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Autore: Pwhore    06/10/2012    4 recensioni
«Frank, mi sa che non hai ben chiara la cosa» osservò premurosamente, «Questa è un'idea a dir poco rivoluzionaria, e se andrà in porto ci farò un fracco di soldi».
«Gerard, sei in una band di successo, hai palate di soldi» gli feci notare. Lui tacque e mi guardò, imperturbabile.
«Tutto finisce. I cincillà che fanno il caffè no».
Genere: Demenziale, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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gerard x cincillà Nda: cavolata nata dopo qualcosa come un migliaio di conversazioni assurde con quella figona di The Last Thing I see (ti giuro che non stavo piangendo al telefono iogheuigri cioè stavo per però alla fine no(?)). Che poi c'ho messo tipo un'era a scriverla ma vabbé -coffcoff-
Un grazie anche a Vampiresroads, che continuava a chiedermi quand'avrei pubblicato e mi ha fatta sentire la scrittrice più importante del mondo, da brava personcina carina qual è cc



«Gerard! Che cazzo fai?»

Il roscio girò la testa appena irruppi nella stanza, arcuando le sopracciglia e storcendo il capo, e sbatté le palpebre.
«Be', mi sembra ovvio» ribatté, pacato «insegno a Ludovico a fare il caffè».
Spiazzato, spostai lo sguardo dal  frontman all'animale e poi alla macchinetta mezza piena abbandonata sul fornello, sbattendomi sonoramente una mano sulla faccia.
«Ma che sei scemo?» sbottai esaurito scuotendo più volte la testa, «Stavolta la PETA ci ammazza sul serio!»
Mi guardò con calma, come se stessi dicendo una cosa assolutamente fuori dal mondo e lui fosse un dottore pronto a curarmi dai miei deliri, e tornò ad accarezzare il cincillà, grattandogli il pelo in mezzo alle orecchie con lentezza indicibile.
«Frank, mi sa che non hai ben chiara la cosa» osservò premurosamente, senza smettere di accarezzare l'animaletto, «Questa è un'idea a dir poco rivoluzionaria, e se andrà in porto ci farò un fracco di soldi» spiegò.
«Gerard, sei in una band di successo, hai palate di soldi» gli feci notare. Lui tacque e mi guardò, imperturbabile.
«Tutto finisce. I cincillà che fanno il caffè no».

Mi svegliai sul divano dopo un po', e nell'incoscienza del dormiveglia pensai che dopotutto non si trattava di un'idea così terrificante; ma dovetti ricredermi quando un forte odore di bruciato cominciò a invadere il salotto, mentre il frontman camminava tranquillamente con in mano uno degli estintori d'emergenza, senza degnarmi di uno sguardo o mostrarsi minimamente preoccupato. Oh, Dio. Come avevo anche solo potuto pensare di lasciarlo solo con un'idea così... così... così. Voglio dire, si trattava di Gerard Way, mica di un adulto normale, razionale e pienamente affidabile.
Mi alzai di scatto dal divano e mi affrettai a raggiungere la cucina, strizzando gli occhi, ancora indeboliti dal sonno, e portandomi una mano alla testa, maledicendomi per essermi alzato così velocemente. Rimasi qualche secondo ad occhi chiusi, finché il mondo non smise di girare, poi presi un respiro profondo e guardai di là, incrociando le dita e sperando di non trovare la devastazione più completa accanto ai due. Sorprendentemente, a parte la montagna di schiuma che ricopriva i fornelli e tutto ciò che li circondava, la cucina non era in condizioni così pietose, così fui libero di tirare un sospiro di sollievo e rilassarmi. Gerard armeggiava con l'estintore e fischiettava tra sé, mentre Ludovico, seduto sul bancone, lo osservava interessato e si tirava in piedi, per poi abbandonare l'idea di raggiungerlo e mettersi di nuovo a sedere. Mi avvicinai all'animale e gli accarezzai la testa, senza dire una parola e senza che Gerard mostrasse interesse verso di me. Rimanemmo in silenzio per un po', poi, imbarazzato, mi massaggiai il collo.
«E insomma... come andiamo?» buttai lì, catturando l'attenzione del frontman, che si girò con aria insoddisfatta.
«A rilento» rispose piccato, girandosi verso il cincillà.
«Ludovico soffre molto il calore» aggiunse, storcendo la bocca. Annuii; era tra le prime cose che ci aveva detto l'uomo che ce l'aveva venduto ma probabilmente il roscio non lo stava ascoltando per niente, come suo solito.
«Significa che ti arrenderai?» chiesi, cercando di non sembrare troppo speranzoso.
«Giammai» ribatté lui, battendosi il pugno sul petto «ti do' la mia parola che riuscirò a istruirlo!»
Sospirai, scuotendo impercettibilmente la testa, e agguantai un mazzo di chiavi, infilandomelo in tasca con rassegnazione.
«Buona fortuna allora, io vado a fare la spesa» lo salutai, uscendo dalla cucina e posando la mano sul pomello.
«Compra altro caffè!» esclamò lui di rimando, mentre un rumore di piatti che cadevano mi raggiungeva da dietro. Sospirai e un brivido mi corse lungo la schiena, ma l'ignorai e scappai via.


«Capisci, Mikey? Quello mi manderà a fuoco tutta la cucina!» esplosi, mentre il ragazzo mi guardava dall'altra poltrona.
«E scusa, non hai l'assicurazione?» ribatté lui, senza batter ciglio. Lo guardai, chiedendomi se dicesse sul serio.
«Non per cincillà che imparano a fare il caffè» risposi, forse un po' più amaramente del dovuto.
«Be', in questo caso dovresti tornare a casa e non staccarti mai da quei due» disse semplicemente, scrollando le spalle.
«È questo il punto, Mikes, non posso! Voglio dire, Ludovico sa benissimo che il suo padrone è Gerard, anche se sono io a dargli da mangiare, pulirgli la gabbia e fargli fare i bagni di sabbia, quindi se sto lì per più di venti minuti comincia, non dico a innervosirsi e neanche a spaventarsi, però non si sente più a suo agio, ecco, quindi Gee mi scaccerebbe» sospirai.
