A Camilla,
che l’ha capita e mi ha capita.
Alle
persone che il destino unisce.
Ognuno di noi viene al mondo
con un destino da compiere.
C'è chi è destinato a grandi
imprese di guerra, chi a immense opere artistiche, chi a comandare popoli, chi più
umilmente è destinato a lavorare giorno dopo giorno, senza sosta. Ma quando
nasciamo non siamo che dei bambini inermi. Nessuno sa, in quell'ora, a cosa
siamo destinati. Può esservi un principe destinato all'oblio della storia, e un
uomo comune le cui gesta saranno immortali. Ci sono poi strade destinate ad
incrociarsi nei modi più impensabili, senza apparente ragione.
Quando, quel 15 agosto del
1769, una giovane donna della nobiltà corsa portò a compimento la sua quarta
gravidanza, nessuno sapeva a cosa sarebbe stato destinato quel bambino, dubitando persino della sua
sopravvivenza alla delicata fase dell'infanzia.
Esattamente come quando una
bambina dai capelli rossi vide la luce nella città dei Papi alcuni anni dopo,
tutti immaginavano per lei una vita semplice e felice. Erano ignari di quanto
tortuoso sarebbe stato il suo cammino, né che un tragico evento l'avrebbe
portata a incrociare la strada di quel bambino ormai dodicenne.
Nessuno poteva immaginare
che quel bambino un giorno avrebbe governato su quasi tutta l'Europa e che
quella bambina gli avrebbe rapito il cuore.
Ci sono persone destinate ad
amarsi.
E questo era il destino di
quelle due giovani vite.
Maria Claudia Montel nacque
il diciotto giugno del 1781, unica figlia di una potente famiglia romana. La
madre, una contessa francese, inconsapevole delle conseguenze che avrebbe avuto
il suo gesto, si premurò affinché fosse tenuta a battesimo dalla sua amica
d'infanzia, Maria Josephe Rose Tascher de la Pagerie, moglie del visconte di
Beauharnais. Chi avrebbe mai potuto immaginare, vedendo la bella viscontessa
con la bambina in braccio davanti al fonte battesimale, come quelle vite si
sarebbero irrimediabilmente intrecciate?
Sette
Sette
sono i colori dell’arcobaleno, le chiavi musicali, i vizi capitali, i cieli
dell’antichità, le arti liberali.
Se
dovessi cristallizzare la mia vita in momenti, questi sarebbero sette.
Il
primo nel 1796, avevo quindici anni, un passato intriso di sangue e un futuro
ancora incerto.
Il
secondo nel 1800, quando sfiorai la morte.
Il
terzo nel 1804, nella più imponente Cattedrale del mondo cristiano.
Il
quarto nel 1807, quando quasi scivolai e una mano afferrò la mia.
Il
quinto nel 1811, l’unica debolezza.
Il
sesto nel 1814, colsi l’ultimo respiro di colei che era stata per me come una
madre.
Il
settimo nel 1820, un’ultima lettera, un ultimo amore.
Sette
istanti, sette battiti del cuore. Ho amato un solo uomo in tutta la mia vita,
ma ancor di più ho amato una donna, in una scia di amori e tradimenti durata venticinque
anni.
Mi
chiamo Maria Claudia Montel e questa è la mia storia.
1796 – Violino
La
prima lezione che ho imparato in vita mia è stata: “non importa quanto sangue
nobile hai nelle vene se poi ti comporti da lavandaia.”
La
seconda fu che la suddetta lavandaia era una signora in confronto a molte altre
nobili che frequentavano la casa, dunque non mi preoccupavo troppo quando
venivo rimproverata per le mie maniere.
La
sala della musica era stata rinominata " Sala delle torture" sin da
quando avevo iniziato a prendere lezioni di violino, non solo perché la mia
espressione quando attraversavo i corridoi per recarmici era simile a quella di
un condannato a morte, ma anche perché ero così poco portata che quelle due ore
erano una tortura per l’intera popolazione della casa.
L’unica
che sembrava sopportare stoicamente i miei tentativi di suonare il violino era
la nostra signora e padrona, la regina di quel luogo che era divenuta la mia
dimora da un anno. A soli quindici anni avevo visto la morte così spesso che a
volte me ne sentivo addosso cinquanta, e probabilmente sarei impazzita da tempo
se lei non mi avesse salvata infinite
volte.
La
prima a cinque anni, quando la nave su cui viaggiavamo dall’Italia alla Francia
naufragò: donne e bambini avevano la precedenza sulle scialuppe, ma mia madre
si rifiutò di abbandonare mio padre e mi affidò alla governante, con l’ordine
di portarmi dalla sua amica d’infanzia, certa che si sarebbe presa cura di me.
