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Autore: _KairiChan_    03/10/2012    0 recensioni
"Evidentemente devo essere insopportabile, quasi non proferiamo parola.." la voce rotta e gli occhi velati di tristezza, chino il viso tendo le orecchie, osservando Paola sgranchirsi le gambe con la coda dell'occhio.
"Eh, hai ragione, ti guarda di sfuggita, evidentemente o puzzi o sei odiosa.." sorride e mi compatisce, basta uno sguardo e ci intendiamo.
"O forse semplicemente gli interessi almeno un minimo." Se solo avessi un minimo di autocontrollo, potrei nascondere con falsa disinvoltura il rossore che mi tinge lievemente le guance.
"O forse mi sto facendo io troppe pare, non gli sto antipatica, non gli interesso e gli sono indifferente".
Questa ammissione mi è costata troppo evidentemente, mi è bastato ammettere a me stessa che ci sto cadendo di nuovo. Tiro fuori la sigaretta, un click e tiro, tanto poi, a chi interessa, dopotutto io una sigaretta me la fumo ugualmente.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing
Note: Cross-over, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I
Dieta di Fumo. 




«Hai da accendere?»
«Aspetta..»
La mano si infila vorticosa all’interno della tasca, in una ricerca immediata di quello che sembra essere il residuo mal concio di un accendino. Mi tende la mano ed io prontamente afferro ciò che ormai è rimasto di un ricordo, esaminandolo con disinvoltura nel tentativo di ritrovare la scritta “Ti voglio bene♥”

Scintilla.
Scintilla.
Rumorino metallico.
Aspiro.
Fumo.

Francesco,  scosta con movimento disordinato il fumo dal viso ed accende anche lui la sua sigaretta alla menta. Un click e il suo fiato sa di Daygum Protex appena ingoiate.

«Effettivamente dovrei cambiarlo, ma lo tengo finché funziona, e poi, sai anche tu che ci sono affezionato.»
«Ci sono affezionata anche io, cosa credi, non immagini quanto mi manchi.»
Fra abbozza un sorriso malinconico. Ormai sono passati 4 mesi da quando Paola si è trasferita. Probabilmente nessuno di noi avrebbe immaginato il vuoto che si sarebbe creato, il fatto che io abbia pianto alla sua ultima visita di due settimane e che sarebbe stata così dura riuscire a vederci almeno una volta al mese. Diciamo che la nostra amicizia è messa a dura prova e nonostante la distanza che ci separa, in ogni caso, Wish you were here ci ricorda che non siamo sole.

La scuola è iniziata da un po’, ormai ho anche perso il conto, sono nuovamente sprofondata nelle routine quotidiana e ho ripreso le solite azioni ripetitive e monotone.

La campanella trilla, fine della pausa, si ritorna in classe. Il corridoio si fa sempre più stretto e, con il Boom dell’artistico che vi è stato in questi due anni, la moltitudine di studenti zombie che si accalca alle macchinette per poter godere degli ultimi minuti di intervallo, sembra triplicata. O forse sono solo io che mi sento soffocare e che ultimamente mi sta tutto troppo stretto, e non parlo solamente dei miei vecchi jeans. La prof di chimica entra in classe con la schiena curva ed il mento affondato nei libri di testo, borbottando tra se e se che abbiamo poche ore a disposizione ed il programma è infinito. Tempo 5 minuti e sparisce nuovamente dietro la porta.
Marco sfila con disinvoltura davanti all’entrata, serra la porta e verifica che non ci siano professori in vista dalla fessura che sormonta il muro, un frastuono colossale e di noi rimane solo un accozzaglia di zaini abbandonati con disordine sui banchi e cappotti in terra.

«Oh, ma sabato chi è andato all’Arena?» Urla Sergio dall’altra parte della classe, la sua voce si impone sul chiasso totale e sul mormorio di sottofondo.
«Io, Nicole e Maria ci siamo incontrare praticamente all’uscita!»
«Ali c’eravamo anche io, Ilaria e Valentina però adesso è enorme, evidentemente non ci siamo incontrate!» Affermo io, fiera della mia serata, inaugurazione della discoteca, posto stupendo, davvero tante persone e specialmente non pare nemmeno quello squallidume del Gold dove si andava a ballare fino a due mesi fa.
«Puttana ma ‘vara che l’han fatto strabello ne!»
«Cati ma c’eri anche tu?» Chiedo curiosa e dispiaciuta di non aver incrociato Carolina, mi avrebbe fatto piacere vederla, specialmente perché è stata la mia fidata consulente durante la scelta dell’abbigliamento più appropriato.

