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Autore: Trick    07/10/2012    3 recensioni
La vita del dottor Archie Hopper trascorre nella monotonia come qualunque altra vita di qualunque altro abitante della cittadina di Storybrooke, ma da quando il piccolo Henry Mills è diventato il suo paziente prediletto, le cose hanno iniziato a prendere una piega ben più inaspettata. Nel frattempo, nel regno delle fiabe, Jiminy Cricket decide finalmente di fare la cosa giusta.
Una caccia a un burattino, un cruciverba incompleto, una mantella magica, l'assicurazione di una macchina rossa da pagare e i conti da fare con l'altra vita, con le altre scelte, quando la maledizione si spezza.
|Ruby/Archie|
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Archibald Hopper/Grillo Parlante, Cappuccetto Rosso/Ruby, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Storia di un Grillo, di una Volpe e di una ragazzina con il Cappuccio Rosso
Capitolo 1 - Il ladro
 
*

L'Osteria del Gambero Rosso era il più noto rifugio di ladri e mascalzoni del reame, ma la zuppa di cipolle che lì veniva servita era fra le più saporite – era fatta con tutto meno che le cipolle. Era una casupola diroccata, con il tetto di legno basso, i vetri delle finestre sporchi e anneriti dal fumo e dal tempo e il pavimento sporco e appiccicaticcio. Quel postaccio puzzava del sudore di cento vite trascorse nello schifo e nella miseria, ma Jiminy non conosceva nessun altro posto. Non aveva mai conosciuto altri posti.
Sedeva in un piccolo tavolo accanto alla porta, con le mani strette attorno a un bicchiere dall'aspetto rozzo e lo sguardo fisso sulle schegge di legno. Gli occhiali giacevano abbandonati a pochi centimetri dal suo gomito e di tanto in tanto si massaggiava le palpebre con espressione straziata.
Era così stanco della sua vita, era così frustrato... quante volte aveva già tentato di andarsene? Quante ancora aveva cercato di mostrare ai propri genitori quanto inutili fossero le loro continue frodi?
«Non essere sciocco, Jiminy» continuavano a ripetergli. «Che assurdità, Jiminy», «È ora di crescere, Jiminy» e lui abbassava la testa con aria rassegnata e riprendeva il proprio lavoro. Sapeva di aver scelto la scorciatoia più breve, ma non riusciva a sfuggirne. Talvolta si domandava se avesse davvero tentato di cambiarli – di cambiare se stesso fino in fondo – e il solo motivo per il quale non era ancora giunto a nessuna conclusione era che preferiva non sapere cosa avrebbe concluso. Era veramente la scelta più facile, quella di Jiminy, e lui lo sapeva: era questo che la rendeva anche la più infelice.
«Jiminy, amico mio!» risuonò di colpo una voce squillante.
L'uomo sollevò la testa ed emise un lieve gemito sconsolato nel riconoscere i due giovani che si avvicinavano al tavolo.
Indossavano vesti cenciose e i loro visi era macchiati di fango e terriccio. La più alta stringeva fra le mani un vecchio bastone ricurvo e sogghignava divertita, mentre l'altro le trotterellava servizievole alle calcagna. Si facevano chiamare Fox e Cat: nessuno sembrava essere a conoscenza dei loro veri nomi.
Fox afferrò una seggiola dal tavolo accanto, la piazzò davanti a Jiminy e vi si sedette al contrario, appoggiando le braccia allo schienale. Fox non era particolarmente avvenente, ma era dotata di una parlantina intrigante e i suoi modi di fare avevano la capacità di incantare la gente. Il suo viso era spigoloso, la fronte alta e i lunghi capelli rossi le ricadevano in ciocche stoppose sulle spalle. Sebbene fosse ben più basso e tozzo e avesse corti capelli scuri, il fratello le assomigliava in maniera incredibile. Quel giorno aveva due ridicoli occhialini scuri calati sul naso.
