Serie TV > Heroes
Segui la storia  |       
Autore: KaienPhantomhive    06/10/2012    6 recensioni
[Reboot a partire dall'Episodio 3x3; fondamentalemente Het ma con lievissimi accenni Slash.]
Un uomo dall'anima divisa tra Luce e Ombra, in cerca della Redenzione.
I dolori insanabili di una ragazza che non può soffrire.
Molte anime legate da fili a loro invisibili, in bilico tra un progetto superiore e sconosciuto e precarie vite comuni.
La caduta di un misterioso meteorite ed un ragazzo privo di qualsiasi ricordo, eccetto un nome: Alex Mercer.
"Talvolta, nelle infinite casualità della vita, si nasconde un Disegno ben più grande."
Genere: Angst, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Claire Bennet, Nuovo personaggio, Peter Petrelli, Sylar
Note: Cross-over, Lime, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 
 
Quando accendiamo la luce, in quella stanza buia, rischiariamo l’oscurità per prendere atto della nostra esistenza nel Mondo. I nostri ricordi formano ciò che siamo stati ed i nostri sogni ci aprono le vie del Divenire; ma per alcuni di noi l’Io Passato striscia come un’ombra spaventosa da cui fuggire, in cerca della Redenzione.
Ma cosa succede quando l’oscurità non cessa di ondeggiare, al nostro Risveglio?
Cosa resta di noi…se non abbiamo più alcun ricordo?
 
 
 
 
 

 

Capitolo 3:
 
‘‘Awakening’’

 
 

 
Correva.
Correva a perdifiato, con il cuore a pulsargli nel petto come una grancassa.
Correva ed ansimava, accecato da una paura senza volto.
Correva su quel colle, sulla terra umida, tra gli alberi scuri.
Correva senza sapere dove andare; doveva solo limitarsi a quello – a correre – per il momento.
Correva senza voltarsi indietro, non sarebbe servito: sapeva già cosa avrebbe visto.
 
Correva a grandi falcate…fin quando il suo piede non urtò e si incastrò in qualcosa di rigido, come una radice.
Con un gemito di dolore, misto alla consapevolezza che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui sarebbe cascato in vita sua, incespicò e caracollò al suolo.
La vista già affaticata dallo sforzo e dalla nebbia notturna gli impedì di realizzare completamente.
Stanco, disperato e sottomesso alla sua coscienza, provò a malapena a stringere un pugno di terriccio nella mano stesa in avanti, tentando di trovare un briciolo di forza per rimettersi in piedi.
 
A pochi centimetri da lui, una fialetta di liquido chimico rosso giaceva a pezzi: gli aveva ferito il palmo ed ora quella sostanza vischiosa gli bruciava sulle ferite.
 
Ma quando le sua ginocchia si piegarono contro il suolo, per sorreggerlo, qualcuno o qualcosa lo colpì con forza sulla schiena, costringendolo ad accasciarsi nuovamente.
 
Sollevò appena lo sguardo, mentre l’immagine sfocata del suo carnefice gli puntava contro un fucile da cecchino.
Sei LED verde smeraldo, come di un visore ottico, rilucevano sul viso in ombra dell’aguzzino.
Una voce sarcastica e compiaciuta sgorgò da sotto la sua maschera:
“Un cervellone come lei non dovrebbe affaticarsi troppo, lo sa?. La PINEHEARST la ringrazia per i suoi servigi e le ricorda di ritirare la sua Liquidazione: arrivederci…Dottor Mercer.”
 
Bang.
 
 
*   *   *
 
 
20 Marzo 2007. Ore 07:15 A.M.
Appartamento n.20 della PRIMATECH. Periferia di Odessa, Texas.
 
Con un rantolo strozzato, il Ragazzo Caduto dal Cielo si riprese dal suo sonno catatonico in modo alquanto brusco.
Cough-cough!” – tossì un paio di volte, con un saporaccio disgustoso di terra e muffa in gola.
Prima di qualsiasi altra funzione biologica possibile, la più immediata sensazione che provò fu una sorta di strano capogiro e di pressione sotto lo sterno.
Inconsciamente gli sembrò di aver ripreso fiato dopo chissà quanto tempo di apnea, quasi come se non avesse respirato per anni.
 
Era un ragazzo poco più che maggiorenne, dai capelli castani corti ma ondulati e lisci, che formavano una frangia scomposta sugli occhi scuri.
Nonostante la fiacchezza che gli gravava addosso, il suo fisico era scolpito ed impostato.
Per quanto lo si potesse trovare attraente la sua bellezza rientrava comunque nei canoni più comuni, ma nella perfetta salute del suo corpo c’era qualcosa di sovrumano.
 
Dopo che i suoi polmoni si ridistesero, riuscì a percepire la consistenza calda e soffice di qualcosa intorno al suo corpo.
Istintivamente, ma senza alcuna presa di volontà, provò a schiudere le palpebre appicciate da quel sonno che sembrava durare da sempre.
Lentamente – forse troppo – riuscì ad inquadrare ciò che lo circondava:
Qualcosa lo avvolgeva: si trattava di un materiale all’apparenza morbido, che si adagiava sul suo corpo, creando un tepore leggero. Era piacevole.
 
(Ora, miei cari lettori, bisognerà precisare che questo ‘strano artefatto’ altro non era che una coperta di lana piuttosto semplice e a buon prezzo, ma il nostro ‘Star Child’ non sembrava ricordarne il nome. E senza un nome o un suo sinonimo, beh, riconoscere una maledetta coperta può non essere tanto banale. Ma torniamo al suo Risveglio…)
 
Quel telo non gli impacciava i movimenti: impercettibilmente, poté avvertire le sue dita, le sue braccia e le sue gambe muoversi appena.
Anche se si trattava di movimenti minuscoli, gli sembrò di dover compiere un sforzo immenso.
Aveva l’impressione che oltre ai polmoni, anche tutto il resto del suo corpo fosse andato in ferie da parecchio tempo.
Ruotò gli occhi, prima in alto e poi ai suoi lati:
 
Un soffitto grigio e non molto curato, dei più banali, lo sovrastava. Aveva qualche chiazza d’umidità.
Alla sua sinistra era contrastato da un lungo schienale imbottito di un pessimo color giallo ocra: doveva evidentemente trovarsi su qualcosa che suonava come ‘divano’.
Alla sua destra, il resto dell’angusta stanza-monolocale:
Un piccolo tavolo di legno, sul quale erano poggiati due piatti bianchi, una finestrella nella parete destra ed un angolo-cottura infossato dall’altra parte.
C’erano tre o quattro armadietti a mensola appesi sopra di esso e una figura slanciata ondeggiava su quella misera cucinetta.
 
Si trattava di un uomo, a prima vista; era piuttosto alto, anche se – curvo com’era – la postura gli faceva perdere qualche centimetro.
Poteva vederne solo la base della testa e la schiena e pertanto il ritratto del suo coinquilino per ora constava solo di:
Capelli scuri e corti sulla nuca, ma solo poco più lunghi e terribilmente spettinati man mano che si avvicinavano alla fronte;
Una canottiera di un mediocre grigio pallido, dalla quale affioravano due braccia mediamente muscolose;
Un paio di pantaloni-pigiama dello stesso insulso colore.
Però, che eleganza.
 
Tornò a volgere lo sguardo al tetto.
Non sapeva cosa fare, né cosa dire.
Non sapeva perché fosse lì, né se ciò che lo circondava fosse reale.
Probabilmente non si ricordava nemmeno come parlare.
Ma con la poca forza di volontà che poteva essersi depositata nel suo cervello annebbiato, riuscì a biasciare qualcosa:
Un soffitto sconosciuto…
C’era qualcosa che non andava, in lui e in tutta quella situazione:
Io…dove sono?”
 
“A casa mia.” – rispose l’uomo di spalle; la sua voce diceva che non poteva essere troppo in là con gli anni, ma qualcosa la rendeva più rauca e grottesca di quello che sarebbe dovuta essere – “O meglio: in una dépendance temporanea.”
 
Un brivido corse lungo la schiena del ragazzo, come a volergli ridestare i sensi.
Sentì che voleva sollevarsi sui gomiti, ma la solita voce glielo impedì.
 
“Non alzarti.” – lo intimò l’uomo, voltando appena la testa e mostrando due strani occhietti neri; la sua voce tremò appena di imbarazzo – “Sei ancora molto assonnato.”
 
