Fanfic su artisti musicali > Linkin Park
Segui la storia  |       
Autore: Chaike    09/10/2012    5 recensioni
« Bene, è stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton prendendo in mano la sua borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché è una regola importante svolgere sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor Way, è un ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra noi … » sussurrò alla classe « È una persona noiosissima! » fece ridere i piccoli che però non erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad una nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe poi diventata per loro quella persona, così importante e che avrebbe lasciato il segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe detto nel corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chester Bennington, Mike Shinoda
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: Eeeeeeeeee rieccomi :3 Vi sono mancata? No, vero? Q_Q In questo momento sto facendo un'enorme pazia a pubblicare il primo capitolo, dato che mi ero promessa di finire il terzo prima di pubblicarlo ... Ma boh, non resisto
Partiamo con le avvertenze: non sono un'esperta di musica anni '80, di quei anni so così poco che è pari a zero *si sente una merda*; non frequento scuole americane, quindi non conosco gli orari e le materie, in poche parole ho copiato l'istituzione scolastica italiana; vi ho risparmiato dal giornaliero  "pledge of allegiance", il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti che studenti e professori effettuano ogni mattina alle 7.30.
Di cosa parlerà la fic? Adolescence è una storia -ovviamente d'amore, sennò non l'avrei mai scritta :'D- dedicata principalmente alla crescita di Mike e Chester, con l'affronto dei mille problemi di quest'ultimo che ha affrontato nella reale come noi tutti sappiamo. I titoli di ogni capitolo sono presi da varie frasi prese dai capolavori dei nostri miti :DOgni quanto la aggiornerò? Ad ogni morte di Papa. Mi dispiace, ma la terza liceo mi sta facendo il culo non quadro ma cubico .-.
Come finirà? Leggete e lo scoprirete :D
Voglio vedere tante recensioni eh ò_ò Non ci saranno scene rosse perché utlimamente sto cercando di allontanarmi dalla lussuria (ovviamente fallendo sempre di più giorno dopo giorno~) ...
Enjoy :3


Adolescence

 
Capitolo 1 – It’s start with one thing
 
Lunedì dodici Settembre 1983, la fatidica data che nessuno di quei pargoli avrebbe mai pensato a cosa  li avrebbe portati.
Loro, piccoli ed ancora ignari del mondo e della vita, erano eccitati per quel giorno, avevano le farfalle nello stomaco perennemente, con l’esaltazione che non cessava di scorrere nei loro piccini corpi di bambino di cinque anni circa.
Prima dell’inizio dell’estate appena trascorsa in tranquillità come ogni anno da lì alla loro nascita, avevano appena finito l’ultimo anno della loro vecchia scuola materna, la quale non vedevano l’ora di finire il più presto possibile per avventurarsi nel mondo delle elementari e delle superiori, nel mondo che per loro era da adulto.
Ma solo quando sarebbero cresciuti avrebbero rimpianto quelle giornate passate a riunire i grandi tasselli dei puzzle con i quali si divertivano, il rincorrersi nel cortile della scuola, a giocare a nascondino, a imitare i personaggi delle loro serie tv preferite litigando per essere il protagonista.
Da lì a qualche anno avrebbero dovuto rimboccarsi le maniche e aprire i libri, magari prendendola sempre alla leggera, perché dopotutto si parlava solo di sei anni in preparazione a quelli successivi di serio studio e di serio impegno. Ma avendo appena cominciato sarebbe sembrato a tutti quei piccoli inesperti una cosa già difficile.
Tutti quei piccoli bambini, che la notte prima andarono a dormire come di consuetudine alle ore nove ma che ci misero più tempo prima di trovare la stanchezza adatta per precipitarsi nel mondo dei sogni dato che l’agitazione per il giorno successivo non aveva intenzione di andarsene. Alle sette e mezza del mattino furono svegliati dai rispettivi genitori, pronti per il loro importante giorno.
Il piccolo Michael di sei anni compiuti il febbraio scorso, stava ancora dormendo sotto le leggere trapunte di color azzurro del suo piccolo letto. Il suo viso docile rilassato lo mostrava come un tenero angelo dai lineamenti orientali ereditati dal proprio padre, a differenza di quei capelli lisci e a caschetto che erano di un castano intenso.
Sognava beatamente sotto al caldo delle coperte, dopo aver passato tutta la notte insonne eccitato per il suo grande giorno, come del resto fecero i suoi compagni. L’unica cosa che voleva in quel momento era dormire, dormire e ancora dormire, vivere quel sogno contorto che in quel momento gli passava per la testa.
Ma i giorni di vacanza erano finiti, da quel giorno in poi si sarebbe dovuto svegliare sempre alle sette e mezza, massimo alle otto, per essere in orario e mai in ritardo.
Nella cameretta entrò la madre, una donna non tanto alta dai capelli biondo tinto che sembravano dessero più sull’oro, che si addolcì come sempre nel vedere il figlioletto così tranquillo mentre dormiva e quasi gli dispiacque risvegliarlo, portandolo al mondo dei vivi.
