Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: Yoko Hogawa    06/10/2012    8 recensioni
John, quante volte mi hai già visto morire?
Genere: Angst, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note: Terzo capitolo. In questa seconda parte di Diary si comincia a intravedere qualcosa della parte sci-fi della faccenda, che comincerà ufficialmente nel prossimo capitolo. Leggo con piacere – in quelle bellissime recensioni che ho ricevuto e che mi hanno commossa ç___ç – che qualcuno si è già fatto un’idea... bene, bene. Dopotutto è un po’ cliché, no? XD


Credo che questo capitolo sia un inno a Lestrade. Le sue parti sono, in realtà, un’idea avuta per una oneshot a parte che non ho mai continuato a scrivere. Erano inutilizzate e così mi sono detta “ok, facciamolo, usiamo questo Greg”. Prendetela come una visione personale del mio Greg post-Reichenbach.

 

Nella parte scientifica del diario penso di avere sparato un mare di cagate (chiedo scusa per il francesismo ma è l’unica parola che rende davvero bene). Fatela passare per libertà artistica da sci-fic futuristico, ok? ;D sto cercando di dare una base fantascientifica ad una cosa ancora più assurda...

 

A chi vuole leggere, infine, auguro buon “divertimento” e buona lettura

­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­______________________________________________________________________________________________________

Diary /2

 

 

 

Quando gli comparve davanti, nella pioggerellina fine di un Luglio che non aveva proprio la minima intenzione di comportarsi come un vero mese estivo, gli sembrò di non vederlo da molto più di quelle tre schifose settimane appena passate.

« John ».

« Greg ».

Lestrade aveva le mani affondate nel trench nero e stropicciato, dal quale si intravedevano i pantaloni neri a taglio classico tipici dei detective di Scotland Yard. Non si vedevano dal funerale ma non si parlavano da molto prima, loro due, praticamente da poche ore dopo la “caduta”.

E non si erano lasciati da amici.

Quella consapevolezza giaceva negli occhi di entrambi. Occhi vuoti ed in cerca di un motivo per andare avanti quelli di John, occhi stanchi e cerchiati da occhiaie profonde quelli di Greg. John si chiese perché sembrasse così stanco e sfibrato – la pelle di un colorito ancora più pallido di come se lo ricordava – ma al contempo decise che quella fosse una domanda come un’altra per rompere il ghiaccio, e per cercare di riallacciare quei fili di un’amicizia sottile che si era interrotta troppo presto (e troppo tragicamente).

« Non hai un bell’aspetto » disse allora John, le mani a sua volta infossate nelle tasche della propria giacca.

Greg gli sorrise appena, un sorrisetto storto ma stanco, socchiudendo gli occhi in un sospiro. « Non dormo molto bene, ultimamente » gli rispose.

« Già, beh... siamo in due » commentò John, rispondendo il parte al sorriso dell’ispettore.

« Non avevo dubbi » rispose Greg. « Entriamo? » chiese successivamente, indicando il pub davanti al quale si erano dati appuntamento con un cenno del capo.

John annuì ed entrò dopo di lui.

Si accomodarono ad un tavolo d’angolo vicino alla finestra, un poco discostato dal resto della sala; ora, alla luce calda delle lampade all’interno del bar, John poteva vedere sul volto di Greg i segni di una stanchezza fisica erosiva.

Deglutendo, decise di mettere subito le carte in tavola. Quando era nel torto non gli piaceva tirarla troppo per le lunghe... e in quel caso si sentiva maledettamente colpevole.

« Greg, volevo scusarmi per come mi sono comportato l’ultima volta... » cominciò, ma Lestrade lo interruppe alzando una mano fra loro.

« Non è necessario, John. Sono io ad aver sbagliato. Stavo... » deglutì, sembrando per un attimo indeciso, ma poi continuò: « ...stavo cercando di liberarmi da un senso di colpa che probabilmente non mi abbandonerà mai » la frase sfumò fino a divenire un mormorio: « ho scelto il luogo ed il momento sbagliato ».

« No, no... » negò John scuotendo il capo, ma non seppe cos’altro aggiungere. In realtà, una buona parte di lui concordava con le parole di Lestrade: quello era stato davvero il luogo ed il momento sbagliato, ma sentiva comunque che la sua reazione fosse stata troppo eccessiva.

Glielo disse. « La mia reazione è stata eccessiva, in ogni caso. Mi dispiace ».

« Non ci pensare nemmeno » rispose Lestrade con un altro sorriso stanco, ma questa volta anche sfumato da una stilla di contentezza.

Furono interrotti dalla cameriera che arrivò a prendere le ordinazioni, sorridendo cortese verso i due uomini.

« Per me un tè, per favore » disse John, osservando distrattamente la ragazza scrivere l’ordine sul taccuino.

« Whiskey » le disse invece Greg: « doppio, con ghiaccio ».

La ragazza annuì e si diresse verso il bancone, mentre John spostò lo sguardo sull’amico con un sopracciglio leggermente sollevato. « Dov’è finita la tua solita pinta di birra? » domandò, solo in parte sorpreso di questo cambiamento.

Poteva immaginarne il motivo. Era ancora troppo presto anche per Lestrade, probabilmente.

Greg face spallucce: « in questi ultimi tempi mi ci vuole qualcosa di più forte » commentò: « e tu? Cosa vuol dire bere tè in un pub alle dieci di sera? » domandò ironico.

John gli copiò il gesto. « Diciamo che la fase delle bevande fortemente alcoliche io l’ho già superata » disse semplicemente, facendo intendere molte più cose di quelle che disse.

Sottointesi che Greg afferrò prontamente, annuendo comprensivo.

Passarono qualche istante di silenzio a guardarsi intorno, in cui la cameriera tornò con le loro ordinazioni e con qualche ciotola di stuzzichini per accompagnare l’alcool di Lestrade. Davanti a John furono invece posate una tazza, una teiera piena di acqua ancora bollente e un contenitore rettangolare contenente diversi filtri di tè di altrettanto diverse varietà. La ragazza gli chiese se volesse il latte ma John negò educatamente, afferrando con le dita della sinistra una famigliare bustina di Earl Grey.

A riprendere il discorso, quando la ragazza se ne fu andata, fu Lestrade.

« Allora, ho sentito che ti sei trasferito » disse causalmente.

John annuì. In realtà, questo era anche una sorta di test per vedere quali argomenti e quali ricordi era in grado di affrontare senza avere un crollo di qualche tipo. A quanto pare, il ricordo del 221B di Baker Street che automaticamente gli riaffiorò alla mente alla domanda di Greg causava solo una piccola puntura al cuore, ma non era abbastanza doloroso da non parlarne.

« Sì. Non avevo la forza di restare in Baker Street... e poi, Mycroft aveva comunque preso determinati accordi con mrs. Hudson riguardo all’appartamento, mi sono sentito di troppo » gli disse.

Greg inarcò il sopracciglio ingollando un sorso di alcool. « Il signor Holmes? Cosa c’entra con l’appartamento? » domandò, innocentemente.

Questo fece un po’ più male. Ma strinse i denti.

Se certe cose non le affrontava ora, con Lestrade di fronte a lui (probabilmente uno dei pochi che avrebbe capito senza fare domande), non ci sarebbe riuscito mai più.

« Pagavo solo una metà dell’affitto, dopotutto » gli rispose, in un modo pensato apposta per evitare di pronunciare il nome di Sherlock – perché aveva il sentore, John, che avrebbe ferito entrambi.

