suoi amici. Tra verità, bugie e segreti nascosti... In un continuo conflitto tra amore ed odio... Al confine tra la redenzione e la dannazione... Eden scoprirà che non è così semplice spezzare un patto stretto col proprio diavolo personale. - trama, wallpaper e spiegazioni nel capitolo -
Genere: Romantico, Drammatico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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epilogo

EPILOGO

They’ll Never Know..

 

Eden mosse le ciglia, ancora totalmente immersa in quel caldo, tranquillo dormiveglia. Era il suo momento preferito in tutta la giornata, quegli attimi di silenzio in cui il suo corpo sembrava aver trovato la più comoda delle posizioni e la sua mente riusciva a vagare in ogni più remoto angolo dello spazio-tempo.  Poteva sentire i rumori del traffico di New York ed il sole che le scaldava la fronte. Riusciva ad immaginarsi esattamente dove avrebbe voluto essere.. E poteva percepirlo perfino sulla pelle.

Corrugò la fronte colpita da un raggio di sole reale, riuscito a penetrare tra le tapparelle appena sollevate. Controvoglia sollevò le palpebre una prima volta, riuscendo a malapena a mettere a fuoco. Allungò ogni muscolo stirandosi tra le lenzuola di cotone bianco poi mosse il braccio verso il lato vuoto del letto, sforzandosi ancora una volta di aprire gli occhi. La sveglia segnava le 8e35, tempo di alzarsi e vivere un’altra giornata di realtà.

Venne fuori lentamente ed infilò la vestaglia color cipria prima di passare la soglia del bagno. Uno scroscio d’acqua fresca a poté finalmente cogliere un’immagine nitida di sé nello specchio. Le sue guance avevano un bel colorito roseo ed i cerchi intorno agli occhi si intuivano appena, segno che aveva passato un’altra nottata serena. Sospirò passando la crema idratante sul viso e la spazzola tra i capelli, adesso che era totalmente sveglia riusciva a percepire perfettamente i crampi allo stomaco. Se ne era quasi dimenticata.

Tornò in camera ancora una volta e decise di tentare la fortuna aprendo la finestra. Il sole di poco prima era ancora lì, timido tra le perenni nuvole grigie di Chicago, eppure caldo ed invitante. Sorrise ringraziando la città per quel dono che oggi sentiva essere solo per lei.

Seguendo la scia di zucchero e caffè arrivò in cucina e lì, poggiata allo stipite della porta, si concesse il secondo sorriso della giornata.

Sophia sollevò lo sguardo incontrando il suo, gli occhi le si spalancarono di gioia mentre correva ad abbracciarla.

“Mamma, mamma! E’ lunedì!”

Esclamò saltellando insieme ai suoi boccoli scuri. Era già cresciuta parecchio, ma il suo viso non era cambiato di una virgola, tantomeno il suo sorriso.

Eden si abbassò per poggiarle un bacio sulla fronte

“Buongiorno amore mio.”

Sophia rise ancora, senza fermare il suo moto continuo

“E’ lunedì!”

Ribadì ed Eden sospirò di sollievo

“E’ vero tesoro, è lunedì!”

Risollevando la schiena concesse finalmente attenzione all’altra persona nella stanza.

Dair era in piedi vicino ai fornelli, un grembiule a quadri proteggeva la sua camicia azzurra mentre la padella di fronte sfrigolava ancora. Si mosse per raggiungerlo e lo baciò sulla guancia inalando un piacevolissimo odore di pancake.

“Buongiorno.”

Lui sorrise in risposta

“Buongiorno a te.”

Eden inspirò ancora e per la prima volta passò gli occhi sul tavolo.

“Pancake al cioccolato, torta di mele, croissant e…” Si sporse riempiendosi il naso con i fumi della tazza “… caffellatte alla cannella.”  Guardò Dair sollevando un sopracciglio “Sarà mica natale?”

Lui tolse al volo il grembiule e si allungò al di là di lei rubando una rosa dal vaso sul davanzale. Gliela porse

“E’ comunque un giorno da festeggiare.”

Eden prese il fiore tra le mani e lo annusò sorridendo di nuovo. E’ vero, quello era un gran giorno per lei.

Trentuno mesi erano passati.

Due anni, sei mesi e diciotto giorni per la precisione.

Chiuse gli occhi per un istante, non avrebbe mai pensato sarebbero passati tanto in fretta.

Dopo l’esito fallimentare della sua missione aveva dovuto fare i conti con i vertici dell’FBI. Non solo il piano era fallito per colpa sua, ma l’innumerevole quantità di regole infrante avrebbe potuto costarle ben più degli arresti domiciliari.

Aveva temuto di finire in galera e perdere comunque sua figlia, ma con l’aiuto di Dair ed uno sforzo in più da parte del giudice era riuscita a patteggiare per la custodia domiciliare. Daniel aveva garantito per lei, accogliendola nel proprio appartamento insieme alla bambina. E lì aveva passato gli ultimi 929 giorni in attesa di questo lunedì.

“Grazie.”

Disse piano tornando alla realtà e lasciandosi scivolare nella sedia.

Sophia ridacchiava parlottando col personaggio nel suo piatto. Come ogni mattina Dair aveva perso cinque minuti buoni a disegnare occhi, bocca e capelli al suo pancake.

Eden sospirò di colpo persa nella malinconia riflessa sul suo caffè.

Dair le raggiunse al tavolo

“Allora, è il tuo primo giorno di libertà… Hai già deciso cosa fare?”

Lei guardò ancora più a fondo, sperando che la tazza le desse un’idea. Non aveva davvero pensato a come avrebbe vissuto la sua nuova vita da donna libera, finalmente lontana dai casini della malavita newyorkese e dalle pretese dell’FBI.

Sospirò. Non pensava quel giorno sarebbe arrivato tanto in fretta.

“Tu non vieni con noi?”

Rispose annullando furbamente la precedente domanda di Dair.

“No, purtroppo ho una lunga riunione oggi.. E poi c’è l’indagine Menphis da sistemare.. Dovrete fare a meno di me.”

Eden allungò il broncio per una manciata di secondi, la presenza di Dair avrebbe reso tutto più facile.

“Andiamo al parco mamma! Andiamo a giocare al parco!”

Rivolti gli occhi a sua figlia quell’attimo di malumore sparì. Sophia era un incanto con addosso quel leggero abito a pois, il rosso donava alla sua carnagione e le piccole maniche a sbuffo le davano un’adorabile aria alla Shirley Temple. Ben presto sarebbe ricominciata la scuola e lei avrebbe dovuto imparare a fare a meno di lei, venendo a patti con le sue prossime mattinate solitarie e pensierose.

