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Autore: Dearly Beloved    03/10/2012    2 recensioni
È un luogo posto fuori dal tempo e dallo spazio. Assomiglia al paradiso, e ti assicuro che è abitato da un angelo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Kairi, Naminè
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Altro contesto
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~La casa delle illusioni.
A metà strada tra la realtà e i sogni.

-stories without happy ending-

 

 

 



Sì, ricordo quel posto. Ne ricordo ogni cosa.
Come dimenticare?
La stanza al primo piano, con le tende che danzavano sempre sospinte dal vento, così che dall'esterno, nei giorni di vento, si potesse intravedere dalla grande finestra che dava sul giardino quello che vi era dietro, se si guardava con particolare attenzione.
Sì, dai, la stanza dove tutto è bianco. Ogni cosa. Così bianca che quando entri la vista resta stordita da quel candore puro e abbagliante.
È un luogo posto fuori dal tempo e dallo spazio. Assomiglia al paradiso, e ti assicuro che è abitato da un angelo.
Come? Non ci sei mai entrato? Pfft. Allora prova almeno ad immaginarlo, a visualizzarlo nella tua testa. Ti rubo solo cinque minuti, il tempo di raccontarti questa storia e poi vado, così ti lascio continuare quello che stavi facendo prima. Vedrò di fare un buon lavoro, anche se lo ammetto, sono una pessima narratrice.


 


 




La villa era vecchia e disastrata. Aveva un che di inspiegabilmente attraente, ed ero convinta che nascondesse incredibili segreti, che cullasse storie da tempo dimenticate, che ospitasse gli spettri del passato, le anime in pena.
Oh, non parlo di fantasmi, sono un po' scettica al riguardo. Poteva essere, invece, che Dio avesse preso tutta la nostalgia del mondo e l'avesse messa là dentro, tra quelle quattro mura.
Non mi riferisco neanche esattamente alla comune nostalgia, come ad esempio quella che ti viene alla fine delle vacanze estive pensando che ricominceranno tra non prima di nove mesi, oh no. Quello di cui parlo è qualcosa di molto più profondo.
È nostalgia, in un certo senso, perché è nostalgia quella che provi quando perdi qualcosa e ti rendi conto di non averla più al tuo fianco.
La nostalgia che non passa, quella che non ti abbandona nemmeno per un attimo, che ti ferisce l'anima poco a poco e che ti accompagna ovunque, quella che diventa la tua migliore amica, che ti uccide dall'interno senza che tu possa neanche accorgertene, così, poco a poco. Si insinua malevola nella tua vita, munita di un sorriso gentile, e poi te la toglie. Anche se respiri, cammini, mangi, è come se fossi morto dentro.
Non è normale nostalgia, è qualcosa di molto più patetico. È la mancanza esacerbata di qualcosa di vitale. La gente la chiama depressione.
Dio l'aveva messa tutta là dentro, nella sua parte più poetica ed essenziale. Incantevole e affascinante, come il più bello ma pericoloso degli assassini.
E io, da brava sprovveduta qual ero, mi lasciai assorbire totalmente da quel trionfo di malinconia e calma rassegnazione.
Era come entrare in un cimitero: il cimitero delle storie che finiscono male. Ti sedava, ti calmava, ti metteva addosso un'indicibile tristezza ed al contempo una profonda inquietudine.

 

Proprio come un cimitero.
Lo visiti, preghi per coloro che lo abitano,
sai che non torneranno mai più, loro.
Però è come se ti guardassero costantemente, calmi nella loro malinconia eterna.
Adesso riposano.
E l'eternità, adesso, ti sembra talmente lunga da lasciarti a bocca aperta.
Ed un giorno, forse tra molti anni, forse a breve,
ti unirai a loro.


Era questo che mi inquietava.
Diventare una di quelle storie senza lieto fine anch'io.

