Note:
Terzo capitolo. In questa seconda parte di Diary
si comincia a intravedere qualcosa della parte sci-fi della faccenda, che
comincerà ufficialmente nel prossimo capitolo. Leggo con piacere – in quelle
bellissime recensioni che ho ricevuto e che mi hanno commossa ç___ç – che
qualcuno si è già fatto un’idea... bene, bene. Dopotutto è un po’ cliché, no?
XD
Credo che questo capitolo sia un inno a Lestrade. Le sue parti sono, in realtà,
un’idea avuta per una oneshot a parte che non ho mai continuato a scrivere.
Erano inutilizzate e così mi sono detta “ok, facciamolo, usiamo questo Greg”. Prendetela come una
visione personale del mio Greg post-Reichenbach.
Nella parte scientifica
del diario penso di avere sparato un mare di cagate (chiedo scusa per il
francesismo ma è l’unica parola che rende davvero bene). Fatela passare per
libertà artistica da sci-fic futuristico, ok? ;D sto cercando di dare una base
fantascientifica ad una cosa ancora più assurda...
A chi vuole leggere,
infine, auguro buon “divertimento” e buona lettura ♥
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Diary /2
Quando
gli comparve davanti, nella pioggerellina fine di un Luglio che non aveva
proprio la minima intenzione di comportarsi come un vero mese estivo, gli
sembrò di non vederlo da molto più di quelle tre schifose settimane appena
passate.
« John ».
« Greg ».
Lestrade
aveva le mani affondate nel trench nero e stropicciato, dal quale si
intravedevano i pantaloni neri a taglio classico tipici dei detective di
Scotland Yard. Non si vedevano dal funerale ma non si parlavano da molto prima,
loro due, praticamente da poche ore dopo la “caduta”.
E
non si erano lasciati da amici.
Quella
consapevolezza giaceva negli occhi di entrambi. Occhi vuoti ed in cerca di un motivo
per andare avanti quelli di John, occhi stanchi e cerchiati da occhiaie
profonde quelli di Greg. John si chiese perché sembrasse così stanco e sfibrato
– la pelle di un colorito ancora più pallido di come se lo ricordava – ma al
contempo decise che quella fosse una domanda come un’altra per rompere il
ghiaccio, e per cercare di riallacciare quei fili di un’amicizia sottile che si
era interrotta troppo presto (e troppo tragicamente).
« Non hai un
bell’aspetto » disse allora
John, le mani a sua volta infossate nelle tasche della propria giacca.
Greg
gli sorrise appena, un sorrisetto storto ma stanco, socchiudendo gli occhi in
un sospiro. « Non dormo molto
bene, ultimamente » gli rispose.
« Già, beh... siamo
in due » commentò John,
rispondendo il parte al sorriso dell’ispettore.
« Non avevo dubbi » rispose Greg. « Entriamo? » chiese
successivamente, indicando il pub davanti al quale si erano dati appuntamento
con un cenno del capo.
John
annuì ed entrò dopo di lui.
Si
accomodarono ad un tavolo d’angolo vicino alla finestra, un poco discostato dal
resto della sala; ora, alla luce calda delle lampade all’interno del bar, John
poteva vedere sul volto di Greg i segni di una stanchezza fisica erosiva.
Deglutendo,
decise di mettere subito le carte in tavola. Quando era nel torto non gli
piaceva tirarla troppo per le lunghe... e in quel caso si sentiva
maledettamente colpevole.
« Greg, volevo
scusarmi per come mi sono comportato l’ultima volta... » cominciò, ma
Lestrade lo interruppe alzando una mano fra loro.
« Non è necessario,
John. Sono io ad aver sbagliato. Stavo... » deglutì, sembrando per un attimo
indeciso, ma poi continuò: « ...stavo cercando di liberarmi da un senso di colpa
che probabilmente non mi abbandonerà mai » la frase sfumò fino a divenire un mormorio:
« ho scelto il
luogo ed il momento sbagliato ».
« No, no... » negò John
scuotendo il capo, ma non seppe cos’altro aggiungere. In realtà, una buona
parte di lui concordava con le parole di Lestrade: quello era stato davvero il luogo ed il momento
sbagliato, ma sentiva comunque che la sua reazione fosse stata troppo
eccessiva.
Glielo
disse. « La mia reazione è
stata eccessiva, in ogni caso. Mi dispiace ».
« Non ci pensare
nemmeno » rispose Lestrade
con un altro sorriso stanco, ma questa volta anche sfumato da una stilla di
contentezza.
Furono
interrotti dalla cameriera che arrivò a prendere le ordinazioni, sorridendo
cortese verso i due uomini.
« Per me un tè, per
favore » disse John,
osservando distrattamente la ragazza scrivere l’ordine sul taccuino.
« Whiskey » le disse invece
Greg: « doppio, con
ghiaccio ».
La
ragazza annuì e si diresse verso il bancone, mentre John spostò lo sguardo
sull’amico con un sopracciglio leggermente sollevato. « Dov’è finita la
tua solita pinta di birra? » domandò, solo in parte sorpreso di questo cambiamento.
Poteva
immaginarne il motivo. Era ancora troppo presto anche per Lestrade,
probabilmente.
Greg
face spallucce: « in questi ultimi
tempi mi ci vuole qualcosa di più forte » commentò: « e tu? Cosa vuol dire bere tè in un
pub alle dieci di sera? » domandò ironico.
John
gli copiò il gesto. « Diciamo che la
fase delle bevande fortemente alcoliche io l’ho già superata » disse
semplicemente, facendo intendere molte più cose di quelle che disse.
Sottointesi
che Greg afferrò prontamente, annuendo comprensivo.
Passarono
qualche istante di silenzio a guardarsi intorno, in cui la cameriera tornò con
le loro ordinazioni e con qualche ciotola di stuzzichini per accompagnare
l’alcool di Lestrade. Davanti a John furono invece posate una tazza, una teiera
piena di acqua ancora bollente e un contenitore rettangolare contenente diversi
filtri di tè di altrettanto diverse varietà. La ragazza gli chiese se volesse
il latte ma John negò educatamente, afferrando con le dita della sinistra una
famigliare bustina di Earl Grey.
A
riprendere il discorso, quando la ragazza se ne fu andata, fu Lestrade.
« Allora, ho
sentito che ti sei trasferito » disse causalmente.
John
annuì. In realtà, questo era anche una sorta di test per vedere quali argomenti
e quali ricordi era in grado di affrontare senza avere un crollo di qualche
tipo. A quanto pare, il ricordo del 221B di Baker Street che automaticamente
gli riaffiorò alla mente alla domanda di Greg causava solo una piccola puntura
al cuore, ma non era abbastanza doloroso da non parlarne.
« Sì. Non avevo la
forza di restare in Baker Street... e poi, Mycroft aveva comunque preso
determinati accordi con mrs. Hudson riguardo all’appartamento, mi sono sentito
di troppo » gli disse.
Greg
inarcò il sopracciglio ingollando un sorso di alcool. « Il signor Holmes?
Cosa c’entra con l’appartamento? » domandò, innocentemente.
Questo
fece un po’ più male. Ma strinse i denti.
Se
certe cose non le affrontava ora, con Lestrade di fronte a lui (probabilmente
uno dei pochi che avrebbe capito senza fare domande), non ci sarebbe riuscito
mai più.
« Pagavo solo una
metà dell’affitto, dopotutto » gli rispose, in un modo pensato apposta per evitare
di pronunciare il nome di Sherlock – perché aveva il sentore, John, che avrebbe
ferito entrambi.