Troppo stordito per replicare, il ragazzo abbassò lo sguardo su di sé e notò che il suo torace era completamente nudo…e anche tutto il resto.
Senza capire esattamente il perché, il suo viso divenne paonazzo, mentre agguantò la coperta che ora pendeva al suolo.
In tutta fretta strinse le ginocchia al petto, raggomitolandosi sul divano, e si coprì con il telo fino al mento.
Provava una strana sensazione: come di inadeguatezza, nel sapere che quel tipo aveva potuto vedere il suo corpo come doveva essere venuto al mondo.
Ma cosa c’era di strano? Dopotutto nessun essere vivente nasce con la camicia, quindi perché provare certe percezioni al solo pensiero di essere svestito?
Si trattava di un sentimento controverso; doveva chiamarsi ‘vergogna’.
 
Con quella coperta tirata sulla faccia, come a voler scomparire nella tappezzeria, chiese con un fil di voce:
“Q-quanto tempo…ho dormito?”
“Due giorni interi.” – rispose ancora quel tizio, tentando di non scomporsi troppo – “Sarei curioso di sapere che diavolo ci facevi in mezzo ad un bosco, in quello stato e per di più nel luogo di schianto di una meteora…!”
Il Giovane Caduto dal Cielo aggrottò la fronte, tentando di ripercorrere i suoi ricordi, ma sembrava proprio che la sua memoria avesse chiuso i battenti:
“Io…non lo so.”
“Come sarebbe a dire ‘non lo so’?!”
Quella frase gli aveva scosso i nervi un po’ più del dovuto, tanto che si voltò completamente.
 
Ora poteva vederlo in faccia, il coinquilino-maglietta-grigia:
Era un uomo sulla trentina, dal viso asciutto e dallo sguardo improvvisamente meno cordiale di quanto sperasse; le labbra strette e ridotte da una spiacevole smorfia.
Le lunghe sopracciglia nere gli squadravano gli occhi scuri e penetranti; i capelli corvini erano proprio come se li aspettava: scomposti in una specie di cresta venuta male, ed insieme alla barbetta incolta da un giorno contornavano quel volto fin troppo espressivo.
Doveva essersi svegliato da poco anche lui, dato lo stato in cui si trastullava.
 
Il Ragazzo Caduto dal Cielo si convinse che la sua presenza non fosse tropo gradita in casa altrui, nonostante fosse quella del suo soccorritore:
“Mi spiace…”
 
Di cosa gli dispiaceva? Di non ricordare nulla?
Non era certo una colpa ed in ogni caso poteva rispondere che non sapeva spiegarsi meglio di così; quel ‘mi spiace’ non aveva senso come risposta alla sacrosanta stizza del suo interlocutore.
Aveva scordato anche come conversare, evidentemente.
 
Gabriel Gray lo fissò affatto convinto, poi borbottò seccato:
“Ad ogni modo non puoi girarmi per casa nudo; vado a prenderti degli abiti puliti.”
E sparì in una stanzetta.
 
Dopo poco ritornò con in mano qualche vestito, che gli tirò sgraziatamente sul divano.
Il giovane prese in mano quegli abiti, rigirandosi tra le mani la biancheria intima con un’espressione tutto fuorché vispa.
 
L’altro sollevò un sopracciglio ed arricciò le labbra, scettico:
“Sono solo dei dannati boxer: credi di ricordarti almeno come indossarli o devo mostrarti anche quello?”
 
Lui non rispose subito, ma strinse tra le dita la giacca di pelle che gli aveva portato: era bella, con le finiture in rosso e bianco, che formavano un paio di ali stilizzate sulla schiena.
Con un gesto bizzarro, la avvicinò al viso ed annusò il tessuto.
 
Gabriel iniziò a credere che se per non essere più ‘Sylar’ doveva soccorrere strambi ragazzini mezzi-drogati (o chissà che altro) che avevano scambiato i suoi vestiti come roba da sniffare, allora era meglio continuare per la vecchia maniera.
“Guarda che non puzzo mica…!” – mugugnò offeso, incrociando le braccia al petto.
 
“No…” – mormorò l’altro, sorridendo nel accarezzare quei vestiti – “…è questo calore. Questo profumo così…umano. E’ bello.”
 
Gli aveva dato dell’umano.
Era un bel po’ di tempo che Sylar non si pensava in questi termini; oltre alla valanga di insulti e maledizioni per i quali quotidianamente s’impegnava di meritare, c’era sempre la consapevolezza che di umano, ormai, avesse solo la forma.
Dopotutto, lui era il mostro della situazione, no?
 
Era una frase troppo strana per provare sensazioni piacevoli o meno; semplicemente si voltò dall’altra parte, con la pazienza sotto i tacchi:
“Vedi di infilarti quella roba; ti do tre minuti.”
 
Cristo Santo…! Tutti a me, gli idioti!
 
 
*   *   *
 
 
Poco dopo.
 
Gabriel versò nella tazza del ragazzo, seduto dall’altra parte del tavolino, un po’ di latte caldo:
“Bevi. Non ho molto, per ora, ma uscirò a comprare qualcosa.”
 
Lui la strinse tra le mani, che sentì riscaldarsi dal tepore che già iniziava a penetrare nella ceramica.
La sua pelle bruciava appena e se avesse mantenuto il contatto troppo a lungo si sarebbe scottato, ma non si trattava di un fastidio troppo sgradevole.
Tutt’altro: quel calore penetrava fin nelle ossa e poi nell’animo, rischiarandolo.
 
“Questa sensazione è così strana.” – disse, sfregandosi le mani bollenti – “Provo un leggero dolore, però…mi piace. E’ una cosa sbagliata?”
 
Gray lo guardò di traverso: cosa intendeva?
Si stava davvero rivolgendo a lui?
A lui che fino a tre giorni prima andava in giro ad aprire crani a metà?
Era davvero nella posizione di dire cosa fosse giusto e cosa no?
Cominciava a credere sempre di più di avere davvero a che fare con una specie di alieno proveniente da un altro Pianeta.
 
“Non direi.” – rispose poco convinto – “E’ solo latte! Possibile che non tu non abbia alcun ricordo al riguardo di nulla?”
Il ragazzo scosse la testa:
“No, non posso farci nulla. Mi sembra di essere così…vuoto!”
 
Allora l’Uomo Nero prese da sopra una mensola un piccolo portafoglio in pelle nera; era sgualcito oltre ogni immaginazione, praticamente a pezzi.
Lo aprì con quanta più delicatezza possibile e ne tirò fuori un po’ di carta straccia: c’erano cinquanta dollari (che a riconoscerli ci volle proprio la buona fantasia di Sylar, visto come erano ridotti), una carta di credito miracolosamente intatta, una carta di identità appena leggibile ed un mazzo di due chiavi un po’ rigate.
 
“Beh, se non altro qualcosa di te lo possiamo scoprire: li ho trovati ad un paio di metri dal tuo corpo. Qualcosa che ti sia familiare?”
 
Il ragazzo esaminò meglio gli oggettini:
Certo, quel poco che restava dei suoi (?) soldi gli suggeriva che doveva trattarsi di denaro: quella roba usata dagli umani per sopravvivere e che alla fine rappresenta una delle peggiori malattie della Terra.
Lo stesso poteva dirsi per il mazzo di chiavi, che certo dovevano aprire qualcosa; ma se si trattava di chiavi per un auto, una casa o magari una cassaforte, questo non poteva dirlo.
Scosse la testa, sconfortato:
“Nulla.”
 
Gabriel inarcò ancora un volta il sopracciglio destro, in quel suo gesto tipico, e tentò di decifrare i dati della carta d’identità:
“E’ illeggibile. Però qualcosa si distingue: Alex Mercer; età: 29 anni.”
Poi diede un’occhiata al pass e alle chiavi, dalle quali pendeva una targhetta:
“E qui c’è una carta di credito per soli membri, rilasciata da una ditta chiamata ‘PINEHEARST’; mentre sulle chiavi c’è scritto: Kensington Street n.23, Costa Verde.”
Lo squadrò da capo a piedi e schioccò la lingua; quel tipetto che aveva davanti non poteva certo avere ventinove anni:
“Beh, o si tratta di un altro ‘Mercer’ o hai pagato un’estetista da capogiro.”
 