Entrando nell'atrio, rimanevi, come dire?, spiazzato da tutte le emozioni che ti assalivano. L'aria era pesante, irrespirabile, ma a quello forse ci facevi caso dopo, dopo aver ammirato quanto ti circondava.
La prima cosa che pensavi, una volta dentro, era che quel posto, un tempo, doveva essere di una bellezza sconvolgente. Chi era stato a ridurlo così male? Perché?
Ogni volta che entravo là dentro, mi veniva l'impulso irrefrenabile di piangere, ed il cuore iniziava a battere ad un ritmo tutt'altro che regolare, ma andarmene da lì era comunque l'ultimo dei miei pensieri.
Avevo una strana sensazione. Era come se proprio in quel posto, da qualche parte, ci fosse qualcosa che mi era sempre appartenuto ma che avevo perso, e per quanto io protendessi la mano per toccarlo, per appropriarmene nuovamente, non riuscivo neppure a sfiorarlo. Qualcosa di importante del quale mi ero dimenticata.
Man mano che mi recavo alla villa, con il tempo, imparavo a conoscere la nostalgia, e giorno dopo giorno diventava sempre più pressante, sempre più angosciante.
Di certo, quell'atrio illuminato dalla calda luce del tramonto che filtrava dalla grande finestra in fondo alla stanza era lo spettacolo più suggestivo di Crepuscopoli, pari forse per bellezza solo al tramonto visto dalla Torre dell'Orologio, alla Stazione. A quell'ora, i raggi del sole giocavano con le ombre, che danzavano tetre, malinconiche e aggraziate in un particolare contrasto di colori dove prevaleva quello vermiglio della luce esterna. Sembrava di essere in un caleidoscopio. Durava pochi minuti in tutto.
Avrei voluto condividerlo con qualcuno. Peccato che non ci fosse nessuno, oltre me.

Quando abitavo ancora sull'isola c'erano due ragazzi che vivevano con me, e anche Selphie, e Tidus, e Wakka, e io in loro compagnia stavo bene.
Persino dopo il mio trasferimento in città continuavo a vederli tutti i giorni, in quanto il mio nuovo indirizzo distava solo un quarto d'ora dalla spiaggia. Poi da lì partiva la cosiddetta “gummy ship”, che mi traghettava da una parte all'altra in cinque minuti.
Quindi, se volevo vedere Sora e gli altri, ci mettevo venti minuti in tutto.
Sora era uno dei due ragazzi dell'isola, ed era incredibilmente gentile e imbranato, mentre l'altro, Riku, era un tipo strano, un po' pieno di sé forse, e anche alquanto arrogante, ma mi trattava come una sorellina minore ed io volevo bene ad entrambi come fratelli.
Eppure non era con loro che volevo condividere il mio posto segreto. Forse ero un po' egoista, visto e considerato che alla base dell'amicizia c'è proprio la condivisione con gli altri di ciò che reputiamo bello. Tra amici non devono esserci segreti, e Sora e Riku erano i migliori che avevo.
Tuttavia, della vecchia villa, non vennero mai a saperne.

Tutto era cominciato quando avevo tredici anni.
Mia madre mi diceva di non andare del bosco da sola, ma o con Hayner, Pence e Olette, tre ragazzi con i quali avevo fatto subito amicizia in seguito al trasferimento, o con Sora e Riku le volte che venivano loro a trovare me in modo che potessero tenermi d'occhio, ma alla fine me ne fregavo altamente.
Il bosco era incredibilmente bello, e passavo il mio tempo lì, da sola, a guardare il cielo distesa all'ombra di un albero sul prato morbido e fresco. Ricordo quelle come le giornate più rilassanti della mia vita.
L'unica volta che mi venne la malsana idea di portare un pallone da casa e di mettermi a fare palleggi sul muretto di quella vecchia villa abbandonata, la palla finì dall'altra parte.
Quello era il pallone che mi aveva prestato Selphie per allenarmi in vista del torneo di beach volley, e pensai di doverlo assolutamente recuperare.
Andai al cancello, pronta a scavalcarlo, ma non appena mi aggrappai mi resi conto che quello, in effetti, era già aperto. Era una cosa assai strana, in effetti, ma dal momento che non ci viveva nessuno non mi feci tanti scrupoli ad entrare nel giardino. Lo spazio era enorme, ed io che ero abituata al giardinetto delle case minute di Crepuscopoli ne rimasi ammaliata.
Curiosa, mi dimenticai del pallone, attraversai il giardino e bussai alla porta dell'abitazione. Era socchiusa, e si aprì al mio primo toc con un cigolio sinistro.