Nell’attimo
di silenzio che Greg fece passare prima di replicare, John vi lesse un muto
ringraziamento. « Era comunque tuo
per metà. Che diritto aveva di cacciarti di casa? ».
« Oh, non lo ha
fatto » precisò John: « ero io che non
potevo più restare lì, per... beh... ovvi motivi » glissò, gli occhi puntati sul
filtro in infusione: « mi ha chiaramente
detto che potevo rimanere quanto volevo, ma ho rifiutato. Non so cosa ne farà
di tutta la roba rimasta là, ma sinceramente non mi importa. O meglio... non
voglio far sì che mi importi » si corresse poi, strizzando bene il filtro con il
cucchiaino e aggiungendo al tè limone e una punta zucchero.
« mh... » annuì Greg con un
mugugno, bevendo un altro sorso di whiskey: « e il lavoro? Hai già deciso cosa fare in
proposito? » domandò.
A
John sfuggì una risatina a metà fra l’amaro e l’ironico. « Hai davanti a te
il segretario personale del dottor Ivan Kolstoj, famigerato chirurgo plastico! » esclamò con falsa
allegria, aprendo le braccia con fare teatrale.
A
Greg sfuggì una risatina: « e che ne è del lavoro alla clinica? » domandò.
« Non posso
continuare a sostituire medici in maternità o turni scoperti per tutta la vita,
Greg » gli disse il
dottore: « Sarah è stata
meravigliosa, ma non posso pagarmi l’affitto in quel modo, ora che... beh, ora
che pago un prezzo pieno, anche se basso » spiegò, prima di continuare: « e purtroppo tutta
la faccenda di Richard Brook ha avuto le sue ripercussioni su di me, a
cominciare dal fatto che nessuna clinica vuole assumere il compagno di avventure/presunto
amante/blogger personale di un impostore, pedofilo e psicopatico. E ti ho
enunciato solo i modi migliori, con cui lo apostrofano » terminò, facendo
sfumare la voce in una vena dura di rabbia.
Greg
si espresse in uno dei suoi più efficienti sogghigni amari, come se sapesse.
Beh, sicuramente lo sapeva. Bevve il resto dell’alcool tutto in un sorso,
alzando poi la mano per ordinarne un altro.
A
John non sfuggì il gesto, ma non disse niente. Ci pensò lo stesso Greg, il
quale non aveva mancato di notare l’occhiata di John.
« Sono Detective
Constable, ora » rivelò, annuendo
in ringraziamento alla cameriera che gli mise davanti il secondo whiskey e
ghiaccio.1
John
si bloccò con la tazza a mezz’aria. « Ti hanno degradato? » domandò sorpreso.
Greg
annuì appena, scolandosi tutto in qualche sorso e sbattendo sul tavolo il
bicchiere vuoto.
« Hanno aperto
un’inchiesta » continuò poi con
gli occhi fissi sul ghiaccio tintinnante: « mi aspetto la sospensione dal servizio da
un giorno all’altro ».
Fu
solo con il silenzio che John poté accogliere quella notizia, e molto
probabilmente Lestrade non gliene fece una colpa. Semplicemente, non seppe cosa
dire. Era sempre stato abbastanza bravo quando c’era da consolare un amico,
sempre abbastanza empatico da poter mettersi nei panni dell’altro e trovare
parole da dire che non fossero “ti capisco” o “andrà tutto bene”.
John
odiava quelle due frasi e, non volendo che fossero rivolte e a lui, non le
usava mai. Una persona che non vive la stessa situazione non può capire, può
solo cercare di capire. E non voleva
dare false speranze come non desiderava ne fossero date a lui.
Dopotutto
era stato in guerra, lì le false speranze spesso uccidono.
Per
questo si fecero bastare il silenzio. Alzarono rispettivamente tazza e
bicchiere, facendoli tintinnare.
“Al
fallimento” pensò John senza parlare, ed era quasi del tutto sicuro che
Lestrade avesse brindato alla stessa cosa.
Alle
cose brutte della vita non servono parole.
• 6 Novembre ‘32
La cosa si è fatta
seria.
Alcuni funzionari
della Famiglia Reale hanno fatto firmare ad ognuno di noi documenti
confidenziali e altamente restrittivi della nostra libertà di parola. Avevano
lo stemma di Elisabetta II filigranato in ogni pagina. Ci hanno persino preso
le impronte digitali ed un campione di DNA. Non avevo mai assistito a un tale
sfoggio di onnipotenza.
In poche parole,
non possiamo parlare o scrivere o riportare in nessun tipo di supporto esterno
ciò che stiamo studiando. Non ho fatto parola di questo diario, su cui non
potrò scrivere niente se non frasi vaghe, ma cercherò comunque di lasciare una
traccia che non sia messa sotto chiave in qualche buco di Buckingham Palace.
Dubito che lo zio
sappia qualcosa di tutta questa storia.
• 7 Novembre ‘32
È arrivato del
materiale da Houston. Tutto, dallo scotch per imballaggio alla più piccola
molecola di carta che compone l’involucro, puzza di NASA.
L’unica cosa
certa, per ora, è che sono coinvolti anche gli Stati Uniti.
• 8 Novembre ’32
Ciò che sembrava
solo possibilmente probabile è diventato probabilmente possibile. Anche se
sembra un’utopia.
Non c’è da
meravigliarsi se notizie di questo tipo sono state secretate. AMS-02(2) ha superato le aspettative, così come lo hanno fatto
gli USA ricreando in laboratorio i quattro unici e utopici campioni di
Unoptanio(3) (così è stato chiamato) che da oggi sono diventati il
nostro pane quotidiano.
Devo saperne di
più.
• 9 Novembre ‘32
Il riassunto di
tutto, è che gli americani hanno fatto un casino. E la Regina ha deciso di
prendersi la patata bollente e di cercare di trasformarla alchemicamente in un
diamante.
AMS-02 ha trovato,
in diversi raggi cosmici, particelle di una materia a noi sconosciuta. L’anno
analizzata fino a trovare il modo di riprodurla. Sembrava irriproducibile al di
fuori del vuoto cosmico, ma a quanto pare ci sono riusciti.
Unoptanio. La
materia di cui sono fatte le stelle.
Il progetto che ne
è derivato, però, è ancora più incredibile. Credere che da questi piccoli sassi
luccicanti possa uscirne una cosa simile al bastone di Chronos(4) mi sembra ridicolo. Senza pensare che non è il
materiale originale, ma solo una replica, e che nel processo di trasformazione
potrebbero andare storte un numero esponenziale di cose.
Mi scoppia la
testa, avrei bisogno di una pausa. Avrei bisogno di papà.
Sono quattro
giorni che non torno a casa, e qui dentro non ho nessun mezzo di comunicazione
disponibile se non l’interfono (ovviamente).
Sarà in
pensiero...
Seduto
alla scrivania del suo nuovo posto di lavoro, con in mano un mezzo sandwich
sbocconcellato e con una lattina aperta di coca cola sul ripiano in legno, John
chiuse il diario con uno schiocco secco e si chiese per quale motivo doveva
passare l’ora di pausa pranzo leggendo certe stronzate.
Unoptanio?
Raggi cosmici? Complotti dei Windsor? Nel 1932?!
Più
continuava a leggere, più gli sembrava un falso d’autore. O un romanzo. O la
cosa più strana che gli fosse mai capitata fra le mani. Tuttavia il giovane
notaio con cui aveva parlato al telefono aveva confermato più volte che non
poteva essere un falso, che il diario proveniva davvero dal 1930, che era stato in bella vista nei loro archivi per
tutto quel tempo, intoccato, intoccabile per contratto... decisamente optava
per il romanzo. Un’opera di fantasia.