«Capisco» annuì lui, prendendosi il mento tra le mani, pensieroso. Se all'inizio venire da lui e esporgli il problema mi era sembrata la cosa più intelligente da fare, ora stavo decisamente pentendomi di essere anche solo uscito da casa. Nonostante la sua innegabile intelligenza e la sua aria distaccata, Mikey condivideva comunque gran parte del patrimonio genetico del roscio, quindi avrei dovuto prevedere che l'avrebbero pensata più o meno allo stesso modo, o che comunque lui non si sarebbe sbilanciato più di tanto nei confronti del fratello e che quindi non mi avrebbe aiutato. Sospirai.
«Ti prego, Mikes, il cincillà l'abbiamo comprato con la mia carta di credito ed è intestato a me, quindi se la PETA ci scopre sarò io quello che passerà dei guai» riprovai, cercando di commuoverlo o intenerirlo in qualche modo.
«Mmm, potresti provare a comprarti un animale tutto tuo e a sbattere in faccia a Gee un progetto ancora più assurdo del suo, così si sentirà preso in giro e potrete raggiungere un accordo decente» propose, rompendo il silenzio. M'illuminai.
«Mi sembra perfetto; grazie mille, Mikey!» esclamai, alzandomi dalla poltrona e scappando via. Lui rimase lì a leggere il giornale, contento di essersi riconquistato la pace, e si dimenticò presto di me.
Corsi fuori dallo studio e mi precipitai al negozio d'animali più vicino, fermandomi davanti alla sua vetrina e riflettendo per qualche istante, prima di comprare qualcosa di cui avrei potuto pentirmi. Certo, ero preoccupato da morire per la mia casa e la mia incolumità, però non volevo che il frontman si trovasse in una posizione ''o me o il cincillà che fa il caffè'', perché effettivamente il cincillà era qualcosa che sarebbe durato a lungo, mentre la nostra relazione sarebbe potuta finire  da un giorno all'altro senza problemi, quindi non sapevo quanto mi sarebbe convenuto e mi sentivo terribilmente combattuto tra orgoglio e desiderio d'affetto. Alla fine vinse la mia parte tira-e-molla e tornai a casa con qualche pacco di caffè solubile e il morale sotto i piedi, immaginandomi la devastazione in cui avrei trovato il mio appartamento e le lamentele degli altri inquilini, incazzati per il rumore e la puzza di bruciato. Stavo giusto entrando nel mio isolato quando un'autopompa dei pompieri mi superò, la sirena urlante e le facce dei volontari sporte fuori dal finestrino, lasciandomi stupefatto e con un'orribile sensazione di catastrofe addosso. Cominciai a correre a perdifiato, sentendo il timbro squillante rimbombare sempre più vicino, e non diminuii il passo neanche quando i miei polmoni cominciarono a cedere e reclamare aria, troppo spaventato per anche solo dire 'ah'. Raggiunsi il mio palazzo e trovai il portone aperto, mentre il trillo, ormai vicinissimo, mi echeggiava nelle orecchie e mi stordiva; mi lanciai su per le scale, stringendo i denti e arricciando il naso per il troppo fumo, e mi fermai davanti a casa, ansimando rumorosamente. Bussai più volte ma non udii risposta, così infilai una mano in tasca e tirai fuori le chiavi, cercando, tremante, d'infilarle nella serratura. La porta si aprì dopo qualche tentativo, e appena fu possibile mi fiondai dentro, urlando a pieni polmoni il nome del mio ragazzo, ma tutto ciò che riuscivo a udire era un silenzio opprimente e inquietante che non lasciava presagire niente di buono, così corsi al piano di sopra e lo cercai in tutte le stanze, prima di tornare di sotto e controllare in cucina. Niente. Respirai profondamente e cercai di calmarmi, mentre il fumo mi circondava in un abbraccio sgradevole e caloroso, e mi sentii girare la testa. Spalancai la finestra e tossii un po', riprendendo il controllo di me stesso, poi tornai a cercarlo, controllando in ogni stanza per vedere se magari fosse caduto per terra, ma niente. Ormai la cappa era troppo fitta per continuare a cercarlo, così arrancai verso il salotto e mi avvicinai all'uscita, la testa che girava sempre di più e la vista sempre più annebbiata, crollando sul corrimano appena ebbi varcato la soglia. Respirai a fondo, cercando di racimolare un po' d'aria pulita, ma tutto divenne nero e svenni.


«Gerard?» mormorai flebilmente, aprendo gli occhi.
«Oh, Frankie, ti sei svegliato finalmente» mi salutò apprensivamente lui, seduto sull'erba accanto a me. «Si può sapere che cavolo ci facevi in casa? I pompieri hanno detto che hai rischiato di morire soffocato, mi sono preoccupato da morire»
«Ero... ero venuto a cercarti...» mormorai, abbassando lo sguardo. Lui tacque e assunse un'aria affranta, mordendosi il labbro, e si mise la mia testa sul grembo, accarezzandomi delicatamente la guancia.
«Non era il tuo appartamento, comunque» buttò lì dopo un po', tornando a guardarmi. Alzai gli occhi su di lui, stupito.
«Era la vicina. Quella di sotto. Ha fumato a letto e il mozzicone ha incendiato le coperte» spiegò, senza alzare lo sguardo e continuando ad accarezzarmi il viso, «ora è in ospedale, ma non è niente di grave».
Annuii. «E tu... tu come stai?» domandai, cercando di scorgere qualche nuova emozione nel suo sguardo preoccupato.
«Tutto bene; ho sentito la puzza di fumo e mi sono affacciato alla finestra, e visto che di sotto c'erano tutti con un'aria spaventata a morte ho capito l'antifona, ho sistemato Ludovico nel suo trasportino e siamo andati a farci una passeggiata» rispose, indicando l'animale con un cenno del capo. Era dentro la sua gabbietta e sembrava a suo agio, sebbene la sua routine fosse stata bruscamente interrotta e ora si trovasse in un parco a lui completamente sconosciuto.
«Mi dispiace» sussurrò, piegandosi in avanti e baciandomi dolcemente la fronte.
«Non importa, quello che conta è che stiamo tutti bene» ribattei, abbozzando un sorriso. Gerard ricambiò e si tirò su, portandosi una ciocca rossa dietro l'orecchio, e avvicinò la gabbietta a noi due, come a riunire la famiglia. Sorrise.