Decise che l’avrebbe accontentata in tutto quel giorno.

“Certo tesoro. Andremo al parco e in qualsiasi altro posto tu voglia andare! Ma prima facciamo un salto in libreria.”

Sophia corse ad abbracciarla ed Eden si perse nel profumo fruttato dei suoi capelli.

Aveva mantenuto la promessa a sua figlia ed era fiera di averlo fatto.

“Ancora? Quel libro deve piacerti davvero da morire, ne hai già ordinate mille copie!”

Dair indicò la pila di libri poggiata sul tavolo del soggiorno. Ognuno di essi portava sulla copertina la stessa scritta.

“Round Trip”  by  Matt Mylers.

Eden sorrise una volta ancora al suono di quel nome fittizio.

“Voglio comprarne una copia di persona.”

Dair sollevò le spalle

“Tutto quello che vuoi!”

Scolando il suo caffè si alzò in piedi dopo aver buttato l’occhio all’orologio.

“…Allora vi auguro buon divertimento signore.  Ci vediamo stasera per cena.”

Eden annuì con un sorriso e lo guardò mentre infilava la giacca, sistemava la cravatta e lasciava un bacio sulla fronte della bambina prima di uscire dalla porta.

Daniel Dair era stato la sua salvezza, la sua ancora, il suo punto fermo. Chissà dove sarebbe finita senza il suo appoggio e le sue spalle su cui piangere.

Già, perché non avrebbe mai potuto quantificare il monte di lacrime che aveva versato. Notti intere passate a piangere prima di realizzare che cosa aveva fatto davvero, a cosa aveva rinunciato, cosa avrebbe dovuto affrontare.

Poi, un poco alla volta, il bisogno di piangere era sparito ed al suo posto era emersa l’ansia dell’attesa. I suoi giorni chiusa in un appartamento, dapprima tristi e ripetitivi, si erano riempiti di cose da fare e ben presto si era scoperta capace di cose che non avrebbe mai pensato. 

Eden Spencer era in grado di cucinare. Non più solo uova e pasta al sugo, ma anche soufflé e perfino un’ottima boeuf bourguignon. La sua prossima prova sarebbe stata costruire un alto e perfettamente simmetrico croquembouche.

Si strascinò in camera pensando a cosa avrebbe indossato quel giorno, era forse ingiusto nei suoi proprio confronti, ma continuava a cercare il pezzo più neutro del suo guardaroba, così sarebbe passata inosservata.

Alla fine scelse quell’abito morbido che non aveva mai indossato, il suo intenso verde bottiglia era abbastanza vivace eppure abbastanza sobrio da rispecchiare perfettamente il suo stato d’animo odierno. Infilò ai piedi le zeppe Jimmy Choo e si sedette al vanity.

Guardandosi più attentamente decise che avrebbe almeno sfoggiato il miglior make up, leggero, ma abbastanza luminoso da attirare tutta la luce di quell’insolita giornata a Chicago. La matita scura ed il mascara YSL le allargarono lo sguardo, cercando un equilibrio col blush rosa ed il tocco di lucido sulle labbra. Ravvivò i capelli color caramello scuro e sospirò un’ultima volta contro il proprio riflesso.

 

L’aria che l’accolse fuori dal portone del palazzo si scoprì più calda di quanto si aspettasse. Infilò gli occhiali da sole respingendo una luce fin troppo brillante e prese la mano di Sophia. Pochi isolati ed avrebbe varcato i confini del parco da donna libera, da madre orgogliosa e nulla più.

Sfilando tra la folla indifferente del lunedì mattina capì per la prima volta che tutto era davvero finito. La vita da ladra, da ribelle, da moglie di… Scacciò il pensiero… Il passato era ormai alle sue spalle e solo il futuro l’attendeva davanti. La vita che aveva sempre desiderato stava iniziando in quel preciso istante.

Lo squillo del cellulare la riportò alla realtà. Si fermò sui suoi passi assicurando la bambina accanto a lei, poi sbuffò un attimo prima di rispondere.

 

“Mamma?”

La voce all’altro lato sembrava sorridere, seppur mantenesse una perfetta aplomb.

“Eden cara, è oggi che finisce la tua condanna vero? Stavo andando da Jules per la manicure ed ho realizzato che fosse lunedì.”

Lei sospirò scuotendo appena la testa

“Sì mamma, è oggi.”

“Oh cara, sono così contenta per te! E dimmi, come sta la mia adorabile nipote?”

“Benissimo. Stavamo andando al parco giusto adesso.”

“Dalle un bacio da parte mia e Eden…”

Poteva immaginare la sua espressione anche a chilometri di distanza

“…Ho appena fatto emettere una carta platino a tuo nome, puoi ritirarla in banca dal Signor Baker quando vuoi.”

“Non era necessario mamma.”

“Oh sì invece. Il fatto che non sia lì non vuol dire che mi esimerò dal far avere a mia nipote tutto ciò che desidera.”

“Grazie mamma. Dobbiamo andare adesso.”

“Bene.. Eden?”

“Sì?”

“Richiamami stavolta.”

“Certo mamma.”

Eden chiuse la comunicazione ed inspirò a pieni polmoni. Sua madre, sua madre era tornata nella sua vita e contrariamente a quanto pensasse, non la odiava affatto.

Con l’inizio del processo vero e proprio anche la sua famiglia – sua madre – era stata convocata e lei non aveva potuto far nulla per impedirlo.  Nonostante lo sguardo avvilito e miserabile con cui l’aveva raggiunta nella stanza degli interrogatori, la conversazione seguente non era stata terribile. La Signora Spencer aveva un’idea perfetta di cosa significasse perdere la testa per il cattivo ragazzo e sposare un uomo che non sarebbe mai stato il perfetto stereotipo di padre di famiglia.

Aveva temuto per anni di non rivederla viva, pertanto era riuscita suo malgrado ad elaborare lo shock del matrimonio e delle rapine in banca.  Sophia poi aveva fatto il resto. Pochi sguardi rivolti alla bambina e sua madre aveva ritrovato una ragione per vivere, una nuova piccola donna in famiglia da istruire, viziare e spingere ai massimi livelli dello stile e della grazia. La nuova speranza di poter un giorno vedere le sue aspettative soddisfatte dalla nipote aveva sancito la rinascita del loro rapporto.

E dopo tutto, non era affatto male.