Nell’attimo di silenzio che Greg fece passare prima di replicare, John vi lesse un muto ringraziamento. « Era comunque tuo per metà. Che diritto aveva di cacciarti di casa? ».

« Oh, non lo ha fatto » precisò John: « ero io che non potevo più restare lì, per... beh... ovvi motivi » glissò, gli occhi puntati sul filtro in infusione: « mi ha chiaramente detto che potevo rimanere quanto volevo, ma ho rifiutato. Non so cosa ne farà di tutta la roba rimasta là, ma sinceramente non mi importa. O meglio... non voglio far sì che mi importi » si corresse poi, strizzando bene il filtro con il cucchiaino e aggiungendo al tè limone e una punta zucchero.

« mh... » annuì Greg con un mugugno, bevendo un altro sorso di whiskey: « e il lavoro? Hai già deciso cosa fare in proposito? » domandò.

A John sfuggì una risatina a metà fra l’amaro e l’ironico. « Hai davanti a te il segretario personale del dottor Ivan Kolstoj, famigerato chirurgo plastico! » esclamò con falsa allegria, aprendo le braccia con fare teatrale.

A Greg sfuggì una risatina: « e che ne è del lavoro alla clinica? » domandò.

« Non posso continuare a sostituire medici in maternità o turni scoperti per tutta la vita, Greg » gli disse il dottore: « Sarah è stata meravigliosa, ma non posso pagarmi l’affitto in quel modo, ora che... beh, ora che pago un prezzo pieno, anche se basso » spiegò, prima di continuare: « e purtroppo tutta la faccenda di Richard Brook ha avuto le sue ripercussioni su di me, a cominciare dal fatto che nessuna clinica vuole assumere il compagno di avventure/presunto amante/blogger personale di un impostore, pedofilo e psicopatico. E ti ho enunciato solo i modi migliori, con cui lo apostrofano » terminò, facendo sfumare la voce in una vena dura di rabbia.

Greg si espresse in uno dei suoi più efficienti sogghigni amari, come se sapesse. Beh, sicuramente lo sapeva. Bevve il resto dell’alcool tutto in un sorso, alzando poi la mano per ordinarne un altro.

A John non sfuggì il gesto, ma non disse niente. Ci pensò lo stesso Greg, il quale non aveva mancato di notare l’occhiata di John.

« Sono Detective Constable, ora » rivelò, annuendo in ringraziamento alla cameriera che gli mise davanti il secondo whiskey e ghiaccio.1

John si bloccò con la tazza a mezz’aria. « Ti hanno degradato? » domandò sorpreso.

Greg annuì appena, scolandosi tutto in qualche sorso e sbattendo sul tavolo il bicchiere vuoto.

« Hanno aperto un’inchiesta » continuò poi con gli occhi fissi sul ghiaccio tintinnante: « mi aspetto la sospensione dal servizio da un giorno all’altro ».

Fu solo con il silenzio che John poté accogliere quella notizia, e molto probabilmente Lestrade non gliene fece una colpa. Semplicemente, non seppe cosa dire. Era sempre stato abbastanza bravo quando c’era da consolare un amico, sempre abbastanza empatico da poter mettersi nei panni dell’altro e trovare parole da dire che non fossero “ti capisco” o “andrà tutto bene”.

John odiava quelle due frasi e, non volendo che fossero rivolte e a lui, non le usava mai. Una persona che non vive la stessa situazione non può capire, può solo cercare di capire. E non voleva dare false speranze come non desiderava ne fossero date a lui.

Dopotutto era stato in guerra, lì le false speranze spesso uccidono.

Per questo si fecero bastare il silenzio. Alzarono rispettivamente tazza e bicchiere, facendoli tintinnare.

“Al fallimento” pensò John senza parlare, ed era quasi del tutto sicuro che Lestrade avesse brindato alla stessa cosa.

Alle cose brutte della vita non servono parole.

 

 

 

 

• 6 Novembre ‘32

La cosa si è fatta seria.

Alcuni funzionari della Famiglia Reale hanno fatto firmare ad ognuno di noi documenti confidenziali e altamente restrittivi della nostra libertà di parola. Avevano lo stemma di Elisabetta II filigranato in ogni pagina. Ci hanno persino preso le impronte digitali ed un campione di DNA. Non avevo mai assistito a un tale sfoggio di onnipotenza.

In poche parole, non possiamo parlare o scrivere o riportare in nessun tipo di supporto esterno ciò che stiamo studiando. Non ho fatto parola di questo diario, su cui non potrò scrivere niente se non frasi vaghe, ma cercherò comunque di lasciare una traccia che non sia messa sotto chiave in qualche buco di Buckingham Palace.

Dubito che lo zio sappia qualcosa di tutta questa storia.

 

• 7 Novembre ‘32

È arrivato del materiale da Houston. Tutto, dallo scotch per imballaggio alla più piccola molecola di carta che compone l’involucro, puzza di NASA.

L’unica cosa certa, per ora, è che sono coinvolti anche gli Stati Uniti.

 

• 8 Novembre ’32

Ciò che sembrava solo possibilmente probabile è diventato probabilmente possibile. Anche se sembra un’utopia.

Non c’è da meravigliarsi se notizie di questo tipo sono state secretate. AMS-02(2) ha superato le aspettative, così come lo hanno fatto gli USA ricreando in laboratorio i quattro unici e utopici campioni di Unoptanio(3) (così è stato chiamato) che da oggi sono diventati il nostro pane quotidiano.

Devo saperne di più.

 

• 9 Novembre ‘32

Il riassunto di tutto, è che gli americani hanno fatto un casino. E la Regina ha deciso di prendersi la patata bollente e di cercare di trasformarla alchemicamente in un diamante.

AMS-02 ha trovato, in diversi raggi cosmici, particelle di una materia a noi sconosciuta. L’anno analizzata fino a trovare il modo di riprodurla. Sembrava irriproducibile al di fuori del vuoto cosmico, ma a quanto pare ci sono riusciti.

Unoptanio. La materia di cui sono fatte le stelle.

Il progetto che ne è derivato, però, è ancora più incredibile. Credere che da questi piccoli sassi luccicanti possa uscirne una cosa simile al bastone di Chronos(4) mi sembra ridicolo. Senza pensare che non è il materiale originale, ma solo una replica, e che nel processo di trasformazione potrebbero andare storte un numero esponenziale di cose.

Mi scoppia la testa, avrei bisogno di una pausa. Avrei bisogno di papà.

Sono quattro giorni che non torno a casa, e qui dentro non ho nessun mezzo di comunicazione disponibile se non l’interfono (ovviamente).

Sarà in pensiero...

 

Seduto alla scrivania del suo nuovo posto di lavoro, con in mano un mezzo sandwich sbocconcellato e con una lattina aperta di coca cola sul ripiano in legno, John chiuse il diario con uno schiocco secco e si chiese per quale motivo doveva passare l’ora di pausa pranzo leggendo certe stronzate.

Unoptanio? Raggi cosmici? Complotti dei Windsor? Nel 1932?!

Più continuava a leggere, più gli sembrava un falso d’autore. O un romanzo. O la cosa più strana che gli fosse mai capitata fra le mani. Tuttavia il giovane notaio con cui aveva parlato al telefono aveva confermato più volte che non poteva essere un falso, che il diario proveniva davvero dal 1930, che era stato in bella vista nei loro archivi per tutto quel tempo, intoccato, intoccabile per contratto... decisamente optava per il romanzo. Un’opera di fantasia.