«Dicono che tra qualche ora potremo tornare a casa» aggiunse, come a tranquillizzarmi «quindi per ora rimarremo qui, a meno che non cominci a piovere. Ultimamente il tempo è stronzo, da queste parti» ricordò. Dinklebeeeerrrrg.
«Ludovico ha mangiato?» domandai quindi, cambiando argomento. Gerard annuì.
«Hai dormito per più di un'ora, abbiamo fatto in tempo a farla noi, la spesa» rispose, sorridendo sornionamente.
«Cioè mi hai lasciato qui da solo mentre andavi a comprare la cena?» ripetei, abbastanza scettico.
«Be', no, c'era quel barbone laggiù». Tacque. «Okay, okay, non è vero, ho chiesto qualcosa all'altra vicina» si arrese.
«Mi sembrava strano» osservai divertito, lasciandogli un buffetto sulla spalla.
«Cosa intendi dire?» ribatté lui, fingendosi offeso e incrociando le braccia sul petto, affondando il viso tra le spalle.
«Che sei troppo buono per anche solo pensarci» sussurrai, baciandogli la mano e guardandolo negli occhi.
«Paraculo» soffiò, unendo le labbra alle mie e staccandosene pochi secondi dopo. «Ce la fai a mangiare qualcosa?»
«Basta che non hai cucinato tu e mangio» lo sfottei, beccandomi un altro scappellotto da parte sua.
«Non so perché ti dia ancora retta» sospirò esasperato, passandomi un panino.
«Perché ti presto casa, forse?» ribattei.
«Touché» commentò, mentre mi tiravo su e scartavo la cena.
«Attento, ci sono i cetriolini» lo avvisai, storcendo la bocca e sputandone fuori uno.
«Diamoli a Ludo» propose, aprendo il panino per prenderne qualcuno.
«È fuori questione. Un cambiamento di dieta, unito a uno stress improvviso, può essergli fatale» lo stoppai.
«Ah sì?» domandò, guardando l'animaletto grattarsi il naso all'interno della gabbia. Annuii con decisione.
«È una delle prime cose che ha detto il commesso» gli ricordai. Lui assunse uno sguardo vacuo.
«Ti credo sulla parola» scrollò le spalle, ammettendo di non averlo ascoltando per neanche un secondo.
«Lancialo ai piccioni, semmai» proposi; lui scrollò nuovamente le spalle e tirò un cetriolo lontano, verso il lago.
«Cominciamo ad avviarci, fra una mezz'oretta i vigili dovrebbero aver finito» disse poi, stiracchiandosi e alzandosi in piedi, tendendomi una mano per aiutarmi. La strinsi e mi tirai su, spolverandomi i jeans dall'erba, poi afferrai la gabbietta per il manico e trotterellai dietro al frontman, sbocconcellando il mio panino. Che faceva veramente schifo.



I giorni successivi trascorsero con tranquillità. Più o meno. Fortuna che Gerard si ricordava dell'esistenza di Twitter una volta ogni trentacinque anni, oppure avrebbe documentato tutto l'addestramento di quel povero cristo minuto per minuto e la PETA ci sarebbe venuta a manifestare sotto casa senza sosta. Mi ero ormai arreso al fatto che il frontman dedicasse più attenzioni al cincillà che a me e passavo le giornate a passeggiare, suonare la chitarra o cazzeggiare in giro, in modo da lasciarlo libero di fare un po' quel che voleva senza sentirmi urlare contro. Non che urlasse mai, ma per me le paranoie non hanno mai fine, quindi. Solo che si stava avvicinando il momento di andare in tour e non potevamo assolutamente portare Ludovico con noi, quindi il suo addestramento andava interrotto e messo da parte. Ma come dirlo a Gerard?


«Gee?» mormorai, bussando con le nocche sulla porta. «Posso entrare?»
«Frankie! Vieni, vieni pure» sorrise lui, posando la macchinetta sul lavello e voltandosi verso di me.
E mo' come cazzo faccio?
«Come vanno le cose?» domandai, cercando di guadagnare tempo.
«Alla grande. Ancora un paio di giorni e Ludovico sarà il più grande cincillà di tutti i tempi» esclamò.
«Ah, che cosa carina» commentai, abbozzando un sorriso e appoggiandomi con la spalla al frigorifero. Gerard mi guardò.
«''Carina''? Questa è una rivoluzione, Frankie, l'idea migliore del millennio!» ribatté, fiero di sé.
«Hai ragione, scusa» convenni, staccandomi dal mobile. Non avrei mai avuto le palle per dirglielo ora che era così felice.
«Hai parlato coi ragazzi, comunque?» domandai, cambiando argomento.
«No, perché? C'è qualche problema?» chiese a sua volta. Sì, sì ce n'è uno. Dobbiamo tornare in tour, Gee, e al più presto.
«No, niente, non ti preoccupare. Buona fortuna con Ludo» tagliai corto, tranquillizzandolo.
«Ah, okay, grazie» sorrise, accarezzando il cincillà. «Vedrai che ce la faremo» aggiunse, fiducioso.
«Non ne dubito» ribattei premurosamente, uscendo dalla stanza e andandomi a sedere sul letto. Ci risiamo. Mi dispiaceva fare sempre il guastafeste, specialmente nei momenti più creativi e allegri della vita del frontman, ma ogni volta gli altri sbolognavano a me il compito di riportarlo coi piedi a terra e io semplicemente non riuscivo a dire di no. Sospirai. Che poi fino a quando sarebbe andata avanti questa storia? Giorni, mesi, anni? Sospirai di nuovo. Mi rendevo conto da solo che non potevo continuare così, che dovevo prendere in mano la mia vita e cominciare a dire di no alla gente, ma ogni volta che lo facevo mi sentivo in colpa, così lasciavo perdere e dicevo di sì, invece. Sbuffai, lasciandomi cadere all'indietro e portandomi le mani incrociate dietro la nuca, pensieroso, e socchiusi le palpebre, concentrandomi sui rumori che mi attorniavano. La televisione accesa della vicina, le macchine che sfrecciavano lungo la strada, i cani che abbaiavano giù al parco, il cincillà che armeggiava con la macchinetta del caffè sul piano della mia cucina... Non sapevo se ridere o piangere al solo pensiero. Optai per la prima opzione, anche se fu una risata piuttosto isterica.