Il parco si aprì davanti ai loro occhi e Sophia lasciò la mano della madre per correre dritta verso l’altalena. Eden rimase a guardarla mentre con la coda dell’occhio cercava una panchina libera su cui sedersi. Da tanto tempo lo desiderava, sedersi su una panchina e sfogliare una rivista di moda, lanciando di tanto in tanto uno sguardo alla bambina, esattamente come fa ogni altra madre al mondo.

Inspirò l’odore dell’erba tagliata di fresco e scelse una seduta di spalle al sole, abbastanza lontano dalle altre donne, mamme, tate o babysitter. Era troppo presto per confrontarsi col resto del mondo.

Vide Sophia che la salutava correndo con gli altri bambini.

Sorrise di cuore, sua figlia avrebbe avuto una vita normale, il più possibile vicina alla perfezione.

Un brivido di tristezza le percorse la schiena al pensiero di quello che era successo qualche mese prima; al pomeriggio in cui Sophia era tornata da scuola col viso imbronciato e le braccia incrociate al petto. Dopo vari tentativi di carpire qualche notizia la piccola aveva confessato di essere arrabbiata. Tutti i bambini avrebbero dovuto portare una foto della loro mamma e del loro papà da mettere nella cornice di cartone e pasta che avevano costruito qualche giorno prima con l’insegnante.

Posso prendere la foto di Daniel?”

Le aveva chiesto timidamente, facendole sanguinare il cuore. Eden si era inginocchiata per accarezzare il viso della sua bambina

“Ma lui non è il tuo papà, lo sai vero?”

Sophia aveva allungato di nuovo il broncio, stavolta accompagnato da grossi lacrimoni agli angoli degli occhi. Eden era entrata in allarme e l’aveva stretta a sé. Quel giorno doveva arrivare, prima o poi.

Quella domanda.. Quella terribile domanda sarebbe arrivata prima o poi.

“Dov’è il mio papà?”

Eden aveva quasi perso l’equilibrio sentendola dal vivo. Aveva stretto ancor più la presa per qualche istante, profondamente indecisa su cosa rispondere.

“E’ lontano, ma ti vuole bene.”

Si era morsa il labbro.. Che stupida risposta da film di bassa lega.

Inspirò

“Tuo padre è dovuto partire, quando tu eri ancora molto molto piccola…”

Accompagnò le parole stringendo il pollice e l’indice fin quasi a farli toccare, cercando di distrarre l’attenzione della bambina dalla tensione del suo viso

“Come pollicina?”

Eden sorrise

“Esatto, forse anche più piccola…”

Respirò ancora

“…E’ dovuto andare lontano, così lontano che ora non riesce più a tornare.”

Sophia aggrottò le sopracciglia

“Il mio papà si è perso?”

“Qualcosa del genere… Ma ti vuole tanto bene e pensa a te ogni giorno.. Questo io lo so per certo.”

Sophia sembrò convincersi di quell’assurda spiegazione e sollevò un sopracciglio dondolando le spalle, quasi si vergognasse di ciò che stava per chiedere.

“Ce l’hai una foto del mio papà?”

Ecco. Questo non era previsto.

Si leccò le labbra guardando l’orologio, Dair non sarebbe tornato prima di un paio d’ore e probabilmente era tempo che quella conversazione venisse affrontata.

Annuì tornando in piedi ed allungando la mano

“Vieni con me tesoro.”

Nella sua stanza, nel suo armadio, da dietro una pila di maglioni e sciarpe smessi Eden tirò fuori una scatola, una piccola scatola blu chiusa da un nastro bianco.

La aprì di fretta mettendo da parte quelle poche foto di Davis e gli altri. Non voleva che Sophia scoprisse di aver già conosciuto suo padre senza saperlo.. Per raccontarle quella parte della storia avrebbe aspettato il momento giusto, la certezza che sua figlia avesse dimenticato i giorni passati fuggendo da una città all’altra, lontana da lei o accanto a persone che forse non avrebbe mai rivisto.

Si sedette sul letto e la aprì di nuovo con delicatezza, era tutto ciò che ancora conservava del suo passato. Almeno in termini materiali.

“Guarda…”

Esordì tirando fuori una piccola custodia color oro. La aprì e tirò su un rossetto mezzo consumato. Il suo colore rosa intenso era lo stesso anche dopo più di dieci anni.

“…questo rossetto me l’ha regalato tuo padre.”

Ovviamente non poteva dirle che l’avevano rubato insieme, ma di certo era stato un regalo. La prima volta che aveva rubato qualcosa, la prima volta che Davis le era stato vicino, la prima volta che si era sentita viva in quel modo.

Sophia spalancò gli occhi allungando la manina

“Lo posso prendere?”

Eden sospirò ed accennò un sorriso poggiandolo su quel piccolo palmo. La bimba lo prese e guardandolo come fosse fatto di cioccolato, se lo portò alle labbra. Un paio di secondi appena ed era tutto spalmato sulla sua bocca, sul mento e perfino sulla punta del naso.

Sophia aprì un enorme sorriso ed Eden non se la sentì di protestare.

Infilò di nuovo la mano nella scatola e tirò fuori un fiore secco, divenuto ormai di un languido color marroncino.

“Questo è uno dei fiori del mio bouquet, i fiori che avevo nel giorno in cui io e tuo padre ci siamo sposati. E’ stato un giorno bellissimo.”

Sua figlia sorrise di nuovo, totalmente estasiata all’idea di conoscere qualcosa in più della sua breve vita.

Infine afferrò l’ultimo segreto nascosto nella scatola. Una piccola custodia di velluto. La aprì lentamente trattenendo il fiato, non osava guardarlo ormai da tempo.

Il grosso diamante luccicò al centro della stanza, incastonato in una lucida fascetta d’oro bianco. Eden non trattenne un brivido di nostalgia e tristezza.

“Ecco…”

Porse la scatolina alla visione di Sophia

“…Questo è l’anello che mi ha dato tuo padre quando mi ha chiesto di sposarlo.”

La piccola spalancò la bocca ed allungò la mano

“Posso mamma?”

Stavolta Eden dovette restar ferma e decisa

“Non ora tesoro mio, ma un giorno sarà tuo.”

“Quando mamma? Quando?”

Inspirò

“Il giorno in cui ti innamorerai di un ragazzo perbene, un ragazzo fatto apposta per te e che ti amerà allo stesso modo.. Il giorno in cui deciderai di passare tutta la vita con lui.”

Sophia scosse la testa

“Io voglio stare sempre con te mamma.”

Eden sorrise chiudendo la scatola, poi strinse la bambina in un nuovo abbraccio

“Io ci sarò sempre per te. Tutta la vita.”

Sophia guardò di nuovo il rossetto pensando che lo avrebbe custodito come un tesoro

“Come si chiama il mio papà?”