Buttò senza grazia il diario sul tavolo, azzannando il panino con fare seccato. Nel silenzio della sala d’attesa deserta, però, la voglia di continuare a leggere, la curiosità di arrivare in fondo, era tanta.

In un secondo di ripensamento, squadrò il computer in stand-by dietro alla lattina di coca.

C’era un modo per assicurarsene. Una semplice ricerca su Google. Un paio di parole ed un click, niente di più.

« John Watson, sei un cretino. Un cretino ed un pazzo credulone » brontolò a denti stretti, appoggiando il sandwich nella relativa carta e riavviando il sistema.

Aprì Internet, digitò su Google, cliccò invio. Aprì il primo articolo. Gli si chiuse lo stomaco dopo le prime quattro righe.

Lo Spettrometro AMS-02 era stato lanciato in orbita il 29 aprile del 2011. Praticamente due mesi prima.

Sconvolto e con la voglia di convincersi che fosse solo un sogno, fissò stupefatto il diario.

Adesso qualcuno doveva spiegargli come faceva uno del 1932 a sapere di un lancio in orbita avvenuto quasi ottant’anni più tardi.

 

 

 

 

John non sapeva ancora cosa esattamente cercasse da Greg.

Non una spalla su cui piangere. Non un compagno di sventure. Non consigli. Forse un amico, ma non ne era ancora del tutto sicuro.

D’altro canto, cosa cercasse Greg da uno come lui era un mistero. Fatto sta che continuarono a vedersi ogni sera.

Dopo la prima settimana, non ebbero nemmeno più bisogno di confermare la presenza all’altro. Andavano semplicemente al solito pub alla solita ora.

Era lunedì quando John dovette aspettare un po’ più del solito, fuori dal locale. In quello che sanciva il primo giorno dell’ultima settimana di luglio le piogge erano sparite e l’aria si era riscaldata tutto d’un tratto. La sera, di conseguenza, era mite e John limitò il proprio abbigliamento ad una camicia e ad un giubbotto leggero.

Quando Lestrade arrivò, in jeans e felpa e scarpe da ginnastica, il sopracciglio del medico scattò in alto da solo.

« Ti sei dato al casual? » scherzò John, salutandolo con un cenno della mano.

Greg sorrise in modo strano. « Ti va di camminare, questa sera? » evitò di rispondergli.

A John non faceva differenza, in realtà. E poi, dopotutto, la temperatura era gradevole. « Va bene. C’è un motivo particolare? » domandò incuriosito.

Lestrade fece spallucce, negando con il capo: « non mi va di stare seduto » gli disse, ma puzzava di scusa lontano un miglio.

Watson lo intuì, e Greg lo sapeva, ma John capì anche che Lestrade voleva che lo capisse, dunque non fece domande; si limitò ad affiancarlo e a seguirlo.

Camminarono in silenzio attraverso le arterie principali, oltrepassando negozi e pub, strade colme di persone e turisti che approfittavano del bel tempo per godersi uno scorcio di Londra in notturna. Seguì Lestrade fino ad una stradina secondaria semi-vuota e desolata che scendeva dolcemente verso il Tamigi, sulla riva del quale Greg lo guidò. Erano in una zona abbastanza centrale di Londra ma, nonostante questo, loro due erano gli unici presenti.

Greg sospirò pesantemente, sedendosi con un balzo sul muretto che delimitava il marciapiede dalle acque del fiume, accomodandosi con le gambe a penzoloni a tre metri sopra l’acqua calma e scura.

John rimase a guardarlo per un istante e solo poi, sospirando a sua volta, si appoggiò con i gomiti al muretto con lo sguardo fisso verso il fiume. « Allora? » chiese.

« Sono stato sospeso dal servizio » si confidò Lestrade: « con effetto immediato e fino al termine dell’inchiesta » aggiunse, probabilmente citando a memoria ciò che gli aveva detto il suo superiore qualche ora prima.

Le formule di benservito sono uguali in qualsiasi corpo armato.

« Mi dispiace » gli disse.

« Beh, era prevedibile » commentò l’altro. Frugò nelle tasche della felpa fino ad estrarne un pacchetto stropicciato di sigarette ed un accendino rosso di plastica. Osservò il pacchetto per qualche istante come se fosse la fonte di tutti i mali del mondo, poi sbuffò. « Avevo fatto un fioretto, Cristo santo... » borbottò, facendo uscire una sigaretta con due colpetti e prendendola fra le labbra in un movimento che aveva la fluidità dell’abitudine.5

Watson capì improvvisamente che tipo di serata fosse quella. Sorrise amaramente dicendosi che, forse, una cosa del genere serviva anche a lui. Che forse, così, sarebbe riuscito ad uscire dal tunnel e a ricominciare la propria vita senza sentirsi una pezza da piede per tutto il tempo.

Salì sul muretto anche lui, sedendosi a gambe incrociate accanto a Lestrade. Gli tese la mano sinistra, poi, indicando in silenzio pacchetto di sigarette.

Greg sogghignò, facendo uscire una sigaretta con altri due colpetti e porgendola a John. « Non ti facevo tipo da nicotina » osservò.

« Queste sono la moneta dei soldati » gli rispose il medico: « non ha senso portarsi dei soldi nel deserto, no? L’esercito pensa a tutte le tue necessità. Anche alle tue mutande ».

Greg ridacchiò, facendo scattare l’accendino e accendendosi la sigaretta.

« Ce le giocavamo a poker. Queste, e le foto delle fidanzate. Tempo un mese e diventavano come le riviste porno: passavano tra le mani di tutti » disse, allungandosi verso l’accendino con cui Greg gli accese la sigaretta.

Rimasero immersi nel silenzio per alcuni minuti, sbuffando volute di fumo con solo lo scrosciare del fiume a fare loro compagnia.

Fu Greg a riprendere parola. « Ci saresti tornato? » domandò.

Watson capì di avere raggiunto il punto di non ritorno. Da quel momento, qualsiasi cosa che sarebbe uscita dalle labbra di Lestrade lo avrebbe gettato o nell’apatia totale o nella disperazione composta con cui aveva affrontato tutti i giorni fino a quel momento. Non gli piaceva la prima, ma temeva di più la seconda.

« Dove? » chiese quindi, stando al gioco. Ormai era in ballo, tanto valeva ballare.

« In guerra. Dopo Sherlock » disse l’altro.

Il sentire il suo nome gli strinse il cuore come se lo stessero stritolando in una morsa. Deglutì una boccata di fumo e angoscia.

« No. Non me ne sarei mai andato, è diverso » gli rispose.

Lestrade lo osservò prendendo un’altra boccata. « Non lo avresti conosciuto, però ».

« E non sarebbe stato meglio? » ribatté subito John: « da un inferno ad un altro. L’unica differenza è che qui non posso uccidere nessuno » disse amaramente.

Lo sguardo del poliziotto lo trafisse come se stesse cercando di capire cosa pensasse realmente. « Non lo pensi davvero, giusto? » chiese poi.

John gettò il mozzicone della sigaretta nel fiume. « No. No, col cazzo che lo penso davvero. Però sarebbe più facile ».

Sherlock era diventato il suo migliore amico, la sua ancora di salvezza, il suo bastone e la sua intera vita. Gli aveva voluto bene e aveva voluto proteggerlo in un modo che non credeva nemmeno possibile... ma Sherlock non gli aveva dato l’occasione. Sherlock non gli aveva mai concesso niente.