« Mikey … » sussurrò leggera sedendosi sul lettino del figlio, scostandogli i capelli dalla fronte di un colore nocciola pallido « Svegliati amore … » posò dolcemente un bacio sulla tempia del piccolo che poco dopo aprì i piccoli ma grandi occhi che subito cominciarono a bruciare.
Girata la testa abbastanza per scrutare la madre, la guardò con pietà, pregandola con lo sguardo di lasciarlo dormire ancora, di rimandare a domani il primo giorno di scuola.
Ma era ovvio che quella volta la povera madre non l’avrebbe potuto accontentare.
Tiratolo a forza fuori dal letto, lo spedì immediatamente in cucina, dove il fratellino Jason di ancora quattro anni mangiava i suoi cereali incredibilmente colorati a ritmo della musica che usciva dalla radiolina sul tavolo, che in quel momento mandava una canzone che era diventata il tormentone dell’estate appena finita.
Infatti, appena il bambino di sei anni arrivò in cucina gli scoppiò la testa, dato che era già il terzo giorno di fila che la beccava alla radio e sinceramente non ne poteva più. Al contrario, il piccolo Jason sembrava veramente apprezzare quella canzone bambinesca della quale però non conosceva nemmeno il significato. Infatti mugolò sofferente appena finì, mentre Mike esclamò un Alleluia.
Fatto colazione anche lui con gli stessi zuccherosi cereali ricoperti di glucosio colorato che a volte si scioglieva nella calda ciotola di latte, salì in bagno a lavarsi i denti, salendo su un basso sgabello per riuscire ad arrivare meglio al lavandino troppo alto per la sua corta statura di bambino.
Denti splendenti, viso umido dopo essere stato sciacquato con un getto d’acqua tiepida, era pronto per essere vestito per bene con gl’indumenti che sua madre gli infilava addosso, senza protestare.
In una via non molto distante da quella dove si trovava la famiglia Shinoda, in un quartiere un po’ più malfamato e povero, c’era una casetta un po’ catapecchia, con un tetto a tegole mancanti sotto la testa di quattro persone.
La casella della posta un po’ ammaccata e piena solo di bollette mai pagate, di inutile pubblicità non interessante e di multe, era segnata da un cognome lungo e scritto rozzamente: Bennington.
Quella famiglia era con pochi soldi, nonostante un componente fosse un poliziotto, il quale però doveva mantenere anche due figli ed una moglie pretendente. E quei figli dovevano pure andare a scuola, così era legge.
L’odore di sigarette perenne che circolava per tutta la casa ormai era impercettibile per i componenti di quella famiglia a furia di averci fatto l’abitudine. Pure i loro polmoni un po’ bruciacchiati per il vizio del poliziotto di famiglia ormai smettevano di carbonizzarsi sempre di più.
Il piccolo Chester alle sette in punto, come tutti i maledetti giorni che Dio mandava in terra, si svegliò bruscamente nella cameretta che condivideva con il fratello Brian per colpa dello stupido cane dei loro vicini di casa, una coppietta di spacciatori e ladri che campavano con i loro rispettivi lavori sporchi.
Ogni giorno, alle sette, il cane abbaiava senza un apparente motivo, prendeva ed abbaiava all’aria che gli soffiava addosso. Nemmeno ci fosse stato un postino con cui accanirsi, era completamente solo.
Forse, ogni giorno alle sette di mattina, richiamava tutto il vicinato con i suoi insulsi ma fastidiosi guaii per un minimo di attenzione, anche per un lieve contatto fisico, pure un calcio gli sarebbe bastato, uno schiaffo, qualsiasi cosa.
Peccato che avesse il pelo così rognoso e inzaccherato che faceva schifo persino ai propri padroni che si limitavano a nutrirlo e a lasciarlo libero per il giardino, che invece di un colorito verde ne teneva uno che dava sul grigio.
Il risvegliò fu un incubo per lui, come sempre. Ritrovarsi giorno dopo giorno nella solita situazione di merda, nella quale arrivavano a fine mese facendo sacrifici impensabili per la loro piccola età. Sempre nella solita baracca, sempre i soliti litigi tra i suoi genitori che si chiedevano perché si fossero sposati e perché non si fossero ancora separati, sempre i soliti giorni che doveva passare con la guardia alzata prima che qualcuno lo rapisse o lo derubasse, o che lo violentasse.
Si ritrovò a pancia in giù sul materasso, con la faccia spiaccicata sul proprio cuscino, con la bocca aperta da cui usciva quel minimo di bava che però faceva lo stesso schifo, i capelli boccolosi naturalmente scompigliati.
Già la sensazione di mal di testa del primo mattino gli fece girare le scatole, in più il russare di suo fratello Brian non tanto più grande di lui lo infastidì ulteriormente, dato che aveva il sonno pensante e lui lo invidiava in quanto ad ogni minimo rumore che gli giungeva alle orecchie lo svegliava di soprassalto.