La prima volta che avevo provato ad entrare nella stanza al primo piano, salendo le scale a sinistra, l'avevo trovata chiusa a chiave. Avevo bussato, ma non mi aveva risposto nessuno.
Ricordo che ci rimasi malissimo.
Mi assalì una tremenda curiosità, ma pensai che sfondare la porta non sarebbe stato carino, così una volta provai ad arrampicarmi su per la grondaia. Fu disastroso. Tornai a casa con le ginocchia sporche e insanguinate, e un umore pessimo.
Potevo visitare tutte le stanze della casa, il salottino, la bellissima biblioteca dove passavo interi pomeriggi a leggere (e che forse era la stanza che si era mantenuta meglio), e spostando un libro avevo addirittura scoperto un seminterrato segreto. Su alcuni libri, lessi che stanze come quella venivano usate come rifugio durante la guerra.
Quanto poteva essere antico quel posto? Alle volte avevo il timore che fosse così malmesso che sarebbe potuto crollare da un momento all'altro, anche con me, la sua visitatrice più assidua e affezionata, all'interno.
Potevo andare a curiosare da tutte le parti, là dentro. Guardavo un tramonto spettacolare del quale ero la sola a conoscenza, e la dolce malinconia che mi investiva acquietava tutte le mie emozioni più intense.
Chi aveva abbandonato a sé stessa quella villa aveva avuto solo la dannata accortezza di chiudere a chiave un'unica stanza.
Con il passare del tempo mi fondevo sempre di più con quelle quattro mura. Sentivo il bisogno di trascorrere il mio tempo lì, immersa in un meraviglioso silenzio e inalando il profumo di antico che vi regnava.
Quando la sera invece dovevo tornare a casa mi salivano le lacrime agli occhi.
Sapete, ero convinta che in quel posto ci fosse qualcosa di veramente mio. Veramente.
L'avevo ritrovato, e anche se non potevo averlo di nuovo, durante i pomeriggi che passavo alla villa mi sembrava di esserci così vicina da poterlo sfiorare. Quando me ne andavo era come se mi strappassero un pezzo di cuore.
Non era nulla di razionale. Era solo fottutamente struggente.

Ora, provate ad immaginarla, mentre dalla finestra entra un alito di vento tiepido di inizio estate che le carezza dolcemente una guancia, facendo oscillare lievemente alcune ciocche di fini capelli biondi.
Non solleva gli occhi dal foglio bianco, la matita ferma a mezz'aria, lo sguardo vacuo.
Tanto perfetta da sembrare finta, neanche il suo respiro fa rumore. Lei è così. Angelica, eterea.
Sui muri bianchi, spiccano i colori vivaci dei disegni di una bambina.
Guardatene uno in particolare, lo vedete? Sì, quello dei due amici con il mantello nero. Quello alto e l'altro basso, uno dai capelli rosso fuoco e l'altro color del sole. I loro volti non si vedono, perché sono di spalle.
Lei mi ha raccontato di quando ha fatto quel disegno. Ha detto, con voce cristallina “Sono amici per la pelle, sai?”
Io le ho chiesto se li conosceva.
Lei aveva inclinato la testa, interdetta “In un certo senso.”
Io l'avevo guardata, sorridendo, ma lei aveva abbassato lo sguardo, adesso sul punto di piangere “Sai, Kairi, io volevo che si dessero la mano...”
“Perché non li hai disegnati con le mani unite, allora?”
“...se l'avessi fatto davvero, sarebbe stato ancora più brutto farli separare. Ancora più doloroso, per loro. Non credi?”, prende un respiro profondo e ricomincia, mentre io la fisso senza capire “Non sono una persona buona, ma non sono neanche così cattiva da rappresentare due persone troppo felici nello stesso disegno, se so che nel prossimo che farò si lasceranno e piangeranno. Se i ricordi sono troppo belli, il dolore di non poterli più vivere sarà ancora più straziante”.
Mi fissa con i suoi occhi color del cielo, così diversi dai miei “Per lo stesso motivo, neppure noi avremo mai le mani unite, Kairi.”