Fortunatamente, Lestrade lo anticipò prima che si lanciasse in imprecazioni indegne di un inglese.

« Ho dato alla Met vent’anni di servizio. L’ho sudato, il posto di Detective Inspector. Ho scelto il lavoro anche quando sapevo di stare perdendo mia moglie. Ma non me ne importerebbe niente, se quel figlio di puttana non si fosse buttato da quel tetto, se non fosse morto da codardo. Avrei accettato qualsiasi morte, ma non un suicidio » quasi ringhiò quelle parole: « così lui è scappato e noi siamo quelli che devono far ricrescere l’erba dove lui ha buttato il sale. Ed è notoriamente impossibile » commentò, prima di aggiungere: « questa cosa mi fa incazzare ».

John lo osservò scagliare il mozzicone della sigaretta il più lontano possibile, e ne seguì la scintilla arancione finché non scomparve inghiottita dall’acqua.

« Non sono in molti quelli che ci credono, John » aggiunse Lestrade.

Watson osservò l’acqua con un groppo fastidioso in gola. « L’importante è che qualcuno ci sia » mormorò poi.

E almeno quello lo disse con il cuore.

 

• 12 Gennaio ‘33

Papà è stato ricoverato. Mi hanno telefonato dall’ospedale questa mattina.

Infarto, dicono. Sinceramente non ci credo.

Quando si è svegliato mi ha sorriso e mi ha detto di dormire, perché gli sembravo stanco. Parlava lui che aveva appena rischiato di morire.

Per un momento ci ho pensato, a come sarebbe senza di lui... non mi è piaciuto. Dopo mio padre, non possono perdere anche lui. Non posso.

Ho avuto un’idea di cui non vado fiero.

 

 

 

 

Era stato dato l’ordine “solo armi e munizioni” dunque aveva dovuto abbandonare le attrezzature, portando con sé solo lo zaino medico. Teneva saldo fra le mani il suo SA80, carico fino a scoppiare del terzo caricatore di munizioni, e sentiva il famigliare peso della sua Browning nel cinturone della divisa. Il sudore gli incollava il tessuto della mimetica alla pelle, il cinturino dell’elmetto aveva scavato una striscia infiammata e dolorosa sulla pelle della gola e gli anfibi avevano ridotto i suoi piedi ad un ammasso dolorante di vesciche. Non sentiva più i muscoli delle gambe a forza di appostamenti e corse, gli era sparita la voce quando aveva dovuto urlare gli ordini sopra i colpi nemici e il suo orecchio sinistro fischiava da quando una granata gli era esplosa troppo vicino.

Si era aspettato la sabbia, ma si trovò in una città. L’atmosfera era grigia e pesante, l’aria umida ed irrespirabile, e quelli che erano i palazzi di quel posto erano ormai diroccati e si riversavano in strada in detriti e macerie. Del fumo nero si alzava dagli edifici verso un cielo plumbeo coperto di nubi scure.
Non sembrava affatto l’Afghanistan.

Smise di camminare quando arrivò ad un incrocio scoperto, inginocchiandosi e segnalando agli uomini dietro di lui di fare lo stesso. Il Sergente Hayden gli si avvicino carponi.

« Cosa facciamo, Capitano? ».

John si appoggiò con le spalle al muro a cui erano accostati, sbirciando l’incrocio; sembrava vuoto, ma in guerra niente sembra mai quello che è.

Si prese qualche secondo per pensare. « Quanti uomini abbiamo? ».

« Sette, signore » gli rispose Hayden: « il secondo plotone è rimasto bloccato ad Aldersgate Street, sono stati separati dai talebani e non riescono a riunire le file. I bastardi si sono appostati sui trespoli e gli pisciano in testa pallottole ad ogni minimo movimento » lo informò il Sergente, asciugandosi la fronte con la manica della divisa.

« Accidenti... » borbottò John, sospirando piano. « Va bene, aggiriamolo. Tu prendi Talbott e Mellish e torna indietro aggirandolo da dietro gli edifici, poi manda Cunanan e Aisworth a sinistra mentre io e Langley andremo a destra. Corse brevi e spazi chiusi, strisciate se necessario. Uccidete a vista » disse; il sergente annuì e fece qualche segno al resto della squadra, partendo a piedi con i due soldati. Lui e gli altri tre si guardarono per un momento e, al cenno di John, partirono in direzioni diverse.

Come si era immaginato, l’incrocio era in realtà invaso di persone incappucciate di nero. Cominciarono a sparargli addosso non appena si mossero e Langley, dietro di lui, fu ucciso prima di poter trovare riparo. John sentiva le pallottole fischiargli di fianco alle orecchie e sfiorargli la stoffa della divisa.

Spinto dai colpi dovette infilarsi in fretta in un edificio, attraversando di corsa il piano terra ed uscendo da una finestra sul retro. Percorse raso terra il muro per cercare di arrivare al punto di ritrovo, ma quando sbucò dall’angolo i colpi erano cessati ed il silenzio era diventato surreale.

Alzò il volto verso il cielo e, quando lo fece, un’unica figura ammantata di nero lo osservava dall’altro di un tetto.

Si tolse l’elmetto con uno strattone, in preda al panico.

« SHERLOCK! » gridò, facendogli segno di fare attenzione.

C’erano i talebani con i kalašnikov sui tetti tutto intorno, gli avrebbero sparato. Sarebbe morto. Oppure lo avrebbero catturato e torturato. Cristo santo, erano in guerra, dov’era la sua divisa?! Perché aveva sempre la fissazione di mettersi quel cappotto con quella maledetta sciarpa?!
« SHERLOCK! » gridò di nuovo, ignorando il fatto di essere un bersaglio facile e soprattutto di essere senza elmetto.

Ma Sherlock non si muoveva, non faceva niente. Semplicemente, lo stava a guardare.

Semplicemente, mimò una frase con le labbra.

Addio, John.

Semplicemente, si buttò giù.

 

Watson si svegliò nel mezzo della notte con il respiro affannato ed il cuore galoppante nel petto, tanto che lo sentiva battere persino sulle tempie. Gocce di sudore gli scendevano sul collo, la maglietta appiccicata al petto e le gambe intrappolate in un groviglio di lenzuola. Osservò con occhi spalancati il soffitto, cercando di capire dove fosse, e cosa fosse successo.

Quando si rese conto di avere avuto un incubo, chiuse gli occhi e rilassò i muscoli tesi della schiena. Si portò le mani agli occhi, togliendosi il sudore e passandosele fra i corti capelli umidi.

Rimpianse i tempi in cui a torturarlo era solo la guerra.

 

• 01 Febbraio ‘33

Primi esperimenti su uno dei campioni di Unoptanio, diviso in piccole parti da pochissimi milligrammi ciascuna.

Sottoposizione a pressione di 100GPa: inefficace, nessun mutamento.(5)

Esposizione a diversi componenti e reagenti chimici: tutti inefficaci, nessun mutamento.

Esposizione ultravioletta: inefficace, nessun mutamento.

Esposizione Raggi X: inefficace, nessun mutamento.

Esposizione Raggi gamma a bassa frequenza: lieve reazione di assorbimento.