Non
ricordo molto di loro, ma ho ricordi vividi di quella notte, degli occhi indaco
di mia madre, così simile ai miei, colmi di lacrime e dolore; i loro corpi non
furono mai ritrovati, ma io fui accolta nella casa di una donna sconosciuta che
per mesi mi sembrò un angelo. Bella ed elegante, amavo trascorrere le ore ad
ascoltarla chiacchierare, nonostante il più delle volte non sapessi di cosa
parlasse, beandomi della sola melodiosità della sua voce.
Mi
accolse e mi amò come una figlia ed io la ricambiai senza remore perché, con la
perdita dei miei genitori, lei era rimasta tutto ciò che avevo. Suo marito
viveva lontano, la figlia era troppo concentrata su stessa per prestarmi
attenzione, ma suo figlio fu sempre un buon amico per me, tanto che credo che
per qualche tempo si sia ventilata l’ipotesi di un matrimonio. Avrei accettato,
se lei me l’avesse chiesto, ma non si arrivò mai a tanto.
Con
la capacità di adattamento tipica dei bambini, nel giro di un anno mi ero
perfettamente adeguata a quella nuova vita, perdendo l’accento italiano,
eredità paterna, per diventare una piccola copia della mia francesissima madre.
Capelli rossi, occhi chiari e fisico filiforme, cercavo al contempo di
somigliare alla donna dei miei ricordi e a quella che ammiravo ogni giorno, non
possedessi la seducente indolenza della mia signora.
Per
quanto mi sforzassi ad essere riversa, però, alle chiacchiere in salotto avrei
sempre preferito lunghe cavalcate solitarie, e fintanto che la mia signora
fosse stata contenta di me, avrei proseguito per la mia strada.
Poi,
però, quando tutto sembrava perfetto, la crudeltà della vita si abbatté
nuovamente su di me: durante il regime del Terrore la mia signora fu
imprigionata e io e sua figlia fummo affidate ad un convento.
L’anno
prima l’inizio della mia storia, nel 1795, appena uscita dalla prigione di Carmen,
la prima cosa che fece fu venire da noi; pochi mesi dopo, rientrammo in questa
casa e ci fu impedito di abbandonarci ai cattivi pensieri e al ricordo di chi
non c’era più, tra cui suo marito.
La vita va avanti.
Ancora
adesso, dopo anni, mi sembra di sentirla pronunciare quelle parole con il
sorriso sulle labbra e le ombre del Terrore ancora lì ad offuscarle gli occhi.
Mi
feci forza, per lei. Ricostruii la mia vita fatta a pezzi con la tranquillità
di chi non ha mai fatto altro e impedii alle tenebre di trascinarmi giù.
Ricordo
gli oscuri abissi del mare la notte in cui i miei genitori morirono, ricordo il
freddo, il dolore, e la sua mano tesa verso di me quando fui fatta scendere
dalla carrozza. E ancora il calore della sua pelle quando mi strinse a sé, il
suo profumo.
La vita va avanti.
Poi
un giorno la vita andrò avanti davvero, la vidi tornare a casa con gli occhi
che sprizzavano gioia e speranza nel futuro: le era stata fatta una proposta di
matrimonio.
Quel
giorno il mio mondo crollò nuovamente, quella notte la trascorsi insonne
chiedendo a Dio di perdonare l’invidia che per un attimo aveva offuscato la mia
razionalità, che io, sciocca ragazzina infatuata di un uomo inarrivabile, avevo
provato nei confronti dell’unica persona davvero importante nella mia vita.
Il
giorno dopo, mi offrii di accompagnarla a scegliere il vestito, con il cuore in
pace e il sorriso sulle labbra.
Fu
una giornata intensa e il pomeriggio, quando rincasammo, indossai l’abito da
cavallerizza e partii insieme al mio cavallo verso il sole, lasciando che i
raggi mi accarezzassero e mi purificassero.
1796,
il primo dei sette istanti.
Scesi
da cavallo senza curarmi dei capelli che la cavalcata furiosa aveva fatto sfuggire
dal cappellino, delle gote arrossate e dell’abito in disordine. Fu allora che
lo vidi.
Non
era bello, ma tutto nella sua persona sprigionava possanza e potere, incutendo
rispetto e soggezione.
-Perdonate,
mia signora, sono stato cacciato da casa e ho pensato di rifugiarmi nelle
scuderie. È uno splendido esemplare il vostro,- disse accennando al mio
purosangue nero, -posso chiedervi come si chiama?