Una delle volte che ero andata alla vecchia villa, mi ero messa a piangere in un angolo, sul pavimento.
Senza motivo. Così.
Perché quel posto soffriva, ed io che in un certo senso ne ero parte avevo iniziato a soffrire insieme a lui.
Le storie che nascondeva non avevano mai trovato un lieto fine, ed io piangevo per loro.
Solo in quel momento mi resi conto di quanto quell'aria fosse opprimente, di quanto l'atmosfera fosse malsana, e di quanto fossi attaccata a quell'ambiente tetro. Non ero più io, non ero più la Kairi vivace e allegra di un tempo. Fuori da lì mi sembrava di non esistere, mentre là dentro esistevo, ma ero una persona diversa.
Ti darò una mano io, se vuoi.”
Misi a fuoco solo una figura di ragazza minuta che mi tendeva la mano e sorrideva cordiale, e in quel momento mi si mosse qualcosa nel cuore. La tirai bruscamente verso di me per il vestitino bianco, e continuai a piangere sulle sue ginocchia.



§

 

 

Sai, non capita tutti i giorni di trovare un'estranea a piangere per terra in casa tua” disse ridacchiando.
“Tu vivi qui?” chiesi meravigliata, con gli occhi ancora arrossati. Quella ragazza aveva portato il sole con sé, e mi bastò un attimo per dimenticare il motivo per cui stavo piangendo prima.
Lei annuì con convinzione “Già.”
“E dove sono i tuoi genitori?”
“Da qualche parte.”
Mi venne improvvisamente un dubbio.
“Sei un fantasma?”
La ragazza rise “Che sciocchezza! No! E poi i fantasmi non esistono!”
La guardai, dubbiosa “Sono quasi tre anni che vengo qui tutti i pomeriggi.”
“Lo so” fece lei sorridendomi cordialmente.
Lo sai?!”
“Ah, esatto.”
In quel momento iniziai a sospettare che quella ragazza avesse seriamente qualcosa che non andava.
“Hai bussato alla porta di camera mia tutti i giorni per tre anni, ovvio che lo so.”
“Perché non mi hai mai aperto, allora?”
“Vuoi visitare anche quella stanza, Kairi?”
“Non hai risposto alla mia domanda.”
“Cosa stai cercando qui?”
La guardai, titubante.
“Qualcosa che credo di aver perso, e della quale mi sono dimenticata, ma è qui, lo sento, ed è importante.”
“Lo sai che se la trovassi, perderesti qualcos'altro?”
“Chi lo dice?”
“Sono le regole.”
“D'accordo!”
Lei sorrise, triste.
“Mi chiamo Naminé.”

Naminé conosceva il mio nome, ma io non mi ero mai presentata.
Naminé diceva di essere una strega, e io non le credevo.
Quello era il nostro posto, ed io vi trovai un'inaspettata serenità.
Smisi di cercare, e pensai solo a godermi il tempo che trascorrevo con lei.
Fuori dalla villa ritrovai il sorriso, al suo interno la felicità. Quel posto era maledettamente luminoso, adesso che avevo qualcuno con cui guardare il tramonto nell'atrio.

E potevo andare avanti così per cent'anni, sai?
Conoscevo tutti i tuoi disegni a memoria, e le tue espressioni buffe e graziose, ogni sfaccettatura del tuo carattere, la direzione di ogni ciocca dei tuoi capelli spettinati, le mille tonalità di azzurro dei tuoi occhi. Ascoltavo tutte le fiabe che scrivevi per me, delle quali la protagonista aveva il mio volto, sempre.
Il calendario dice che quelli trascorsi con te furono solo pochi mesi, ma per me equivalgono ad anni.

 


“È un bel disegno, Kairi! Se li disegni tu con le mani unite,
sono sicura che non si lasceranno mai.”

 

Cosa sto facendo?”
“Come dici?” chiese sollevando lo sguardo dal foglio e inarcando un sopracciglio.
La guardai, preoccupata, e le presi le mani “Adesso mi sento come se io avessi trovato quello che prima avevo perso. E devo ancora persino capire cos'era quello che cercavo!”
Lei sospirò “Dai, non è difficile.”
“Se lo sai, dimmelo, ti prego.”
Naminé arrossì lievemente “Rispetto a prima, di nuovo, hai me. No?”
La fissai, meravigliata.
Come ho fatto a trovarti, se non sapevo neppure che eri tu quello che stavo cercando?
...Cosa perderò adesso?




 

Se i ricordi sono troppo belli, il dolore di non poterli più vivere sarà ancora più straziante”.
Per lo stesso motivo, neppure noi avremo mai le mani unite, Kairi.