Alex Mercer.” – si ripeté, come a volervi scorgere qualche altro significato – “Sì…credo di chiamarmi così. Ma non ricordo di aver mai lavorato…né di avere una casa a Costa Verde. A dire il vero, non ricordo di aver mai abitato in alcun luogo.”
 
“Ma almeno ora so come devo chiamarti.” – notò Gray, con il suo solito cinismo qualunquista, che tuttavia gli conferì una piccola nota di ottimismo.
 
L’a-quanto-pare-chiamato Alex Mercer lo squadrò meglio:
“Però…non so nemmeno il tuo nome.”
 
“Ah, già.” – scosse la testa, intuendo la gaffe – “Io sono Sy-…”
Dovette mordersi la lingua per tenere a freno le parole.
 
Il nome ‘Sylar’ continuava a saltellargli in testa, desideroso di essere pronunciato.
Ma se voleva davvero cambiare, se davvero voleva aiutare quel ragazzo venuto da chissàdove, allora ‘Sylar’ avrebbe dovuto imparare a starsene zitto in un angolo.
Ed in fin dei conti avevano più cose in comune di quanto volesse ammettere:
Anche lui iniziava a dubitare delle sue origini, della sua famiglia…della sua essenza, in pratica.
Gabriel Gray, Petrelli o Sylar : tutte facce della stessa – alquanto confusa – medaglia.
 
Deglutì come per mandare giù un conato di vomito e riprese:
“Gabriel. Puoi chiamarmi ‘Gabriel’.”
 
Il ragazzo lo fissò ancora e sorrise, verso quell’uomo spuntato dal nulla che gli trasmetteva una sensazione di timore e protezione insieme; la prima persona da tempo immemore.
Ripeté tra sé:
Gabriel…
 
 
*   *   *
 
 
Ore 10:00 A.M. Odessa.
 
Casa della famiglia ‘Petrelli’.
 
Bzzz…bzzz…
 
L’elegante e sobria sveglia rettangolare, contornata di acero, vibrava con discrezione sul comodino di Nathan Petrelli, al dodicesimo tentativo di svegliarlo.
 
La luce inondava la suite di Petrelli Manor dalle grandi porte-finestre, attraversando i leggeri veli di lino delle tende e invadendo i raffinati mobili, le lenzuola bianchissime e le pareti decorate in carta da parati.
Un raggio di luce colpì in viso una giovane donna dai lunghi capelli di un lucente biondo dorato, seduta al suo capezzale.
 
La sveglia si era già impegnata più del dovuto, quel mattino, per provare a ridestare dal torpore il Senatore Petrelli, ma senza grandi risultati.
Fu solo per un caso fortuito, che il sonno di Nathan sembrò farsi un po’ meno pesante e concedere alla sua mente di provare fastidio per quella vibrazione continua.
A dire il vero, aveva l’irrefrenabile voglia di sbatterla contro la parete opposta e poi lanciarla fuori dalla finestra.
Ma si trattenne.
Con un leggero brontolìo, dischiuse le palpebre a fatica.
Restò per un momento a fissare il soffitto, senza rendersi conto di niente e nessuno, e poi voltò appena la testa, quel tanto che bastò per rendersi conto di avere compagnia.
 
“Niki…” – mormorò ancora inebetito, alla vista di quei capelli fluenti, di quegli occhi di ghiaccio, di quelle labbra sottili e severe.
 
Niki Sanders: una delle tante ‘sveltine bionde’ che avevano costellato l’esistenza controversa di Nathan Petrelli, in bilico tra una famiglia che gli andava stretta ed una vita che gli si offriva anche più del dovuto.
Niki Sanders: casualmente scopertasi una ‘Hero’, una donna di straordinaria forza fisica e di un amore incondizionato per i suoi cari.
Niki Sanders: morta tre mesi prima.
 
“No…” – ripeté tra sé, scuotendo la testa per la propria ottusaggine  – “…Tracy.”
 
Tracy Strauss: la nuova ‘sveltina bionda’ del citato Petrelli, stavolta con funzione di ‘segretaria-fai-da-te-fai-per-tre.’
Anche lei con abilità innate: Criogenia.
Certamente è facile confondere due donne, se sono l’una l’esatta copia dell’altra.
 
Lei si affrettò a sollevare il capo dalle mani, ripresasi dall’abbiocco momentaneo, fissandolo con un misto di speranza, stupore e compassione:
“Buongiorno, Nate.”
 
Lui rimase per un attimo a fissarla, la sua meravigliosa ed attanagliante bellezza: così fredda, così distante, così solitaria.
Era la Regina di Ghiaccio.
 
“Sei stata al mio fianco…per tutto questo tempo?” – chiese lentamente.
“Sì.” – rispose lei, con semplicità imbarazzante– “Sono quasi quattro giorni che sei qui. Quando apri gli occhi lo fai a mala pena per lagnarti…”
 
Lui si lagnava.
Si lagnava di essersi beccato una pallottola sotto lo sterno, tra cuore e polmone.
Beh, era proprio un bambinone, non c’è che dire.
Non era molto cortese come affermazione, ma detta così a bruciapelo gli strappò un sorriso.
Anche lei si mise a ridere.
Rideva in quel suo modo così unico: era bellissima.
 
Bzzz…bzzz… -stessa sveglia di cui sopra; tentativo n.13: andato a buon fine.
 
 
“Giuro che lo faccio a pezzi, questo aggeggio infernale…” – Nathan distese un braccio coperto dalla sua vestaglia di raso blu verso il comodino, ma una fitta dolorosa gli partì dalla ferita e gli risalì lungo le scapole.
Si morse un labbro per soffocare il dolore.
“No, aspetta, non muoverti ancora.” – lo rassicurò lei – “Ci penso io.”
E la spense.
Poi si risedette al suo posto e allungò una mano verso il torace dell’uomo.
Per un attimo lui pensò male, ma fare sesso alle 10:00 del mattino non rientrava certo nei programmi della Strauss.
 
Sei davvero pessimo, Nate.– si disse lui, sorridendo tra sé.
 
Poi avvertì una sensazione di gelo dove prima il bruciore della ferita lo invadeva.
Era lei: le punte dell’indice e del medio erano diventate di un chiarore cianotico quasi luminoso, mentre piccole onde di energia gelida si propagavano sulla pelle di Nathan.
Presto il dolore se ne andò, lasciando posto ad una piacevole sensazione di fresco.
 
“Ti ringrazio…” – sospirò lui, fissandola negli occhi cerulei.
 
Lei non rispose e quando si decise che rimanere imbambolata così era quantomeno disdicevole…
 
Eh-ehm.” – interruzione sul clou.
Da brava suocera, Angela Petrelli era ritta sull’uscio della porta della camera.
“Sembra che il principe si sia svegliato, alla fine.”
 
“Buongiorno, mamma.” – bofonchiò Nathan, già stanco della giornata.
Qualcosa suggerì a Tracy di essere di troppo:
“Vi lascio soli…”
Ed uscì dalla stanza.
 
Angela entrò, posando un vassoio di legno su un mobile della stanza, iniziando ad affogare la bustina di tè alla menta – il preferito del Senatore – nella teiera bollente.
Sospirò affranta:
“Sei sempre stato uguale a tuo padre; stessa dedizione al lavoro, stessi gusti…”
“Lo dici come se fosse un peccato.” – nella voce del maggiore dei fratelli Petrelli c’era una nota di risentimento.
 
Se c’era una cosa che Nathan proprio non sopportava era parlare del padre defunto da poco più di un anno. E soprattutto che se ne parlasse in quel modo.
Suo padre era stato più che un mentore: era il suo modello di carriera, il suo idolo personale, l’incarnazione del Sogno Americano.
Ma era stato anche l’uomo che più di tutti lo aveva tradito, aggirato…nella convinzione che il suo ruolo da Procuratore Distrettuale potesse esentarlo da crimini morali.
In un certo senso Nathan ed Arthur Petrelli erano l’uno l’antitesi dell’altro, ma in questo equilibriod’opposti si nascondeva l’emulazione di un figlio verso una sorta di divinità, più che un padre.
Dopo questo, Nathan non sopportava le cavolate senza senso di suo fratello Peter…ma a quelle ci era abituato.
Ma il padre, quello non doveva toccarlo nessuno. Nessuno aveva l’esperienza per giudicarlo, sia in bene che in male.
 