Arrossii,
ma qualcosa di caldo si diffuse nel mio petto e nella mia anima. –Violino,
signore.
-Violino?
-Generalmente
scappo qui quando dovrei prendere lezioni di musica, e così è solo una bugia a
metà quando dico di essere con il violino.
Mi
sorrise, per poi scoppiare a ridere di cuore subito dopo. –Molto astuto
signorina. E voi, invece, siete?
-Claudia
Montel, signore.
-Oh,
la pupilla. Io sono...
-So
chi siete,- esclamai prima di potermi fermare, addolcendo la frase irriverente
con un sorriso, -Nonostante la mia signora mi ripeta spesso che la politica non
è cosa da donne, non posso reprimere la mia curiosità: ho seguito le vicende
della Corsica, dell'Italia. Non si parla che di voi a Parigi, la stella nascente della nostra Repubblica.
Forse
fu allora che tutto cambiò, in quella stalla, grazie alle parole di una sciocca
quindicenne che non aveva ancora imparato a tenere a freno la lingua. Forse, se
avessi taciuto, le cose sarebbero andate diversamente. Forse no.
-È
un onore per me conoscevi, signor Buonaparte.
1800 - Soprano
Lo
rividi solo un’altra volta, il giorno del matrimonio, poi Joséphine mandò sia me
che sua figlia Hortense al collegio per signorine fondato da Madame Jeanne Campan, prima cameriera della regina
Maria Antonietta e una delle poche persone intime dei reali di Francia sfuggite
al Terrore. Ne soffrii, mi sentii respinta e sola, come se avessi perso di
nuovo la mia famiglia; solo il tempo mi fece comprendere che si trattava solo
di una separazione momentanea, sarei tornata da lei –da loro- e mi sarei dovuta far trovare preparata per frequentare l’élite di Parigi senza far sfigurare la
mia madre adottiva. Cambiai molto, in quei quattro anni, Madame mi fece
diventare la nobildonna che ero per nascita, pur non essendolo mai stata
davvero, e se io e la musica continuavamo a camminare su due strade parallele
che non si sarebbero mai congiunte, nessun’altra mancanza mi si sarebbe potuta
rimproverare.
Quattro
anni di lezioni per inventarmi ancora, e ancora, pronta ad interpretare
l’ennesimo ruolo che il destino mi chiedeva di portare in scena, ad indossare
un’altra maschera, un altro sorriso di circostanza. Vivevo per il futuro,
vivevo delle lettere che ogni tanto ricevevo da Joséphine, ma c’era qualcosa –un vuoto, un’assenza, una pagina bianca-
che mi torturava giornalmente. L’ora di attualità era quella che preferivo
perché vi era un solo nome che riecheggiava sulle labbra di tutti.
Tranne
che su quelle della moglie.
Si
vociferava di un amante, o di più d’uno, e nonostante tutti facessero
attenzione a non parlarne in presenza mia e di Hortense, le mie orecchie
coglievano ogni dialogo sulla coppia del momento. Mi chiedevo perché tacesse e
se lo amasse.
La
sua dialettica le permise di soffocare le voci e le malignità che, se si fosse
trattato di qualcuno meno abile nell’arte della parola, l’avrebbero distrutta,
ma io conoscevo bene Joséphine, avevo visto gli uomini con cui si era
accompagnata dopo la morte di suo marito pur di continuare ad avere uno stile
di vita elevato.
L’amavo,
l’amavo profondamente e non l’avrei mai giudicata, ma proprio a causa di quel
sentimento ero certa che le dicerie fossero fondate e non mi capacitavo di
come, con un uomo del genere come marito, potesse guardare altrove.
Ogni
mattina mi fermavo alcuni minuti in contemplazione di un quadro su Saturno
raffigurato come il dio greco: Kronos,
il tempo. Quel tempo che sembrava scorrere sempre più lentamente e che mi
schiacciava nell’inerzia delle mie giornate, tutte identiche, persino nei
battiti del cuore che si susseguivano monotoni, privi di qualsiasi emozione.
Io
agognavo emozioni.
A
novembre del 1800 finalmente Joséphine mi richiamò a casa: Hortense sarebbe
rimasta ancora presso Madame, ma voleva me di nuovo al suo fianco. Giunsi a
Parigi il quindici dicembre e la mia signora mi accolse nella sua nuova dimora,
più splendente che mai: tutto in lei sembrava dichiarare la sua fedeltà e la
sua abnegazione al marito. Commissionò per me uno splendido abito violetto e
fino alla sera della vigilia non feci che prepararmi all’evento, alla serata
all’Opera in cui sarei stata al fianco della moglie dell’uomo del momento.