«Okay, giuro che glielo dico» decisi, respirando a fondo. Prima o poi.


«Frank? Frankie?» mi chiamò il roscio dall'altra stanza.
«Sì?» risposi distrattamente, continuando a fare zapping alla tv e fermandomi su un canale che trasmetteva uno speciale su una delle mie band preferite, i Misfits; voltandomi quindi verso la cucina. «Che c'è?»
«Che cos'è la PETA?» domandò, entrando nella stanza scrollando il display del cellulare. Uh-oh.
«Ti prego, dimmi che sei finito per caso sul loro sito» biascicai, sbiancando.
«Uh? No, tranquillo, non ho fatto niente, ma mi hanno mandato una mail e non sembrano particolarmente contenti dei progressi di Ludovico» commentò candidamente, senza davvero capirci qualcosa. «Forse sono gelosi» suppose.
«Da' qua» sbottai, prendendogli il blackberry dalle mani e leggendo velocemente il messaggio, terrorizzato.
«Dio, Gerard, lo sai che cosa sono loro?» domandai, pallido.
«No, è per questo che sono venuto a chiederlo a te» ribatté lui, battendo le ciglia.
«La PETA è l'organizzazione di animalisti più numerosa e potente del mondo, si occupa dei diritti degli animali, del loro sfruttamento, del loro modo di vivere e di qualunque cosa li riguardi, in pratica; e se ti ha mandato una mail significa che qualcuno li ha avvertiti di quello che stai facendo con Vic. È considerato sfruttamento, sai?» spiegai in breve, preoccupato.
«Oh. Ma io voglio bene agli animali» obiettò, «e pure tu. Sei anche vegetariano, no?»
«Sì, ma questo non conta assolutamente niente; ti stanno condannando per come ti stai comportando con Ludovico, non perché odi gli animali o non ne supporti i diritti» insistetti, spostando lo sguardo da lui alla mail sempre più velocemente.
«Oh. E quindi?» domandò ancora, riprendendosi il cellulare e dandogli un'altra occhiata.
«Quindi siamo nella merda più completa» risposi, guardandolo negli occhi. «Nella. fottuta. merda».

Okay, ricapitolando, non bastavano i multipli mini-incendi causati dai due, non bastavano gli infiniti pacchi di caffè che avevo dovuto comprare, non bastavano tutte le precauzioni che avevo preso -- il peggio doveva comunque ancora venire. Mi strinsi la base del naso tra le dita e mi concentrai, cercando una via di fuga. L'unica possibilità che vedevo era invitarli da noi e fargli vedere che trattavamo il nostro animaletto nella maniera più consona al suo stile di vita, ma non era poi così facile - non con Gerard nei paraggi, almeno. Non perché fosse incivile, stupido, maleducato o qualsiasi altra cosa, ma perché non riusciva sinceramente a vedere cosa ci fosse di male nella sua idea e continuava a difenderla a spada tratta con tutti quanti, e quindi c'era il rischio che lo facesse pure con gli 'esaminatori' dell'organizzazione, mandando a farsi benedire ogni altro tentativo di calmarli da parte mia. A malincuore, dunque, decisi di mandarlo a cena fuori con i ragazzi, in modo da poter mangiare da solo con chiunque sarebbe venuto a controllare i nostri comportamenti e conservare un minimo di contegno vista la situazione, cosa che il roscio non avrebbe mai fatto.
«Gee?» lo chiamai entrando in salotto, pulendomi le mani in uno strofinaccio pulito «Sei pronto?»
«Arrivo, arrivo» cinguettò lui correndo giù dalle scale e raggiungendomi, raggiante. «Sei sicuro di non voler venire? Ci divertiremo da matti, dicono che sia un film molto bello» insistette spontaneamente, chiudendosi la felpa sulla pancia.
«Non ti preoccupare, starò bene così. Sarà per la prossima volta, okay?» sorrisi, mentre lui alzava il volto verso di me.
«Okay, ma la prossima volta vieni per forza» mi avvisò, sorridendo e sporgendosi in avanti per un bacio veloce. Non fece nemmeno in tempo a schiudere le labbra che la voce scazzata di Ray risuonò per il corridoio, così si staccò, mi lanciò un'occhiata alla 'sai com'è fatto', abbozzò un sorriso e aprì la porta, indugiando un attimo sulla soglia.
«Ho le chiavi, se non ti senti bene puoi anche andare a letto, okay? Farò di tutto per non svegliarti quando torno, non ti preoccupare» mormorò, accarezzandomi la guancia. «Buona serata, amore mio» mi salutò quindi, scomparendo.
Bene, la parte difficile arriva ora.
Aspettai che il gruppetto sparisse insieme all'eco delle loro risate e tornai in cucina, ripescando un grembiule da dentro un cassetto e legandomelo in vita; accesi i fornelli e riempii una pentola d'acqua, per poi sistemarla sul fuoco e metterci sopra un coperchio, e cominciai a preparare la cena. Vegetariana, mi pare ovvio. Mentre ero a metà dell'opera, notai che il cincillà aveva l'aria di uno che voleva sgranchirsi le gambe, così mi fermai un attimo e lo feci uscire dalla gabbia, lasciando che saltellasse in giro per almeno un paio di minuti prima di rimetterlo al suo posto e tornare ai miei preparativi. Dopo una mezz'oretta circa, potei finalmente dire che tutto era pronto e impeccabile e mi concessi di tirare un tanto bramato sospiro di sollievo, lasciandomi cadere sul divano e socchiudendo gli occhi. Dieci minuti dopo, il citofono suonava.
«Pronto?» domandai spaventato, aggrappandomi alla cornetta.
«Non si dovrebbe dire 'chi è?' in questi casi?» gracchiò una voce maschile, subito zittita da una femminile.
«Oh, ma che te ne frega, Aus; lascialo vivere» squittì la seconda, piantandogli una gomitata tra le costole con aria impettita. «Il signor Frank Iero?» domandò quindi, ricordandosi di me «siamo della PETA».
«Sì, certo, vi stavo aspettando... Secondo piano sulla destra, ma vi verrò incontro» biascicai, sperando di convincerli.