Eden rimase spiazzata per un secondo.. Mentire o non mentire? Forse sua figlia non ricordava già più i particolari.. Forse le aveva già mentito abbastanza.

“Davis.”

Rispose a mezza bocca, sperando che la sua breve memoria di bambina mollasse il passo.

“E com’è mamma?”

Eden sospirò di sollievo, sorridendo nel nulla mentre accarezzava quell’immagine

“Bellissimo… Ha i capelli castani, gli occhi scuri ed il tuo stesso identico sorriso.”

A quelle parole Sophia corse allo specchio del vanity. Provò a sorridere, una, due, dieci volte. Sua madre rimase a guardarla in silenzio, lacerata dal rimpianto e dalla piacevole consapevolezza che sua figlia aveva il meglio di loro due.. Addosso e non solo.

“Tuo padre è coraggioso, è forte, non ha paura di niente.”

Sophia si voltò a guardarla

“E’ come un principe azzurro?”

Stavolta sorrise

“Sì, un principe azzurro.”

 

Tornata alla realtà vide Sophia ricomparire di corsa di fronte a lei

“Mamma mamma, c’è Amber!”

Amber. La sua piccola compagna con i capelli biondi e le lentiggini sul naso.

“Questa è la mia mamma!”

Esclamò Sophia facendosi tutta fiera in un istante. Eden sorrise di cuore

“Ciao Amber!”

L’altra bimba sollevò la mano in risposta mentre da lontano una donna con i capelli dello stesso colore avanzava verso di loro.

“Buongiorno…”

Si presentò

“…Sono Angelica Brown, la madre di Amber.”

Eden si alzò dalla panchina allungando la mano

“Salve, Eden Spencer.”

Si scambiarono una stretta decisa, poi la signora Brown indicò il piccolo locale al di là della strada.

“Le bambine vorrebbero un gelato. Le dispiace se le accompagno a prenderlo? Anzi, viene con noi?”

Eden ci pensò su un secondo, non era pronta ad una chiacchierata tra mamme. Cosa le avrebbe raccontato sul perché non si era mai vista a scuola? Cosa le avrebbe raccontato della sua vita da casalinga ai domiciliari?

“Mamma andiamo?”

Eden sorrise a sua figlia

“Va’ pure con Amber tesoro. Io devo fare un paio di telefonate poi vi raggiungo.”

Si rivolse poi ad Angelica

“Ne approfitto per fare un paio di telefonate, ma andate pure.”

“Se vuole la aspettiamo.”

“Non importa, non ci metterò molto comunque.”

“Ok, allora andiamo bambine!”

Eden sorrise di nuovo

“La ringrazio.”

L’altra prese per mano le due bimbe e si incamminò sugli alti tacchi che calzava alla perfezione.

Eden sospirò guardandoli entrare nella gelateria. Non sarebbe stato tutto così semplice come sperava.

Abbandonò la testa all’indietro sulla panchina e chiuse gli occhi per un istante, il tempo giusto perché il vento leggero portasse quel profumo fino alle sue narici.

Se ne riempì i polmoni senza il coraggio di aprire gli occhi. Forse si era addormentata e stava già sognando.

Respirò ancora mentre la sua ombra proiettata in avanti si infrangeva con quella di qualcun altro.

Rimase a fissare quell’intreccio di semioscurità.

Il cuore a mille dentro il petto.

 

“Come puoi essere qui?”

 

Chiese Eden a mezza voce.. Doveva essere un’allucinazione.

Chiuse di nuovo gli occhi tendendo e rilassando i muscoli allo stesso tempo.

Sospirò senza avere però il coraggio di voltarsi.

Ogni giorno di quei 929 si era chiesta se l’avrebbe mai rivisto.

Ripensò all’annullamento che lui non aveva firmato. Al divorzio che lei non aveva mai chiesto.

Era ancora suo marito.

 

“Non me ne sono mai andato.”

Rispose lui muovendo un passo più vicino sull’erba.

Eden poteva quasi sentire i suoi capelli sfiorargli il corpo, lo sentiva dietro di lei ed avrebbe voluto tanto voltarsi, ma non ne aveva il coraggio.

Dopo quel che aveva fatto, dopo le decisioni che aveva preso, Davis avrebbe avuto tutto il diritto di odiarla, ma lei non avrebbe sopportato di voltarsi e trovare nei suoi occhi null’altro che odio.

“Come puoi essere qui?”

Ripeté quasi in un sussurro, domandandolo più a sé stessa che a lui.

Davis si mosse ancora, aggirando la panchina e finendo finalmente davanti ai suoi occhi.

“Meno ti nascondi e più sei difficile da trovare… Non resterò a lungo comunque.”

Eden reagì istintivamente a quell’ultima frase e finalmente si concesse di guardarlo.

Abiti borghesi, un anonimo paio di jeans, occhiali da sole e barba incolta, almeno di una settimana o due.

Fece fatica a respirare. Mille cose avrebbe voluto dire, ma nulla venne fuori. Come sempre quello col sangue freddo era lui.

Davis prese posto accanto a lei. Eden trattenne a malapena la voglia di toccarlo per capire se fosse vero. Forse stava ancora dormendo, forse quella giornata non era mai iniziata.

“Sei bella.”

Le disse con una naturalezza disarmante che la costrinse ad arrossire. Guardarlo le veniva così difficile.

“Grazie…”

Rispose lei riprendendo fiato

“…Stai bene?”

Davis si passò la lingua sulle labbra mentre tirava fuori una sigaretta.

La accese inspirando lentamente.

“Sto bene.”

Non aggiunse altro, quasi non volesse correre il rischio di dire qualcosa di troppo.

Le rivolse gli occhi, lo sguardo nascosto dietro le lenti scure

“E tu? Sei felice?”

Eden scattò con la testa di fronte, non sapeva cosa rispondere e non voleva che lui le leggesse il viso. In fondo non poteva dire di star male, il suo mondo era quasi perfetto, quasi… Non avrebbe nemmeno potuto dirgli che era felice.

“Faccio quello che posso.”

Rispose infine il più vaga possibile.

Davis emise una specie mugugno, un suono incerto con cui forse annuiva alla sua inutile risposta.

“Guardami.”

Le ordinò. Lei tremò contro il legno della panchina.

“Guardami per favore.”

Lentamente gli rivolse lo sguardo, incerta ed impaurita come una ragazzina. Si era tolto gli occhiali ed ora i suoi occhi allungati e scuri la scrutavano senza protezioni.

Allungò le mani facendola trasalire, ma nessun contatto avvenne tra pelle e pelle. Davis afferrò con attenzione gli occhiali da sole e li sfilò dal viso di Eden.