Buttò
senza grazia il diario sul tavolo, azzannando il panino con fare seccato. Nel
silenzio della sala d’attesa deserta, però, la voglia di continuare a leggere,
la curiosità di arrivare in fondo, era tanta.
In
un secondo di ripensamento, squadrò il computer in stand-by dietro alla lattina
di coca.
C’era
un modo per assicurarsene. Una semplice ricerca su Google. Un paio di parole ed
un click, niente di più.
« John Watson, sei
un cretino. Un cretino ed un pazzo credulone » brontolò a denti stretti,
appoggiando il sandwich nella relativa carta e riavviando il sistema.
Aprì
Internet, digitò su Google, cliccò invio. Aprì il primo articolo. Gli si chiuse
lo stomaco dopo le prime quattro righe.
Lo
Spettrometro AMS-02 era stato lanciato in orbita il 29 aprile del 2011.
Praticamente due mesi prima.
Sconvolto
e con la voglia di convincersi che fosse solo un sogno, fissò stupefatto il
diario.
Adesso
qualcuno doveva spiegargli come faceva uno del 1932 a sapere di un lancio in
orbita avvenuto quasi ottant’anni più tardi.
John
non sapeva ancora cosa esattamente cercasse da Greg.
Non
una spalla su cui piangere. Non un compagno di sventure. Non consigli. Forse un
amico, ma non ne era ancora del tutto sicuro.
D’altro
canto, cosa cercasse Greg da uno come lui era un mistero. Fatto sta che
continuarono a vedersi ogni sera.
Dopo
la prima settimana, non ebbero nemmeno più bisogno di confermare la presenza
all’altro. Andavano semplicemente al solito pub alla solita ora.
Era
lunedì quando John dovette aspettare un po’ più del solito, fuori dal locale.
In quello che sanciva il primo giorno dell’ultima settimana di luglio le piogge
erano sparite e l’aria si era riscaldata tutto d’un tratto. La sera, di
conseguenza, era mite e John limitò il proprio abbigliamento ad una camicia e
ad un giubbotto leggero.
Quando
Lestrade arrivò, in jeans e felpa e scarpe da ginnastica, il sopracciglio del
medico scattò in alto da solo.
« Ti sei dato al
casual? » scherzò John,
salutandolo con un cenno della mano.
Greg
sorrise in modo strano. « Ti va di
camminare, questa sera? » evitò di
rispondergli.
A
John non faceva differenza, in realtà. E poi, dopotutto, la temperatura era
gradevole. « Va bene. C’è un
motivo particolare? » domandò
incuriosito.
Lestrade
fece spallucce, negando con il capo: « non mi va di stare seduto » gli disse, ma
puzzava di scusa lontano un miglio.
Watson
lo intuì, e Greg lo sapeva, ma John capì anche che Lestrade voleva che lo
capisse, dunque non fece domande; si limitò ad affiancarlo e a seguirlo.
Camminarono
in silenzio attraverso le arterie principali, oltrepassando negozi e pub,
strade colme di persone e turisti che approfittavano del bel tempo per godersi
uno scorcio di Londra in notturna. Seguì Lestrade fino ad una stradina
secondaria semi-vuota e desolata che scendeva dolcemente verso il Tamigi, sulla
riva del quale Greg lo guidò. Erano in una zona abbastanza centrale di Londra
ma, nonostante questo, loro due erano gli unici presenti.
Greg
sospirò pesantemente, sedendosi con un balzo sul muretto che delimitava il
marciapiede dalle acque del fiume, accomodandosi con le gambe a penzoloni a tre
metri sopra l’acqua calma e scura.
John
rimase a guardarlo per un istante e solo poi, sospirando a sua volta, si appoggiò
con i gomiti al muretto con lo sguardo fisso verso il fiume. « Allora? » chiese.
« Sono stato
sospeso dal servizio » si confidò
Lestrade: « con effetto
immediato e fino al termine dell’inchiesta » aggiunse, probabilmente citando a memoria
ciò che gli aveva detto il suo superiore qualche ora prima.
Le
formule di benservito sono uguali in qualsiasi corpo armato.
« Mi dispiace » gli disse.
« Beh, era
prevedibile » commentò l’altro.
Frugò nelle tasche della felpa fino ad estrarne un pacchetto stropicciato di
sigarette ed un accendino rosso di plastica. Osservò il pacchetto per qualche
istante come se fosse la fonte di tutti i mali del mondo, poi sbuffò. « Avevo fatto un
fioretto, Cristo santo... » borbottò, facendo uscire una sigaretta con due
colpetti e prendendola fra le labbra in un movimento che aveva la fluidità
dell’abitudine.5
Watson
capì improvvisamente che tipo di serata fosse quella. Sorrise amaramente dicendosi
che, forse, una cosa del genere serviva anche a lui. Che forse, così, sarebbe
riuscito ad uscire dal tunnel e a ricominciare la propria vita senza sentirsi
una pezza da piede per tutto il tempo.
Salì
sul muretto anche lui, sedendosi a gambe incrociate accanto a Lestrade. Gli
tese la mano sinistra, poi, indicando in silenzio pacchetto di sigarette.
Greg
sogghignò, facendo uscire una sigaretta con altri due colpetti e porgendola a
John. « Non ti facevo
tipo da nicotina » osservò.
« Queste sono la
moneta dei soldati » gli rispose il
medico: « non ha senso
portarsi dei soldi nel deserto, no? L’esercito pensa a tutte le tue necessità.
Anche alle tue mutande ».
Greg
ridacchiò, facendo scattare l’accendino e accendendosi la sigaretta.
« Ce le giocavamo a
poker. Queste, e le foto delle fidanzate. Tempo un mese e diventavano come le
riviste porno: passavano tra le mani di tutti » disse, allungandosi verso
l’accendino con cui Greg gli accese la sigaretta.
Rimasero
immersi nel silenzio per alcuni minuti, sbuffando volute di fumo con solo lo
scrosciare del fiume a fare loro compagnia.
Fu
Greg a riprendere parola. « Ci saresti tornato? » domandò.
Watson
capì di avere raggiunto il punto di non ritorno. Da quel momento, qualsiasi
cosa che sarebbe uscita dalle labbra di Lestrade lo avrebbe gettato o
nell’apatia totale o nella disperazione composta con cui aveva affrontato tutti
i giorni fino a quel momento. Non gli piaceva la prima, ma temeva di più la
seconda.
« Dove? » chiese quindi,
stando al gioco. Ormai era in ballo, tanto valeva ballare.
« In guerra. Dopo
Sherlock » disse l’altro.
Il
sentire il suo nome gli strinse il
cuore come se lo stessero stritolando in una morsa. Deglutì una boccata di fumo
e angoscia.
« No. Non me ne
sarei mai andato, è diverso » gli rispose.
Lestrade
lo osservò prendendo un’altra boccata. « Non lo avresti conosciuto, però ».
« E non sarebbe
stato meglio? » ribatté subito
John: « da un inferno ad
un altro. L’unica differenza è che qui non posso uccidere nessuno » disse amaramente.
Lo
sguardo del poliziotto lo trafisse come se stesse cercando di capire cosa
pensasse realmente. « Non lo pensi
davvero, giusto? » chiese poi.
John
gettò il mozzicone della sigaretta nel fiume. « No. No, col cazzo che lo penso
davvero. Però sarebbe più facile ».
Sherlock
era diventato il suo migliore amico, la sua ancora di salvezza, il suo bastone
e la sua intera vita. Gli aveva voluto bene e aveva voluto proteggerlo in un
modo che non credeva nemmeno possibile... ma Sherlock non gli aveva dato
l’occasione. Sherlock non gli aveva mai concesso niente.