In più quel giorno sarebbe dovuto andare a scuola pure lui, anche se in terza e lui in prima, nonostante avesse già compiuto sette anni. Ma purtroppo all’asilo, due anni prima, era successo qualcosa che non doveva succedere.
Si tirò su dalla sua posizione stramba della prima mattina, stiracchiandosi ed aprendo le fauci in uno sbadiglio, mugolando e facendo scroccare alcune ossa della schiena e delle braccia.
Afferrò il proprio cuscino e lo lanciò in faccia al fratello che dormiva sul letto dalla parte opposta del suo.
« Brian, svegliati che dobbiamo andare! » lo richiamò grattandosi un lato della vita ed avviandosi all’uscita della loro stretta ed umile cameretta priva di qualsiasi gioco, prima che il fratello si arrabbiasse per il modo con cui veniva sempre svegliato.
Scese in cucina facendosi la colazione da solo, cosa che aveva imparato qualche anno prima dopo una lunga serie di scottature e cicatrici ormai quasi invisibili.
Colazione, bagno, vestiti dalle proprie mamme, fotografati ed immortalati dai propri padri – chi si poteva permettere una polaroid – per ricordare quell’importante dì del loro primo giorno di scuola. Tutti i bambini abitanti a Los Angeles erano pronti.
Chi arrivato in macchina, chi a piedi, chi col bus, chi solo col padre, chi solo con la madre, chi con entrambi, alle otto e mezzo in punto ogni bimbo del nuovo anno era nell’aula di psicomotricità, con il proprio enorme zaino sulle spalle colorato e pieno di quaderni immacolati, matite con punte pungenti, pennarelli carichi e pastelli non consumati.
Piccole spalle circondate dalle mani dei propri genitori, mentre quest’ultimi avevano le orecchie tese verso il breve discorso di benvenuto che stava tenendo la preside dell’istituto della scuola primaria.
I loro figli invece erano troppo occupati a guardarsi intorno, a scrutare le altre piccole e candide facce dei loro coetanei i quali di lì a poco, probabilmente, avrebbe visto tutti i giorni, per cinque lunghi anni.
Si guardavano l’uno l’altro, curiosi, ognuno credendosi migliore di quello che in quel momento lo stava fissando, o magari cercando di fare un minimo di colpo verso una bambina che li aveva a mala pena degnato di uno sguardo.
Era incredibile come dei bambini, già a quell’età, riuscivano già a mettersi al confronto, in mostra, cercando di essere migliori tra gli altri, più belli, più intelligenti, più stronzi, più simpatici, più favoriti.
Io ho lo zaino di Iron Man! E io invece di Astroboy! Io del Mazinga Z! come se uno fosse meglio dell’altro. E chi avesse il migliore si sarebbe posto più in alto.
Dopo ben dieci minuti di discorso, in cui la preside spiegò l’organizzazione dell’istituto, parlando bene del servizio mensa di cui in quegli anni si criticava per la scarsa qualità e la pessima prestazione nelle scuole, finalmente prese il fascicoletto con scritte le sezioni delle prime classi e l’elenco degli alunni che l’avrebbero composte.
« Sezione prima A. » cominciò la preside di già cinquanta e passa anni, dove il viso truccato mostrava imbarazzanti rughe che le solcavano gli zigomi, gli occhi ed infine la fronte.
A mano a mano che lei richiamava nomi dei bambini della sezione, quest’ultimi venivano guidati dai genitori fuori dall’aula di motoria e condotti fuori verso quella dove avrebbero passato l’anno.
« Sezione B. »
Il tempo sembrava non scorrere mai quando il fiume dei nuovi alunni usciva dalla palestra, mentre quelli rimanenti aspettavano con impazienza il sentir pronunciare il proprio nome.
« Sezione C: Gregory Johnny Armstrong, Anabelle Baker, Chester Charles Bennington … » il cuore dell’ultimo bambino chiamato scoppiò nel sentire il suo nome essere pronunciato, sentì uno stormo di farfalle girargli per lo stomaco, mentre sia la madre che il padre lo spingevano verso l’esterno della sala da ginnastica.
« … Juliana Peterson, Kevin Juan Salomon, Michael Kenji Shinoda … » il piccoletto tirò per le maniche entrambi genitori conducendoli verso l’uscita, mentre quest’ultimi sorridevano di fronte al suo comportamento eccitato.
Vennero chiamati in totale diciotto bambini, tra maschi e femmine, tra americani e stranieri, tra bianchi e neri. Tutti in un’aula al piano terra dell’istituto. La prima C.
I primi arrivati si fiondarono subito ai posti più lontani dalla cattedra, verso le ultime file tra i banchi bianchi con le gambe rosse, come le loro basse sedie. Ma Chester venne spinto dal padre in prima fila, con l’intenzione di mandarlo proprio davanti la cattedra assicurandosi che non si sarebbe potuto distrarre in alcun modo.