«Grazie tesoro» rispose zuccherosa la donna, aprendo il grande portone e entrando nel palazzo, seguita a ruota da un uomo sulla cinquantina, probabilmente suo marito, che si guardava intorno con aria circospetta. Mi sbrigai a raggiungerli.
«Buonasera, signori» li salutai con un sorriso impacciato, porgendo loro la mano. Me la strinsero, lei ricambiando il sorriso con aria sciolta e lui riservandomi uno sguardo gelido, e cominciammo ad avviarci verso casa, nell'imbarazzo più totale.
«Comunque io mi chiamo Hannah» si presentò la donna, una volta attaccata la giacca all'attaccapanni e tirata fuori una sigaretta dalla borsa a tracolla, «e lui è Austin, il mio partner. Lavoriamo insieme da anni, e quando c'è qualcosa non va lo capiamo subito, quindi se hai qualcosa da nascondere faresti meglio a dirlo ora, tesoro».
Continuò a giocherellare con i miei vinili e i miei dischi, girandoli e facendo correre le dita lungo le copertine, e mi guardò, senza smettere di sembrare una qualunque casalinga di mezza età che guarda fin troppe telenovelas per commentare la realtà con un minimo di serietà; sorrise, un sorriso da squalo, e mise nuovamente a posto il disco, voltandosi verso di me.
«Niente da dichiarare?» mi sollecitò, trillante, con una faccia da chi ti ha appena visto rapinare una banca e seppellire il bottino vicino casa sua per poi lasciarlo lì bell'e incustodito. Scossi la testa, cercando di sembrare convincente, e annuii.
«Niente di niente, signorina Hannah» ribattei, deciso, e lei tirò le labbra in una specie di ghigno decisamente inquietante.
«Questo lo vedremo, tesoro» replicò, girando di scatto la testa verso le scale. I suoi capelli profumavano di frutti di bosco.
«Che c'è di sopra, dolcetto?» domandò, tornando a guardarmi con aria a metà tra il compassionevole e il secco.
«Camera da letto e bagno» risposi meccanicamente «vuole controllare?». Scosse il capo.
«Forse dopo. Per ora mi accontento di vedere l'animaletto - un cincillà, vero? - e accertarmi che sia trattato con la cura adeguata, se non almeno decente. Fammi strada, tesoro». Annuii e la guidai di sopra, spalancando la porta di camera mia con lentezza e accertandomi che fosse tutto in ordine come l'avevo lasciato prima di far entrare la donna. Ludovico era nella sua gabbietta e dormiva placidamente sul truciolato, appoggiato su un fianco a qualche centimetro dal "beverino" d'acqua, e riuscivo a percepirne il russare leggero se solo tendevo l'orecchio. Lanciai un'occhiata alla signora e la vidi avvicinarsi all'animale, silenziosamente, per poi piegarsi in avanti e controllare attentamente le condizioni della gabbietta.
«Hmm... sembrerebbe tutto normale...» commentò, rimanendo adagiata sulle ginocchia «ma dovremo aspettare che il nostro amico qui si svegli per poterci accertare del suo stato psicologico e poter essere sicuri della cosa. Per quanto ne so, potresti aver pulito la gabbia giusto oggi e non avercelo detto, sweetie» concluse, alzandosi in piedi e pulendosi le mani.
«Nel frattempo, mentre questa meraviglia si riposa, che ne dici di mostrarci il resto del piano, zuccherino?» propose, con un tono che non ammetteva repliche. Abbozzò un altro sorriso da pescecane e abbassai il capo, facendogli cenno di uscire dalla stanza con la mano e seguendola appena sboccò in corridoio. Richiusi silenziosamente la porta dietro di me.
«Questo è il bagno» dichiarai, lasciandola curiosare tra i nostri effetti personali e quelli del cincillà, disposti accuratamente su un ripiano a parte, al riparo dal sole e da eventuali ventate d'aria fredda. Sembrava soddisfatta.
«La tua ragazza dev'essere molto ordinata» cinguettò, rimettendo a posto un pacco di sabbia e girandosi a guardarmi, concedendomi un sorriso smagliante. Lo ricambiai con riluttanza e uscii dalla stanza, mentre l'uomo arrancava dietro i miei passi, catturando tutto con gli occhi e senza spiccicar parola nemmeno una volta, e mio malgrado rabbrividii. Mi ero fatto il culo a pulire tutto al massimo delle mie capacità, ma se non fosse stato abbastanza per loro?
«Da questa parte invece c'è lo studio» dissi continuando il giro, aprendo la porta su una sala piena di libri di ogni volume e dimensione ed entrandovi, appoggiandomi quindi alla grande scrivania che dominava tutto, austera. Avevo lasciato apposta dei pomi aperti e dei fogli mezzi scritti per dare un po' più di veridicità all'ambiente, anche se, tutto sommato, il casino che aveva lasciato il roscio prima di uscire era solo di aiuto vista la situazione. Hannah mosse qualche passo incerto e si fermò a dare un'occhiata a qualche titolo, scandendo le lettere con le labbra e assumendo un'aria assorta man mano che il suo sguardo passava da un ripiano all'altro, e mi sentii a disagio. La donna si spostò i capelli dagli occhi, sistemandoli dietro l'orecchio destro, e fece correre un dito sulle copertine di alcuni libri, come a controllarne la pulizia. Mi parve di scorgere un pizzico di delusione in lei quando notò che il suo dito era rimasto come prima, ma forse me lo immaginai.
«Leggi cose poco consone per la tua età, zuccherino» commentò, alludendo alla vasta collezione di fumetti di Gerard.
«Sarebbe ora che cominciassi a mettere la testa a posto, o gli altri potrebbero prenderti in giro».
Mi stupì come parlasse come mia madre e sorrisi inconsciamente, associando la sua figura a quella severa di mia mamma e mettendole a confronto. Sì, sarebbero potute decisamente essere amiche, se si fossero conosciute in un altro frangente. Chissà, magari l'avrebbe anche invitata a qualche cenone di Natale, se fossero entrate molto in confidenza. Chissà.
«Però certo, qualche buon titolo ce l'hai, quindi forse tieni quella robaccia solo per distrarti...» stava continuando, senza evidentemente essersi accorta della mia distrazione, rassomigliando sempre di più a mia madre. Staccai l'audio.