“Arthur ci voleva bene.” – continuò Angela, versando un po’ di zucchero – “Ma negli ultimi tempi ho cominciato ad avere il sospetto che ci fossero questioni ben più importanti nella sua vita. Aveva perso il senso della misura: ci stava facendo precipitare in una baratro da cui non ci saremmo più ripresi; non che siamo mai stati una famiglia perfetta, dopotutto.”
“Ma ormai è acqua passata.” – tagliò corto il figlio – “Devo pensare alle elezioni e poi tutto sistemerà.”
Ti sbagli.” – la voce di Angela si irrigidì.
 
Si allontanò dalla teiera, attraversando la stanza per scrutare la mattinata soleggiata oltre la finestra.
Sentiva qualcosa dentro di sé, dentro la sua testa.
I suoi sogni, le sue premonizioni, erano stati piuttosto confusi ed incerti negli ultimi tempi…ma il messaggio d’allerta che le mandavano era inequivocabile:
“Questa tua ansia per la Presidenza ti sta rendendo meno lucido. Sai bene che non possiamo abbassare la guardia, nel nostro stato: Peter è scomparso, tu sei stato vittima di un attentato ed eri ad un passo dal rivelare tutto.”
Si voltò improvvisamente; gli occhi scuri e sgranati come in preda ad una angoscia impronunciabile:
“Nathan, io tempo per te e tuo fratello.”
 
E Sylar. Lui non lo contava come terzo figlio?
Oh, certo che no. Perché, in fin dei conti, Angela Petrelli sapeva qual era la verità.
 
“Ho paura che questa situazione degeneri più del dovuto: hai voluto di fare di testa tua e come ricompensa ti stavano per…”
 
“Basta così.” – Nathan tentò di alzarsi in piedi; l’ira stava cominciando a pompargli la forza nelle vene – “Ora come ora non ho certo intenzione di sproloquiare davanti alla stampa, questo è certo. So esattamente cosa fare, dovrò solo attendere che i tempi siano maturi.”
Poi si voltò verso di lei; il suo viso un po’ squadrato era più cupo del solito, gli occhi diretti e sottili:
“Ora lasciami solo: devo vestirmi, poi farò colazione.”
 
“Come vuoi.” – la donna gli voltò le spalle e lo sorpassò; stringendo i pugni.
 
Lui sospirò, mentre ogni suo appiglio alla realtà iniziava a sgretolarsi come le costole che gli avevano spaccato, e rivolse uno sguardo aldilà della vetrata:
“Peter…dove sei, ora?”
 
 
*   *   *
 
 
Epoca sconosciuta. Data e luogo indicativi.
 
Quella specie di tunnel psichedelico di plasma multicolore e flash abbacinanti si squarciò nel mezzo, con un bagliore accecante.
 
Peter cadde da un’altezza imprevista, rotolando al suolo e lanciando un piccolo grido di dolore.
L’altro atterrò invece perfettamente ritto, come se quella scampagnata spazio-temporale fosse routine quotidiana.
 
Gemendo per le contusioni, il Peter più giovane si rialzò a fatica, borbottando:
“Che male cane! Si può sapere che diavolo era, quella roba?!”
L’immagine fisica di un flusso di super-stringhe spazio-temporali in distorsione esa-dimensionale, lungo un moto rettilineo per l’asse di ordinata ‘t=y’. ” – rispose prontamente il doppio con il viso sfregiato da quella pittoresca cicatrice – “Un gran buco che ci schizza da un’altra parte nel Tempo.”
“Eh?!” – ma la sua controparte del Passato non sembrava altrettanto acuta.
L’Alter-Peter lo squadrò da capo a piedi, come se avesse davanti un completo inetto:
“E’ solo un salto nello Spazio-Tempo. Mai viaggiato così, prima d’ora?”
“No, per la miseria! E dovresti anche saperlo, dato che sei me! Qualunque sia il nome di quella roba in cui mi hai portato, esigo delle spiegazioni: voglio sapere dove e quando siamo! E soprattutto: cosa diavolo vuoi da me!”
Poi abbassò lo sguardo, perplesso:
“Cioè, da te…anzi no, me…insomma chi sei?!”
 
L’altro sospirò, come a voler dire ‘come facevo ad essere tanto idiota, all’epoca?’, e poi si diede un’occhiata attorno. Quando fu certo di essere nel posto giusto, disse freddamente:
“Siamo a Manhattan. Ma non in quella che conosci: siamo cinque anni nel Futuro, esattamente nello stesso anno da cui è venuto l’Hiro Nakamura con la spada che ti aveva avvertito della Cheerleader.”
“Un momento…parli di Claire?” – ed ecco che ‘Zio Peter’ iniziava a farsi sentire, al solo pronunciare il nome della Bennet – “Siamo riusciti a salvarla, giusto? Qual è il problema?”
“Il problema non è lei.” – asserì con durezza il suo alter-ego – “Il problema è lui.”
“Di chi parli?” – chiese febbrilmente.
“Dello ‘Star Child’.”
Peter batté un paio di volte le palpebre; sperò di aver sentito male:
“Intendi dire…quei bambini con la testa abnorme di cui parlano i programmi in TV per fare più audience?”
“No. Parlo di un individuo che dovrebbe essere nato – o meglio: rinato – dal segmento temporale da cui provieni. Il Portatore del ‘Catalizzatore’, il ragazzo cercato da Arthur Petrelli!”
 
Al suono di quel nome, Peter rabbrividì.
 
“Intendi dire…nostro padre? Se questo è uno scherzo, ti assicuro che è di pessimo gusto. Se dici di provenire dal Futuro, credo tu sappia che papà è…”
Vivo.” – lo frenò il Viaggiatore Temporale – “Non ancora, magari, ma presto lo sarà. Credimi, vorrei avere molto più tempo per spiegarti tutto ma non servirebbe: devi vedere con i tuoi occhi.”
 
Lo strattonò per un braccio, uscendo da quel vicolo umido in cui si trovavano.
Quando uscì alla luce…vide:
 
Vide sterminati cieli di piombo che ammantavano la città.
Vide i lucenti e vitali quartieri di Manhattan ridotti a mucchi fatiscenti di edifici grigi ed abbandonati.
Vide orripilanti rampicanti rossi – più simili a tentacoli che a piante – allungarsi come dita perverse su macchine abbandonate per strada, come cadaveri malati di peste; quegli stessi rampicanti che svettavano sui palazzi e si tendevano al cielo.
 
Ebbe quasi un conato di vomito, ma lo represse mormorando sconcertato:
“Che diavolo…?! Che cosa è successo, a tutti?”
“Sono cambiati. In peggio, in qualcosa di mostruoso. Qui, ormai, non c’è più nulla di sano: i ponti di accesso all’Isola sono stati abbattuti, gli infetti braccati e uccisi, i pochi superstiti rimasti rinchiusi in case d’accoglienza che tutto sono meno che accoglienti.”
Cambiati…” – ripeté tra sé Peter, stordito e scioccato –“…ma da cosa? Da chi?”
“Da loro: da quelli della PINEHEARST! Da nostro padre, da quel ragazzo!”
 
MA CHI ACCIDENTI E’ QUESTO TIZIO DI CUI PARLI?!?!” – ed ecco che la notoriamente poco longeva pazienza di Peter Petrelli andò a farsi benedire. Di nuovo.
Ma stavolta era diverso: sentiva il fiato morirgli in gola, gli veniva quasi da piangere.
 
Eccolo, eccolo! E’ lui! Prendetelo! Fuoco, fuoco!”
Con una serie di spari assordanti, un comando militare echeggiò per le strade deserte.
 
Peter lanciò un gridolino, accucciandosi con le mani sulla testa:
A poche centinaia di metri, un drappello di uomini in divise nere armati fino ai denti avanzava rapidamente, scortati dalla sagoma scura di un grosso carro armato.
 
Il suo ‘Io’ futuro si voltò appena per ravvisarsi della loro presenza, poi lo strinse per le spalle, fremendo in un tremito incontrollato:
“Ora ascoltami bene: non c’è tempo per altre spiegazioni, ma devi tenere a mente ciò che ti ho detto e che ti dirò.”
Tentò di distendersi e di calmare la voce, mentre poteva sentire lo scalpiccìo degli stivali militari avvicinarsi sempre più, sull’asfalto.
Ci stanno facendo a pezzi. La situazione è sfuggita di mano: la cura allo ‘Shanti Virus’ che Mohinder stava elaborando è stata corrotta, da molto tempo prima; speravano di domare i Poteri ma hanno solo creato dei mostri!”
 