Ma il piccoletto sgusciò dalla presa del padre, fiondandosi agli estremi dell’aula, sempre in prima fila ma attaccato al muro dalla parte di sinistra, inchiodandosi sulla sedia e resistendo ai vari tentativi del poliziotto che cercava di scollarlo di lì. Ma era tutto inutile!
Gli ultimi alunni entrarono nella classe, alcuni sbuffando per non essersi riusciti ad aggiudicarsi le ultime file, altri accontentandosi di ciò che era rimasto. Ed il caro e piccolo Michael sbuffò quando vide che due bambinetti con le stesse cartelle, a quanto pare si conoscevano già prima di allora, si erano presi gli ultimi due banchi disponibili per una coppia di alunni, che però erano nella prima fila e proprio in centro, posto che lui desiderava.
Mugolando tra sé e sé mentre i due genitori si guardavano stupiti dalla voglia d’imparare del figlioletto, Michael si sedette affianco a quel bambino dai capelli boccolosi, dallo zaino scrauso e dalle matite non temperate che spuntavano dal piccolo astuccio aperto.
Si guardarono per un decimo di secondo, quel minimo di tempo per vedersi l’un l’altro come due extraterrestri. Erano l’uno il contrario dell’altro e subito con uno sguardo l’avevano capito, anche se il fatto di aver trovato il più grande nella prima fila lasciava sperare che invece fosse anche lui un assetato di nuove conoscenze.
I genitori dei due bambini si scambiarono un sorriso abbastanza tirato per colpa dell’imbarazzo, mentre nell’aula entrava un uomo sulla trentina d’anni, con capelli castani che arrivavano poco più sopra delle spalle e con un paio di occhiali con le lenti grandi quanto un televisore ma sottili come la leggera montatura che posava sul naso.
« Buon giorno a tutti quanti, buon giorno signori e buon giorno signore. Buon giorno anche a voi signorini. » si rivolse ai bambini « Io sono David Norton, il vostro maestro d’inglese, di geografia e di storia. Spero di accompagnarvi fino alla quinta elementare, nonché di riuscire a farvi arrivare tutti quanti in quella classe. » sorrise mostrando i suoi denti brillanti.
Parlò del programma che avrebbero svolto durante l’anno, delle regole che i bambini avrebbero dovuto seguire per la buona educazione, come gestire le assenze ed i ritardi ed infine consegnò ad ogni genitore la lista dei libri di scuola che avrebbero dovuto comprare assieme al calendario delle festività annuali.
Nessun bambino ascoltava il proprio maestro, tutti erano troppo impegnati a scrutarsi tra di loro, a conoscersi inizialmente con uno sguardo: quello mi sta simpatico, quello antipatico … Pure il piccolo Michael venne risucchiato dall’emozione, non prestando attenzione alle parole del docente ma bensì fissando di sottecchi il suo nuovo compagno di banco.
Aveva delle piccole lentiggini scure che gli macchiavano dolcemente le guance ed il nasino, occhi grandi circondati da palpebre assottigliate, capelli corti ma riccioluti di un castano cenere.
A volte, quando si girava quel poco per contemplarlo meglio, incontrava il suo sguardo, che subito distoglieva per la vergogna di essere stato beccato, perché anche lui a sua volta lo stava  scrutando cercando i suoi particolari che gli avrebbe fatto magari capire che tipo era.
L’unica cosa che lo colpì furono i suoi occhi grandi ma con i lineamenti a mandorla, che non capiva se fossero dati alle sue origini straniere oppure fosse semplicemente nato con quella forma, magari ereditata da uno dei genitori. Anche le sue orecchie a sventola non passarono inosservate.
« Come uscita didattica di primo anno, la classe andrà a visitare una mostra d’arte di Picasso, aperta dal trenta Agosto al quindici Ottobre. Ma noi l’andremo ci andremo il venti Settembre, accompagnati da Thomas Way, il loro maestro di matematica, scienze, musica e motoria. » disse il giovane insegnante, catturando l’attenzione di tutti i presenti, piccoli o grandi che fossero alla parola ‘uscita didattica’.
Era la cosa più eccitante che i bambini potessero provare durante l’anno: distaccarsi per una o più volte durante l’orario scolastico dalla scuola che dopo qualche anno avrebbero visto come una prigione, dire ciao ciao ai libri e a tutto, uscire tutti assieme accompagnati e guidati dai propri insegnanti per la città.
La mostra d’arte quasi a nessuno interessava veramente, gli sarebbe bastato solo scappare da quell’edificio. Soltanto al piccolo Michael si drizzarono le antenne, vibrando come delle matte appena sentì la parola ‘arte’.
A lui era sempre piaciuta, ogni pomeriggio quando ritornava dall’asilo o quando non sapeva che fare prendeva carta e pennarelli e iniziava a comporre dei infantili capolavori colorati, posizionando sia sul tavolo che sul pavimento, ogni luogo era adatta alle sue creazioni.