 

• 02 Febbraio ‘33

L’esposizione a raggi gamma ad alta frequenza ha portato al surriscaldamento del campione a temperature superiori a quelle dell’ipotetica fusione di un rettore nucleare. Pochissimi milligrammi di Unoptanio hanno fuso un supporto di fullerite(6) e finché la reazione non si è fermata ha trapassato due piani e creato un buco sul pavimento di quasi 20m.

Non esiste sulla Terra materiale in grado di reggere quella temperatura. 2/3 della struttura e dei laboratori sono inutilizzabili perché il calore ha sciolto le attrezzature. È impressionante.

 

 

 

 

Di solito non ci prestava molta attenzione.

Mormorii, sussurri. A volte sguardi. Parole scambiate sottovoce fra due donna alla cassa del Tesco, o in coda alle Poste.

Lo guardavano e confabulavano. Non era difficile capire cosa dicessero – ci sarebbe riuscito anche senza sentirle, o leggere il labiale.

“Ti dico che è lui. L’amico di quello che si è buttato dal Barts”.

“Ma no, ti dico. Se è intelligente, quello ha già cambiato città”.

“Eppure ci somiglia. Com’è che si chiamava, già?”.

Come un attore dei tempi andati, ritiratosi a vita privata dopo una carriera di alti e bassi e che tutti smettono di riconoscere.

Di solito li ignorava. Faceva finta di controllare l’importo delle bollette da pagare o continuava a insacchettare la verdura. Faceva orecchie da mercante e si legava stretta la benda sugli occhi.

Aveva fatto tanto per loro, Sherlock. Tanto. Eppure lo stavano dimenticando, lasciato indietro come qualcosa di strano per cui non vale la pena di prendersela troppo a cuore.

Sherlock Holmes stava diventato solo un altro dei nomi dimenticati di Londra.

 

• 09 Gennaio ‘34

Non mi ricordo chi ha detto che, se un coniuge muore, anche l’altro lo seguirà presto.

Prima gli avrei chiesto su quali basi scientifiche basasse la sua teoria. Adesso mi limiterei a dargli ragione.

Mio padre odiava le cravatte, eppure fu lui ad insegnarmi come si annodano.

Papà giurò di non usare mai più un’arma da fuoco se non in casi di estrema necessità, quando nacqui, eppure mi ricordo ancora il giorno in cui mi fece sedere con lui al tavolo della cucina e mi insegnò a smontare la sua Browning.

Così contradditori ma così uguali. Eppure diversissimi. Avrei detto “complementari”, ma a loro non piaceva quel termine. “Troppo totalizzante” aveva detto papà un giorno: “io e tuo padre non abbiamo ancora smesso di imparare l’uno dall’altro, non ci completiamo per niente”.

Non eravamo una famiglia normale (non lo siamo mai stati). Ognuno faceva del suo meglio senza averne la minima idea. Eppure...

Ora che sono seduto sul loro letto vuoto e freddo, rifatto ed intatto da ormai due settimane, le immagini del funerale di oggi pomeriggio mi sembrano solo un brutto sogno. Mi sorprendo a pensare che fra poco mi sveglierò e correrò in braccio a papà mentre mio padre mi accarezzerà i capelli con quel suo modo impacciato e mi chiederà di raccontargli l’incubo che mi ha svegliato. Riusciva sempre a capirlo.

Ma io non ho più otto anni ed in cucina, in mezzo all’odore di tè e formaldeide, non ci sarà nessuno. Solo un appartamento vuoto e l’eco di due persone che si sono trovate e mai più lasciate a far risuonare il silenzio.

Pensare che, finalmente, si sono ritrovati di nuovo non mi aiuta.

Papà è morto... e io non riesco a smettere di piangere.

 

 

 

 

« Non importa più a nessuno, Greg » disse John portandosi il collo della bottiglia alle labbra e bevendo un breve sorso di birra: « ed è passato appena un mese. È uno schifo » sancì.

Lestrade appoggiò la sua, vuota per tre quarti, sul muretto al suo fianco. « Importa a te... » rispose, passandosi distrattamente il pollice della destra sulle labbra per ripulirle dalla bevanda: « ...e a me » aggiunse.

« Sì, già... bella conquista » ironizzò John, che quella sera aveva il dente avvelenato.

Una volta per uno, amico sembrò esprimere lo sguardo di Lestrade, che lo osservò con un sorrisetto spento ma comprensivo.

Nemmeno quella era stata una serata da pub. Greg glielo aveva letto negli occhi, probabilmente, che non aveva assolutamente voglia di stare in mezzo al chiacchiericcio divertito degli avventori del solito bar. Nel dirigersi al loro posto “privato” in riva al fiume, si erano fermati in un negozio aperto 24 ore su 24 e avevano preso un cartone di birre.

Niente tè, quella sera: Lestrade aveva capito anche quello.

Ormai, quella riva del Tamigi sembrava essere diventata il loro personale muro del pianto senza pianto. Un luogo in cui sfogarsi, patire in silenzio il peso delle loro colpe invisibili e fumare una sigaretta che non sarebbe mai stata né salutare, né tanto meno gradevole.

Sigaretta che Lestrade estrasse dal solito pacchetto stropicciato – ma nuovo ogni tre giorni circa – e che gli tese. John la accettò senza tanti complimenti, inclinandosi verso di lui quando il poliziotto accese la sua e poi la propria.

Rimasero a fumare e bere birra in silenzio per qualche minuto, osservando le luci di Londra spezzarsi sulla superficie mossa dell’acqua.

« C’è mai stato qualcosa fra voi? ».

La domanda di Lestrade gli fece inalare del fumo, e John tossì. « Cosa?! » domandò di riflesso, la voce roca.

« Sì, sai... qualcosa di tenero. Fra te e Sherlock » domandò di nuovo Greg, fingendo di guardare il Tamigi quando invece lo osservava con la coda dell’occhio.

Watson si riprese, bevendo un po’ di birra prima di riportarsi nervosamente la sigaretta alle labbra. « No » grugnì in tono seccato, soffiando fuori la nuova boccata di fumo.

L’altro era totalmente pacato e a suo agio e la cosa a John non piaceva. Soprattutto se si parlava di un argomento spinoso o, comunque, imbarazzante.

Soprattutto se si parlava di un argomento spinoso o imbarazzante e di Sherlock Holmes. Nella stessa frase.

« Ti sarebbe piaciuto? » domandò poi.

« Greg, perché quest’interrogatorio? » sbottò allora Watson, il tono duro.

Lestrade non si scompose: « perché lo abbiamo pensato tutti, prima o dopo » si giustificò solamente.

« No » ribatté allora John, aggrottando le sopracciglia verso l’acqua: « si può sapere, di grazia, perché tutto il mondo è fermamente convinto che due uomini che convivono debbano per forza nascondere una sorta di torbida relazione amorosa? L’ho trattato in un modo diverso da qualsiasi altro, forse?! » chiese retoricamente, sapendo già che Greg gli avrebbe risposto.

Quel “nuovo” Greg cominciava a non piacergli.

« Non eri tu. Era lui » non mancò infatti di precisargli.

D’improvviso, la rabbia del medico si placò. « In che senso? » domandò, girando lo sguardo verso il poliziotto.

« Ti guardava in modo diverso dagli altri. Non c’è un motivo complicato, solo... questo: ti guardava in modo diverso » spiegò.

L’ex-soldato rimase in silenzio per alcuni istanti, lo sguardo stranito. « Spiegazione molto logica, Lestrade » lo sfotté, tornando ad aspirare fumo dalla sigaretta.