E
l’avrei rivisto.
Il
mio umore, in quei giorni, fu quasi un’altalena che mi trascinava dall’emozione
al terrore, dalla felicità perché l’avrei rivisto alla paura di come avrei
reagito a quel contatto; ero giovane, sì, ma avevo conosciuto abbastanza la
vita da essermi lasciata alle spalle qualsiasi frivolezza infantile, qualsiasi
sentimento adolescenziale che arriva e se ne va in battito d’ali. La mia vita,
il mio amore, era tutto o niente. Buonaparte mi avrebbe sconvolta ancora, come
aveva fatto anni prima, o i miei sentimenti si sarebbero rivelati solo frutto
di una mente troppo lavoratrice e si sarebbero infranti alla prima parola?
Quali
sentimenti, poi? Non sapevo come classificarli, o forse avevo solo paura a
farlo. Mi convincevo di provare ammirazione, stima, venerazione quasi, ma nulla
più. Continuavo a ripetermi che l’infatuazione era passata, io ero cresciuta.
Compresi
di essermi sbagliata non appena scesi in salone. Lo trovai da solo, in attesa
che sua moglie lo raggiungesse, tra le mani un dolce proveniente dalla migliore
pasticceria di Parigi.
L’amore.
Quello
che credevo passato, quello che non avrei mai dovuto provare, quello che era
cresciuto nel mio cuore anno dopo anno, attraverso i racconti delle sue gesta,
e che avevo scambiato per semplice ammirazione. In quel momento
l’ineluttabilità del mio destino mi serrò la gola e mi inchinai per guadagnare
preziosi istanti in cui cercai di ricompormi: quando mi rialzai, nulla di ciò
che avevo nel cuore traspariva al di fuori.
Napoleone
mi si avvicinò e io mi vidi riflessa nei suoi occhi, non più una irrequieta
bambina, ma una elegante giovane donna fasciata da metri di stoffe preziose e
da una mantella di ermellino.
-Assaggiate.
Nessun
saluto, nessun convenevole, solo le sue dita che tenevano stretto un pasticcino
al caramello su cui posai appena le labbra. Gola.
-Joséphine,
mi aveva detto che eravate cresciuta, ma non avrei mai pensato…
La
frase gli morì in gola e io mi schermii, allontanandomi di corsa dall’unico
uomo che non avrei mai dovuto –potuto-
desiderare; rispettò quelle distanze e non parlò ulteriormente, ma la tensione
era così palpabile che mi chiesi se anche la mia signora se ne fosse accorta
quando entrò nel salone, bella ed eterea. Quando salii sulla carrozza mi
sedetti davanti a loro, rintanandomi in un angolo e cercando di non guardare le
loro mani intrecciate, di non udire i bisbigli innamorati. Mi ero illusa che
tutto fosse cambiato, in quegli anni, che mi sarei innamorata di un giovane e
promettente francese, che mi sarei sposata, che sarei stata felice e avrei
ricordato con affetto quell’infatuazione giovanile per il marito della mia
madrina. Ero stata così sciocca. Lo guardavo e tutto ciò che provavo era amore:
non desiderio, ma amore e ammirazione per un uomo che coltivava un sogno, un
progetto, e che da esso si era fatto guidare giorno dopo giorno, senza mai
perdere la via.
Mi
voltai verso di lui nello stesso istante in cui i suoi occhi si spostarono
dalla moglie per posarsi su di me, poi tutto divenne solo un caos di esplosioni
e urla, in cui egli fu l’ultima persona che vidi prima di svenire.
1804 - Mezzosoprano
Quella
notte scampammo all’attentato, senza riportare particolari ferite; una
cicatrice lunga quanto un pollice probabilmente non sarebbe mai sparita del
tutto dalla mia caviglia, ma eravamo vivi, tutti,
ed era l’unica cosa che contasse.
Quattro
anni prima, Napoleone Bonaparte era sopravvissuto a una congiura sventata e a
un attentato, quattro anni dopo si apprestava ad essere incoronato Imperatore
dei francesi.
I
pareri al proposito erano tanti e contrastanti, come sempre accadeva quando si
parlava di Lui: tanti ricordavano con odio la monarchia, ma altrettanti
piangevano ancora le vittime del Terrore. Di fatto, nessuno sembrava poterglisi
opporre.