I suoi genitori, una volta accortisi della grande passione e bravura del loro primogenito, lo spronarono ad andare avanti, ad approfondire la sua grande voglia di creare immagini astratte, animali inesistenti e tutto ciò che gli girava per la testa. All’asilo pure le maestre gli facevano i complimenti, aumentando così la voglia di disegnare nel bambino, che vedeva nel suo futuro l’immagine di un pittore di un artista di grande fama.
A Chester invece l’arte non gli aveva mai fatto né caldo né freddo, per lui era più che altro una perdita di tempo andare ad assistere una mostra, che fosse di un pittore famoso o meno a lui non importava. Credeva che nella vita fosse più importante imparare a difendersi dai mal’intenzionati piuttosto che studiare i fiumi passano per la Francia.
Ma per sua sfortuna, ogni volta che camminava per le vie del suo quartiere era sempre una lezione alla sopravvivenza nonostante fosse ancora piccolo per certe cose.
« Non so se la preside dell’istituto vi abbia già parlato del mio progetto che ho programmato all’inizio dell’estate: si tratta di un club di boyscout, al quale ovviamente possono partecipare anche le future girlscout. In quanto ex istruttore del club di San José, credevo che sarebbe stata un bella idea creare un club della scuola, al quale hanno già aderito alcuni studenti delle classi superiori alla prima. » spiegò il docente tirando fuori delle striscioline di carta « Per chi ne fosse interessato, qui c’è l’orario extrascolastico in cui ci ritroviamo per iniziare ogni pomeriggio dalle quattro e mezza alle sei e mezza nell’atrio all’entrata. Non costa praticamente niente, solo i soldi per l’uniforme e dicei dollari d’iscrizione, che ci permetteranno di comprare i distintivi per i vari gradi del bambino. » distribuì i foglietti a tutti i genitori presenti che contemplarono attentamente il costo dell’uniforme di ben trenta dollari.
Quando i signori Bennington ricevettero in mano quel biglietto si scambiarono veloci un’occhiata complice, sapendo già cosa avrebbe fatto da quel giorno in poi il loro figlioletto, invece di stare in giro per i parchi malfamati della sua zona. Invece i signori Shinoda si guardarono dubitosi sul fatto che il loro figlio avrebbe accettato a rinunciare ad ogni suo pomeriggio per un’attività di gruppo di quel genere.
« Bene, posso dire che per oggi abbiamo finito con le presentazioni. » disse ritornando dietro la cattedra « Se volete colloqui o altro, basta scrivere la comunicazione sul diario dell’alunno. È stato un piacere. » sorrise ai genitori che salutarono i propri figli prima di lasciarli lì ancora per le prossime due ore e mezza.
« Ciao tesoro. » la madre di Mike gli baciò la testa coperta dai capelli a caschetto ben pettinati lavati la sera prima.
« Ciao mamma. » disse lui con la sua vocina.
Il padre gli fece l’occhiolino, dandogli delle pacche affettuose sulla spalla « Ti aspetto in macchina. » disse riferendosi al fatto che da lì a qualche ora sarebbe di nuovo stato fuori da scuola ad aspettarlo con la sua macchina nera a cinque posti.
« Fai il bravo, mi raccomando. » la madre di Chester riprese suo figlio accarezzandogli la nuca.
« Tornerai a casa con Brian, d’accordo? » gli chiese il padre, ma il figlio si limitò ad annuire.
Lui ed i suoi genitori non avevano un bel rapporto, non per chissà cosa, li odiava a priori. Per il loro modo di essere falsi con tutti, perché facevano i bravi ed i simpatici con tutti ma appena gli voltavano le spalle sputavano veleno su di loro. E poi li odiava perché non erano capaci di convivere insieme con serenità, e si ostinava a non capire perché diavolo stessero ancora insieme se in verità non si amavano più.
Quando la classe si svuotò dai genitori e l’unico adulto rimasto fu il loro nuovo docente, quest’ultimo sorrise di fronte a tutti quegli occhioni che lo fissavano spaesati, dopotutto era il loro primo giorno di scuola.
« Bene, fino adesso mi sono presentato io, ma ora tocca a voi. Sotto alle presentazioni, chi comincia? » chiese guardandoli uno ad uno, tutti che fremevano nei loro banchi, sulle loro sedie, mentre nelle loro menti si accalcavano tutte le informazioni che avrebbero potuto riferire.
Ma ovviamente nessuno aprì bocca.
« Non tutti insieme, mi raccomando! » fece alzare un coro di piccole risate che sembrarono un grande e rumoroso ronzio « Allora, cominciamo da qui. » indicò il bambino in prima fila, più attaccato al muro di destra, dalla parte della porta « Come ti chiami piccolo? »
Il bambino di colore con i capelli neri come il carbone racchiusi in tante piccole trecce sussultò imbarazzato e quasi si poté vedere uno spruzzo di rosso d’imbarazzo sulle sue guance scure.
« M-Mi chiamo Leonard. » disse con un filo di voce che fece tendere le orecchie a tutti i presenti per sentirlo meglio.