«Be', tesoro, direi che qui abbiamo finito, anche se mi piacerebbe incontrarti più spesso in biblioteca. Potrei consigliarti tante belle cose, sono sicura che ti piacerebbero» si compiacque, lisciandosi il vestito a fiori. «Allora, ci scorti di sotto?»
«Ma certo, da questa parte» risposi, aspettando che uscissero dalla sala per poter tornare al piano terra e dirigermi verso la cucina, dove spensi il forno e mi girai a guardarli. «Vi spiace se continuiamo dopo cena? Di solito a quest'ora Ludovico si sveglia e mangia qualcosa con me, poi dopo passeggiamo un po' e gli lascio fare un bagno di sabbia» domandai. La donna sorrise sornionamente, annuendo e piegandosi verso il forno, cercando di scorgerne il contenuto.
«Che cosa ci hai preparato, caro?» chiese, tornando in posizione eretta e guardandomi dritto negli occhi.
«È uno sformato di verdure» risposi, di nuovo a disagio. Probabilmente pensava che l'avessi fatto per impressionarli.
«E l'hai fatto tutto da solo?» insistette, ravvivando di nuovo l'immagine di casalinga che mi aveva dato in primo luogo.
«Be', sì, ci sono abituato» mormorai, cercando di mantenere un'aria sicura mentre lei mi squadrava con i suoi grandi occhi grigi, stranamente vivaci vista l'ora, e arcuava le labbra in un ennesimo falsissimo sorriso. Diede una gomitata nelle costole al partner e lo guardò con aria emozionata, come se lo stesse invitando a seguire il mio esempio e a mangiar più sano.
«Hai sentito, Austin? Lui sì che sa come conquistare una donna» gongolò, simulando una risata sbarazzina. Abbozzai un sorriso impacciato e sentii come un peso sul petto, mentre lei si sporgeva di nuovo verso l'elettrodomestico e mi faceva i complimenti per l'aspetto del mio sformato, sotto lo sguardo annoiato dell'altro uomo, che mi guardò inespressivo per un paio di secondi e poi spostò la testa, scuotendo quindi la spalla della collega con le dita.
«Hannah, vorrei ricordarti che siamo al lavoro. Se vorrai, dopo potrete scambiarvi le ricette e spettegolare un po', ma ora dobbiamo portare a termine il nostro incarico e mantenere un minimo di professionalità, che dici?». Lei lo guardò.
«Guastafeste» sibilò tra i denti, rialzandosi e sistemandosi velocemente il vestito dalle pieghe «Allora noi andiamo a lavarci le mani, zuccherino, torniamo subito, okay?». Annuii debolmente e li osservai allontanarsi, tirando un sospiro di sollievo appena scomparvero in cima alle scale, appoggiandomi completamente al banco da lavoro e passandomi una mano sul volto. Le nove meno un quarto. Il film sarebbe finito verso le nove e mezza, quindi avevo più di quarantacinque minuti a disposizione per fargli chiudere questa stupida inchiesta e levarmeli dai piedi, e con un po' di fortuna il frontman non si sarebbe neanche accorto della loro presenza qui, nella sua euforia post-serata con gli amici. Sorrisi tra me e fui tentato dall'accendermi una sigaretta veloce, ma scacciai l'idea dalla testa e andai a recuperare la gabbietta dell'animale, invece; la posai davanti alla finestra chiusa e feci un grattino tra le orecchie a Ludovico, che aveva cominciato a sbadigliare.
«Un violet, eh?» mormorò la donna, comparendo all'improvviso alle mie spalle, spostando lo sguardo dal cincillà a me.
«Bella scelta, anche se di solito li preferiscono le ragazze». Rise tra se, come ad allentare la tensione, e frugò un attimo nella borsa a tracolla, tirandone fuori un pacco di uvetta secca già aperto, avvicinandosi all'animale per offrirgliene un po'.
«No!» esclamai, forse con troppa veemenza. Me ne resi conto e arrossii, mentre lei mi guardava con aria corrucciata.
«Come scusa?» mormorò, la frutta ancora nel palmo della mano e gli occhi puntati su di me.
«Posso dargli delle uvette solo una volta a settimana, e ne ha già prese ieri» spiegai, imbarazzato «scusi la foga».
«Oh, capisco. Hai fatto bene a dirmelo allora» commentò premurosamente lei, tirandosi su e tornando al tavolo. La seguii cautamente e dopo qualche minuto ci raggiunse anche l'uomo, che controllava il quadrante dell'orologio con aria assorta e non sembrava neanche notare la tensione che aleggiava nell'aria attorno a lui. Alzò gli occhi e ci guardò.
«Uh? Ah, già, la cena» si ricordò, sedendosi a capotavola, «che si mangia?».
«Abbiamo quel meraviglioso sformato che abbiamo visto prima» rispose la donna, indicandolo col capo «e qui hai una frittata, in caso tu abbia ancora fame» mi precedette, passandogli il piatto con aria zelante. Li osservai, smarrito, e annuii.
«G-già, esatto» biascicai, cominciando a tagliare un pezzo di sformato per chiunque ne avesse voluto un po'.
«Per me basta così, grazie» trillò lei, avvicinando velocemente il suo piatto al bordo della pentola. Le misi dentro la porzione appena preparata e lei ritrasse le braccia, aspettandomi prima di cominciare a mangiare. «Sei molto bravo in cucina, zuccherino, posso chiederti chi ti ha insegnato?» domandò, dopo aver inghiottito un boccone di verdure.
«Ho imparato da solo, anche se non ho molte occasioni per esercitarmi» risposi. Perché non mi chiedeva di Ludovico?
«Be', direi che è proprio uno spreco, sei un talento nato» esclamò cordialmente, mandando giù un'altra forchettata.
«Il nostro Austin, qui, non è capace neanche a far bollire dell'acqua» rise, suscitando un grugnito da parte dell'uomo.
«Un uomo non deve saper cucinare, Swhorne» ribatté, secco, senza alzare gli occhi dal piatto.