Fortunatamente,
Lestrade lo anticipò prima che si lanciasse in imprecazioni indegne di un
inglese.
« Ho dato alla Met
vent’anni di servizio. L’ho sudato, il posto di Detective Inspector. Ho scelto
il lavoro anche quando sapevo di stare perdendo mia moglie. Ma non me ne
importerebbe niente, se quel figlio di puttana non si fosse buttato da quel
tetto, se non fosse morto da codardo. Avrei accettato qualsiasi morte, ma non
un suicidio » quasi ringhiò
quelle parole: « così lui è
scappato e noi siamo quelli che devono far ricrescere l’erba dove lui ha
buttato il sale. Ed è notoriamente impossibile » commentò, prima di aggiungere: « questa cosa mi fa
incazzare ».
John
lo osservò scagliare il mozzicone della sigaretta il più lontano possibile, e
ne seguì la scintilla arancione finché non scomparve inghiottita dall’acqua.
« Non sono in molti
quelli che ci credono, John » aggiunse Lestrade.
Watson
osservò l’acqua con un groppo fastidioso in gola. « L’importante è
che qualcuno ci sia » mormorò poi.
E
almeno quello lo disse con il cuore.
• 12 Gennaio ‘33
Papà è stato
ricoverato. Mi hanno telefonato dall’ospedale questa mattina.
Infarto, dicono.
Sinceramente non ci credo.
Quando si è
svegliato mi ha sorriso e mi ha detto di dormire, perché gli sembravo stanco.
Parlava lui che aveva appena rischiato di morire.
Per un momento ci
ho pensato, a come sarebbe senza di lui... non mi è piaciuto. Dopo mio padre,
non possono perdere anche lui. Non posso.
Ho avuto un’idea
di cui non vado fiero.
Era
stato dato l’ordine “solo armi e munizioni” dunque aveva dovuto abbandonare le
attrezzature, portando con sé solo lo zaino medico. Teneva saldo fra le mani il
suo SA80, carico fino a scoppiare del terzo caricatore di munizioni, e sentiva
il famigliare peso della sua Browning nel cinturone della divisa. Il sudore gli
incollava il tessuto della mimetica alla pelle, il cinturino dell’elmetto aveva
scavato una striscia infiammata e dolorosa sulla pelle della gola e gli anfibi
avevano ridotto i suoi piedi ad un ammasso dolorante di vesciche. Non sentiva
più i muscoli delle gambe a forza di appostamenti e corse, gli era sparita la
voce quando aveva dovuto urlare gli ordini sopra i colpi nemici e il suo
orecchio sinistro fischiava da quando una granata gli era esplosa troppo vicino.
Si
era aspettato la sabbia, ma si trovò in una città. L’atmosfera era grigia e
pesante, l’aria umida ed irrespirabile, e quelli che erano i palazzi di quel
posto erano ormai diroccati e si riversavano in strada in detriti e macerie.
Del fumo nero si alzava dagli edifici verso un cielo plumbeo coperto di nubi
scure.
Non sembrava affatto l’Afghanistan.
Smise
di camminare quando arrivò ad un incrocio scoperto, inginocchiandosi e
segnalando agli uomini dietro di lui di fare lo stesso. Il Sergente Hayden gli
si avvicino carponi.
« Cosa facciamo,
Capitano? ».
John
si appoggiò con le spalle al muro a cui erano accostati, sbirciando l’incrocio;
sembrava vuoto, ma in guerra niente sembra mai quello che è.
Si
prese qualche secondo per pensare. « Quanti uomini abbiamo? ».
« Sette, signore » gli rispose
Hayden: « il secondo
plotone è rimasto bloccato ad Aldersgate Street, sono stati separati dai
talebani e non riescono a riunire le file. I bastardi si sono appostati sui
trespoli e gli pisciano in testa pallottole ad ogni minimo movimento » lo informò il
Sergente, asciugandosi la fronte con la manica della divisa.
« Accidenti... » borbottò John,
sospirando piano. « Va bene,
aggiriamolo. Tu prendi Talbott e Mellish e torna indietro aggirandolo da dietro
gli edifici, poi manda Cunanan e Aisworth a sinistra mentre io e Langley
andremo a destra. Corse brevi e spazi chiusi, strisciate se necessario.
Uccidete a vista » disse; il
sergente annuì e fece qualche segno al resto della squadra, partendo a piedi
con i due soldati. Lui e gli altri tre si guardarono per un momento e, al cenno
di John, partirono in direzioni diverse.
Come
si era immaginato, l’incrocio era in realtà invaso di persone incappucciate di
nero. Cominciarono a sparargli addosso non appena si mossero e Langley, dietro
di lui, fu ucciso prima di poter trovare riparo. John sentiva le pallottole
fischiargli di fianco alle orecchie e sfiorargli la stoffa della divisa.
Spinto
dai colpi dovette infilarsi in fretta in un edificio, attraversando di corsa il
piano terra ed uscendo da una finestra sul retro. Percorse raso terra il muro
per cercare di arrivare al punto di ritrovo, ma quando sbucò dall’angolo i
colpi erano cessati ed il silenzio era diventato surreale.
Alzò
il volto verso il cielo e, quando lo fece, un’unica figura ammantata di nero lo
osservava dall’altro di un tetto.
Si
tolse l’elmetto con uno strattone, in preda al panico.
« SHERLOCK! » gridò, facendogli
segno di fare attenzione.
C’erano
i talebani con i kalašnikov sui tetti tutto intorno, gli avrebbero sparato.
Sarebbe morto. Oppure lo avrebbero catturato e torturato. Cristo santo, erano
in guerra, dov’era la sua divisa?! Perché aveva sempre la fissazione di
mettersi quel cappotto con quella maledetta sciarpa?!
« SHERLOCK! » gridò di nuovo,
ignorando il fatto di essere un bersaglio facile e soprattutto di essere senza
elmetto.
Ma
Sherlock non si muoveva, non faceva niente. Semplicemente, lo stava a guardare.
Semplicemente,
mimò una frase con le labbra.
Addio, John.
Semplicemente,
si buttò giù.
Watson
si svegliò nel mezzo della notte con il respiro affannato ed il cuore
galoppante nel petto, tanto che lo sentiva battere persino sulle tempie. Gocce
di sudore gli scendevano sul collo, la maglietta appiccicata al petto e le
gambe intrappolate in un groviglio di lenzuola. Osservò con occhi spalancati il
soffitto, cercando di capire dove fosse, e cosa fosse successo.
Quando
si rese conto di avere avuto un incubo, chiuse gli occhi e rilassò i muscoli
tesi della schiena. Si portò le mani agli occhi, togliendosi il sudore e
passandosele fra i corti capelli umidi.
Rimpianse
i tempi in cui a torturarlo era solo la guerra.
• 01 Febbraio ‘33
Primi esperimenti
su uno dei campioni di Unoptanio, diviso in piccole parti da pochissimi
milligrammi ciascuna.
Sottoposizione a
pressione di 100GPa: inefficace, nessun mutamento.(5)
Esposizione a
diversi componenti e reagenti chimici: tutti inefficaci, nessun mutamento.
Esposizione
ultravioletta: inefficace, nessun mutamento.
Esposizione Raggi
X: inefficace, nessun mutamento.
Esposizione Raggi
gamma a bassa frequenza: lieve reazione di assorbimento.
• 02 Febbraio ‘33
L’esposizione a
raggi gamma ad alta frequenza ha portato al surriscaldamento del campione a
temperature superiori a quelle dell’ipotetica fusione di un rettore nucleare.