«Oh ma com é che siete andati tutti tranne me!?» La classe ride e Federico si china e raccogliere il pacchetto di sigarette ignorando gli altri.
«Perché tu scemo che non sei voluto venire!» Grida Andrea dall’angolo della classe, appoggiata alla colonna nel tentativo disperato di collegarsi al Wifi della scuola.
«Senti non mi rompere i coglioni che non avevo 16 euro da spendere solo per l’entrata!» Si alza di scatto, le rivolge una smorfia complice e si appresta ad uscire.

«Oh io vado a fumare, se torna la strega io sono in bagno!»

Lo osservo uscire dalla porta disinvolto e dalla camminata molleggiata, dopo essersi sistemato i jeans calanti. Taciturno e di poche parole, o almeno solo con me. Mi guarda, lo guardo, si gira, parliamo poco. Sembra una presa in giro il nostro rapporto di conoscenza. Se penso che siamo persino compagni di banco, questo suo atteggiamento mi sembra sempre più strano. Eppure, con le altre compagne di classe parla di più, le insulta da amiche, scherza. Evidentemente o sono decisamente insopportabile, o sto iniziando a puzzare, teoria improbabile dal momento che mi lavo minimo una volta al giorno e sono solita ad indossare litri di profumo.

In ogni caso, reputo la mia nuova classe di gran lunga migliore rispetto a quella con la quale sono stata costretta a passare i miei primi due anni di liceo. Diciamo che cambiare classe al triennio non è mai facile. I primi giorni sono un inferno, conosci tutti ma solo di vista, i nomi nuovi da imparare, fare una selezione delle persone che pensi potranno essere quelle con cui legherai di più per il resto dei tuoi 3 anni, insomma, impegno non indifferente.

«Settimana prossima ci fermiamo in città a mangiare qualcosa?»
«Madò, magari dai, poi porto la macchina fotografica, ci sta dai!» Effettivamente sono esaltata all’idea, non rimango molto spesso in centro e può essere un modo un po’ diverso per cazzeggiare in centro con le altre.
«Ma dove mangiamo?»
«Oh Mari non lo so, ci sono tanti di quei posti , un panino al massimo basta!»

Okay, io sono a dieta, però al massimo la sera evito di mangiare, quello è il minore dei problemi, l’unica cosa è trovare il soldi per le sigarette, il biglietto e il pranzo, evitando possibilmente di gravare nuovamente sul bilancio familiare.

«Andre, Cati, voi venite?»

Andrea si avvicina, si sistema la treccia e ci posa davanti il menù di una pizzeria.

«Io ci sono, però ordiniamo qui la pizza e ce la facciamo portare ai giardini, non costa un cazzo e te la portano dove vuoi!»

Sento vibrare la tasca destra, un messaggio o uno squillo terribilmente corto. Messaggio.

«Dai bella! Va bene così allora!»
Approviamo tutte e torniamo rapidamente ai posti, come brave studentesse modello quali siamo, nell’istante antecedente all’entrata fugace ed indiavolata della Professoressa Mairaghi.

SMS - 11.53 02/10

Da: Alee:)

Ehi tesoro
non ce la faccio nemmeno domenica,
ci sentiamo poi dai.


Ed ecco una reazione dalla serie OmioDio-un-messaggio-ma-se-non-ci-sentiamo-da-una-settimana. Relazione che va a puttane, che sinceramente io ritengo già conclusa dalla fine di quelle due settimane indimenticabili di vacanza studio a Dublino. Non mi interessa per quanto lui possa insistere sul fatto che ci tiene a me, gli manco e cazzate simili, niente tempo per vedersi, niente in comune. Sembriamo qualcosa come amici di penna e basta.

Un pungente odore di fumo mi carpisce i sensi e mi fa notare Federico, appena sedutosi al suo posto, sotto i cappotti, rasente al muro.

«Gre’, che ha detto la Maira?»

Mi trovo con il naso del mio compagno di banco a cinque centimetri dal mio.
Lo guardo e poi con la coda dell’occhio scruto nella direzione della prof, con l’aria incazzata, di chi non si fa una bella risata da un bel po’ di tempo e sinceramente, non penso che nessuno abbia mai visto ridere l’ammazza – studenti.