Greg ridacchiò appena. « A volte non serve nessuna logica » ribatté, muovendo controluce la bottiglia vuota di birra. « Le abbiamo finite? » domandò poi, appoggiandola insieme alle altre vuote.

John annuì distrattamente.

« Andiamo a comprarne delle altre ».

John annuì di nuovo.

 

• 10 Maggio ‘34

Crollo nervoso. Mi hanno ricoverato. Mi tengono sotto tranquillanti, ma non hanno effetto. Servirà qualcosa di più forte.

Kerr si sbagliava. Einstein si sbagliava. L’Orizzonte può essere superato. Lo so. So anche come. Devo solo provare di avere ragione.

E se potessi tornare indietro? Tornare indietro ed impedire tutto?

Se lo potessi... cambiare?

 

Il minimarket dove avevano comprato le birre non era lontano dalla strada principale, ma Greg prese un giro lungo che conosceva solamente lui e che passava in una zona costernata di vicoli stretti e bui.

John aveva la vaga idea del perché lo avesse fatto; ormai aveva imparato ad osservare – forse complice il suo ex-coinquilino e migliore amico suicida – e aveva notato come Lestrade tendesse ad allungare la strada da fare a piedi quando era seccato, o aveva troppi pensieri per la testa. Come se camminare lo aiutasse a metabolizzarli più in fretta, a processarli nel giusto ordine. Prendeva tempo.

Camminarono in silenzio, mani nelle tasche dei pantaloni, per più di venti minuti nel seguire complicati intrecci di sensi unici e strettoie. Ormai John non aveva la più pallida idea di dove fossero, ma alla sua mancanza geografica sopperiva l’Ispettore, in pieno possesso del suo orientamento nonostante le 4 birre una dietro l’altra.

Watson avrebbe potuto dirgli in ogni momento che non sembrava per niente in forma, ma riteneva che per una persona nella sua situazione fosse una cosa normale. E, dopotutto, nemmeno lui doveva sembrare così pieno di salute considerando quanto poco dormiva, quindi lasciò perdere qualsiasi discorso volto in quella direzione.

Semplicemente, continuarono a camminare.

Ormai John si era concentrato sull’andamento regolare dei suoi piedi – destro, sinistro, destro, sinistro, destro, sinistro... – e aveva persino allineato inconsapevolmente il passo con Lestrade quando fu proprio l’altro, di fianco a lui, a fermarsi d’improvviso.

John lo superò di due passi, prima di fermarsi e voltarsi indietro.

« Greg? ».

« Guarda » gli disse quello, occhi bene aperti puntati fissi su di un punto in alto poco più avanti.

John si voltò, alzando finalmente lo sguardo dai propri piedi, e quando i suoi occhi incontrarono la parete del vicolo di fronte si sgranarono appena nella sorpresa.

Non era un murales, nemmeno un disegno di sorta. Come scritta non era affatto elaborata ma nei tratti precisi e nelle curve dolci delle lettere si poteva notare una mano abituata ad usare bombolette spray. Il muro era spoglio e vuoto tutto attorno e proprio quel particolare contribuiva a dare l’idea che fosse una sorta di segno di ribellione.

Alla luce soffusa e bianca di un lampione, spiccava la scritta in giallo perlato “I BELIEVE IN SHERLOCK HOLMES”.

Non era impossibile, si disse John. Sherlock aveva la rete di senzatetto e di “irregolari” che gli fornivano informazioni e notizie più velocemente di quanto lui stesso fosse stato in grado di raccoglierle. Non era strano pensare che qualcuno di loro, magari persino il ragazzo a cui avevano chiesto informazioni su quella stessa vernice durante il caso della Mafia Cinese, potesse aver fatto quella scritta per testimoniare una speranza, o solamente una voce nel dissenso.

Non poté non riservarsi un lieve sorriso che subito sparì. Ma esistette per quel secondo, per quel momento in cui aveva avuto la forza di piegare le labbra in qualcosa che non lasciava l’amaro in bocca.

Pensò anche che Lestrade lo avesse portato lì di proposito – quasi sicuramente era così – ma non lo disse.

« Grazie » fu l’unica cosa che disse, gli occhi catturati da quell’immagine tutt’altro che insolita ma stranamente confortante.
Lestrade gli passò affianco posandogli una mano sulla spalla, prima di superarlo e continuare per la sua strada.

 

• 19 Settembre ‘35

La teoria ha dato frutti insperati. Schneider è convinto che cambierà la Storia. A me non importa.

Non è LA Storia che voglio cambiare, ma UNA storia. Punto.

Tornerò indietro e farò in modo che mio padre non muoia. Da lì in poi, tutto tornerà come prima.

Tutta l’attrezzatura è quasi pronta. Tempo un mese e cominceremo con le sperimentazioni.

 

• 20 Ottobre ‘35

Il campo magnetico funziona, l’energia dell’Unoptanio rimane stabile e circoscritta. Serve molta energia per creare la singolarità, ma il Governo continua ad assicurarci che non è un problema. Meglio per me.

Ho nascosto un pezzo di Unoptanio nell’orologio con il giglio fiorentino che mi ha lasciato papà prima di morire. Non so quanto in fretta il materiale si degradi o decada, ma nel caso che lo faccia troppo in fretta, quel frammento salvato mi potrà servire per continuare le sperimentazioni su scala ridotta.

L’Orizzonte si presenta come invisibile, eppure c’è. Rifrange spettri di colori e di onde invisibili all’occhio. Alcune onde elettriche ad alta frequenza ed intensità sembrano, però, riuscire a passargli attraverso.

È un problema di spazio. Come stipare 5GB di roba in un hard disk che ne tiene appena 3.

 

• 25 Dicembre ’35

Ricevuto il consenso alla sperimentazione umana.

 

 

 

 

La prima sera che Lestrade non si fece vedere, John pensò solamente che gli fosse capitato un contrattempo. Si prese un tè da solo, guardando la partita di rugby dalla TV del locale, e quanto fu palese che Greg non lo avrebbe raggiunto, pagò e tornò a casa.

La seconda sera, John cominciò a chiedersi se avesse fatto qualcosa per indispettire l’altro. Ma era un pensiero difficile da farsi, considerando la persona in oggetto: Lestrade era munito di una pazienza quasi da sant’uomo ed era rinomato per non portare rancore. Probabilmente aveva avuto un problema grave, magari aveva ricevuto qualche novità dal lavoro. Non se la prese.

La terza sera, quello indispettito era John. Si aspettava per lo meno un messaggio, se non una telefonata, o comunque un motivo per il quale, improvvisamente, Lestrade aveva interrotto quella loro consuetudine. Non che lui ne avesse disperatamente bisogno, così come pensava che Lestrade, a sua volta, non ne fosse dipendente... ma era un metodo semplice per non rintanarsi in angoli scuri della mente riservati a tetti e a suicidi, a cieli grigi e disperazione e lapidi nere con lettere d’oro, a salti nel vuoto e al ricordo di un addio dal suono metallico.

Le due ore che passava al pub con Lestrade non erano essenziali, così come non erano indispensabili; erano solo un punto a dividere due capoversi, una pausa fra due giorni uno uguale all’altro. Qualcosa per cui valeva la pena alzarsi dopo il suono della sveglia.

Aspettò mezz’ora all’esterno del locale poi decise di prendere l’iniziativa. Oltre quella coltre di seccatura e delusione che lo aveva rivestito negli ultimi minuti, in realtà una leggera vena di preoccupazione si annidava infida.