« Bene, Leonard. Immagino che tutti ti chiamino Leo, non è vero? » chiese il maestro con informalità.
« Sì! » sorrise il piccolo, mostrando il contrasto tra i denti bianchi ed il colore della pelle, scura come i suoi capelli e come gli occhi.
« Cosa ti aspetti dalle scuole elementari? »
« Beh … Credo cose difficili da imparare … » la sua voce si riabbassò di volume in un batter d’occhio.
« Non saranno tanto difficili, se v’impegnerete. E spero che sia chiaro per tutti, perché se la roba che imparerete qui sarà difficile secondo voi, ma solo per adesso, aspettate di vedere il liceo e vedrete come rideremo! » cominciò a girare per i banchi.
« Tu, » indicò una bambina coi capelli castani e lisci raccolti in una coda lunga, piccola nel suo vestito rosa shocking « come ti chiami? »
« Ashley. » rispose la bambina sicura di sé.
« Mi sembri determinata, Ashley. Non vedi l’ora di diventare grande e far vedere a tutti la tua intelligenza, non è vero? »
« Lo farei subito! » rise la bambina, mostrando un dente mancante.
« È così che si fa! » esultò il giovane maestro che si era laureato in filosofia l’anno prima, trovando lavoro la stessa estate in quell’istituto « Mostratemi fin da subito di che pasta siete fatti. Ora, ogni volta che vi chiamerò fatemi vedere la vostra grinta, sempre se l’avete … Tu, lì in cima! » indicò i banchi in prima fila, verso il lato sinistro, dove i due bambini che lo fissavano ebbero un infarto non capendo a chi si riferisse.
« I-Io? » chiese timidamente Michael.
« No, prima l’altro, ma poi arrivo pure da te. Come ti chiami, ricciolo? » fece ridere tutti i bambini, eccetto il ricciolo in questione che diventò rosso dall’imbarazzo.
« Io mi chiamo Chester. » rispose con voce cupa e con freddezza, ma non quella freddezza da chi è pronto a tutto, ma da chi ha voglia di uccidere.
« Oh, Chester … Mi sembri un ragazzo scontroso, o mi sbaglio? » ma il bambino si limitò a scuotere lentamente la testa in segno di dissenso « Che ti aspetti da questa scuola? »
« Tanta noia. » rispose sinceramente.
Il silenzio calò tra i diciotto bambini e l’adulto, tutti mentre fissavano sbalorditi il bambino che aveva dette semplicemente ed innocentemente ciò che pensava e ciò che credeva vero.
« Mi dispiace che la pensi così … » riprese a parlare l’insegnante « Sai, Chester, lo studio sembrerà noioso, anzi lo è. » si avvicinò alla prima fila, ponendosi davanti al suo banchi e chinandosi su un ginocchio per averlo alla stessa altezza.
« Nessuno in questa classe, in questa scuola, in questo paese, mondo e universo, vorrà mai sostituire una partita a calcio con un ora di studio di storia o di matematica. Appena aprirai il libro ti verrà subito voglia di chiuderlo, capiterà a te come capiterà a lui. » indicò Michael che sussultò nell’essersi sentito mettere in mezzo alla discussione
« Ma sai qual è il problema? È che tutti t’insegneranno le cose in modo noioso, in modo da fartele odiare, ma tu dovrai studiarle per forza per avere un futuro. » si rialzò in piedi avvicinandosi alla lavagna ed afferrando un gessetto.
« Io invece cercherò ad insegnare a tutti quanti in modo divertente, perché non voglio che odiate ogni singola cosa che dovrete imparare. » disegnò due cerchi bianchi, uniti in un punto in cui uno entrava nell’altro.
« Sapete cosa sono questi? » chiese alla classe.
« È un sedere! » rispose un bambino dai capelli rossi infondo alla classe, scatenando la risata di tutti.
« Beh, vedetela così: questo sedere è composto dalla chiappa destra con tatuati i numeri dodici, dieci, cinque, sei, nove. » scrisse quei numeri nel primo cerchio « E nella chiappa sinistra invece ci sono tatuati i numeri quarantacinque, due e diciotto. »
I bimbi guardavano la mano del loro maestro muoversi sulla lavagna disegnando quei numeri che per alcuni di loro erano alti, in quanto sapevano contare fino a cento.
« Cosa fate voi, quando avete mangiato tante cose e dopo un po’ dovete andare in bagno? » silenzio, solo i visi rossi di vergogna dei bambini fece capolinea alla domanda « Suvvia, non siate timidi! Uno di voi ha appena detto che questa cosa di matematica sembra un sedere! » li fece di nuovo ridere, mentre alcuni di loro si chiedevano se veramente quella buffonata fosse una lezione di matematica.
« Facciamo la cacca. » rise Chester, mostrando uno splendido sorriso sulla sua faccia di bambino.