Ora potevano guardarsi davvero.

Lui ripassò i contorni del suo volto curato, notando ogni particolare al di là del trucco. Niente occhiaie, segno che dormiva bene. Guardò più giù, lo smalto rosso alle unghie e l’assenza di anelli al suo dito sinistro. Rimase incerto tra l’essere sollevato oppure dispiaciuto.

Eden cercò i suoi occhi per capire se lui la odiasse. Aveva l’aria più rilassata di quel che aveva immaginato. Nessun livido o cicatrice recente. Nessun segno di abuso di alcool. Quasi se ne sentì ferita, forse lui stava bene da solo, forse anche meglio di lei.

“Vuoi chiedermi qualcosa di Sophia?”

Domandò Eden, bisognosa di interrompere quello scambio di sguardi.

Lui sorrise a metà dandole il colpo di grazia.

Sputò fuori un paio di cerchi di fumo.

“So tutto di lei.”

Eden sospirò

“Oh…”

Disse tra i denti. Era stata un’ingenua nel pensare anche solo per un istante che Davis sarebbe rimasto lontano da sua figlia. Da lei forse sì, ma mai da Sophia.

“Ho parecchi amici da queste parti.. Non mi sono perso un solo giorno della sua vita… E della tua.”

Eden sollevò di nuovo il viso, sorpresa, emozionata, lusingata, spaventata, tutto nello stesso momento.

“So che hai fatto pace con tua madre.”

Eden annuì senza voglia di affrontare l’argomento. C’erano mille altre cose che avrebbe voluto chiedere e sapere piuttosto, ma nuovamente non riuscì a proferire una sillaba.

Quell’attimo di pura illusione le aveva tolto ogni facoltà razionale.

Lui fumò ancora due boccate senza dire altro, poi lanciò il mozzicone un paio di metri più in là

“Torna qui stasera dopo le dieci.”

Ordinò continuando a guardare di fronte

“Ho alcune cose da dirti.”

Eden trasalì cogliendo quel repentino cambio di tono.. Era stato serio, conciso, non l’aveva nemmeno guardata.

Strinse i pugni guardandolo alzarsi, la bocca asciutta quasi avesse la lingua paralizzata.

 

“Davis..”

Riuscì infine a pronunciare quel nome, senza sapere se e con quali parole sarebbe mai riuscita a continuare la conversazione.

Lui calzò gli occhiali e le lanciò un’ultima occhiata

“A stasera.”

Concluse, sparendo a passi veloci tra gli ospiti di Grant Park, lasciandola completamente fuori dal mondo.

Cercò di calmarsi prendendo due lunghi respiri, si guardò ancora intorno.

Inutile… Doveva averlo immaginato.

 

“Mamma!”

Sophia corse verso di lei col viso ancora impiastricciato di cioccolata.

“Eccoti qua tesoro mio…”

Barcollò appena sulla panchina tornando alla realtà.

Angelica ed Amber poco più in là.

“…Gelato al cioccolato eh?”

Sophia aggrottò le sopracciglia

“Come lo sai?”

Eden sorrise prendendo una salviettina dalla borsa

“Scommetto che ne è finito più sul tuo vestito che nella tua pancia.”

Allungò la mano per pulire il viso della bambina.

“Scusami, ho cercato di non farle sporcare, ma è stata una missione impossibile!”

Angelica sorrise a sua volta, tenendo Amber per la mano

“Non preoccuparti, ne sono perfettamente consapevole!”

Il passaggio dal Lei al Tu era stato completamente naturale.

“Io e Amber dobbiamo andare adesso, ma spero di rivederti… Le nostre bambine vanno così d’accordo, spero che varrà lo stesso anche per noi.”

Eden si alzò in piedi

“Lo spero anch’io… E ti ringrazio ancora.”

“Di nulla. A presto!”

La signora Brown e la sua copia in miniatura si allontanarono lentamente. Eden si lasciò cadere di nuovo sulla panchina, stringendo Sophia accanto a sé.

Torna qui stasera dopo le dieci

Quella frase continuava a ripetersi nella sua testa.

“Mamma andiamo?”

Incalzò Sophia balzando giù e iniziando a dondolarsi sul posto.

“Dove vuoi andare tesoro?”

Lei sembrò doverci pensare mentre Eden rimirava le macchie marroni sul suo vestitino a pois.

“Sai cosa? Dovremmo passare in banca.. La nonna ha lasciato un regalo per noi.”

Sophia si illuminò

“Un regalo?”

“Esatto. Vuole che oggi ti compri tutto quello che desideri.”

La bambina prese a saltellare

“Tutto tutto??”

Eden annuì

“Già… E credo cominceremo con un bel vestito nuovo.”

 

----

 

Rientrando a casa col peso di almeno dieci buste da shopping Eden assaporò con piacere il profumo familiare di sandalo e vaniglia.

Sophia corse a sedersi sul divano. Doveva essere stanca. E lo era anche lei.

Poggiò tutto sulla porta e si tolse le scarpe prima di camminare fino alla cucina.

Un bicchiere d’acqua e tornò a sentire quella frase nella sua testa

Torna qui stasera dopo le dieci

Possibile che fosse stato solo un sogno?

Possibile che lui non fosse davvero lì?

Chiudendo gli occhi riuscì a percepire di nuovo il suo profumo e l’odore del fumo di sigaretta.

Ripensò ai suoi capelli scompigliati, alla sua barba incolta, alla sua t-shirt, alla sua voce.

Torna qui stasera dopo le dieci

Inspirò mentre lo stomaco iniziava a brontolare.

Cosa avrebbe detto a Dair? Come avrebbe potuto uscire di casa dopo cena? Cena.. Si avvicinò al frigo e notò con sollievo la presenza dell’arrosto che aveva preparato la sera precedente. Non sarebbe riuscita nemmeno a scaldare un pasto surgelato in quelle condizioni.

Sophia si era già addormentata.

Scivolò silenziosamente in camera e di nuovo tornò a guardarsi nello specchio.

Cosa voleva dirgli Davis? Che la odiava forse? Che la ringraziava di averlo lasciato libero? Che si sarebbe vendicato togliendole Sophia e tutto ciò che aveva di più caro?

Scosse la testa.

No. Davis non le avrebbe fatto questo… Ma come poteva esserne certa? Lei invece era riuscita benissimo a fargli del male.. A distruggere le sue speranze ed i suoi sogni.. A tenerlo lontano da sua figlia.. A lasciarlo..

Stavolta forse era il suo turno.

Il rumore della porta la fece sobbalzare, Dair fu vicino a lei poco dopo.