Erano lì, i cecchini.
Stavano mirando alla sua testa, calibrando il tiro.
 
Una lacrima sgorgò tra le sue ciglia:
“Sei il ‘me stesso’ che non ho potuto cambiare in tempo: io sono solo la Farfalla giusta da calpestare nel Flusso degli Eoni, ma tu puoi ancora redimerti. Io sto per morire ma l’effetto del mio Time-Gauge durerà su di te ancora per poco…presto tornerai a casa.”
 
Due spari andati a vuoto. Ma la prossima volta non avrebbero sbagliato.
 
Nostro padre e Nathan! Claire! Hiro, Matt, Daphne Millbrook…perfino Sylar! E poi Alex Mercer! Ricordati questi nomi, ricordati che missione abbiamo noi tutti!”
 
Un grido di dolore: il primo proiettile gli trapassò il torace, con uno spruzzo di sangue scuro.
Cadde sulle ginocchia; pianse.
Pianse lacrime di pentimento, di paura, di disperazione.
Di amore:
La Famiglia. Tieni unita la Famiglia…
 
Poi tutto cessò di scorrere nel Tempo dell’Uomo:
Time-Gauge: dispersione.
 
 
*   *   *
 
 
Scorre. Tutto scorre.
Il Tempo, lo Spazio, l’Anima, la Mente.
E’ una danza priva di senso, che però è manifesto nel perfetto ordine di quel caos di volti e luoghi.
La Terra stessa sembra scorrere sotto i piedi di Peter, mentre il suo ‘Ego’ resta perfettamente immobile.
Tutto è accelerato e rallentato al tempo stesso:
 
Ora esce dall’Isola, sorvolando i Ponti distrutti e scorrendo sulla superfice del quieto Hudson…
Oltre l’acqua, la Libertà.
Ci sono persone, automobili, vite, famiglie: tutto è un continuo andirivieni di luce e colore, che si fonde insieme per creare un quadro astratto.
Sembrano felici, eppure in loro si annida il germe della diffidenza.
Sono tempi duri, quelli. Tempi in cui non sai cosa si cela dentro di te, dentro coloro che ti circondano.
Dove i mostri non sono più fiabe per tenere buoni i bambini testardi, sono realtà.
 
Il suolo scorre ancora, per chilometri.
Ora c’è una casetta. Una bella villetta pulita, dalle mura bianche.
Dentro c’è un uomo: è chino su un tavolo da cucina, sta preparando i waffles ad un bambino di sì e no due anni di vita.
Sembrano felici.
Ma poi Peter fissa meglio in volto quel padre amorevole, privo di voce de dai movimenti accelerati:
E’ un volto noto, anche troppo. Rabbrividisce alla sola idea.
 
Gabriel Gray pulisce la bocca del bambino che si è sporcato con un po’ di cioccolato fuso; gli sorride.
C’è troppa ingenuità e tenerezza in quel pargolo perché un cuore resti arido.
 
Ma poi arrivano, i mostri di quei tempi:
Sfondano la porta della casa ed irrompono.
Sono mostri più spaventosi perché si celano sotto le spoglie più terrificanti: volti umani, quasi anonimi; racchiusi in divise militari scure sulle quali risalta la dicitura ‘BLACKWATCH’.
Il padre mette le mani in alto, e senza voce li implora di lasciar in pace il bambino, ma a loro non importa.
Uno di esso si avvicina e deliberatamente gli sferra un pugno da fargli voltare la faccia dall’altra parte.
Gray cade su un ginocchio, portandosi una mano al labbro spaccato; un secondo uomo lo tira su per la collottola e lo rispedisce all’indietro con un calcio.
 
Crolla a peso morto sul tavolo da cucina; tutto si ribalta e si fracassa a terra, la tovaglia si scompone, il bambino cade.
Per quanto possano avergli fatto male quei colpi, nulla fa più male al padre che non essere riuscito ad impedire che il piccolo si ferisse.
Lo cinge con le braccia, lo scuote per sincerarsi che stia bene.
Ma è già troppo tardi.
 
Peter vorrebbe intervenire, vorrebbe gridare di fermarsi e scappare, così come quando era nel corpo di Jesse Murphy. Ma non gli è concesso, nel ‘Time-Gauge’.
 
Non c’è suono, ma se ci fosse sarebbe un grido straziante.
Il volto di Gabriel Gray è trasfigurato da un’espressione di furente silenzio.
Non sono più i suoi occhi: sono quelli del Demone in Nero; sono quelli di Sylar.
Non sono più le sue mani, quelle che ora – strette nel pugni – si scagliano contro i corpi dei suoi assassini, martoriandogli i volti e le ossa ad ogni colpo.
Non sono più le sue: sono sempre quelle di Sylar; sono pugni che fiammeggiano e rilucono di un bagliore radioattivo rosso e furibondo.
Sono quelli del Mostro ma anche quelli dell’Uomo, che combatte con la disperazione, la rabbia e la fierezza si cui solo un genitore che ha perso una parte di sé è capace.
 
Cadono al suolo con i visi sfigurati in modo orribile; lui li fissa e grida in silenzio, mente perfino le sue lacrime splendono di energia nucleare.
 
Peter allunga un mano, per implorarlo di fermarsi, ma lo raggiunge.
 
L’uomo geme e urla contro il cielo e la sua intera figura diventa solo un ammasso abbagliante di plasma rosso.
E poi la Pace; la Luce che avvolge tutto:
 
Un bagliore immenso, che si estende dalla villetta verso ogni direzione.
Una ‘X’ luminosa che copre sterminati chilometri con i suoi bracci.
Poi si restringe e deflagra in una sfera nucleare che distruggerà quel poco che resta della città.
Infine una colossale croce di luce si innalza nel Cieli, oltrepassando le nubi e perdendosi all’orizzonte.
 
Nell’atmosfera, i raggi abbaglianti di quella torre di fiamme e luce si erge dalla mole placida e maestosa della Terra, spandendo onde d’urto scarlatte per la sua superficie.
 

 

“Quando un padre dona ad un figlio entrambi ridono; quando un figlio dona ad un padre entrambi piangono. Quando un figlio raggiunge i Paradisi entrambi muoiono.”
 
                                                                                                                                                                                                                                              (William Shakespeare)

 
 
*   *   *
 
 
Ore 11:00 A.M. Manhattan, New York.
Appartamento di Peter Petrelli.
 
Peter si svegliò con questa immagine, senza aver tempo di prender atto di ciò che gli scorreva nella mente.
 
Era sudato e ansimava, ma era vivo.
E più di ogni altra cosa: era a casa sua.
Non che avesse mai avuto una memoria eccellente – dopotutto faceva l’infermiere perché non aveva superato l’esame da cardiologo – ma certo non avrebbe mai toppato nel ricordarsi come arrivare in quel letto.
 
Le sue ultime quarantotto ore erano state abbastanza caotiche: prima suo fratello Nathan aveva subìto un attentato, poi si era ritrovato nel corpo di un grassone dalla voce troppo alta; quindi ne era uscito e con il suo ‘Io’ futuro aveva deciso di farsi una piacevole passeggiata per un Mondo catastrofico e malato, che se non era finito per la peste quantomeno non stava bene dopo che un premuroso (quanto improbabile) Sylar era esploso come l’Atomica spazzando via mezza America.
 
E, in tutto questo, ora se stava a casa sua, sul suo bel letto sfatto, in pigiama e canottiera.
 
Cavolo, dovrei smetterla di andare a dormire alle quattro del mattino!
 
 
*   *   *
 
 
Contemporaneamente.
Aeroporto ‘John Fitzgerald Kennedy’; NY.
 
Seduto al tavolino di alluminio, Hiro Nakamura addentò con voracità quella schifezza ipercalorica di hamburger che il Burger King si deliziava ad offrire ad i suoi clienti.
Sugoi!” – esclamò a bocca piena – “Panini americani sono buonissimi!”
 