« Oh, visto che le cose le sai e che non ti annoiano? Ritornando a noi, lo so che è una domanda stupida dato che siete piccoli, ma chi sa le tabelline? »
I piccoli studenti si guardarono confusi tra di loro, non capendo di cosa stesse parlando. Ma una piccola mano si alzò in aria in modo composto ed una leggera voce disse « Io. »
« Bene, l’avevo detto io che sarei arrivato a te prima o poi. Come ti chiami? »
« Michael, ma tutti mi chiamano Mike. » disse con un filo di voce, quella fievole voce candida.
« Bene Michael. Mi sai dire, allora, quali tra questi tre numeri nella chiappa destra, moltiplicato per un altro numero, è uguale a quarantacinque? » chiese il docente, mentre il piccolo Michael cominciò a vociferare sotto voce tra sé e sé, dicendo un susseguirsi di numeri in un modo che agli altri pareva confuso. Infatti anche il suo nuovo compagno di banco lo squadrò perplesso.
« Trenta, trentacinque, quaranta, quarantacinque … Il cinque! » esultò sicuro di sé.
« Bravissimo, il numero cinque! E con quanti numeri si moltiplica? »
« Con il … nove? » chiese con la paura di aver sbagliato.
« Giusto! E adesso lo mettiamo qui. » disse scrivendo un nove nel punto in cui i due cerchi s’incontravano « Adesso … Sapresti dirmi quali numeri, presenti qui, moltiplicati fra di loro fanno diciotto? »
Lo sguardo di Michael passò ripetutamente quei due insiemi di numeri, leggendoli e rileggendoli, cercando di capire quali due componessero la risposta giusta, facendo un miliardo di semplici calcoli a mente che per lui sembravano difficilissimi, quasi impossibili.
« Il due … ed il … nove? » chiese con fievole voce.
« Ottimo! Ma, dato che il numero nove è già pronto per finire nel water, noi non lo scriviamo. »
La campanella della scuola squillò rintronando tutti i bambini con il suo suono stridulo e fastidioso, facendoli saltare tutti per aria per lo spavento e avvertendo tutti quanti che era passata mezz’ora ed era il momento del cambio d’insegnante e dell’intervallo.
« Beh, è un peccato doverla finire così, dopotutto ci stavamo divertendo … » disse dispiaciuto il giovane maestro riponendo la sua roba nella semplice borsa di lavoro in canapa verdastra « Almeno vi ho dimostrato, anche se per poco, che imparare non significa annoiarsi! » fece un occhiolino ad il piccolo Chester che sorrise imbarazzato grattandosi la testa.
« A domani … Ah, ho un compito per voi. » tutti i piccoli alunni tirarono fuori dai loro zaini i propri diari dei super eroi o della Barbie « Domani, fate una piccola presentazione su di voi, su cosa vi piace fare, il vostro passatempo preferito, la vostra famiglia, di tutto! Parlate di voi stessi. E adesso potete godervi in pace la vostra prima ricreazione da bravi scolari. »
Tutte le matite ricedettero sul banco dopo essere state abbandonate dalle piccole mani dei bambini, che subito cominciarono a ravanare nei propri zaini alla ricerca delle loro merendine, dei succhi di frutta o di altro di commestibile e sfizioso.
Ma Chester non fece nient’altro che fissare i suoi nuovi compagni guardare meravigliati i loro snack lasciati dalle proprie mamme la sera prima quando gli prepararono la cartella, perché lui invece non poteva permettersi anche qualche cosa da mangiare in più, sarebbe stato come uno spreco in quanto era benissimo capace di arrivare all’ora di pranzo.
C’era chi si alzava semplicemente e chi usciva addirittura dalla classe, per andare a salutare qualche suo vecchio compagno d’asilo che era stato messo in un’altra sezione, c’era chi andava in bagno o chi girovagava per i corridoi, stando sempre sotto lo sguardo del proprio docente, oppure chi restava tranquillamente al proprio posto.
I due bambini della prima fila al centro, con lo zaino uguale, tirarono fuori due merendine a loro volta identiche ridendo di fronte alla loro uguaglianza. La piccola Ashley dal vestito rosa si alzò solamente per poi risedersi affianco ad un’altra bambina dal vestito azzurro come il cielo del primo mattino, candido, che risaltava il colore dei suoi capelli di color castano intenso, con un sorriso stampato sulle piccole e sottili labbra quando vide la sua amica sedersi affianco a lei.
Leo, il bambino di colore, rimase seduto al suo banco, contemplando la brioche della Ferrero tra le sue piccole mani. Il bambino dai capelli rossi era troppo impegnato a scarabocchiare il proprio banco con i pennarelli per poter consumare il proprio cibo al cioccolato che gli si stava sciogliendo in mano.
Il bambino dai capelli boccolosi quasi si schifò di fronte a tutto quello spreco di cibo e d’inchiostro, non riusciva a credere che veramente certi bambini fossero così viziati e così ingenui da usare e sperperare cose che per altri magari sono impensabili.
Due bustine di cocaina, pensò con frustrazione il piccolo che già aveva conoscenze con quelle brutte sostanze. Forse anche tre e potrei pure io possedere così tanti pennarelli.