Pochissimi milligrammi di Unoptanio hanno fuso un supporto di fullerite(6) e finché la reazione non si è fermata ha trapassato
due piani e creato un buco sul pavimento di quasi 20m.
Non esiste sulla
Terra materiale in grado di reggere quella temperatura. 2/3 della struttura e
dei laboratori sono inutilizzabili perché il calore ha sciolto le attrezzature.
È impressionante.
Di
solito non ci prestava molta attenzione.
Mormorii,
sussurri. A volte sguardi. Parole scambiate sottovoce fra due donna alla cassa
del Tesco, o in coda alle Poste.
Lo
guardavano e confabulavano. Non era difficile capire cosa dicessero – ci
sarebbe riuscito anche senza sentirle, o leggere il labiale.
“Ti
dico che è lui. L’amico di quello che si è buttato dal Barts”.
“Ma
no, ti dico. Se è intelligente, quello ha già cambiato città”.
“Eppure
ci somiglia. Com’è che si chiamava, già?”.
Come
un attore dei tempi andati, ritiratosi a vita privata dopo una carriera di alti
e bassi e che tutti smettono di riconoscere.
Di
solito li ignorava. Faceva finta di controllare l’importo delle bollette da
pagare o continuava a insacchettare la verdura. Faceva orecchie da mercante e
si legava stretta la benda sugli occhi.
Aveva
fatto tanto per loro, Sherlock. Tanto. Eppure lo stavano dimenticando, lasciato
indietro come qualcosa di strano per cui non vale la pena di prendersela troppo
a cuore.
Sherlock
Holmes stava diventato solo un altro dei nomi dimenticati di Londra.
• 09 Gennaio ‘34
Non mi ricordo chi
ha detto che, se un coniuge muore, anche l’altro lo seguirà presto.
Prima gli avrei
chiesto su quali basi scientifiche basasse la sua teoria. Adesso mi limiterei a
dargli ragione.
Mio padre odiava
le cravatte, eppure fu lui ad insegnarmi come si annodano.
Papà giurò di non
usare mai più un’arma da fuoco se non in casi di estrema necessità, quando
nacqui, eppure mi ricordo ancora il giorno in cui mi fece sedere con lui al
tavolo della cucina e mi insegnò a smontare la sua Browning.
Così contradditori
ma così uguali. Eppure diversissimi. Avrei detto “complementari”, ma a loro non
piaceva quel termine. “Troppo totalizzante” aveva detto papà un giorno: “io e
tuo padre non abbiamo ancora smesso di imparare l’uno dall’altro, non ci
completiamo per niente”.
Non eravamo una
famiglia normale (non lo siamo mai stati). Ognuno faceva del suo meglio senza
averne la minima idea. Eppure...
Ora che sono
seduto sul loro letto vuoto e freddo, rifatto ed intatto da ormai due
settimane, le immagini del funerale di oggi pomeriggio mi sembrano solo un
brutto sogno. Mi sorprendo a pensare che fra poco mi sveglierò e correrò in
braccio a papà mentre mio padre mi accarezzerà i capelli con quel suo modo
impacciato e mi chiederà di raccontargli l’incubo che mi ha svegliato. Riusciva
sempre a capirlo.
Ma io non ho più
otto anni ed in cucina, in mezzo all’odore di tè e formaldeide, non ci sarà
nessuno. Solo un appartamento vuoto e l’eco di due persone che si sono trovate
e mai più lasciate a far risuonare il silenzio.
Pensare che,
finalmente, si sono ritrovati di nuovo non mi aiuta.
Papà è morto... e
io non riesco a smettere di piangere.
« Non importa più a
nessuno, Greg » disse John
portandosi il collo della bottiglia alle labbra e bevendo un breve sorso di
birra: « ed è passato
appena un mese. È uno schifo » sancì.
Lestrade
appoggiò la sua, vuota per tre quarti, sul muretto al suo fianco. « Importa a te... » rispose,
passandosi distrattamente il pollice della destra sulle labbra per ripulirle
dalla bevanda: « ...e a me » aggiunse.
« Sì, già... bella
conquista » ironizzò John,
che quella sera aveva il dente avvelenato.
Una volta per uno,
amico
sembrò esprimere lo sguardo di Lestrade, che lo osservò con un sorrisetto
spento ma comprensivo.
Nemmeno
quella era stata una serata da pub. Greg glielo aveva letto negli occhi,
probabilmente, che non aveva assolutamente voglia di stare in mezzo al
chiacchiericcio divertito degli avventori del solito bar. Nel dirigersi al loro
posto “privato” in riva al fiume, si erano fermati in un negozio aperto 24 ore
su 24 e avevano preso un cartone di birre.
Niente
tè, quella sera: Lestrade aveva capito anche quello.
Ormai,
quella riva del Tamigi sembrava essere diventata il loro personale muro del
pianto senza pianto. Un luogo in cui sfogarsi, patire in silenzio il peso delle
loro colpe invisibili e fumare una sigaretta che non sarebbe mai stata né
salutare, né tanto meno gradevole.
Sigaretta
che Lestrade estrasse dal solito pacchetto stropicciato – ma nuovo ogni tre
giorni circa – e che gli tese. John la accettò senza tanti complimenti,
inclinandosi verso di lui quando il poliziotto accese la sua e poi la propria.
Rimasero
a fumare e bere birra in silenzio per qualche minuto, osservando le luci di
Londra spezzarsi sulla superficie mossa dell’acqua.
« C’è mai stato
qualcosa fra voi? ».
La
domanda di Lestrade gli fece inalare del fumo, e John tossì. « Cosa?! » domandò di riflesso,
la voce roca.
« Sì, sai...
qualcosa di tenero. Fra te e Sherlock » domandò di nuovo Greg, fingendo di
guardare il Tamigi quando invece lo osservava con la coda dell’occhio.
Watson
si riprese, bevendo un po’ di birra prima di riportarsi nervosamente la sigaretta
alle labbra. « No » grugnì in tono
seccato, soffiando fuori la nuova boccata di fumo.
L’altro
era totalmente pacato e a suo agio e la cosa a John non piaceva. Soprattutto se
si parlava di un argomento spinoso o, comunque, imbarazzante.
Soprattutto
se si parlava di un argomento spinoso o imbarazzante e di Sherlock Holmes. Nella stessa frase.
« Ti sarebbe
piaciuto? » domandò poi.
« Greg, perché
quest’interrogatorio? » sbottò allora
Watson, il tono duro.
Lestrade
non si scompose: « perché lo abbiamo
pensato tutti, prima o dopo » si giustificò solamente.
« No » ribatté allora
John, aggrottando le sopracciglia verso l’acqua: « si può sapere, di grazia, perché
tutto il mondo è fermamente convinto che due uomini che convivono debbano per
forza nascondere una sorta di torbida relazione amorosa? L’ho trattato in un
modo diverso da qualsiasi altro, forse?! » chiese retoricamente, sapendo già che
Greg gli avrebbe risposto.
Quel
“nuovo” Greg cominciava a non piacergli.
« Non eri tu. Era
lui » non mancò infatti
di precisargli.
D’improvviso,
la rabbia del medico si placò. « In che senso? » domandò, girando lo sguardo verso il
poliziotto.
« Ti guardava in
modo diverso dagli altri. Non c’è un motivo complicato, solo... questo: ti
guardava in modo diverso » spiegò.
L’ex-soldato
rimase in silenzio per alcuni istanti, lo sguardo stranito. « Spiegazione molto
logica, Lestrade » lo sfotté,
tornando ad aspirare fumo dalla sigaretta.