«Abbiamo in ballo un affare che potrebbe interessarti» affermò con un occhiolino Fox. Prese il bicchiere di vino di Jiminy e iniziò a bere con naturalezza.
«Prego, fa' pure» soffiò lui con debole ironia, appoggiando la testa al dorso della mano e scrutandola accigliato.
«Sì, sì, grazie» tagliò corto lei. «Cat, idiota, siediti».
Mentre il ragazzo si guardava in giro alla ricerca di una sedia vuota, Fox si allungò verso Jiminy con espressione complice. Il suo alito sapeva di birra e cipolla.
«C'è un villaggio che sta andando in rovina poco distante da qua» iniziò a raccontare a bassa voce. «Dicono che la gente stia scappando per colpa di un lupo, o una cosa del genere. E quando la gente scappa, dimentica un sacco di cose. Un gioco da bambini, ma ci serve qualcuno che ci faccia da palo» aggiunse, schioccando eloquentemente le dita. «Cioè tu, amico mio. Poi si divide in tre come sempre, parola d'onore».
«Avevi detto che avremmo diviso in quattro» commentò confuso Cat, osservando la sorella al di sopra degli occhialini. «Perché dobbiamo...?».
Fox gli rifilò una poderosa gomitata nello sterno. Jiminy li fissò apatico. Aveva assistito a scene come quelle almeno un centinaio di volte e per quanto Cat fosse noto per essere peculiarmente sciocco, Jiminy non lo era abbastanza per non essersi mai accorto che Fox fregava sulle divisioni dei loro bottini. Non glielo aveva mai fatto notare.
«Allora, amico mio?» riprese Fox, scolando fino all'ultimo goccio il vino. «Ci stai?».
Lui fece un sospiro triste.
«No. Questa volta no».
Fox inarcò un sopracciglio e parve trattenersi a stento dal ridere, al contrario del fratello, che aveva cacciato una risatina acuta piuttosto fastidiosa.
«Che scemenze. Tu ci vieni sempre, alla fine».
«No» ribatté deciso. «No, Fox. Non verrò. È... sbagliato. Noi non siamo sciacalli».
«Siamo "commercianti", Jiminy» lo corresse con una punta di indignazione. «Avanti, non fare storie. Le fai sempre, ma alla fine ci segui comunque» aggiunse con tono irremovibile. «E sappiamo tutti e due perché».
«Perché?».
Il sorriso di Fox si fece lezioso e maligno.
«Perché sotto sotto questa vita ti piace un sacco, amico mio».

*

Quando venne svegliato dallo squillo del telefono, l'orologio digitale sul comodino di Archie Hopper segnava le tre e venti di notte. Jeanette russava placidamente nella sua parte di letto, arrotolata nelle lenzuola che gli aveva fregato durante il sonno. L'uomo si alzò rapidamente in piedi e si diresse a lunghi passi verso il salotto. Incespicò in un paio di scarpe con tacco abbandonate in mezzo al corridoio e rischiò di finire sul pavimento.
«Oh, accidenti a voi!» borbottò scocciato, cercando l'interruttore a tentoni. Quando sollevò la cornetta, si era già convinto che chiunque lo stesse cercando a quell'ora tarda avesse già desistito nell'intento. «P-pronto?».
«Dormiva, dottor Hopper?» sibilò la voce gelida di Regina Mills. Archie l'avrebbe purtroppo riconosciuta fra mille. Ne era segretamente intimorito – e nemmeno tanto segretamente.
«No, no... si figuri, io... sì, dormivo, certo» balbettò confuso, strofinandosi il viso con la mano libera. «Ma non c'è alcun p-problema, naturalmente... mi dica come posso--».
«Voglio che lei parli con Henry il più presto possibile».
«Con... Henry?».
«Mio figlio, dottor Hopper».
«Certo... io so chi è Henry, non capisco come--».
«Farnetica di assurdità da mesi».
«Assurdità?».
«Fiabe».