“Vuoi smetterla di ingozzarti a quel modo?!” – sbottò seccato Matt Parkman, con l’appetito a zero.
Strano.
“Sai, mi piacerebbe sapere perché mi sono dovuto smolecolarizzare – o come diavolo dite voi – per arrivare da chissàdove in Africa fino a qui!”
“Non è scambio di paruticelle.” – sentenziò Hiro, con gli occhietti oltre le lenti da vista – “E’ salto a velocita ultura-luce.”
Ultu-che?!”
“Più veloce di luce.” – spiegò Ando; ormai c’era abituato al suo ruolo di ‘traduttore da Nippo-Americano ad Americano’.
“Comunque sia…!” – tagliò corto il poliziotto, piantando le mani sul tavolo come a volerlo tenere a bada – “Sarebbe troppo avere delle spiegazioni? Mi sento già abbastanza a disagio nel sentire ogni singolo pensiero dei tizi in sala, potrei almeno sapere da voi giapponesini-fumettofili che cosa è successo nelle ultime ore?!”
 
Hiro poggiò improvvisamente il panino; la bocca stretta si incurvò in un broncio preoccupato e le sottili sopracciglia si congiunsero in un cruccio:
Matt Parukuman: sei in pericolo.”
“In pericolo di una crisi di nervi!”
“Sono molto serio.” – lo era davvero, il figlio di Nakamura-sama; e anche con un buon accento inglese – “Ho avuto un sogno; un puresagio, curedo.”
“E’ la prima volta che ne ha uno.” – precisò Masashi.
 
Hiro abbassò lo sguardo; temeva di sembrare ridicolo a provare tanta angoscia per un sogno, ma doveva dire ciò che aveva visto:
“Fino ad ora non ho mai avuto sogni puremonitori, quindi non so se si avvererà. Ma questa volta ho visto TE, Matt Parukuman! Ho visto te e Signor Isaac-Africano!”
“Parli di Usutu?”
“Esatto! Uomo che fa avverare i dipinti, come signor Isaac Mendez, quello americano! Voi…voi…”
La voce gli tremò:
“…voi eravate moruti! In modo turemendo!”
 
A parte l’odioso ‘Engrish’ con cui parlava il ragazzo, Matt Parkman cominciava a detestare quei due: ci fosse stata una sola volta in vita sua in cui li aveva visti portatori di buone notizie.
Anche Matt poteva vantarsi di averne vissute, di cose strane, ma quella storia del sogno premonitore proprio non gli andava a genio.
Si concentrò sui pensieri di Hiro, tentando di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d’onda, ma quello che avvertì fu solo un’accozzaglia di suoni sillabici che ben potrebbero essere riassunti da una sfilza di kanji impronunciabili.
Ma a Matt interessava l’altezza dell’animo, quella vibrazione impercettibile che gli trasmettevano i pensieri altrui e che gli facevano intuire i segreti più reconditi.
Non male, come Mentalist.
 
“Dici la verità…” – mormorò stupefatto, fissando Hiro – “…sei davvero impaurito!”
 
Parukuman, io non ho mai fatto sogni del genere!” – Hiro arricciò le guance, in preda alla tensione, quasi volesse supplicarlo – “Non so se si avvereranno, ma ho paura per il Futuro! C’è un uomo…un uomo malvagio!”
“Sylar?” – era chiaro come il Sole che a Matt ‘Mister Sweeney Todd con manie di perfezionismo’ non andasse a genio  – “C’è sempre lui, di mezzo, vero?!”
“No. O foruse sì, ma non è lui che ho visto! C’è qualcun altro…qualcuno che non dovurebbe essere qui! E poi c’è Nemesi…anche lei è coinvolta, ma poturebbe essere le vittima!”
Parkman si tirò indietro, con un’espressione a metà tra lo sconcerto e il diniego:
“E ora chi cavolo è questa Nem-…?!”
 
Tutto si paralizzò.
 
Come in un’istantanea, tutto il Mondo si congelò capillarmente. Tranne Hiro.
Era stato lui:
Aveva sentito con il suo ‘quinto senso e mezzo’ che qualcosa non andava: lo Spazio-Tempo stava venendo violato di nuovo, distorto da flussi di luce troppo intensi.
E non era merito suo.
No, si trattava certamente di qualcun altro; qualcuno che utilizzava un Potere differente, ma che sortiva effetti analoghi.
Qualcuno che distorceva lo Spazio, oltrepassando i paradossi temporali.
Qualcuno che si muoveva a velocità-luce.
Qualcuno come Daphne Millbrook.
 
Hiro si voltò verso l’ingresso del JFK, in febbrile attesa della sua Nemesi.
 
E lei era là:
Arrivata come una scia confusa di rosso e bianco, che si dissolveva dai suo vestiti, sotto gli effetti ottici radianti immobilizzati nel Tempo.
Ma era ancora cosciente, era viva, poiché il suo stesso organismo funzionava ad una velocità infinitamente superiore a quella di qualsiasi essere umano.
Era laggiù, in piedi, con i suoi corti ed ispidi capelli di un biondo quasi platino e gli occhi chiari e penetranti.
 
Le mani imposte sui fianchi e le labbra rosse arricciate in una smorfia di sommo tedio, volse lo sguardo verso Hiro stesso; sbuffò:
“Oh, no….lo hai fatto ancora, vero?! Piantagrane di un Pikachu-quattr’occhi!”
 
 
*   *   *
 
 
Ore 17:00 P.M. Kensington Street, Costa Verde, California.
 
Il SUV nero di Gray svoltò alla seconda a destra di Downcreed Road, entrando in Kensington Street; un vialetto dei più raffinati e soleggiati suburbs di Costa Verde.
Le villette a schiera bianche e pulite costeggiavano da ambo i lati la via, e sotto il sole tiepidi del pomeriggio i loro giardinetti curati brillavano come tempestati di smeraldi.
 
Alla guida, Gabriel si lasciò andare ad un piccolo sbuffo, dopo ben tre ore ininterrotte di viaggio in auto e la benzina quasi a secco:
“Sembra che dopo tutto non ci spunteranno le radici, in questi sedili…! Questa dovrebbe essere la via giusta…mi auguro.”
Alex, al suo fianco, non rispose subito. In fondo come avrebbe potuto?
 
Nonostante si sforzasse di ricordare, la sua testa era come una scatola dei traslochi appena finita di svuotare.
Sentiva che in tutto quello qualcosa gli apparteneva, certo, – come un sogno lasciato a metà e che in tutti modi cerca di sovvenirci alla memoria – ma non sapeva in che modo vi era legato.
Ogni biforcazione, ogni muro, ogni bambino intento a giocare col proprio cane sul marciapiede, tutto grattava il suo passato come unghie su una lavagna.
Ma, ahimè, evidentemente doveva essere una lavagna molto lontana.
 
“Perché lo fai?” – chiese di punto in bianco.
“Cosa?”
“Perché fai tutto questo per me? Mi hai soccorso, mi hai dato i tuoi vestiti e poi mi hai accompagnato fin qui, senza contare che potrebbe trattarsi anche di un altro ‘Alex Mercer’. Perché mi aiuti?”
 
Questa era bella: in vita sua, Gabriel Gray aveva aiutato a campare a mala pena la sua misera e depressa persona e quando il suo ego aveva iniziato a riguadagnare un minimo di stima per le proprie capacità (a dire il vero, forse un po’ meno stima sarebbe stata meglio), aveva finito solo per causare dolore e sofferenza.
E proprio ora che, nel pieno delle sue forze, aveva deciso di compiere anche un solo gesto che non fosse per sé stesso…ecco che glielo rinfacciavano come una stupidaggine.
 
Si morse una guancia, non molto eccitato dalla domanda, e si limitò a tamburellare con le dita sullo sterzo:
“Non sono molto in vena di spiegazioni. Diciamo…che questo, per me, è il primo.”
“Il primo di che cosa?”
Gabriel ingoiò un groppo amaro; quanto gli costò pronunciare quelle tre parole:
Dei miei debiti.”
“Verso chi?”
 
Quante diavolo di domande fa?! Sembra che la lingua gli si sia sciolta!
 
“Verso tutti. Verso me stesso, verso coloro che ho incontrato…ho diverse anime a cui rimediare.”
“Come Will Smith in ‘Seven Pounds’?” – chiese con singolare sagacia il ragazzo.
“E tu come fai a conoscere quel film?” – Gabriel gli rivolse un’occhiata più sorpresa che torva – “Beh, se non altro cominci a rimettere in ordine le rotelle! Anche perché io detesto sentire come la tua testa funzioni male!”
 