«Non lo so, ero sovrappensiero scusa..»
Gli sorrido e infilo la testa nella borsa, spargo sul banco i pastelli e inizio ad abbozzare sul blocco da schizzo, non sono in vena di sorbirmi altri 20 minuti di predica per il solo fatto che nell’ultima verifica la media dei voti era proprio come si aspettava lei: un disastro. Mi sento in diritto di farmi gli affari miei, sono sempre andata relativamente bene a scuola, chimica compresa, non sarà lei a peggiorarmi la giornata.
Le ore scorrono fugaci e presto si avvicina la pausa pranzo, io e alice ci sediamo sulla terrazza della classe ansiose di scoprire quale terribile categoria di macedonia avrà da proporre il servizio di ristorazione convenzionato dalla scuola.

«Gilizzari, Nilva è arrivato il pranzo muovetevi o oggi per voi balza!» Fabrizia, simpatica come al solito, strilla dal secondo piano, con la sua voce acuta e sgraziata che risuona in tutto il corridoio.

Trentasecondi e siamo giù, corsa lungo la bidelleria, attraversato lo stretto terrazzo e ruzzolate giù dalle scale di emergenza, dopo essere state avvisate da Renata e Francesca di “fare poco casino che altrimenti, ci mandano a casa”.
Pagato l’omino delle merende, o almeno così dice il cartellino posto a decorazione della sua improbabile divisa color porpora, ci sediamo lungo le vetrate dell’aula, disponendo con ordine le varie pietanze.

Apro la vaschetta entusiasta e.
Fantastico.
Melone, Kiwi, Uva.
L’unico frutto che manca per coronare questo trio nauseabondo è la pera, poi saremmo stati decisamente a cavallo in quanto fattore disgusto.

Carolina estrae con cura la pizza dal cartone, ripiegandone con eleganza i bordi e separando le fette tagliate in precedenza con meticolosa precisione. Mi guarda perplessa.

«Ma scusa mangi solo quello?»
«Già, e se penso che l’ottanta per cento di ciò che ho nel contenitore mi da il voltastomaco mi vien male.»
«Ma non puoi mangiare solo una macedonia per pranzo! Non ti reggi in piedi a fine giornata!»
La guardo, preferisco evitare il discorso peso, sono due giorni che mangio poco e nulla e sinceramente non mi sono mai sentita tanto bella.
«Tranquilla, va bene così.»
Le sorrido, e penso che probabilmente il giramento di testa di ieri sera non è stato casuale, ma non mi importa, ho intenzione di perdere peso, che il mio corpo lo accetti o no. Da Mercoledì finalmente ho l’opportunità di iniziare palestra e finalmente, forse, riuscirò a raggiungere la corporatura di quelle stupende ragazze dal fisico perfetto dei cataloghi Bershka o H&M.

Lo faccio per me, per me e basta.

La campanella strilla nuovamente e annuncia calorosa la fine della pausa pranzo, prendiamo tutti posto, e ci prepariamo ad affrontare quello che, già si prevede, sarà un pomeriggio tutt’altro che leggero.
Le ore passano lente ed inesorabili, tra un formale grazie e prego tra me e Federico mentre ci prestiamo a vicenda banalmente squadre, righe, penne e gomme.
Il mio orologio segna le 17.03, fine di un estenuante pomeriggio autunnale, uno dei tanti che mi attendono le corso dell’anno scolastico iniziato da poco. Arrivo a casa devastata dal peso dei libri che mi opprime e da un mal di testa angosciante, dopo essermi trascinata da scuola alla fermata del bus e dalla fermata, finalmente a casa.
Poso la borsa, ripasso filosofia ed è già ora di cenare. No, ancora no. Mi trattengo a stento, mangio una piccola parte di Salmone, tentano di passare inosservata agli occhi di mia madre, che scruta attentamente qualsiasi movimento di cibo all’interno del mio piatto.
Mi sento grossa, non so perché gli altri si ostinino a dire che non lo sono. Ovviamente non quel grosso inteso come “grasso” ma purtroppo non posseggo quelle gambe lunghe ed affusolate che caratterizzano i manichini dei più pregiati negozi di corso Buenos Aires.

«Finisci il salmone.»
«No mamma dai, non ho più fame, sono a posto così.»
«Ti ho detto di finire il salmone, non mi interessa, su, saranno 15 calorie ed hai mangiato solo quello, che saranno si o no 80 grammi.»
«Saranno anche di più di 15 se vogliamo stare qua a precisare.»
Ed eccola, mi fissa, nervosa, ed inizia un monologo che parte dal fatto che il pesce costi troppo per gli standard normali e che se io non mi decido a finire quel benedetto salmone sarò la causa della morte di qualche centinaio di bambini africani.

La guardo, impugno la forchetta, mi arrendo e finisco gli ultimi 3 o 4 bocconi.

Mi chiudo in camera. Ora mi sento terribilmente in colpa, ho mangiato più di quanto avrei dovuto.

 

  
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