«Oh, secondo me sì. Sono mille punti in più a un buon partito, non so se mi spiego. Niente è più attraente della buona cucina, specialmente se sei una buongustaia, ed è per questo che sei ancora solo» replicò, strizzandomi l'occhio. Mi sentii sprofondare sotto terra per l'imbarazzo. «Ma d'altronde che ne puoi capire tu, che vivi di football e lavoro?» sospirò, scuotendo la testa come se fosse un dettaglio che le bruciava parecchio. Lui sbuffò un «bah» e si versò del vino, evitando di risponderle. Calò il silenzio e mi sentii terribilmente esposto, mentre lei continuava a ingurgitare cibo con nonchalance e lui a fissare il suo riflesso nel bicchiere, avendo terminato la sua porzione di sformato e declinato la mia proposta di portare un dolce o qualcos'altro a tavola con un 'no, sto bene così, grazie'. Ludovico cominciò a grattare contro le sbarre e mi lanciò un'occhiata interrogativa, spostando lo sguardo dall'una all'altro ospite e domandandomi chi erano con gli occhi.
«Aspetta un attimo, Ludo, arrivo subito» risposi, finendo di sparecchiare mentre la signora si avvicinava a lui e gli sorrideva con quella che definiva un'aria amabile e affettuosa, ma che sembrava più una presa in giro di un sorriso che altro.
«Ecco, ancora un attimo...» mormorai, aprendo la gabbia e tirandolo fuori, depositandolo sul tavolo. Lui emise un verso che doveva essere una specie di sbuffo e mi si avvicinò di più, senza fidarsi degli altri due. Hannah rise.
«Oh, ma com'è carino» pigolò, mentre quello cercava disperatamente di nascondersi fra le mie dita, e l'altro annuì.
«Non sembra molto abituato agli ospiti» osservò, secco, senza smettere di osservarlo.
«Per i cincillà conoscere gente nuova è fonte di stress, e bisogna evitare il più possibile di farli stressare» ribattei, deciso, «perché potrebbero ammalarsi o sviluppare una qualche forma di nervosismo che potrebbe a lungo andare deprimerli».
«Hai proprio ragione, zuccherino» convenne la signora, spostando nuovamente i capelli lontano dal viso.
«Ma dovresti farlo passeggiare in ambienti più protetti, qui basta un niente che crack, cade e si spacca l'osso del collo».
«Ci sto molto attento, non temete» ribattei, facendomelo camminare sulla mano. Ludovico si sedette, tranquillo.
«Non ne dubito, tesoro» annuì melensa la donna, stringendomi la guancia tra le dita e scuotendomela.
«Daccene una dimostrazione allora» sbottò invece l'uomo, deciso a sbrigare la faccenda il più velocemente possibile. Tacqui, intimidito, e Hannah lo rammonì con un «Aus!», girandosi poi verso di me e sorridendo. «Dai, parlaci un po' di qualcuno dei suoi rituali» m'incitò premurosamente, senza provare neanche a toccare l'animaletto. Annuii.
«Ecco, di solito si accontenta di salirmi sulle spalle e una volta lì tende a rimanerci, quindi non si muove molto... Però a volte invece preferisce correre per il bagno, e quando succede possiamo star lì le ore senza che si stanchi mai. Siccome più o meno ovunque ci sono mobili sotto i quali si può nascondere e buchi nei quali si può infrattare, abbiamo deciso che quella è la stanza meno pericolosa di tutte. Voglio dire, basta abbassare la tavoletta e chiudere la finestra che sono terminati i modi in cui può uccidersi, quindi è comunque abbastanza sicura. Senza contare che Ludo è un esemplare piuttosto pigro, quindi non cerca neanche di scalare i mobili e saltare da un piano all'altro, ed è piuttosto difficile che si spacchi qualcosa».
«Capisco... e in giro ce lo porti?» domandò di nuovo, giocherellando con una penna.
«Assolutamente--»
«Sì» m'interruppe l'uomo, scocciato.
«Eh?» ribattei, confuso. Lui mi guardò, serio, e mi passò una foto, datata sette giorni prima all'ora di pranzo.
«Ce l'ha passata una tua vicina, qualche giorno fa. Sai che è terribilmente pericoloso per i cincillà uscire?» m'incalzò.
«Non riesco a capire» mormorai, prendendomi la testa fra le mani, «Io non... non...»
«Non avrai una seconda possibilità, ecco cosa» sbottò, riprendendosi la fotografia. «Scommetto che non è la prima volta che succede e che non sarebbe l'ultima, se permettessi all'animale di restare qui con te. Ti rendi conto di quanto sia incosciente il tuo comportamento? Se vuoi giocare con una vita, gioca con la tua!» La donna lo guardò, contrariata.
«Andiamo, Aus, guarda com'è sconvolto... magari non lo sapeva proprio» ipotizzò, accarezzandogli il braccio.
«Ancora peggio! È il suo cincillà, dovrebbe starci attento ed essere più responsabile, non lasciarlo prendere al primo che passa e farglielo portare a spasso come qualunque altro animale domestico! Un minimo di cervello, insomma!» 
«Ma hai visto come lo tratta bene, un piccolo errore può capitare a tutti» ribatté lei, sminuendolo.
«A tutti un corno, e se ci avesse lasciato le penne?»
«In quel caso avremmo potuto incazzarci di brutto, ma non è un reato portar fuori il proprio cincillà» obiettò la donna. L'avrei ringraziata, ma ero troppo sconvolto anche solo per pensarci. Gerard era davvero andato al supermercato con Ludo. Mentre io ero già collassato sul pianerottolo di casa. Mentre io rischiavo la vita per loro. Mentre io soffocavo.
«Non è reato ma è incoscienza! Non si trattano così gli animali!» sbraitò l'uomo, visibilmente adirato, ma a raggiungermi fu solo l'eco della sua voce. Allora non era uno scherzo.
«Diosanto Aus, abbiamo lasciato gente in pace per molto peggio, non credi di esagerare?»
«Esagerare? Ti pare che esageri? Pensa se fosse morto!»
«Ma non è morto, no? Non è questo che conta?»
«Quello che conta è che abbia un padrone che sappia trattarlo come si merita!»
Allora era serio. Allora l'ha fatto davvero. Allora mi ha abbandonato svenuto in mezzo a un prato per davvero.
«E chi pensi che sia questo padrone se non lui? Uno sbaglio capita a tutti, non significa che le cose non vadano bene»
Alzai gli occhi e le lanciai uno sguardo vacuo da sotto le mie occhiaie addolorate. È vero, tutti sbagliano. 