«Oh...» esclamò Archie. «Capisco, ma Henry ha dieci anni. È normale che si ritrovi eccitato da storie fantastiche, non vedo come--».
«Crede che questa sia una fiaba!» lo interruppe seccata Regina. Archie ebbe l'impressione di aver udito l'eco di un pugno colpire una scrivania. «Si è convinto che Storybrooke sia abitata dai personaggi delle fiabe... crede che io sia la Regina Cattiva».
Archie rimase in silenzio e rifletté attentamente sulle parole del sindaco. Quel ragazzino non aveva mai avuto una vita facile; sua madre era una donna rigida, testarda – spesso ossessiva. Non era affatto stupito di ciò che stava scoprendo. Il giovane Henry stava costruendo un ponte fra ciò contro il quale credeva di non poter far nulla e ciò contro il quale credeva di poter vincere e Archie sapeva bene che in futuro quel distacco dalla realtà poteva diventare molto dannoso.
«Io... le suggerisco di non demolire le sue convinzioni, signor sindaco» spiegò dopo qualche istante. «Non ora. Non in maniera brutale. Ma temo di non poterle essere aiuto, se prima non--».
«Domani pomeriggio alle tre».
«C-come?».
«Henry sarà nel suo studio. Gli tolga dalla testa quelle assurdità. È pagato per farlo, dunque veda di farlo coscienziosamente».
«Certo, ma non crede che--».
«No, non lo credo» tagliò corto Regina prima di chiudere la conversazione senza aggiungere altro.
Impietrito, Archie se ne restò qualche minuto con la cornetta in mano.
Henry Mills era un bambino dall'indole gentile e dalla mente curiosa. Era sveglio e intelligente, ma Archie temeva che l'irruenza talvolta despotica sotto la quale Regina tendeva a nasconderlo fosse piuttosto insidiosa. Non dubitava del profondo affetto che la donna doveva senz'altro nutrire per il figlio adottivo, ma sospettava che l'origine dei problemi del ragazzino, qualunque essa fosse, dovesse essere cercata alle radici del suo rapporto con la madre. Sembrava un caso elementare, tutto sommato: Henry stava crescendo e iniziava a vedere il mondo con gli occhi confusionari di un bambino sulle soglie dell'adolescenza. Archie sperava in cuor suo di poterlo aiutare a riprendere il controllo sulla propria vita.
«Archie?» mugugnò infastidita Jeanette dalla camera. «Chi diavolo era?».
L'uomo scosse il capo come se si fosse svegliato in quel momento e appoggiò al proprio posto la cornetta del telefono.
«Era il sindaco» spiegò con un sospiro, mentre ritornava a letto strascicando i piedi.
«Il sindaco?» ripeté con voce dubbia.
«Sì. Il sindaco».
«Il sindaco. E voleva te».
«Me».
«E perché?».
Archie si lasciò cadere fra le coperte con uno sbuffo stanco.
«Silenzio professionale».
Jeanette accese di scatto la luce azzurrina della piccola abat-jour e alzò la mascherina per gli occhi con un gesto seccato. Si mise a sedere e sferrò un colpo rude alla spalla destra di Archie, che mugugnò un vago rantolo di dolore.
«Io ti dico sempre tutto quello che faccio a lavoro» sentenziò con la cocciutaggine di un'adolescente.
«Sì, ed io ogni volta ti prego di non farlo. La serietà lavorativa è molto importante, Jeanette: la gente che viene da te in cerca di aiuto si fida e tradire la fiducia di qualcuno è una cosa molto, molto riprovevole».