Si chiese mentalmente, prima di partire in direzione dell’appartamento di Lestrade, cosa ci guadagnasse a fare sempre il buon samaritano.

La risposta la sapeva già ed era sempre quella: “niente”.

 

Gregory Lestrade abitava in una zona tranquilla di Bloomsbury. Il suo appartamento era al terzo piano di un palazzo di quattro e, dalla strada, si potevano vedere le finestre illuminate da una fievole luce giallognola.

Per lo meno era in casa.

John annuì brevemente a se stesso, attraversando la strada e suonando al citofono. Attese per qualche istante senza che nessuno gli rispondesse poi, testardo e ormai deciso ad andare fino in fondo, citofonò al portiere.

Si fece aprire la porta con una scusa qualsiasi e, sempre con quella scusa, riuscì ad ottenere il pas-par-tout dell’appartamento di Lestrade che la portineria era obbligata ad avere.

Salì a passo marziale i tre piani di scale, aiutandosi con la ringhiera solo verso la fine. Quando arrivò davanti alla porta numero 33, ben chiusa come si era immaginato, si diede una calmata.

Bussò, prima. Due colpi secchi che echeggiarono sul pianerottolo. Provò anche a chiamare il suo nome prima di colpire di nuovo la porta, ma dall’altra parte non ci fu risposta.

Nell’indecisione se entrare o meno con la chiave di riserva, alla fine si decise a farlo. Girò perfettamente nella toppa e gli diede libero accesso all’appartamento.

Entrando, si chiuse la porta alle spalle. L’ingresso dava su un brevissimo corridoio con un attaccapanni ed un mobile pieno di chiavi e buste chiuse (bollette) per poi aprirsi sul salotto. La luce che si poteva vedere dalla strada era quella di una lampada a piedistallo nell’angolo della stanza e che dava all’atmosfera un’aria di intimità famigliare.

« Greg! » chiamò di nuovo il medico una volta messo piede in salotto e lì fermatosi. Poteva vedere senza difficoltà il piccolo corridoio delle camere oltre la cucina, separata dal salotto tramite un ripiano in marmo sovrastato da una credenza di legno, ma le porte erano tutte chiuse e regnava il silenzio.

Forse non era davvero in casa. Ma dove altro poteva essere? Era quasi divorziato, senza figli, sospeso dal servizio... Lestrade stesso gli aveva detto che le loro uscite erano la sua unica occasione di uscire di casa per più dell’ora necessaria per andare a comprare beni di prima necessità al minimarket poco lontano.

No, doveva essere necessariamente in casa. Al massimo, John avrebbe potuto giustificare quella sua intrusione per pura preoccupazione. Cosa che, a parte la vena vendicativa e seccata che si portava dietro dal pub, non era del tutto errata.

Entrò nell’altro corridoio ed aprì la prima porta sulla sinistra, di fronte alla cucina. Il bagno. La luce era spenta ma si poteva capire benissimo che la stanza fosse vuota.

Aprì la seconda porta, adocchiando questa volta la camera da letto. Luce spenta, camera in perfetto ordine. Sembrava quasi che nessuno ci dormisse da parecchio tempo, e John non faticava ad immaginarsi che potesse essere realmente così.

La terza porta che aprì, di fronte alla camera da letto, era una stanza dai mobili coperti ed odorante di vernice e stucco. La luce era spenta e le imposte chiuse, ma grazie alla fievole luce del corridoio Watson poté notare il colore chiaro dell prove di colore sul muro, compresi alcuni disegni di personaggi Disney. La camera dei bambini. John trattenne il respiro alla solitudine che quella stanza decorata a metà ispirava, e richiuse la porta con una sgradevole sensazione in gola.

L’ultima porta rimasta era quella in fondo al corridoio. Solo quando vi si avvicinò John si accorse che filtrava luce dalla fessura fra il legno ed il pavimento e, convinto di aver finalmente raggiunto il suo obiettivo, bussò. Nessuna risposta. Aprì la porta.

Non seppe esattamente come elencare ciò che vide, ma le sue labbra si divisero autonomamente in un moto di profonda sorpresa.

Era lo studio ma non vi era traccia di Greg. Una scrivania era posizionata esattamente nel centro della stanza, dietro di essa torreggiava una libreria a quattro settori stracolma di libri, alcuni dei quali erano impilati ai piedi del mobile o aperti in mezzo alla stanza. La parete verso cui la scrivania era girata invece, quella che John stava fissando con incredulità, era spoglia di mobili ma ingombra di tutt’altro.

Una cartina politica dell’Europa era stata posizionata al centro del muro, attaccata con dei chiodi nei punti in cui il nastro adesivo aveva ceduto, e tutt’intorno si snodava una ragnatela di fotografie, articoli di giornale, rapporti di polizia – alcuni dei quali battuti a macchina e altri in francese, tedesco, russo, italiano... –, post-it gialli scarabocchiati a mano con una penna o un pennarello, alcune frasi scritte direttamente sui pochi centimetri di muro spoglio che sbucavano ogni tanto, cerchi rossi e punti di domanda attorno ad alcune città, alcune parole, alcuni volti su fotografie sgranate prese da circuiti di sorveglianza. Numeri e date e coordinate. Linee rosse  e nere e verdi che collegavano punti di cui non capiva nemmeno la logica. Cinque fili di lana da uncinetto di colore diverso (giallo, verde, rosso, blu, bianco) partivano da Londra e si perdevano in altri Paesi, alcuni sparivano, altri terminavano aggrovigliati sul pavimento. L’intero diorama prendeva tutta la parete e, nella parte destra, sforava in quella adiacente.

« Cosa accidenti...? »

« È il mio caso Rebecca ».7

La voce di Lestrade lo colse di sorpresa e non poté evitarsi di sobbalzare, girandosi verso l’inizio del corridoio. Greg era in piedi alla luce del salotto e sembrava l’ombra di se stesso.

Fece per parlare, ma l’altro lo anticipò: « ero a fumare sul retro, il portiere mi ha detto di averti fatto entrare » gli disse.

Watson annuì appena. « Ero preoccupato, e a ragione, vedo. Ti sei visto allo specchio ultimamente? » domandò, cercando di ritrovare quel minimo di irritabilità che aveva prima di mettere piede in quella casa, ma inutilmente. La vista della fissazione di Lestrade, perché di questo si trattava, gli aveva cancellato qualsiasi protesta avesse in mente di rivolgergli.

Greg alzò lo sguardo su di lui quando entrò nella luce più forte dello studio, mostrando a John due profonde occhiaie violacee e occhi rossi colmi di stanchezza e disperazione. La pelle del volto era pallida, dall’aspetto quasi malaticcio, e poteva giurare che avesse perso peso.

« Non ti vedo bene, Greg » gli disse Watson, osservandolo con occhio medico.

Lestrade soffiò fuori una risatina amara, dirigendosi verso la scrivania ed abbandonandosi sulla poltrona dietro di essa. « Tanto non dormo comunque » fu l’unica spiegazione che diede, prima di ricominciare: « mi dispiace di non averti detto nulla, John, ma ho perso la cognizione del tempo, compreso l’alternarsi del giorno e della notte » si giustificò.

Watson sospirò: « sei fortunato che non sono uno psichiatra, altrimenti ti direi che soffri di disturbo ossessivo-compulsivo unito a manie di vario tipo » ironizzò senza ridere, tornando a guardare la parete che Lestrade aveva tappezzato.