‘Malfunzionamento cerebrale’: non era molto allettante come diagnosi, ma il modo in cui lo aveva detto – neanche lo avessero chiuso in una stanza con centinaia di orologi che battevano tutti un’ora diversa – lo avevano in qualche modo reso buffo alle orecchie del Giovane (forse) Caduto dal Cielo.
Gli venne da ridacchiare.
 
Poi diede nuovamente un’occhiata ai numeri civici e rallentò:
“Dovremmo essere arrivati.”
 
Si fermò e scesero.
Davanti a loro una grande villa a due piani campeggiava sul verde praticello come una dama dei dipinti di Manet.
Il vialetto in pietre larghe e lisci conducevano fin sotto l’accogliente solaio, alla porta in legno smaltato; le mura bianche ed ampie luccicavano al sole.
Proprio sulla targhetta in ottone appesa alla cassetta portale risaltava la scritta: “Mercer; Kensignton str.; n.23
Non c’era dubbio: erano arrivati a destinazione.
Dato lo stato eccellente si sarebbe detto che fosse perfino abitata, senonché un cartello con su scritto ‘FOR SALE’ era piantato nell’erba.
 
Tsk! Di certo i soldi non ti mancavano…” – bofonchiò Gabriel, quasi invidioso.
Ma Alex era troppo entusiasta ed improvvisamente stupefatto per potersene curare; mormorò estasiato:
“E’ bellissima…! Chissà se le chiavi sono giuste…”
E si precipitò su per il viale d’accesso.
 
Come aprire una porta, almeno quello se lo ricordava: infilò prima quella lunga e stretta nella serratura superiore e poi quella più piccola nel chiavistello inferiore.
Diede una doppia mandata ad entrambe: ruotarono perfettamente, con un clangore metallico di ingranaggi che scorrevano al loro posto.
Con una leggera spinta, la porta si aprì da sé.
E quello che era al suo interno non poté non lasciarlo a bocca aperta:
 
Anche senza luce artificiale, il Sole che penetrò la illuminò completamente.
Lucidi parquet di legno correvano per tutto il pavimento, con qualche tappetò qua è là; una scala ampia e ben laccata in vernice bianca, che doveva portare al piano di sopra, svettava centralmente; un grande lampadario moderno ma elegante pendeva nell’atrio d’accesso.
Moderni ed eleganti erano anche i mobili che potevano essere intravisti dalle due stanze più adiacenti, un misto di sobri legno d’acero e alluminio, uniti a qualche pezzo d’antiquariato. Forse falso, ma d’effetto.
Certo non era Buckingham Palace, ma molti mortali desidererebbero avere una casa del genere.
 
Alex spalancò la bocca; se già quel Mondo in cui si era risvegliato gli appariva sconosciuto, quello splendore era quasi commovente. Ed era tutto per lui:
“Ma vorrai scherzare…?”
 
Sull’uscio del portone, Gabriel si appoggiò con la schiena allo stipite; incrociò le braccia al petto e borbottò:
“Suppongo che ora tu sia contento. Non credo di essere più d’aiuto, dico bene?”
 
Era strano come si sentisse l’amaro in bocca: di ‘drink’ non aveva bevuti e di sicuro lui non era uno di quei tipi per gli addii strappalacrime.
Eppure l’idea che quel ragazzo avesse ritrovato casa sua, almeno temporaneamente, lo disturbava.
Dopotutto quella villa era di Alex, non sua; quindi lui ormai era solo di troppo.
Ma forse non ancora…non del tutto.
 
“No, aspetta!” – il ragazzo si voltò di scatto, quasi temesse di non trovarselo più alle spalle – “Non andartene, ancora…”
“E perché?”
“Perché…non so da dove iniziare.” – ammise a testa bassa, parlando sempre con quel suo tono impersonale – “Non mi ricordo praticamente nulla e poi…senza offesa, ma credo di aver bisogno di nutrirmi: il mio corpo è più fiacco di questa mattina.”
 
La cucina era nella stanza a fianco; probabilmente il frigo era vuoto ma si poteva sempre rimediare qualcosa, magari di cotto.
 
“La colazione non era male, oggi.” – continuò, un po’ in imbarazzo – “Quindi pensavo che magari…potessi cucinarmi qualcosa. Non mi ricordo nemmeno che genere di cibo mi piaceva…”
 
Gray fu sul punto di voltargli le spalle, ma una vocina silenziosa gli suggerì che stava per compiere la mossa sbagliata.
E di mosse sbagliate, Sylar ne aveva fatte anche troppo ed ora ne aveva fin sopra i suoi alquanto-puntuti-e-non-curati capelli.
Reprimendo la voglia di risultare troppo cordiale – a quello non si era ancora abituato – girò sui tacchi e si tolse il soprabito.
Bofonchiò:
“Se ti lascio solo anche per un minuto sono certo che finirai per avvelenarti, se prima non avrai fatto saltare in aria il gas!”
 
Alex Mercer ricordava poco o nulla di sé stesso o di come le persone interagissero e tantomeno sapeva di quel tipo.
Ma qualcosa, nella sua anima assopita da tempo, gli aveva detto di provare a fidarsi.
 
Era certo che le cose, da quel momento in avanti, avrebbero cominciato a girare per il verso giusto.
 
 
*   *   *
 
 
Ore 19:00 P.M.
Casa ‘Bennet’. Costa Verde.
 
“E direi che con questo abbiamo quasi finito…”
Zhane voltò pagina al libro di Matematica, pronto ad attaccare con gli ultimi due.
 
Evvai: terzo giorno ufficiale di recupero debiti. Che sballo.
Ma almeno, questa volta, Claire poteva starsene in pigiama e pantofole sul divano di casa sua.
E poi c’era lui.
 
“Solo un momento, Cross. Ho un po’ di sete, vado a bere un bicchiere d’acqua. Tu ne vuoi?”
“No, tranquilla, grazie.”
 
‘Tranquilla’ un cavolo.
Dio, come odiava che lo chiamasse ancora per cognome…!
 
Quando Claire andò in cucina, sua madre Sandra era già ai fornelli, iniziando a preparare le verdure per il bollito della sera.
La figlia aprì uno sportello della mensola e ne tirò fuori un bicchiere, ma quando fece per riempirlo sua madre le sussurrò:
“Senti, Claire, non è che voglia intromettermi troppo nella tua vita, ma ti vorrei ricordare la nostra situazione…”
“A cosa ti riferisci?” – chiese lei, facendo orecchie da mercante.
Lo sai.” – fece più seria Mrs.Bennet – “Parlo di quel tipo, Zhane. Tuo padre è stato categorico: niente ragazzi, per un po’. Almeno non fin quando si sarà messo a posto con il lavoro…”
“Oh, avanti! – Claire sventolò una mano come a scacciare l’idea – “Non mi sta mica insidiando! Stiamo solo facendo Mate!”
E fece per andarsene, quando…
 
Din-don…
Che tempismo.
 
Senza pensare troppo a tutta la possibile filippica circa la presenza di Zhane, Claire si affrettò ad aprire alla porta: sperava tanto di poter riabbracciare suo padre, di potergli chiedere cos’era successo in quei pochi ma intensi giorni, se era tutto a posto.
Così aprì e con sua immensa gioia trovò Noah Bennet, giacca stirata e cravatta ben stesa.
 
“Ciao, Orsacchiotta!” – la salutò lui con un certo slancio, sorridendole.
“Papà!” – le venne naturale stringerlo forte, gettandole le braccia al collo – “Mi sei mancato, come è andata?”
“Oh…” – mormorò lui a testa bassa, con un mezzo sorriso amaro – “…una gran seccatura, proprio come previsto. Ma sono qui, no?”
“Sì!”
 
Lui entrò in casa, cercando con lo sguardo suo figlio Lyle (che non era ancora tornato a casa) e sua moglie, ma il primo sguardo che incrociò non gli era noto:
Quel ragazzino dai capelli spettinati e lo sguardo un po’ imbambolato non rientrava tra le sue conoscenze. E questo era male.
Fissandolo diffidente, si rivolse tutto irrigidito a sua figlia:
“Claire, scusa, potremmo parlare un attimo in privato?”
 
La portò nella stanza dei genitori, di fianco al salone, e chiuse la porta.
Poi cambiò completamente tono di voce:
“Cosa ti avevo detto? Non-voglio-estranei-in-casa!”
“Oh, insomma, papà! Ok, avrei dovuto dirtelo, ma tu sei sempre stato fuori! Si chiama Zhane, è il mio insegnante di Matematica.
“Il tuo…cosa? Da quando vuoi uno che ti dia ripetizioni? E soprattutto: da quando un insegnante di sostegno è minorenne?!”
 