“Tutto bene?”

Eden si sforzò di sorridere

“Sono solo stanca.”

Lui poggiò un bacio tra i suoi capelli

“Troppo shopping?”

Eden abbassò lo sguardo e si voltò verso di lui

“Cosa avrei fatto senza di te?”

Dair sospirò inginocchiandosi fino alla sua altezza

“Io non ho fatto nulla… Ci sei riuscita da sola… E io sono orgoglioso della donna che sei diventata...”

Eden non rispose

“…Sei libera adesso.”

Non lo era affatto. Nemmeno un giorno e nuovamente si era persa nel suo passato.

Dair allungò due dita e le sollevò il mento

“Che c’è?”

Lei scosse la testa

“Niente.”

“Sicura?”

Eden prese la mano di Dair nella sua

“Ti devo tutto. Non voglio deluderti.”

Lui sorrise

“Non l’hai fatto.. E non succederà mai…”

Le accarezzò piano il viso

“…Io ti amo.”

Concluse.

Eden inspirò profondamente quelle parole. Per tutto il tempo della condanna erano state il suo mantra, la forza che l’aveva spinta a superare il dolore e l’incertezza. Anche se non lo meritava, anche se non avrebbe mai potuto ricambiare nello stesso modo, quell’uomo perfetto era suo.. L’uomo che sua madre aveva sempre desiderato sposasse.. Un compagno fedele ed un patrigno stupendo.

“Lo so… Me lo ricordi ogni singolo giorno.”

Dair si sporse e le sfiorò le labbra con le proprie. Eden ricambiò con la stessa delicatezza.

“Vuoi mangiare?”

Domandò, instillata di nuova forza. Lui si alzò e si passò la mano sullo stomaco.

“E’ stata una lunga noiosa giornata.”

Eden sorrise balzando in piedi

“Andiamo allora.”

 

Fu solo dopo l’arrosto e lo sformato di broccoli, solo dopo aver riposto gli ultimi piatti nel lavandino, che Eden si concesse di guardare l’orologio.

Le nove e trenta.

Ebbe un sussulto incontrollato e lasciò cadere la spugna.

Doveva andarci. Comunque doveva andarci.

Sfilò in camera bypassando il divano ed afferrò la borsa. Uno sguardo veloce al mascara ancora intatto e rientrò in soggiorno.

Dair sollevò un sopracciglio

“Dove vai?”

Eden sollevò maldestramente le spalle

“Stavo controllando la dispensa ed ho scoperto che manca… Manca… La salsa di soia.”

“Esci a quest’ora per la salsa di soia?”

Eden annuì

“Ne ho assoluto bisogno. Devo marinare la carne per domani.”

Dair aguzzò lo sguardo, quella nuova passione per la cucina stava diventando una vera ossessione.

“Sei sicura di non poterne fare a meno?”

Lei annuì di nuovo

“Un’altra cosa che posso fare da sola adesso… La spesa.”

Dair sembrò rilassarsi. Probabilmente era solo questo, bisogno di uscire di casa.

“Se davvero è indispensabile…”

Eden strinse la borsa sulla spalla

“Farò più in fretta che posso.”

Nella sua testa l’amara constatazione che la sua scusa non avrebbe retto. Il supermarket era solo pochi passi più in là del palazzo. Comunque scese le scale e si immerse tra le vie ancora popolate della città.

A piccoli passi continuava ad avanzare, la borsa stretta da una parte ed una sigaretta nell’altra. Solo un po’ di nicotina le avrebbe permesso di arrivare ancora in piedi fino al punto stabilito.

Mancavano due minuti alle dieci quando raggiunse la panchina. La zona dei giochi era deserta. Quasi tremò al pensiero di esser sola in quel posto.

 

“Stai davvero bene in verde.”

Un nuovo complimento.

Si voltò di scatto e lo trovò lì davanti, anche lui negli stessi vestiti della mattina. In mano una valigetta nera.

“Gra… Grazie.”

Si fece avanti a passi lenti, lui si avvicinò a sua volta.

Rimasero in piedi a guardarsi nella penombra della serata. Dire “mi dispiace” sembrava davvero troppo banale.

“Ecco…”

Iniziò lui poggiando la valigetta sulla panchina per tirarne fuori una pila di fogli.

Documenti del divorzio? Eden deglutì a fatica.

“Ricordi quando hai mandato a monte la lettura del testamento di mio nonno?”

Eden aggrottò la fronte senza rispondere a quella domanda retorica

“Beh.. Avrei voluto ucciderti allora, ma adesso credo che dovrei ringraziarti.”

Lei avanzò un passo esitante

“Cosa sono?”

Lui le porse il pacchetto di fogli scritti in piccolo

“E’ la mia eredità…”

Sospirò lasciando i documenti nelle mani di Eden e riempiendo la sua con una nuova sigaretta

“…Ho messo tutto in un fondo fiduciario a nome di Sophia Miller. Ovviamente non vi avrà accesso prima dei ventun anni, ma tu potrai gestirlo al suo posto.”

Eden buttò gli occhi ai documenti senza riuscire a mettere a fuoco nemmeno una parola

“Ma… Ma lei… Lei non…”

“Lo so.”

Interruppe Davis porgendole un ulteriore modulo

“E’ per questo che sono qui…”

Le porse anche una penna

“…Voglio che abbia il mio nome. Voglio che sia mia figlia, biologicamente e legalmente.”

Eden spalancò la bocca comprendendo cosa avrebbe dovuto firmare.

“Farai almeno questo per me?”

Incrociò gli occhi di Davis di fronte ai suoi, finalmente vide la sua profonda tristezza. Era solo colpa sua.

Annuì mordendosi il labbro inferiore.

Firmò senza pensarci due volte, anche se ciò significava dargli potere, rischiare che un giorno venisse a reclamare la sua progenie.

Almeno questo glielo doveva.

Davis sospirò

“I miei avvocati ti faranno avere il resto.”

Concluse. Buttò la cicca e sembrò volersi allontanare.

Eden si sentì morire.

“Aspetta!”

Lui si fermò sui suoi passi, lei lo raggiunse

“Ti prego non andartene.”

Davis sembrò frugare nella confusione del suo sguardo, accarezzandola con occhi indecifrabili.  Sputò fuori il suo ultimo respiro e prese posto sulla panchina poco distante.

“Ho capito perché l’hai fatto…”

Esordì guardando altrove

“…Ma non posso sopportare il pensiero che tu stia con lui… Non riesco nemmeno a guardarti.”

Eden accusò il colpo nello stomaco

“Io non… Non sto con lui.”