« Me lo hai detto comunque... » ribatté il poliziotto alla battuta, osservando a sua volta l’intrico di informazioni davanti a sé. « Ogni poliziotto ha un caso Rebecca » riprese poi il discorso: « un caso irrisolto che diventa la fissazione dell’intera vita. Il mio caso Rebecca si chiama “Sherlock Holmes” ».

John aggrottò le sopracciglia, fissandolo accigliato da sopra la spalla.

« Sto cercando un fantasma, credo... non lo so, sinceramente. Lui è morto, lo so questo. Ma ci sono persone coinvolte, figure quasi invisibili, che appena dopo l’accaduto se la sono data a gambe. Ho provato a seguirle, a leggere gli indizi... dai giornali, Internet, voci di corridoio, favori da colleghi all’estero. Cerco segni ovunque. Qualsiasi cosa attiri la mia attenzione ci metto la data e la attacco a quel muro. Mi sembra che sia tutto codificato ma, allo stesso tempo, ho la ferma convinzione di stare dando la caccia a nient’altro che nebbia. Mi sembra che sia semplicemente un modo per smettere di credere che sia morto davvero, che sia morto in quel modo, che sia stato davvero così egoista da suicidarsi. Li ho persi ma ancora continuo a cercarli. Sto... non so, lottando contro i mulini a vento. Questo dovrebbe fare di me Don Chisciotte della Mancia » disse, massaggiandosi gli occhi con la mano destra.

John spostò di nuovo lo sguardo dall’amico al diorama, stringendo le labbra in un pensiero che si riservò di dire ad alta voce. Lui aveva rinunciato a credere Sherlock morto, in cuor suo – se lo sentiva nelle ossa – ma non voleva diventare l’alter ego di Sancio Panza. Quella era davvero una caccia ai fantasmi ed era qualcosa a cui John non aveva nessuna intenzione di prendere parte.

« Alzati da quella scrivania, devi riposare » gli disse invece John, chiudendo fuori dalla sua vista quella sorta di follia.

Lestrade scosse la testa sconsolato: « no, non riuscirei comunque a– ».

« Non ti sto parlando da amico, Greg, ti sto parlando da medico. Non farmi fare la parte del soldato » lo avvertì John, fermo e serio nelle sue intenzioni.

Lestrade lo guardò negli occhi e, vinto forse dalla stanchezza (o dal corso degli eventi), sospirò e si alzò dalla scrivania, anticipando John fuori dalla stanza.

Watson lanciò un’ultima occhiata alla parete prima di spegnere la luce e, scuotendo rassegnato il capo, si chiuse la porta alle spalle.

 

• 28 Gennaio ‘36

James McCarthy (USA) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Registrata variazione temporale minima nel momento di attivazione del modello BetaTest01 oscillante fra i 2 e i 5 minuti. Si ritiene che la variazione sia avvenuta solo in laboratorio (il campo magnetico restrittivo regge al 95%). Upgrade del sistema.

 

• 15 Febbraio ‘36

Linda Hill (UK) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Resti gelatinosi dal DNA classificabile come umano ritrovati nel punto di contatto con l’Orizzonte. Il modello BT02 si mostra stabile ma si registra una variazione di tempo apprezzabile fra l’1 e i 3 minuti. Upgrade del sistema.

 

• 01 Marzo ‘36

Michael Lang (Germania) – esperimento fallito. Nessuna notizia certa. Modello BT03 inefficace.

Il problema è la compressione del passaggio. E non sappiamo ancora se il campo elettromagnetico che trattiene il balzo temporale sia innocuo per il viaggiatore, o se le coordinate inserite nell’aprire la singolarità siano davvero utili per un atterraggio in un punto specifico dello spazio. La mia formula per il balzo temporale potrebbe non essere esatta, o non portare i risultati sperati, ma non lo sapremo mai finché qualcuno non arriverà vivo “dall’altra parte”.

Non ho più voglia di mandare della gente a morire.

Il prossimo sarò io.

 

• 29 Aprile ‘36

Il professor Schneider ha cercato di farmi desistere, così come tutti gli altri studiosi.

Non mi importa.

Ormai la mia vita gira intorno a questo e raramente riesco a sedermi in silenzio e ad immaginarmi fuori dal laboratorio. I miei genitori sono morti, non ho più qualcosa di concreto a cui tornare.

Voglio salvarli. Io li salverò.

Tornerò indietro e cambierò tutto.

Se tutto va come ho calcolato, dovrei riuscire a tornare nel 2030 in tempo per salvare mio padre. Non so ancora se formerò un paradosso o meno, potrebbe anche essere... troppe variabili, troppi “se” e troppi “ma”.

Non mi resta che provarci e basta.

 

• 22 Maggio ‘36

Sto arrivando.

 

 

 

 

 

 

 

 

______________________________________________________________________________________________________

 

1. Nella polizia inglese "Constable" è il grado più basso dell'arma (come in Italia lo è il grado di agente semplice); in poche parole, è il grado di partenza da cui chiunque comincia la propria carriera. Il grado che ha Lestrade ora, ovvero "Detective Constable", non è diverso e non ha più privilegi rispetto a quello di un normale Constable, sta solo ad indicare la sua appartenenza al reparto investigativo.

I gradi, in ordine crescente, sarebbero i seguenti:

Detective Constable > Detective Seargent > Detective Inspector > Chief Inspector (...)

In altre parole, Lestrade è stato degradato di due gradi.

 

2. Lo Spettrometro AMS-02 (Alpha Magnetic Spectrometer) è una sorta di spettrometro di massa (un macchinario che individua e quantifica le masse degli atomi) utile ad identificare, nello spazio, particelle di antimateria (antiparticelle) e altri elementi contenuti nei raggi cosmici. A loro volta, i raggi cosmici sono raggi di energia emessi - si pensa - dai nuclei delle stelle.

È stato lanciato in orbita, a 300 km dalla Terra, il 29 aprile 2011.

 

3. L'Unoptanio (o Unottanio) è un elemento inesistente nella realtà che viene citato in un paio di film (Avatar di James Cameron e The Core di John Amiel). Deriva dalla parola "Unobtainium", un gioco di parole americano che mescola unobteinable ("inottenibile") con il suffisso -ium, tipico inglese per diversi elementi chimici. Viene utilizzata per indicare elementi con caratteristiche talmente ideali da essere inesistenti (ad esempio: in Avatar l'Unoptanio è un superconduttore a temperatura ambiente, mentre in The Core è un materiale che aumenta di densità all'aumentare della pressione e della temperatura, con il quale viene costruita una nave in grado di raggiungere il nucleo del pianeta).

La traduzione migliore in italiano per mantenere il gioco di parole sarebbe "Inottenibilicio", ma è talmente ridicola che capisco, per una volta, la scelta cinematografica di tradurla ad cazzium con "Unoptanio".

 

4. Chronos è, nella mitologia greca, il padrone del Tempo.

 

5. Il GPa - alias Gigapascal - è l'unità di misura della pressione per il Sistema Internazionale. Se pensate che a 10GPa il carbonio diventa diamante, potete farvi un'idea della cosa.

 

6. La Fullerite è un materiale superduro creato artificialmente. Tecnicamente, è uno dei materiali più solidi e resistenti del pianeta.

 

7. Battuta presa dal film "Millennium: Uomini che Odiano le Donne" (The Woman With the Dragon Tattoo).

   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: Yoko Hogawa