“Il giorno in cui smetterò di essere,
sarà solo perché ti amo.
Dovrò tornare nello specchio, e ricominciare ad essere solo un'illusione, il tuo riflesso.
Fino ad allora, non accumuliamo troppi ricordi felici,
così poi sopporteremo meglio la distanza.”

Non ebbi mai il coraggio di dirle quelle parole.



 

Quel giorno disegnavamo insieme nella stanza bianca.
O almeno, lei disegnava e io la guardavo. Naminé non proferiva parola, e sembrava turbata. Continuava a disegnare imperterrita con una foga ed una velocità nell'usare i pennarelli che non avevo mai visto, non da lei almeno, che di solito quando disegnava sfiorava il foglio con delicatezza e dedizione.
Ed evitava il mio sguardo.
“Nami-chan, cosa c'è che non va?” feci sfiorandole un braccio.
“È meglio se ti allontani da me.”
“Cosa vuol dire?”
“Tra un po' dovrò andare.”
“Perché dovresti?”
“Tanto già quando ti ho conosciuta sapevo di dovermene andare. Prima me n'ero dimenticata.”
Mi iniziò a girare la testa.

Ti trasferisci?”
“Sì.”
“Ed è qui vicino?”
“Dall'altra parte del mondo.”
“Verrò con te.” fu tutto quello che riuscii a dire.
“No, non verrai.”
“Tra quanto parti?”
“Pochi giorni.”
Naminé aveva gli occhi lucidi e la voce spezzata “Vuol dire che non potremo vederci mai più.”


Naminé non voleva mai disegnarci con le mani unite, così come non aveva disegnato così quei due amici, destinati a separarsi.
Naminé non voleva che ci facessimo del male, perché sapeva che sarebbe arrivato il giorno in cui ci saremmo dovute dire addio.
“Meglio non illudersi inutilmente.”

Quel giorno mandò a fare in culo i suoi propositi.


Si era fiondata sulle mie labbra non appena aveva scorto sul mio viso la prima delle tante lacrime che l'avrebbero seguita. Mi baciava maldestramente, con foga, disperazione. Era tutt'altro che piacevole da un punto di vista pratico, ma mai il mio animo non si era mai sentito tanto appagato.
Non ci staccammo, finché non prevalse la necessità di prendere aria.


Soltanto dopo, guardandola negli occhi, avrei capito che separarsi, adesso, sarebbe stato mille volte più difficile.

Mi aveva conquistata in così poco tempo.
La sua compagnia, per me, era la cosa più naturale quel mondo.
Ero felice, con lei. Nel modo più sincero possibile.
Era come se avessero strappato una parte di me -
la migliore parte di me- e le avessero dato una forma.
Ecco, quella era Naminé.
Era complementare. Era perfetta. Era
tutto.
Era l'anima gemella e l'altra metà della mela.
Era uguale e opposta.
E sembrava essere stata creata su misura per me.

 

Ma non era vera.
Questo lo appresi solo dopo,
quando ormai per me era troppo tardi persino per apprendere,
ma non gli diedi importanza.

 

In quel momento, sapevo solo che se se ne fosse andata, avrei sofferto da morire.


Il giorno dopo tornai alla villa, e quello dopo ancora, ma Naminé aveva chiuso di nuovo la porta a chiave.
Mi ero appostata là dietro per ore, chiamandola, cantando, bussando, provocandola con qualche battuta squallida e perfino insultandola, ma non avevo ottenuto nulla. Naminé, all'interno della camera, non dava segni di vita.
Una sera mentre aspettavo che si decidesse ad aprire, mi addormentai sul pavimento.
Sognai lei, che mi baciava a fior di labbra, e mi sussurrava con sguardo leggermente preoccupato di correre.

Correre?
“CORRI, IDIOTA!”
Naminé...?
“Oh merda Sora, qui cade tutto a pezzi!”
Sora? Che ci fa qui?
Aprii gli occhi a fessura, e l'unica cosa della quale mi resi conto furono le braccia di Riku, che mi portava via di lì, correndo affannosamente.

Quella notte la vecchia villa crollò.
 