Greg
ridacchiò appena. « A volte non serve
nessuna logica » ribatté, muovendo
controluce la bottiglia vuota di birra. « Le abbiamo finite? » domandò poi,
appoggiandola insieme alle altre vuote.
John
annuì distrattamente.
« Andiamo a
comprarne delle altre ».
John
annuì di nuovo.
• 10 Maggio ‘34
Crollo nervoso. Mi
hanno ricoverato. Mi tengono sotto tranquillanti, ma non hanno effetto. Servirà
qualcosa di più forte.
Kerr si sbagliava.
Einstein si sbagliava. L’Orizzonte può essere superato. Lo so. So anche come.
Devo solo provare di avere ragione.
E se potessi
tornare indietro? Tornare indietro ed impedire tutto?
Se lo potessi...
cambiare?
Il
minimarket dove avevano comprato le birre non era lontano dalla strada
principale, ma Greg prese un giro lungo che conosceva solamente lui e che
passava in una zona costernata di vicoli stretti e bui.
John
aveva la vaga idea del perché lo avesse fatto; ormai aveva imparato ad
osservare – forse complice il suo ex-coinquilino e migliore amico suicida – e
aveva notato come Lestrade tendesse ad allungare la strada da fare a piedi
quando era seccato, o aveva troppi pensieri per la testa. Come se camminare lo
aiutasse a metabolizzarli più in fretta, a processarli nel giusto ordine.
Prendeva tempo.
Camminarono
in silenzio, mani nelle tasche dei pantaloni, per più di venti minuti nel
seguire complicati intrecci di sensi unici e strettoie. Ormai John non aveva la
più pallida idea di dove fossero, ma alla sua mancanza geografica sopperiva
l’Ispettore, in pieno possesso del suo orientamento nonostante le 4 birre una
dietro l’altra.
Watson
avrebbe potuto dirgli in ogni momento che non sembrava per niente in forma, ma
riteneva che per una persona nella sua situazione fosse una cosa normale. E,
dopotutto, nemmeno lui doveva sembrare così pieno di salute considerando quanto
poco dormiva, quindi lasciò perdere qualsiasi discorso volto in quella
direzione.
Semplicemente,
continuarono a camminare.
Ormai
John si era concentrato sull’andamento regolare dei suoi piedi – destro,
sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro... – e aveva persino allineato
inconsapevolmente il passo con Lestrade quando fu proprio l’altro, di fianco a
lui, a fermarsi d’improvviso.
John
lo superò di due passi, prima di fermarsi e voltarsi indietro.
« Greg? ».
« Guarda » gli disse quello,
occhi bene aperti puntati fissi su di un punto in alto poco più avanti.
John
si voltò, alzando finalmente lo sguardo dai propri piedi, e quando i suoi occhi
incontrarono la parete del vicolo di fronte si sgranarono appena nella
sorpresa.
Non
era un murales, nemmeno un disegno di sorta. Come scritta non era affatto elaborata
ma nei tratti precisi e nelle curve dolci delle lettere si poteva notare una
mano abituata ad usare bombolette spray. Il muro era spoglio e vuoto tutto
attorno e proprio quel particolare contribuiva a dare l’idea che fosse una
sorta di segno di ribellione.
Alla
luce soffusa e bianca di un lampione, spiccava la scritta in giallo perlato “I
BELIEVE IN SHERLOCK HOLMES”.
Non
era impossibile, si disse John. Sherlock aveva la rete di senzatetto e di
“irregolari” che gli fornivano informazioni e notizie più velocemente di quanto
lui stesso fosse stato in grado di raccoglierle. Non era strano pensare che
qualcuno di loro, magari persino il ragazzo a cui avevano chiesto informazioni
su quella stessa vernice durante il caso della Mafia Cinese, potesse aver fatto
quella scritta per testimoniare una speranza, o solamente una voce nel
dissenso.
Non
poté non riservarsi un lieve sorriso che subito sparì. Ma esistette per quel
secondo, per quel momento in cui aveva avuto la forza di piegare le labbra in
qualcosa che non lasciava l’amaro in bocca.
Pensò
anche che Lestrade lo avesse portato lì di proposito – quasi sicuramente era
così – ma non lo disse.
« Grazie » fu l’unica cosa
che disse, gli occhi catturati da quell’immagine tutt’altro che insolita ma
stranamente confortante.
Lestrade gli passò affianco posandogli una mano sulla spalla, prima di
superarlo e continuare per la sua strada.
• 19 Settembre ‘35
La teoria ha dato
frutti insperati. Schneider è convinto che cambierà la Storia. A me non
importa.
Non è LA Storia
che voglio cambiare, ma UNA storia. Punto.
Tornerò indietro e
farò in modo che mio padre non muoia. Da lì in poi, tutto tornerà come prima.
Tutta
l’attrezzatura è quasi pronta. Tempo un mese e cominceremo con le
sperimentazioni.
• 20 Ottobre ‘35
Il campo magnetico
funziona, l’energia dell’Unoptanio rimane stabile e circoscritta. Serve molta
energia per creare la singolarità, ma il Governo continua ad assicurarci che
non è un problema. Meglio per me.
Ho nascosto un
pezzo di Unoptanio nell’orologio con il giglio fiorentino che mi ha lasciato
papà prima di morire. Non so quanto in fretta il materiale si degradi o decada,
ma nel caso che lo faccia troppo in fretta, quel frammento salvato mi potrà
servire per continuare le sperimentazioni su scala ridotta.
L’Orizzonte si
presenta come invisibile, eppure c’è. Rifrange spettri di colori e di onde
invisibili all’occhio. Alcune onde elettriche ad alta frequenza ed intensità
sembrano, però, riuscire a passargli attraverso.
È un problema di
spazio. Come stipare 5GB di roba in un hard disk che ne tiene appena 3.
• 25 Dicembre ’35
Ricevuto il
consenso alla sperimentazione umana.
La
prima sera che Lestrade non si fece vedere, John pensò solamente che gli fosse
capitato un contrattempo. Si prese un tè da solo, guardando la partita di rugby
dalla TV del locale, e quanto fu palese che Greg non lo avrebbe raggiunto, pagò
e tornò a casa.
La
seconda sera, John cominciò a chiedersi se avesse fatto qualcosa per
indispettire l’altro. Ma era un pensiero difficile da farsi, considerando la
persona in oggetto: Lestrade era munito di una pazienza quasi da sant’uomo ed
era rinomato per non portare rancore. Probabilmente aveva avuto un problema
grave, magari aveva ricevuto qualche novità dal lavoro. Non se la prese.
La
terza sera, quello indispettito era John. Si aspettava per lo meno un
messaggio, se non una telefonata, o comunque un motivo per il quale,
improvvisamente, Lestrade aveva interrotto quella loro consuetudine. Non che
lui ne avesse disperatamente bisogno, così come pensava che Lestrade, a sua
volta, non ne fosse dipendente... ma era un metodo semplice per non rintanarsi
in angoli scuri della mente riservati a tetti e a suicidi, a cieli grigi e
disperazione e lapidi nere con lettere d’oro, a salti nel vuoto e al ricordo di
un addio dal suono metallico.
Le
due ore che passava al pub con Lestrade non erano essenziali, così come non
erano indispensabili; erano solo un punto a dividere due capoversi, una pausa
fra due giorni uno uguale all’altro. Qualcosa per cui valeva la pena alzarsi
dopo il suono della sveglia.
Aspettò
mezz’ora all’esterno del locale poi decise di prendere l’iniziativa. Oltre
quella coltre di seccatura e delusione che lo aveva rivestito negli ultimi
minuti, in realtà una leggera vena di preoccupazione si annidava infida.