Senza aggiungere altro, Archie cercò di recuperare la sua parte di lenzuola, sebbene sapesse che Jeanette se le sarebbe riprese in meno di dieci minuti. Era sempre stata così, lei, dacché aveva memoria, dacché si erano conosciuti. E stavano insieme da così tanto che ormai non ricordava più con chiarezza nemmeno quando avesse avuto la sventura di conoscerla. Era una donna graziosa, a modo suo, ma aveva il brutto vizio di abbigliarsi in maniera appariscente e scrutare tutti dall'alto in basso. Era un comportamento sgradevole che Archie aveva cercato di farle notare innumerevoli volte, ma Jeanette era testarda quanto un mulo e riteneva un'offesa personale qualunque suo tentativo di correggerla.
Il tormento maggiore, tuttavia, era non riuscire ad amarla. Ci provava, Archie, ci provava sul serio – e talvolta si domandava se volesse davvero provarci – ma non credeva di esserne in grado. Tuttavia lei era ormai diventata parte della sua abitudine e con il trascorrere dei giorni l'uomo si era semplicemente rassegnato. C'erano state un paio di occasioni in cui si era sentito abbastanza coraggioso da lasciarla una volta per tutte, ma non era mai riuscito ad andare fino in fondo.
«Buonanotte, Jeanette» sospirò appena.
Lei aveva già ripreso a russare.

*

Fox precedeva il piccolo gruppo attraverso i bassi rami degli alberi e i cespugli del bosco che costeggiava il villaggio. Le foglie secche che schiacciavano con gli scarponi scricchiolavano minacciosi. Ad un certo punto, Cat aveva erroneamente calpestato un sottile bastone che si era spezzato in due, e mancò poco che a Jiminy non venisse un infarto. Quando ne ebbero raggiunto il limitare, si acquattarono dietro un enorme tronco per spiare la situazione.
Il villaggio recava tutti i segni del recente abbandono dei suoi abitanti: molte finestre erano state malamente sbarrate con grosse assi di legno, il secchio del pozzo di pietra giaceva riverso su un fianco e per la strada principale non si vedeva nessuno.
Fox sorrise nell'ombra.
«Perfetto» sibilò soddisfatta. Poi sollevò l'indice e indicò una casupola malridotta poco distante dalla piazza. «Quella è perfetta. Luci spente e porte aperte: l'hanno lasciata apposta per noi».
Cat emise un vago risolino ebete, ma Jiminy scosse la testa.
«Torniamo indietro, Fox» la pregò debolmente. «Non me la sento di--».
«Non devi fare niente, Jiminy. Devi andartene là, vicino a quel pozzo, e se dovessi scorgere qualche ficcanaso avvicinarsi caccia un ululato e inizia a correre. Sarà un grande spettacolo».
«Fox, non--».
«Chiudi la bocca. Sono io, il capo».
Complice il buio della notte, scivolarono fuori dal proprio nascondiglio, cercando di produrre meno rumore possibile. Jiminy non riusciva a mettere a tacere l'insistente vocina che continuava a ripetergli di fermarsi immediatamente, di tornare sui proprio passi, di mandare a diavolo tutto quanto e ricominciare di nuovo, da un'altra parte, con un'altra vita. Non ebbe il coraggio di darle ascolto e si diresse con passo incerto verso il pozzo. Vi si appoggiò contro e iniziò a scrutare rapidamente a destra e sinistra. Vide con la coda dell'occhio le ombre di Fox e Cat infilarsi nella porta della casa deserta; sfilò gli occhiali e si passò una mano tremante fra i capelli. Cosa stava facendo?
«Signore?».
Colto da un'improvviso terrore, Jiminy sobbalzò e si voltò di colpo. Davanti a lui c'era una bambinetta che non avrebbe potuto dimostra più di nove o dieci anni. Aveva il visino pallido sporco e i capelli scuri gretti e scarmigliati. Indossava un abitino strappato sui gomiti di un paio di misure più grande che doveva aver visto giorni decisamente migliori. I suoi occhietti scuri lo scrutavano con un misto di paura e curiosità.
«Cosa fate qui, signore?» pigolò perplessa. «Non ve lo hanno detto che è molto pericoloso?».