«E chi ti dice che è il primo sbaglio?» ringhiò lui.
«Questo» si limitò a controbattere la donna, prendendomi per le spalle e sbattendogli davanti al viso i miei occhi lucidi.
«Se lo facesse spesso, se lo mettesse in pericolo spesso... non avrebbe questa faccia».
Cadde un silenzio gravoso nella stanza, interrotto solo dal mio respiro pesante e dal ticchettio dell'orologio. Mi pareva quasi di sentire le sopracciglia dell'agente incrinarsi e stridere, per quanto duramente le stava corrugando, e non fui in grado di sostenere il suo sguardo arcigno per altro tempo, così spostai lo sguardo verso il basso, deglutendo.
«Per me devi lasciarglielo» disse la donna, abbandonando per la prima volta la sua aria da casalinga troppo sognante.
«Dammi un buon motivo» ribatté lui, glaciale, sfidandola con gli occhi. Lei increspò le labbra con serena tranquillità.
«Lo ama abbastanza da sopportare i miei nomignoli e la tua scortesia con un sorriso per tutta la serata».
Lui ammutolì, senza sapere cosa ribattere. Effettivamente, persino a lui davano fastidio i 'tesoro', gli 'zuccherino' e i 'caro' della collega, e se fosse stato in me probabilmente avrebbe dato di matto. Sospirò sonoramente, alzando le mani al cielo.
«Okay, okay, hai vinto. Si tenga pure il cincillà» si arrese, scuotendo la testa con rassegnazione mentre la rabbia sfumava «ma se lo ribecco a fare una cosa del genere io--»
«Tu niente, Austin, non sono cose di nostra competenza» gli ricordò zelante la donna, sorridendo. «Il massimo che potrai fare è fargli una predica, comprare un cincillà e dimostrargli quanto tu sia meglio di lui nel curarlo. Anche se non credo riusciresti mai a superarlo, sai? Ho come l'impressione che non lo raggiungeresti nemmeno lontanamente».
Sorrisi e la ringraziai con gli occhi, grato. Stavo per piangere, ma non m'importava. Avremmo tenuto Ludovico, sarebbe andato tutto bene, saremmo rimasti una famiglia. E chissenefrega di tutto, sarebbe andato tutto bene. Mi strizzai la base del naso con le dita, cercando di cacciare indietro le lacrime, e la donna sorrise, mettendomi una mano sulla spalla.
«Sei un bravo ragazzo, Frank» sussurrò. «Sbagliare è normale, l'importante è saper perdonare e andare avanti».
La guardai di nuovo. Sì, sarebbe decisamente andata d'accordo con mia madre. Lei l'avrebbe perfino invitata ai cenoni di Natale, ne sono sicuro. Tipo come ospite d'onore o qualcosa del genere. Sarebbe stato fico.
«Grazie» sussurrai, abbozzando un sorriso. Lei contraccambiò con sincerità e mi levò la mano di dosso, sistemandosi la borsa a tracolla e alzandosi silenziosamente in piedi, imitata prontamente dal collega. Mi strizzò l'occhio, soddisfatta.
«Be', direi che il nostro lavoro qui è finito» commentò quindi, arruffandomi i capelli prima di uscire dalla porta, che l'altro agente le aveva tenuto aperta, «buona vita, signor Iero. Spero di non rivederti mai più, ragazzo mio». Ricambiai il saluto e rimasi immobile nella penombra, mentre il rombo della loro macchina si allontanava sempre di più, e sentii due lacrime calde scorrermi lungo le guance, mentre Ludovico mi si avvicinava e strusciava il muso contro la mia mano, come se stesse tentando di tranquillizzarmi. Sorrisi, grattandogli le orecchie, e mi tirai su. Ripresi in mano la foto, delicatamente, e sorrisi tra me e me. Hannah l'aveva lasciata lì apposta, ne ero sicuro. L'afferrai meglio e la strappai in due, accartocciandone ogni metà e lasciandole sul tavolo. Aveva ragione, ognuno meritava una seconda possibilità. Presi il mio amico in braccio, lo infilai in gabbia e mi sdraiai sul divano, in attesa di Gee. Sarebbe andato tutto bene.

«Frankie? Frankie svegliati, è mattina» mi sentii chiamare. Quando aprii gli occhi, la prima cosa che vidi furono le iridi marroni del ragazzo, sistemate a pochi centimetri da me, e poi il suo sorriso smagliante, così insolito di prima mattina.
«Dormito bene, amore?» mi chiese, stampandomi un bacio delicato sulla fronte.
«Più o meno, ho la schiena a pezzi» mormorai, ancora intorpidito dal sonno. Mi portai una mano alla testa e sbadigliai.
«Vuoi un caffè? È ancora bollente» propose, sorridendo. Ricambiai il sorriso e dissi che mi sarebbe piaciuto da morire, così lui scomparve in cucina e tornò indietro con la mia tazza preferita. «Ecco, tieni» sussurrò, passandomelo e sedendosi sul divano accanto a me. Mi appoggiai contro la sua spalla e lo guardai dal basso, scoccandogli un bacio sul mento. 
«Dai, smettila, se fai cadere il caffè ci ustioniamo» scherzò, ricambiando però il bacio. Arricciai il naso per prenderlo in giro e ne presi un sorso, e un sapore amaro mi invase la bocca, accarezzandomi il palato. Aprii gli occhi e lo guardai.
«Woah, ma è buonissimo. Come hai fatto?» sbottai, guardandolo in faccia con aria sorpresa. Lui esplose in un sorriso fiero e indicò la gabbia con un cenno del capo. «No. Non ci credo. Non è possibile» esclamai, incredulo, scoppiando a ridere, la mano sinistra sulla fronte e l'altra stretta attorno alla tazza. «Tu sei un genio, Gerard, un fottuto genio».
«Il genio più genio della storia» precisò, orgoglioso.
«E anche uno dei due unici fortunati. Questo sarà il nostro piccolo segreto» mormorò, sporgendosi in avanti per lasciarmi un bacio sulle labbra «e nessun altro riuscirà mai a cavarcelo di bocca».
Ripensai alle parole di Hannah. Sì, tutti hanno diritto a una seconda possibilità. E noi eravamo destinati ad averne migliaia.
   
 
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