Si
chiese mentalmente, prima di partire in direzione dell’appartamento di
Lestrade, cosa ci guadagnasse a fare sempre il buon samaritano.
La
risposta la sapeva già ed era sempre quella: “niente”.
Gregory
Lestrade abitava in una zona tranquilla di Bloomsbury. Il suo appartamento era
al terzo piano di un palazzo di quattro e, dalla strada, si potevano vedere le
finestre illuminate da una fievole luce giallognola.
Per
lo meno era in casa.
John
annuì brevemente a se stesso, attraversando la strada e suonando al citofono.
Attese per qualche istante senza che nessuno gli rispondesse poi, testardo e
ormai deciso ad andare fino in fondo, citofonò al portiere.
Si
fece aprire la porta con una scusa qualsiasi e, sempre con quella scusa, riuscì
ad ottenere il pas-par-tout dell’appartamento di Lestrade che la portineria era
obbligata ad avere.
Salì
a passo marziale i tre piani di scale, aiutandosi con la ringhiera solo verso
la fine. Quando arrivò davanti alla porta numero 33, ben chiusa come si era
immaginato, si diede una calmata.
Bussò,
prima. Due colpi secchi che echeggiarono sul pianerottolo. Provò anche a
chiamare il suo nome prima di colpire di nuovo la porta, ma dall’altra parte
non ci fu risposta.
Nell’indecisione
se entrare o meno con la chiave di riserva, alla fine si decise a farlo. Girò
perfettamente nella toppa e gli diede libero accesso all’appartamento.
Entrando,
si chiuse la porta alle spalle. L’ingresso dava su un brevissimo corridoio con
un attaccapanni ed un mobile pieno di chiavi e buste chiuse (bollette) per poi
aprirsi sul salotto. La luce che si poteva vedere dalla strada era quella di
una lampada a piedistallo nell’angolo della stanza e che dava all’atmosfera
un’aria di intimità famigliare.
« Greg! » chiamò di nuovo
il medico una volta messo piede in salotto e lì fermatosi. Poteva vedere senza
difficoltà il piccolo corridoio delle camere oltre la cucina, separata dal
salotto tramite un ripiano in marmo sovrastato da una credenza di legno, ma le
porte erano tutte chiuse e regnava il silenzio.
Forse
non era davvero in casa. Ma dove altro poteva essere? Era quasi divorziato,
senza figli, sospeso dal servizio... Lestrade stesso gli aveva detto che le
loro uscite erano la sua unica occasione di uscire di casa per più dell’ora
necessaria per andare a comprare beni di prima necessità al minimarket poco
lontano.
No,
doveva essere necessariamente in casa. Al massimo, John avrebbe potuto
giustificare quella sua intrusione per pura preoccupazione. Cosa che, a parte
la vena vendicativa e seccata che si portava dietro dal pub, non era del tutto
errata.
Entrò
nell’altro corridoio ed aprì la prima porta sulla sinistra, di fronte alla
cucina. Il bagno. La luce era spenta ma si poteva capire benissimo che la
stanza fosse vuota.
Aprì
la seconda porta, adocchiando questa volta la camera da letto. Luce spenta,
camera in perfetto ordine. Sembrava quasi che nessuno ci dormisse da parecchio
tempo, e John non faticava ad immaginarsi che potesse essere realmente così.
La
terza porta che aprì, di fronte alla camera da letto, era una stanza dai mobili
coperti ed odorante di vernice e stucco. La luce era spenta e le imposte
chiuse, ma grazie alla fievole luce del corridoio Watson poté notare il colore
chiaro dell prove di colore sul muro, compresi alcuni disegni di personaggi
Disney. La camera dei bambini. John trattenne il respiro alla solitudine che
quella stanza decorata a metà ispirava, e richiuse la porta con una sgradevole
sensazione in gola.
L’ultima
porta rimasta era quella in fondo al corridoio. Solo quando vi si avvicinò John
si accorse che filtrava luce dalla fessura fra il legno ed il pavimento e,
convinto di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo, bussò. Nessuna
risposta. Aprì la porta.
Non
seppe esattamente come elencare ciò che vide, ma le sue labbra si divisero
autonomamente in un moto di profonda sorpresa.
Era
lo studio ma non vi era traccia di Greg. Una scrivania era posizionata
esattamente nel centro della stanza, dietro di essa torreggiava una libreria a
quattro settori stracolma di libri, alcuni dei quali erano impilati ai piedi
del mobile o aperti in mezzo alla stanza. La parete verso cui la scrivania era
girata invece, quella che John stava fissando con incredulità, era spoglia di mobili
ma ingombra di tutt’altro.
Una
cartina politica dell’Europa era stata posizionata al centro del muro,
attaccata con dei chiodi nei punti in cui il nastro adesivo aveva ceduto, e
tutt’intorno si snodava una ragnatela di fotografie, articoli di giornale,
rapporti di polizia – alcuni dei quali battuti a macchina e altri in francese,
tedesco, russo, italiano... –, post-it gialli scarabocchiati a mano con una
penna o un pennarello, alcune frasi scritte direttamente sui pochi centimetri
di muro spoglio che sbucavano ogni tanto, cerchi rossi e punti di domanda
attorno ad alcune città, alcune parole, alcuni volti su fotografie sgranate
prese da circuiti di sorveglianza. Numeri e date e coordinate. Linee rosse e nere e verdi che collegavano punti di cui
non capiva nemmeno la logica. Cinque fili di lana da uncinetto di colore
diverso (giallo, verde, rosso, blu, bianco) partivano da Londra e si perdevano
in altri Paesi, alcuni sparivano, altri terminavano aggrovigliati sul
pavimento. L’intero diorama prendeva tutta la parete e, nella parte destra,
sforava in quella adiacente.
« Cosa
accidenti...? »
« È il mio caso
Rebecca ».7
La
voce di Lestrade lo colse di sorpresa e non poté evitarsi di sobbalzare,
girandosi verso l’inizio del corridoio. Greg era in piedi alla luce del salotto
e sembrava l’ombra di se stesso.
Fece
per parlare, ma l’altro lo anticipò: « ero a fumare sul retro, il portiere mi ha
detto di averti fatto entrare » gli disse.
Watson
annuì appena. « Ero preoccupato,
e a ragione, vedo. Ti sei visto allo specchio ultimamente? » domandò, cercando
di ritrovare quel minimo di irritabilità che aveva prima di mettere piede in
quella casa, ma inutilmente. La vista della fissazione
di Lestrade, perché di questo si trattava, gli aveva cancellato qualsiasi protesta
avesse in mente di rivolgergli.
Greg
alzò lo sguardo su di lui quando entrò nella luce più forte dello studio,
mostrando a John due profonde occhiaie violacee e occhi rossi colmi di
stanchezza e disperazione. La pelle del volto era pallida, dall’aspetto quasi
malaticcio, e poteva giurare che avesse perso peso.
« Non ti vedo bene,
Greg » gli disse Watson,
osservandolo con occhio medico.
Lestrade
soffiò fuori una risatina amara, dirigendosi verso la scrivania ed
abbandonandosi sulla poltrona dietro di essa. « Tanto non dormo comunque » fu l’unica
spiegazione che diede, prima di ricominciare: « mi dispiace di non averti detto
nulla, John, ma ho perso la cognizione del tempo, compreso l’alternarsi del
giorno e della notte » si giustificò.
Watson
sospirò: « sei fortunato che
non sono uno psichiatra, altrimenti ti direi che soffri di disturbo
ossessivo-compulsivo unito a manie di vario tipo » ironizzò senza ridere, tornando a
guardare la parete che Lestrade aveva tappezzato.