«I-io...» balbettò impacciato lui, aggiustando gli occhiali sul capo e lanciando uno sguardo allarmato in direzione della casa. «Io non s-sono di... qui».
«Oh» disse semplicemente la piccola, annuendo piano. «Allora dovreste andarvene in fretta. C'è un lupo che si aggira da queste parti. Ha sempre fame».
Jiminy avvertì un'ondata di paura scivolargli lungo la spina dorsale. Tossicchiò imbarazzato nella mano e rispose:
«Capisco. Forse... forse è quello che d-dovresti fare anche t-tu».
La bambina inarcò un sopracciglio.
«È quello che sto facendo. Sto andando a casa mia» spiegò titubante.
Poi sollevò la mano e con enorme sgomento di Jiminy, indicò la casa che Fox aveva deciso di svaligiare. L'uomo si sentì mancare. Aprì la bocca nella speranza di essere in grado di uscire da quella situazione spinosa, ma purtroppo Fox e Cat scelsero proprio quel momento per uscire dalla porta. Sembrava non avessero trovato niente, a parte una lucida coperta rossa che la giovane si stava rigirando interessata fra le mani. Nel vederla con la stoffa in mano, la bambina cacciò un urlo spaventato e iniziò a correre verso i due ladri.
«No!» strillò. «Lasciatela subito! Lasciatela subito!».
Per un attimo Fox parve stupita, ma ebbe tutto il tempo di bloccare la corsa della bambina e spintonarla con forza, facendola cadere davanti ai gradini della propria casa. Jiminy rimase impietrito, ma la voce nella sua testa aveva iniziato a gridare di fare qualcosa, di fare qualsiasi cosa, di scappare da ciò che stava facendo... ma per l'ennesima volta, lui non riuscì a darle retta.
«Sparisci, mocciosa» sentenziò duramente Fox. Il suo sguardo truce si levò in direzione di Jiminy. «E tu...» aggiunse minacciosa. «Tu dovevi dirci se arrivava qualcuno».
La bambina spalancò la piccola bocca e girò il collo verso Jiminy. Sotto il suo sguardo ferito – tradito – si sentì vacillare.
«Per piacere...» implorò timidamente, appoggiando entrambe le manine per terra e cercando di rimettersi in piedi. «Per p-piacere... ho b-bisogno di quella stoffa».
«Accendi un fuoco, se hai freddo» sghignazzò Cat, dandole una seconda spinta e facendola capitolare ancora una volta per terra.
Fox rise di gusto, le voltò le spalle e fece per andarsene, ma la voce decisa di Jiminy la bloccò.
«No!» esclamò all'improvviso. S'affrettò a raggiungere la bambina e la aiutò a rialzarsi. «Mi... mi dispiace» mormorò con un filo di voce.
«Jiminy, muoviti, potrebbe arrivare qualcuno e--».
«Ridagli quella coperta» ribatté con feroce decisione, allungando una mano verso di lei. «Adesso, Fox, ridagliela».
La giovane sgranò gli occhi, scambiò uno sguardo incredulo con il fratello e scoppiò in una fragorosa risata derisoria. Cat si piegò quasi in due, ma Jiminy rimase impassibile, con il braccio teso e la feroce pesantezza degli occhi umidi della bambina sulla schiena. Non è giusto, continuava a ripetersi. Non è giusto...
«Dammi quella coperta».
L'ilarità sul viso di Fox si mutò rapidamente in una smorfia arrabbiata.
«Stai scherzando?».
«Affatto».
«Questa cosa potrebbe valere qualche soldo».
«Non mi interessa».
«Interessa a me».
Si fronteggiarono per diversi secondi, senza che l'uno osasse abbassare il capo prima dell'altra. La bambina mosse un passo in avanti e ripeté:
«Per piacere... ne ho bisogno. Ne devo fare una mantellina prima della prossima luna».
Jiminy fece un respiro profondo.
«Hai sentito? Rendile ciò che è suo. Questa storia è durata abbastanza».