La storia era cambiata e Claire iniziava già a prevedere il solito tira-e-molla quotidiano con Mr.Bennet.
 
“Papà, ti prego, non ricominciare! E’ solo un compagno di scuola che mi aiuta con i compiti! Con lui mi viene molta più voglia di studiare e poi è educato. Guarda che non mi ha mica portato a ubriacarmi!”
“Non è questo il punto! Ti avevo chiesto un solo piacere: evitare di stringere contatti troppo stretti con altre persone! Lo sai che lo faccio per il tuo bene: siamo usciti da un periodo che avrebbe fatto a pezzi la maggior parte delle famiglie, ma noi siamo ancora insieme!”
La fissò diretta negli occhi, con quel suo tono lento e profondo che lo contraddistingueva:
“Per favore, Claire: non crolliamo proprio ora. Non ancora.”
 
Lei rimase per un attimo in silenzio, con la bocca appena schiusa, come se avesse voluto replicare senza trovare le parole.
Ma trovò la voce; una voce rotta e tremate:
“Cosa…? Tu parli di stare insieme? E dove lo vedi?! Tu te ne vai in giro per il Paese, magari con chissà chi, per conto dell’Impresa e secondo te questo vuol dire stare insieme?! Papà, tu dai la caccia…a quelli come me!”
“Claire, questo non devi dirlo…”
“Ma è proprio così! Ed io faccio di tutto per passarci sopra, per giustificarti in ogni modo, ma sembra che non ti importi nulla!”
Sentiva le gote infiammarsi, gli occhi iniziare a dolere dalle lacrime trattenute:
“Voglio dire: come puoi pensare davvero che possa vivere così, come una reclusa?! Papà, non ho nemmeno diciotto anni e devo temere anche di fare la cheerleader! Non posso andare ad una festa per paura che il barista abbia qualche strano potere, non posso uscire troppo tempo di casa perché qualche sicario del Governo potrebbe spiarmi da un albero….non posso nemmeno farmi male, dannazione! Ed ora vorresti anche negarmi di vedere un amico, a casa mia?!”
“Claire, devi cercare di capire…!”
“Tranquillo, ho capito benissimo!” – concluse lei, voltandosi dall’altra parte – “Vedrai che non ti darò più problemi!”
 
Ed uscì sbattendo la porta.
 
 
*   *   *
 
 
Poco dopo.
 
Claire sedeva sulle scale del cortiletto, con le ginocchia strette al petto e il volto infossato in esse.
 
Zhane emerse timidamente da Casa Bennet, sedendosi al suo fianco:
“Senti, Claire, mi dispiace per la situazione. Non ho capito bene quello che è successo tra te e tuo padre, ma mi pare di capire che sono di troppo.”
Claire sorrise amaramente, scuotendo la testa:
“No, il problema non sei tu. Sono io, è mio padre, la mia famiglia, la mia vita…praticamente tutto! E non sarà facile rimettere i pezzi al loro posto…”
 
Zhane annuì piano, con una strana espressione.
Non la stava compatendo; sembrava piuttosto che si aspettasse da lei quel genere di reazione, quasi come se la potesse realmente capire.
 
“Credo di sapere come ci si sente.” – mormorò – “Sai, anch’io a volte mi sento confuso e ho bisogno di sfogarmi. Non che mio padre sia la persona adatta con cui confidarsi…! Voglio dire: sono fatti così, i nostri genitori! Ti vogliono bene, ti stanno a sentire e vorrebbero solo proteggerci ma non sempre capiscono appieno! Loro sono di un’altra generazione, di un’altra natura…”
 
Quell’ultima parola fece insospettire Claire.
Per quanto potesse essere d’accordo, non aveva mai pensato ai suoi genitori come di una ‘natura’ differente.
A parte quando si spezzava qualche decina di costole e poi se le rimetteva a posto a mano,ovviamente.
 
“Non voglio crearti problemi…” – riprese Cross – “…ma se posso fare qualcosa per aiutarti, sappi che ci sono.”
 
Improvvisamente, Claire perse le staffe.
Non sapeva nemmeno lei il perché, ma sentì avvamparsi.
Forse era l’eccessiva gentilezza di Zhane, il suo ritenersi adeguato a comprenderla, o forse semplicemente la rabbia accumulata in tanto tempo.
Scattò in piedi, stizzendo:
“Senti, Zhane – perché è così che vuoi che ti chiami, no? – vorrei mettere in chiaro alcune cose: io e la mia famiglia stiamo vivendo un periodo piuttosto paradossale e dubito che tu possa capirmi, quindi non sforzarti di farlo! Inoltre sono appena uscita in modo non proprio ortodosso da una relazione con l’unico ragazzo che mi sia mai interessato ed ora come ora non mi sento al massimo, intesi? Quindi smettila di essere così maledettamente gentile, perché non ho in mente nessuna tresca possibile!”
“Cosa…?” – balbettò lui, cadendo dalle nuvole – “Pensi questo di me? Pensi davvero che ti abbia aiutato solo per provarci con te? Beh, scusa se volevo solo dare una mano!”
L’unico modo in cui puoi essermi utile, ora, è tornartene a casa!”
 
Zhane si alzò sulle gambe, con i nervi a fior di pelle; la guardò sconcertato e poi fece dietro-front:
“Sai che ti dico? Forse hai ragione tu: sei proprio strana, Bennet! Fammi un fischio quando pensi di poterti connettere al mondo!”
E se andò a pugni stretti.
 
Claire cadde sul prato, in ginocchio.
Si prese il viso tra le mani, mentre sentiva la sua pelle andare a fuoco e lacrime bollenti iniziare a solcarle le guance.
Sapeva di essere stata crudele, con quel ragazzo; lui aveva tentato rincuorarla e lei gli aveva scaricato addosso tutto il risentimento accumulato.
Probabilmente non sarebbe riuscita a chiedergli scusa troppo facilmente, lo aveva offeso ingiustamente ed inoltre Claire Bennet non era tipo da chinare la testa con facilità.
In tutto questo, poi, doveva fare i conti con suo padre, che sapeva essere comprensivo ma che per qualche ragione si era auto-imposto un muro psicologico oltre il quale era impossibile andare.
 
Strinse un sasso più affilato degli altri nel pugno fino a ferirsi; non provò alcun dolore: vide il taglio aprirsi nel suo palmo e qualche goccia di sangue sgorgare.
Ma poi la ferita si richiuse completamente, in pochi secondi.
Ormai stava iniziando a perdere la sensibilità anche al dolore, per quella sua abilità, e non voleva iniziare a distaccarsi totalmente anche dalla vita.
Aveva bisogno di sapere di essere ancora sé stessa, prima che il Mondo la escludesse definitivamente fuori dalla Realtà; aveva bisogno di qualcuno di cui fidarsi.
Sentiva la sua vita caderle rapidamente a pezzi tutt’intorno, come uno specchio infranto, e le poche consapevolezze di cui era entrata in possesso sgretolarsi sotto ilo peso della paura, del Futuro.
 
Si strinse un po’ di più nelle ginocchi e pianse, in silenzio, in solitudine, finché anche il Cielo non ebbe più tempo per ascoltarla.
 
 

 

Ed ogni lacrima caduta era come una Stella del Firmamento, che esplodeva nel bagliore scarlatto di una speranza insanguinata…

 
 

CONTINUA…
 

 

Nel prossimo capitolo - ‘Identity’:
 
Mentre Gabriel tenta di rimettere in ordine le tessere di un puzzle più complicato ed inquietante del previsto sulla vera natura di Alex, Mohinder Suresh dovrà recarsi sul luogo d’impatto di ‘BlackLight’ e decifrarne la misteriosa provenienza.
Intanto Nemesi dovrà sbarazzarsi di Hiro, per poter studiare più affondo Matt Parkman, al quale sembra misteriosamente legata.
E mentre Claire potrebbe scoprire inaspettate verità sul suo nuovo amico, un uomo misterioso che sembra tessere le fila del Destino di sordina inizia a gettare la sua ombra su più di una vita…

 

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Heroes / Vai alla pagina dell'autore: KaienPhantomhive