Davis tirò su col naso

“Tu vivi con lui.” Precisò  “Con lui e con mia figlia.”

Sentì le lacrime bagnarle gli occhi

“Non sto con lui… Potrei… Dovrei in realtà, ma non sto con lui…”

Davis alzò finalmente lo sguardo

“…Ho provato, ho provato a dargli quello che merita, ma non ci riesco.”

Lui si leccò le labbra

“Perché?”

Eden abbassò gli occhi, strinse i pugni, tremò appena

“Perché amo te…”

Confessò

“…Non ho mai smesso… Non smetterò mai.”

Lo guardò abbassare la testa, rifugiando il viso tra le mani.

Eden sentì l’urgente bisogno di piangere. Aveva sperato che quelle poche parole sarebbero bastate per sistemare tutto.

Stupida. L’amore non è una giustificazione.

 

“Tu mi odi vero?”

Osò chiedere con la voce già impastata dal pianto. Davis balzò in piedi e le fu presto vicino, cercando i suoi occhi tra le lacrime

“Non potrei mai odiarti…”

Si passò nervosamente una mano tra i capelli

“Qualsiasi cosa tu faccia… Qualsiasi cosa tu possa dire… Anche se hai fatto in mille pezzi il cuore che non pensavo di avere… Io non posso odiarti.”

Eden pianse di sollievo.

 

“Devo andare via adesso.”

Davis contrasse la mandibola dovendo per forza sputare fuori quelle parole. Era troppo pericoloso per lui girare indisturbato per le vie di Chicago.

Negli occhi di lei il terrore che fosse la fine tanto temuta

“Dove andrai?”

“Lontano. Molto lontano da qui.”

Eden dimenticò di respirare.

La testa prese a girarle.

“Ti vedrò ancora?”

Lui sorrise appena sollevando un angolo della bocca

“Chi lo sa ragazza invisibile… Nemmeno la morte ci ha tenuti lontani per molto in fondo.”

Si strinse nella giacca e prese un lungo respiro

“Abbi cura di Sophia… Abbi cura di te.”

Eden scosse la testa

“Non posso credere che stia succedendo.”

Lui si grattò un sopracciglio cercando di restare impassibile nonostante tutto

“Dovevi scegliere… E l’hai fatto.”

Eden si morse il labbro, quasi fino a farlo sanguinare. Era completamente dilaniata tra la consapevolezza di aver deciso per il bene di sua figlia ed il desiderio di seguire quell’uomo, di piangere, buttarsi in ginocchio, fare qualsiasi cosa purché restasse.

Non mosse un muscolo.

Davis le sorrise per l’ultima volta.

“A presto ragazza invisibile.”

Concluse ignorando che fosse un addio. Accese l’ultima sigaretta ed immerso nel suo stesso fumo si voltò verso l’uscita.

Eden rimase piantata a terra mentre lui si allontanava, affrontando nuovamente quella scena… Come due anni e mezzo prima.

Un’altra volta guardava la sua schiena, ancora una volta avrebbe rivissuto quell’orrore.  

Mollando la borsa e lasciando volare i documenti al vento, corse quei pochi passi chiamando il suo nome

 

“Davis!”

 

Lui inchiodò i passi prima di varcare il cancello, il tempo di voltarsi e già la sentì addosso, stretta a lui, aggrappata alle sue spalle come fosse l’ultimo punto d’appiglio in mezzo all’infinito dell’oceano.

Barcollò per il suo peso e per il dolore che provava dentro. Toccarla avrebbe reso ognuno di quei secondi invivibile… Toccarla avrebbe significato non trovare più la forza di andare via.

Chiuse gli occhi inspirando quel profumo, cercando di bloccare il fortissimo desiderio di ricambiare quell’abbraccio… Stringerla… Baciarla… Fare l’amore con lei in mezzo a quel parco… Sollevarla e portarla via con sé.

Respirò ancora, cedendo all’irrefrenabile voglia di passare le dita tra i suoi capelli ancora una volta.

Lo fece e non riuscì più a fermarsi, scorrendo le mani sulla sua nuca, sulla sua schiena.. Ricambiando finalmente quella stretta, trovando inevitabilmente la sua bocca su quella di lei… Il suo sapore… Non avrebbe mai dimenticato il suo sapore...

“Devo andare…”

Disse tra i sospiri. Prese il suo viso tra le mani e la guardò dritta negli occhi per l’ultima volta

“…Sii felice…”

Eden provò a divincolarsi scuotendo la testa, ma lui la bloccò

“Sii felice…”

Ribadì

“…E se non ci riesci, troverai il mio ultimo regalo in quella valigetta.”

 

Un secondo. Un secondo ed era sparito.

 

-----

 

Eden chiuse di fretta la porta e corse in camera buttando la valigetta sotto il letto, appena in tempo prima che Dair comparisse alle sue spalle.

“Niente salsa di soia?”

Il tono pesante, la domanda retorica, lo sguardo serio.

Eden sospirò

“Mi dispiace. Ti ho mentito… Avevo bisogno di schiarirmi le idee.”

Lui si avvicinò

“E ci sei riuscita?”

Eden annuì

“Mi dispiace.”

Stavolta non per scusarsi dell’uscita notturna.

Lui abbassò gli occhi

“Lo so.”

Era il loro continuo andirivieni di scuse e tentativi.

Dair sospirò facendosi avanti, tentando di raggiungerla e stringerla tra le braccia. Eden non riuscì a trattenere un sussulto.. Dopo essere stata nell’abbraccio di Davis, quello sembrava del tutto sbagliato.

Lui si tirò indietro, spiazzato e suo malgrado ferito.

Sospirò

“Ti lascio da sola.”

Lei cercò i suoi occhi

“Scusami, è solo che…”

Dair alzò il palmo per fermarla

“Non importa.”

Concluse uscendo di fretta dalla stanza. Eden avrebbe voluto seguirlo, ma il richiamo più forte era quello che proveniva da sotto il suo letto.

Tirò fuori la valigetta e la aprì, scostando lentamente i documenti. Sul fondo trovò una bustina quadrata ed al suo interno un DVD. Nemmeno il tempo di osservarlo che già era infilato nel computer.

Quasi pianse vedendo quel viso.

Ciao Eden… Spero tanto che tu stia bene.”

Sullo schermo il viso di Payne brillava sullo sfondo di una spiaggia assolata. I suoi lunghi capelli biondi mossi dal vento ed il più grande sorriso che avesse visto.

Vorrei tanto che tu fossi qui…Ho così tante cose da dirti.”