«Ma va' al diavolo» sputò disgustata.
Girò sui tacchi e fece cenno a Cat di seguirla, ma Jiminy fu più lesto e le afferrò saldamente il polso.
«Ehi!» strillò indignata. «Lasciami subito!».
«Lascia mia sorella o ti faccio a pezzi» rincarò la dose Cat, mostrandogli un pugno.
«Ridai quella coperta alla bambina» ribadì Jiminy, strappandogliela dalle mani.
Fox non se la aspettava e non ebbe i riflessi per impedirglielo, ma Cat fu abbastanza svelto da colpire Jiminy con un sonoro pugno sullo zigomo destro. L'uomo si ritrovò disteso nella polvere prima ancora di essere in grado di provare dolore. Aveva la vista appannata e gli occhiali erano volati chissà dove. La ragazzina fu lesta a recuperare in fretta l'amata stoffa rossa. La stringeva al petto come se ne dipendesse la sua stessa vita, poi lanciò un'ultima occhiata a Jiminy e scappò.
«Dannazione! Cat, prendila!» imprecò inferocita Fox.
Il giovane scattò come un felino all'inseguimento della piccola fuggitiva. Poi Fox si chinò verso Jiminy e lo sollevò brutalmente per il colletto della camicia. «Sei impazzito!? Quella stoffa mi serviva!».
Lui cercò di riaprire l'occhio, ma il viso aveva iniziato a gonfiarsi e a provocargli parecchio dolore.
«C-cosa?» balbettò confuso.
«Quella stoffa mi serve!» ripeté con furia crescente lei. «Devo consegnarla a Malefica, razza di idiota, o saranno guai per tutti!».
Lo lasciò cadere per terra e infilò le mani fra i capelli rossi con aria disperata.
«Prega che Cat riesca a prendere quella nanerottola, o giuro che ti ammazzo, Jiminy! Anzi, no: ti ammazzerò comunque, perché sei un idiota!».
Lui era riuscito a trovare i propri occhiali. Li inforcò malamente, storcendo il naso quando l'asticella sfiorò il punto in cui il pugno di Cat lo aveva colpito.
«Malefica?» chiese. «La strega?».
«Sì, imbecille, sì!».
«Perché dovevi--?».
«Le ho rubato una dannata coda di volpe, d'accordo!? Doveva valere un sacco di soldi, accidenti a me...» borbottò nervosamente, calciando con foga un pezzo di legno. «Ma mi ha beccato e ora devo portarle quella stupida coperta, se non voglio che torni a prendermi. Sei un cretino, Jiminy, e se Cat non torna con--».
S'interruppe di colpo. Dalla direzione verso la quale era scappata la bambina, si stavano avvicinando rapidamente una mezza dozzina di torce. Fox impallidì e arretrò di qualche metro.
«Oh, no...» mormorò fra sé. Lanciò un'ultima occhiata di puro odio a Jiminy e sibilò: «Bada bene a quello che sto per dirti: ti schiaccerò come un insetto, Jiminy. Dovessero volerci decenni, giuro che ti schiaccerò come un insetto!».
Lui la vide correre come una forsennata verso la foresta, mentre le voci degli abitanti del paese si facevano ormai chiare e vicine. Jiminy vide un paio di uomini affrettarsi nell'inseguimento, ma sapeva che non l'avrebbero trovata. Fox era molto più furba e veloce di loro.
«È lui!» sentì gridare la voce della bambina.
Jiminy si rimise in piedi. La piccola folla lo fronteggiava con espressione seria. La ragazzina era davanti a loro, con le guance rigate di lacrime e la stoffa rossa ancora stretta al petto. Cat era sparito.
«È lui che mi ha aiutato».

*

«Vuoi dell'altro caffè, Archie?».
Archie sollevò la testa di colpo e fissò Ruby come se si fosse appena accorto della sua presenza accanto al tavolino di Granny's. La giovane inclinò perplessa il capo e gli rivolse un sorriso divertito.