« Me lo hai detto
comunque... » ribatté il
poliziotto alla battuta, osservando a sua volta l’intrico di informazioni
davanti a sé. « Ogni poliziotto
ha un caso Rebecca » riprese poi il
discorso: « un caso irrisolto
che diventa la fissazione dell’intera vita. Il mio caso Rebecca si chiama
“Sherlock Holmes” ».
John
aggrottò le sopracciglia, fissandolo accigliato da sopra la spalla.
« Sto cercando un
fantasma, credo... non lo so, sinceramente. Lui è morto, lo so questo. Ma ci
sono persone coinvolte, figure quasi invisibili, che appena dopo l’accaduto se
la sono data a gambe. Ho provato a seguirle, a leggere gli indizi... dai
giornali, Internet, voci di corridoio, favori da colleghi all’estero. Cerco
segni ovunque. Qualsiasi cosa attiri la mia attenzione ci metto la data e la
attacco a quel muro. Mi sembra che sia tutto codificato ma, allo stesso tempo,
ho la ferma convinzione di stare dando la caccia a nient’altro che nebbia. Mi
sembra che sia semplicemente un modo per smettere di credere che sia morto
davvero, che sia morto in quel modo, che sia stato davvero così egoista da suicidarsi. Li ho persi ma ancora continuo
a cercarli. Sto... non so, lottando contro i mulini a vento. Questo dovrebbe
fare di me Don Chisciotte della Mancia » disse, massaggiandosi gli occhi con la
mano destra.
John
spostò di nuovo lo sguardo dall’amico al diorama, stringendo le labbra in un
pensiero che si riservò di dire ad alta voce. Lui aveva rinunciato a credere
Sherlock morto, in cuor suo – se lo sentiva nelle ossa – ma non voleva
diventare l’alter ego di Sancio Panza. Quella era davvero una caccia ai
fantasmi ed era qualcosa a cui John non aveva nessuna intenzione di prendere
parte.
« Alzati da quella
scrivania, devi riposare » gli disse invece
John, chiudendo fuori dalla sua vista quella sorta di follia.
Lestrade
scosse la testa sconsolato: « no, non riuscirei comunque a– ».
« Non ti sto
parlando da amico, Greg, ti sto parlando da medico. Non farmi fare la parte del
soldato » lo avvertì John,
fermo e serio nelle sue intenzioni.
Lestrade
lo guardò negli occhi e, vinto forse dalla stanchezza (o dal corso degli
eventi), sospirò e si alzò dalla scrivania, anticipando John fuori dalla
stanza.
Watson
lanciò un’ultima occhiata alla parete prima di spegnere la luce e, scuotendo
rassegnato il capo, si chiuse la porta alle spalle.
• 28 Gennaio ‘36
James McCarthy
(USA) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Registrata variazione
temporale minima nel momento di attivazione del modello BetaTest01 oscillante
fra i 2 e i 5 minuti. Si ritiene che la variazione sia avvenuta solo in
laboratorio (il campo magnetico restrittivo regge al 95%). Upgrade del sistema.
• 15 Febbraio ‘36
Linda Hill (UK) –
esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Resti gelatinosi dal DNA
classificabile come umano ritrovati nel punto di contatto con l’Orizzonte. Il
modello BT02 si mostra stabile ma si registra una variazione di tempo
apprezzabile fra l’1 e i 3 minuti. Upgrade del sistema.
• 01 Marzo ‘36
Michael Lang
(Germania) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Modello BT03
inefficace.
Il problema è la
compressione del passaggio. E non sappiamo ancora se il campo elettromagnetico
che trattiene il balzo temporale sia innocuo per il viaggiatore, o se le
coordinate inserite nell’aprire la singolarità siano davvero utili per un
atterraggio in un punto specifico dello spazio. La mia formula per il balzo
temporale potrebbe non essere esatta, o non portare i risultati sperati, ma non
lo sapremo mai finché qualcuno non arriverà vivo “dall’altra parte”.
Non ho più voglia
di mandare della gente a morire.
Il prossimo sarò
io.
• 29 Aprile ‘36
Il professor
Schneider ha cercato di farmi desistere, così come tutti gli altri studiosi.
Non mi importa.
Ormai la mia vita
gira intorno a questo e raramente riesco a sedermi in silenzio e ad immaginarmi
fuori dal laboratorio. I miei genitori sono morti, non ho più qualcosa di
concreto a cui tornare.
Voglio salvarli.
Io li salverò.
Tornerò indietro e
cambierò tutto.
Se tutto va come
ho calcolato, dovrei riuscire a tornare nel 2030 in tempo per salvare mio
padre. Non so ancora se formerò un paradosso o meno, potrebbe anche essere...
troppe variabili, troppi “se” e troppi “ma”.
Non mi resta che
provarci e basta.
• 22 Maggio ‘36
Sto arrivando.
______________________________________________________________________________________________________
1.
Nella polizia inglese "Constable" è il grado più basso dell'arma
(come in Italia lo è il grado di agente semplice); in poche parole, è il grado
di partenza da cui chiunque comincia la propria carriera. Il grado che ha
Lestrade ora, ovvero "Detective Constable", non è diverso e non ha
più privilegi rispetto a quello di un normale Constable, sta solo ad indicare
la sua appartenenza al reparto investigativo.
I
gradi, in ordine crescente, sarebbero i seguenti:
Detective
Constable > Detective Seargent > Detective Inspector > Chief Inspector
(...)
In
altre parole, Lestrade è stato degradato di due gradi.
2.
Lo Spettrometro AMS-02 (Alpha Magnetic
Spectrometer) è una sorta di spettrometro di massa (un macchinario che
individua e quantifica le masse degli atomi) utile ad identificare, nello
spazio, particelle di antimateria (antiparticelle) e altri elementi contenuti
nei raggi cosmici. A loro volta, i raggi cosmici sono raggi di energia emessi -
si pensa - dai nuclei delle stelle.
È
stato lanciato in orbita, a 300 km dalla Terra, il 29 aprile 2011.
3.
L'Unoptanio (o Unottanio) è un elemento inesistente nella realtà che viene
citato in un paio di film (Avatar di
James Cameron e The Core di John
Amiel). Deriva dalla parola "Unobtainium", un gioco di parole
americano che mescola unobteinable
("inottenibile") con il suffisso -ium,
tipico inglese per diversi elementi chimici. Viene utilizzata per indicare
elementi con caratteristiche talmente ideali da essere inesistenti (ad esempio:
in Avatar l'Unoptanio è un superconduttore a temperatura ambiente, mentre in
The Core è un materiale che aumenta di densità all'aumentare della pressione e
della temperatura, con il quale viene costruita una nave in grado di
raggiungere il nucleo del pianeta).
La
traduzione migliore in italiano per mantenere il gioco di parole sarebbe
"Inottenibilicio", ma è talmente ridicola che capisco, per una volta,
la scelta cinematografica di tradurla ad
cazzium con "Unoptanio".
4.
Chronos è, nella mitologia greca, il padrone del Tempo.
5.
Il GPa - alias Gigapascal - è l'unità di misura della pressione per il Sistema
Internazionale. Se pensate che a 10GPa il carbonio diventa diamante, potete
farvi un'idea della cosa.
6.
La Fullerite è un materiale superduro creato artificialmente. Tecnicamente, è
uno dei materiali più solidi e resistenti del pianeta.
7.
Battuta presa dal film "Millennium: Uomini che Odiano le Donne" (The Woman With the Dragon Tattoo).