La Payne del video buttò gli occhi al cielo e si morse il labbro poco prima di esplodere in un nuovo sorriso. Sollevò la mano sinistra di fronte alla telecamera. Sul suo anulare brillava un’inconfondibile fede d’oro.

L’abbiamo fatto!”

La vide ridere di cuore mentre i suoi occhi si facevano lucidi.

E…”

Riprese alzandosi in piedi

“…Abbiamo fatto anche questo!”

Sorrise mostrando il profilo del suo pancione. Eden spalancò la bocca davanti a quell’immagine.

Si sentì di colpo così felice.

Sullo schermo Payne sorrise di nuovo

Ecco che arriva mio marito!”

Accanto a lei apparve Tyler, abbronzato e radioso. I suoi capelli mossi erano più lunghi del solito e la sua espressione non lasciava possibilità di dubbi.

Ciao Eden, spero tanto che tu stia bene!”

Lei si mosse impaziente, desiderando con tutto il cuore di poter rispondere ai suoi amici, di potersi congratulare, di confessare a Tyler che aveva già comprato venti copie del suo romanzo.

Ti ringrazio amica mia, ti ringrazio di tutto.”

Eden sorrise. Dopo tutto le sue scelte avevano portato anche a qualcosa di buono.

Payne aveva ripreso il controllo della camera, riempiendo l’inquadratura col suo sorriso

Mi manchi, mi manchi tanto!”

“Anche voi mi mancate..”

Sussurrò Eden mentre lo schermo diventava nero.

Erano felici. Payne e Tyler erano felici. Lei invece…

Si tirò su prima di finire il pensiero. Aveva tutto ciò di cui aveva bisogno.

Tirò giù lo schermo del laptop e tornò alla valigetta, sperando di riuscire a mettere tutto via prima del ritorno di Dair.

Nel momento in cui provò a riporre il DVD esattamente dove l’aveva trovato, notò un’altra busta nell’angolo, mimetizzata nella pila di documenti legali.

La aprì timorosa e ci guardò dentro.

All’interno due biglietti aerei, uno col suo nome e l’altro col nome di sua figlia.

Sophia Miller.

La loro figlia.

Li accarezzò con la punta delle dita.

Due biglietti aperti, senza data di partenza o ritorno… Destinazione Tokyo.

Li strinse istintivamente al petto.

Ecco dove sarebbe andato.

Ecco dove le avrebbe aspettate.

Un sorriso sincero e liberatorio si aprì sul suo viso. Non era finita, non sarebbe mai finita.

Solo in quell’istante poté apprezzare le ultime parole di Davis.

Quello era il suo regalo.

Un finale sempre aperto. Una porta sempre spalancata.

Ripose i biglietti e camminò fino alla stanza di Sophia.

Dormiva, tranquilla e beata, stringendo a sé il solito orsetto di pezza. Il suo piccolo mondo quasi perfetto.

La accarezzò sfiorandola appena perché non si svegliasse. Un giorno tutti i dubbi della sua bambina avrebbero trovato soluzione. Un giorno avrebbe potuto raccontarle il resto della storia.

Suo padre non poteva tornare, ma lei ora poteva raggiungerlo nel suo regno lontano.

Un giorno…

Un giorno avrebbe usato quei biglietti.

 

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PORT ELIZABETH – SUD AFRICA

 

André scacciò le mosche intorno al suo naso con un gesto automatico della mano.

Fece roteare la monetina tra le dita guardando la sua immagine riflessa nello schermo della slot machine elettronica. I capelli tirati indietro col gel non si erano mossi di un millimetro ed ormai era riuscito ad abituarsi a quel nuovo pizzetto dai riflessi rossastri.

Sbuffò di noia infilando la moneta nell’apposita fessura.

Spinse i tasti seguendo il giusto ritmo che ormai conosceva a memoria.

Ding. Ding. Ding.

L’immagine dei quattro assi di picche si ricompose rapidamente davanti ai suoi occhi. Una cascata di monetine fuoriuscì in pochi secondi.

Stupida tecnologia dozzinale. Fin troppo semplice da prevedere.

“Phinde!”

Esclamò in zulu il proprietario di quella baracca sita sulla costa sudafricana. Sorpassò il bancone e lo raggiunse con aria esasperata.

“Ancora! Tu vince ancora!”

André sembrò non notarlo nemmeno e si sollevò dallo sgabello senza prestare alcuna attenzione ai gesti increduli dell’uomo di colore al suo fianco.

Non raccolse nemmeno un centesimo della sua vincita, allontanandosi con un sorrisetto in faccia e gli occhi puntati all’orologio.

Raggiunse il telefono pubblico alla parete.

Compose il numero stampato nella sua memoria.

Tre lunghi squilli metallici e finalmente lei rispose.

“Sì?”

“Sono io…”

Ancora una volta André controllò l’orario

“…Accendi la tv..CNN.”

Dall’altra parte del globo, a quasi 15000 chilometri di distanza, Blake afferrò il telecomando.

Odiava la lingua giapponese. Dopo qualche sforzo riuscì a maneggiare i canali satellitari e trovò la CNN.

L’anchorman annunciava puntuale l’ultimo scoop.

 

“Uno scandalo inaspettato colpisce quest’oggi il Federal Bureau of Investigation. Uno dei suoi membri più conosciuti al pubblico americano è stato oggi sollevato dal suo incarico e messo immediatamente in detenzione preventiva… L’agente McPhee, vice-comandante della sezione criminalità organizzata di Chicago, è infatti accusato di istigazione alla prostituzione ed abuso di minore…”

Blake sollevò un sopracciglio cercando di capire

“…Proprio questa mattina, in condizioni ancora da chiarire, tutta la rete è stata invasa dalle immagini del vice-comandante in atteggiamenti lascivi con una prostituta coreana minorenne. Non sappiamo ancora se sia stata opera di un hacker o un attacco personale all’agente, ma queste foto hanno fatto in un solo secondo il giro del mondo, comparendo perfino sugli schermi pubblicitari di Times Square…”

Blake non trattenne un sorriso

“… Le autorità stanno ora cercando l’hacker in grado di provocare un simile trambusto nella rete e tra gli uomini che proteggono questo paese… Nel frattempo l’ex vice-comandante resta in cella, in attesa di processo.”

Blake distolse lo sguardo dalla tv e riportò la cornetta all’orecchio

“E’ opera tua?”

André sghignazzò come un bimbo fiero della sua ultima marachella

“Nessuno mette le mani addosso a Blake Miller per poi passarla liscia.”

Lei scosse la testa

“Sei un folle.”

All’altro capo André usò la mano libera per scompigliarsi i capelli

“Sono un genio.”

 

  
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