«Wow. Che nervi saldi» scherzò.
Lui fece una piccola risatina e appoggiò la copia de Lo Specchio di Storybrooke del quale cercava di risolvere le parole crociate.
«Sì, sarei stato un pessimo soldato» replicò lui, allungandole la tazza vuota. «Ti ringrazio».
«Dovere» tagliò corto lei, riempiendola quasi fino all'orlo. Poi il suo sguardo cadde sul cruciverba e il suo sorriso si trasformò in un piccolo sogghignò. «Spice Girls».
«Cosa?».
«Spice Girls. Quindici verticale, dieci lettere».
Archie sistemò gli occhiali e lesse la definizione.
«"Debuttarono con Wannabe". E chi è Wannabe?».
Lei scoppiò in un'adorabile risata.
«No. Wannabe è il nome del loro primo album».
«Capisco» annuì Archie, afferrando la penna e completando finalmente il casellario. «Ti ringrazio, Ruby. Ora mi sento terribilmente vecchio, ma perlomeno anche oggi il cruciverba di Sidney Glass non l'ha avuta vinta».
«Ciò che più mi spaventa è sapere che Sidney Glass ascolta le Spice Girls» aggiunse con espressione disgustata Ruby.
«Ruby!» la richiamò seccata la signora Lucas dall'altra parte del bancone.
La giovane sollevò infastidita la testa e scosse la lunga chioma mora. Portò la mano libera dalla caffettiera al fianco e soffiò scocciata.
«Porca miseria, nonna, sono solo le sette di mattina» la rimbeccò con il tono cantilenante di un'adolescente incavolata. «Tu e i tuoi nervi a pezzi non ce la fate a dormire un po' di più?».
«No, ci svegliamo sempre all'alba per cercare di tenere a freno te e la tua linguaccia lunga!» replicò con lo stesso tono sarcastico l'anziana. «Tony ha bisogno di aiuto».
Mordicchiando nervosa il labbro inferiore, Ruby si allontanò con un ultimo soffio ribelle e svanì oltre la porta della cucina senza replicare oltre. Archie nascose un tiepido sorriso e si grattò la nuca con aria pensierosa. La signora Lucas lo scrutò impassibile per qualche secondo, poi si avvicinò al suo tavolo e infilò entrambe le mani nelle tasche del grembiule.
«Avanti, di' quello che stai pensando di dirmi» gli disse con franchezza. «Dove sbaglio?».
Archie parve per un attimo stupito, ma poi si fermò a riflettere e le mostrò i palmi delle mani.
«Io... io trovo che Ruby sia una ragazza molto sveglia, ma temo non sappia ciò che vuole realmente».
«Però sembra sapere piuttosto bene cosa non vuole» mormorò rassegnata la donna. «Ma io ho bisogno che lei mi aiuti qui, Archie, non posso gestire tanto la locanda quanto il bed&breakfast da sola».
Sul viso dello psichiatra si dipinse un'espressione pacatamente inquisitoria.
«Stai cercando una soluzione per lei o una scusa per te?».
Alle sue parole, le guance della signora Lucas si tinsero di una lieve sfumatura rossiccia. Poi sbuffò – e Archie notò per l'ennesima volta quanto assomigliasse alla nipote – e scosse la testa.
«Hai ragione. Hai sempre ragione».
«Purtroppo non è affatto vero».
«Oh, non dire sciocchezze. Certo che è vero. Cosa devo fare, Archie? Non mi ascolta. Fa sempre di testa sua e...» sospirò, «...ne combina sempre una più del diavolo. È una donna adulta, ormai, e non riesco a farglielo capire».
Archie le sorrise con affetto e posò una mano sul suo braccio.
«Sono dell'idea che tu non possa far altro che attendere che la vita le insegni come crescere» disse lentamente. «Stai al suo fianco come hai sempre fatto; controlla che non si faccia troppo male, quando finirà per cascare sui propri sbagli, ma non impedirle di commetterne».