 

 

Il fatto che io non fossi tornata a casa per il coprifuoco aveva allarmato mia madre, che aveva subito telefonato alla Destiny Island per sapere se ero lì.
Sora e Riku si erano catapultati a Crepuscopoli, mi avevano cercata, e mi avevano trovata. Giusto in tempo per salvarmi la vita.
Non dissi a nessuno che Naminé viveva alla villa, e che forse era ancora lì tra le macerie. Non volevo crederci. Se avessero trovato il suo corpo privo di vita sarei morta dal dolore. Magari non era più all'interno della stanza, quando era successo tutto. Magari era già andata via chiudendosi alle spalle la porta con le chiavi. Magari era per questo che non mi rispondeva quando la chiamavo.
Volevo continuare a sperare-


Siamo quasi giunti alla fine della storia.



Dalla prima volta che entrai nella villa, la mia vita non fu più come prima, questo si era capito, no?
 

Questo posto cambia le persone.
Le distrugge pezzo a pezzo.
Con una calma snervante.
Non te ne accorgi neppure.
Una volta che entri non puoi più uscirne.

 

Mi aveva macchiata, segnata inesorabilmente, sporcato il mio animo puro.
 

Ti ha fatto innamorare di qualcosa.
Dovresti essergli grata, sai?

 


Era diventata una dipendenza. Avevo iniziato ad incarnare le emozioni degli spiriti che vagavano per quel posto maledetto.

 

Maledetto, hai detto bene.
 

Dopodiché, ho trovato lei.
 

Ed hai pagato con la vita,
la felicità di pochi istanti.

 



Sono morta il giorno dopo, quando una colonna traballante mi è caduta addosso, mentre la cercavo tra le macerie.
Ho agonizzato per giorni. Sentivo le voci di coloro che chiamavano il mio nome, che mi cercavano, ma non mi trovavano. Ero lì, ero sotto quella dannatissima trave, ma nessuno mi vedeva.
Alla fine, stanca, mi sono addormentata.

Oggi sono solo l'ennesima storia senza lieto fine che abita la villa.
Lei è ancora lì, in piedi. Vi basterà andare a Crepuscopoli, nell'Area del Tram. C'è una crepa, da qualche parte sul muro, che dà su un bellissimo bosco.
E lì, maestosa, una villa antica dall'aria abbandonata.
Se ci entrate, farete vostre anche le emozioni di una ragazza che hai fantasmi non ci credeva, e la cui vita è finita nel preciso istante in cui la palla è andata dall'altra parte del muro, mentre giocava a pallavolo.
È un circolo vizioso. Una grande illusione.
Sentirete la mancanza della persona amata, la disperazione di averla persa, sentimenti strazianti che non credevate di poter provare.
È una calamita per le sventure, è dolorosa ma sensazionale.
Vi sentirete parte di qualcosa di cui non comprenderete la vera entità.
E poi.
La storia ha sempre un solo finale, che non è lieto affatto.

La villa ti mangia.





 

A quella stronzona di Sick.
(che non leggerà mai questa cacca di shot)

È una specie di dichiarazione d'amore
che faccio all'unica persona di cui so di non potermi innamorare affatto.
Ed è una certezza, stanne pure tranquilla.
Te la dedico (se così si può dire),
solo perché scrivevo questa cosa squallida mentre agonizzavo per la febbre,
quella volta là.

E degli altri che la leggeranno, non m'importa un fico secco.
Se non vi piace non mi suiciderò, non piace neanche a me.
È incoerente, lo so.
Ma se vi azzardate a non dirmelo mi incazzo, lo giuro.
...
Pace e amore a tutti quanti. ♥

La vostra (oggi particolarmente scazzata) Dearly.


Special Thanks_
Graffie a Evgenia Psyche Rox che mi ha convinta a pubblicare e che mi ha sopportata per tutto il tempo mentre le esponevo le mie più disparate e insensate elucubrazioni su quanto avete letto, senza farsi scappare neanche una brutta parola (neanche una piccola piccola -w-) verso di me (troppo gentile, lei ♥).
E grazie anche alla signorina che sostiene (?) le mie Kai X Nami, Daniela♪ -che non è sul sito-, cosplayer professionista e... sì, dai, più che cosplayer è la
reincarnazione di Sora, Ciel Phantomhive, e Len dei Vocaloid. Non scherzo.



 

   
 
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