Non che avesse già avuto esperienze con certe sostanze stupefacenti, ne aveva solo già sentito parlare da suo padre, che a volte incastrava vari spacciatori illegali in giro per la città. Ed il piccolo, ascoltando i vanti del genitore, aveva capito col tempo cos’era la cocaina, a cosa serviva, quanto poteva costare e particolarmente quanto fosse desiderata, soprattutto nel suo quartiere malfamato.
« Tu non ce l’hai la merenda? » una piccola voce lo richiamò al suo fianco, era il suo compagno di banco dagli occhi a mandorla che gli aveva chiesto il motivo del suo digiuno, non capendone il perché.
« No. » in quel momento le loro voci sembravano così uguali, candide e squillante, come i bambini che erano.
« E perché? »
« Mio padre dice che dobbiamo risparmiare, e che posso anche non mangiare quando siamo a scuola, tanto poi pranziamo. » rispose sinceramente, non badando al fatto che gli stava praticamente descrivendo la sua grave situazione economica.
« Ne vuoi un pezzo? » chiese allora Michael, porgendogli metà della sua merenda fatta da due fette di pan di spagna ed in mezzo una glassa rosea quasi rossa di ciliegia che oltre alla dolcezza rilasciava anche asprezza.
« Grazie. » abbozzò un sorriso cercando di nascondere la sua espressione sorpresa nel vederlo così gentile e disposto a condividere la sua roba.
Non gli era mai capitato, lui era cresciuto in un mondo di avarizia ed egoismo, sapeva che tutti i bambini erano stronzi, pronti a sputtanarlo appena potevano e metterlo nei casini, prenderlo in giro per ogni suo minimo difetto, discriminarlo per cose di cui non aveva colpa, emarginarlo e fargli odiare la vita nonostante la tenera età. E tutte quelle cose le aveva vissute sulla sua pelle.
Ma adesso c’era un bambino che non lo derideva per i capelli, per le lentiggini, per i suoi problemi familiari. Anzi, gli stava offrendo del cibo, anche se era in quantità minima, cosa che però a lui importò poco dato che s’interessò più che altro per il gesto.
Il pezzetto finì subito tra le sue fauci, masticandolo e assaporandosi il suo gusto per bene, sentendo lo zucchero ed il colorante invadergli la bocca.
Solo una volta aveva sentito quel gusto, quando l’ultimo giorno di scuola all’asilo, l’anno prima, avevano fatto una piccola festa per le classi che non avrebbero più frequentato quella scuola. C’era un tavolo basso e lungo, pieno di tante scodelle riempite di patatine e dolci, tra cui alcune caramelle alla ciliegia.
Quella fu la prima volta che partecipò ad una festa, nessuno l’aveva mai invitato, perché lui era sempre stato odiato da tutti i suoi compagni che a sua volta lui odiava. Ma non perché lui era cattivo e scorbutico, ma perché loro lo facevano diventare prepotente ed irascibile.
Le loro piccole testoline che tanto avrebbe voluto spaccare non conosceva ancora la parola ‘tatto’, e quindi ogni volta che aprivano bocca per sfotterlo non riuscivano a contenersi.
« Ti piace? » chiese Michael vedendolo con lo sguardo perso.
« Sì, mi piace la ciliegia! » sorrise.
« Piace tanto anche a me. » sorrise a sua volta compiaciuto per i loro gusti in comune « Come ti chiami? »
« Chester Bennington, tu? »
« Io Michael Shinoda, ma mi puoi chiamare Mike. »
« Ti piace Goldrake? » chiese il piccolo Chester vedendo il diario rappresentante Actarus, il protagonista, con il suo robot alle spalle, alto e possente.
« Sì! » afferrò il suo grande diario, sfogliandolo assieme al suo nuovo amico.
Amico, persona che Chester non aveva mai avuto veramente. I suoi ‘amici’ dell’asilo erano solo un gruppo di bambini, tra maschi e femmine, che tendevano a metterlo sempre in disparte.
Il suo vero ed unico vero amico rimasto era il suo cuscino, l’unico che lo accoglieva ogni volta che piangeva.
I venti e passa minuti di pausa passarono così in fretta che sembrarono quasi la metà, proprio perché i due bambini si divertirono tra di loro, anche stando semplicemente seduti, guardando solamente un diario e commentando i personaggi e la trama di quell’anime.
Di nuovo la campanella stridente richiamò l’attenzione di tutti gli alunni che, borbottando fragorosamente, se ne ritornarono dietro ai propri banchi bassi.
« Bene, è stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton prendendo in mano la sua borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché è una regola importante svolgere sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor Way, è un ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra noi … » sussurrò alla classe « È una persona noiosissima! » fece ridere i piccoli che però non erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad una nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe poi diventata per loro quella persona, così importante e che avrebbe lasciato il segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe detto nel corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Linkin Park / Vai alla pagina dell'autore: Chaike