«Tutto qui?».
«Tutto qui» rispose candidamente Archie, avvicinando la tazza alle labbra. «L'alternativa è incatenarla al frigorifero, ma ad essere franchi mi sembra un po' barbaro».
Addolcita dai suoi toni gentili, la signora Lucas si lasciò andare a una piccola risatina. Gli diede qualche colpetto materno sulla spalla.
«Grazie, Archie. A volte ho come l'impressione che--».
Non seppe mai quale fosse l'impressione della signora Lucas, perché Jeanette aveva spalancato con foga la porta, facendo irruzione nel locale con sguardo acceso. Quel giorno indossava un tailleur di un improbabile violetto e i suoi occhi erano appesantiti da un luccicante ombretto color smeraldo. Il rumore dei suoi tacchi che sbattevano sul pavimento aveva un che di preoccupante e Archie si concesse giusto il tempo di scambiare un'occhiata eloquente con l'anziana donna.
«Il tuo maledetto cane è entrato di nuovo in casa» lo attaccò in fretta Jeanette, con le mani sui fianchi e la bocca serrata in una ferra linea dritta. «Sai che sono allergica».
«Hai provato a lanciare un wafer alla vaniglia fuori dalla porta?» si informò stancamente, mentre ripiegava il giornale con cura. «Di norma funziona».
«Mi stai prendendo in giro?» domandò con asprezza. Sembrava stesse masticando vetri rotti. «Mi stai prendendo in giro, Archie? Detesto quando lo fai, detesto il tuo stupido cane, detesto quando--».
L'uomo sollevò placido una mano e si alzò dal tavolo.
«Detesti un sacco di cose, sì» concluse appena. «Temo che questo concetto sia già ampiamente noto a tutti gli abitanti di Storybrooke, Jeanette».
Le narici della donna fremettero, ma non aggiunse altro. Si limitò a massaggiarsi drammaticamente la tempia ed esalare un'imprecazione spossata.
«Leva quel cane dal mio divano prima che io torni a casa» lo avvertì seccata, prima di girare sui tacchi ed uscire con la stessa mancanza di grazia con la quale era entrata. Non concesse a nessuno il proprio saluto – non che a qualcuno interessasse.
Archie fece le spallucce e prese fra le mani la propria valigetta.
«Fra voi le cose non vanno bene» commentò senza giri di parole la signora Lucas.
«Vanno come sono sempre andate».
«Non era una domanda, Archie. Quella donna finirà davvero per ammazzarti un giorno di questi».

*




Note: Qualcuno è già al corrente della fissa che mi è venuta per il personaggio di Jiminy Cricket e per la ship Red Cricket, quindi non mi dilungherò oltre su questa assurda mania.
Le uniche due note veramente importanti che potrei lasciare sono: a) i due OC sono ovviamente il Gatto e la Volpe di Pinocchio, qui chiamati Cat e Fox per coerenza di nomi – eccezion fatta nei punti in cui ai personaggi di Storybrooke capita di parlare di favole, dove uso l'italiano per ragioni di scorrevolezza; b) nel film originale della Disney, la Volpe si fa chiamare Honest John Worthington Foulfellow, mentre il Gatto viene chiamato semplicemente Gideon. Da qui, i nomi dei due corrispettivi di Fox e Cat: Jeanette e Gideon Honestine; c) la storia di Pinocchio è un incrocio fra la versione di Collodi, quella della Disney, quella di Once Upon A Time e, perdonatemi, la mia – scusa, Collodi, ma avresti dovuto shippare Red Cricket; d) i personaggi non mi appartengono – no, nemmeno Cat e Fox, sono comunque di Collodi. A proposito, signor Collodi, grazie di aver fatto parte della mia infanzia; e) la storia doveva essere una one-shot, ma è diventata troppo lunga, così ho deciso di dividerla in piccoli capitoli.
   
 
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