Imperatore
dei francesi. Continuavo a ripetere quelle semplici parole assaporandole sulla
lingua quasi fossero miele e solitamente le ore che avrei dovuto trascorrere a
prendere lezioni di grammatica erano il luogo perfetto per immaginare nella mia
mente l’intera cerimonia, quando avrei indossato un abito bianco e avrei tenuto
il mantello rosso di Joséphine, futura Imperatrice.
Sapevo
che la mia signora aveva temuto di esser messa da parte, lasciata per una donna
più giovane e di nobili natali che assicurasse al neonato impero alleanze e
successione, ma non mi ero affatto stupita quando Napoleone l’aveva voluta con
sé.
Ricordo
che una notte, mentre sedevo in biblioteca approfittando della quiete per
leggere, lo colsi ad osservarmi dall’uscio della porta; nonostante vivesse
ufficialmente in quella casa, era raro che vi si palesasse e ancor più raro che
io lo incontrassi, vivendo nell’ala riservata alla moglie in cui non metteva
mai piede.
-Cosa
leggete?
-Una
raccolta di miti greci.
Egli
annuì e mi si sedette accanto, sul tappeto persiano tanto amato da Joséphine.
Era sempre così, con lui: altero e rigido con tutti, soprattutto fuori da
quelle mura, ma affettuoso con me, complice quasi. Amico, sempre ammesso che un
uomo come lui potesse mai avere un’amica come me.
-Un
giovanotto banale che desiderasse impressionarvi a questo punto potrebbe
paragonarvi a Venere, mia bella Claudia.
Ricordo
di essere arrossita così violentemente che neppure la penombra poté celarlo. Io
amavo, sì, ma di un amore puro, scevro da qualsiasi carnalità: l’avevo capito
da tempo ormai, e avevo smesso di negarlo a me stessa, ma custodivo quell’amore
in segreto, in silenzio.
-Io
non sono Venere, mio signore, ma voi siete senza dubbio Giove.
Sorrise,
annuendo appena. –E Joséphine sarà la mia Giunone, come è giusto che sia.
Avevo
smesso di soffrire, di essere gelosa: non sarebbe stato giusto e non avrebbe
avuto alcun senso. Amavo entrambi, immensamente, e tutto ciò che mi rimaneva
era una melanconica rassegnazione per ciò che non avrei mai avuto.
-E
io, mio signore? Se non Venere, chi?
-Eos,
la dea dell’aurora, perché quando voi siete con me, Claudia, tutto assume le
connotazioni dell’alba, di una nuova nascita, della speranza.
Mi
schermii, alzandomi in piedi ed allontanandomi da lui: aveva taciuto, ma la
ricordavo perfettamente, sulla relazione di Eos con Zeus, corrispondente greco
di Giove.
-Devo
andare.
-Claudia!
Mi
afferrò un polso, trascinandomi verso di lui. –Claudia…
Un
sussurro, un sospiro.
Oh,
quanto avrei desiderato abbandonarmi a lui, cedere a quel desiderio che
sembrava farmi impazzire, ma poi i miei occhi caddero su un ritratto di
Joséphine e bastò quello per darmi la forza necessaria a scappare.
Non
lo rividi più, fino al giorno dell’incoronazione nella più imponente Cattedrale
del mondo cristiano, Notre Dame. Seguii la mia signora lungo la navata, con il
cuore che batteva furioso in attesa del momento in cui l’avrei visto,
chiedendomi se sarei stata in grado di sopportare il dolore. Entrammo a
cerimonia già quasi conclusa e, inchinata davanti all’altare, lo osservai porsi
sul capo la corona, in un gesto che simboleggiava tutto il suo potere, poi
prese quella dell’Imperatrice e si avvicinò a noi. Nell’istante in cui la
corona sfiorò i capelli che io stessa avevo acconciato, egli mi guardò. Non più
uomo, ma Imperatore, e benché avesse affermato che il suo potere derivava dal
popolo e non da Dio, mai come in quel momento sembrò uguale a Giove, superiore
a tutti noi.
E
quello sguardo aveva un unico, chiaro scopo: mostrarmi a cosa avevo rinunciato,
cosa avrei potuto avere e cosa mi ero lasciata scivolare dalle dita come fosse
sabbia, ma avevo ventitre anni, ero folle d’amore per quell’uomo che dal nulla
era salito sul trono più importante dell’Europa intera, per i suoi sogni di
unità, per la costante ricerca della modernità.
Non
avrei mai permesso a me stessa di diventare la sua amante, di svilire in quel
modo quei sentimenti.
Era
una strada senza uscita, la mia, nessuna alba mi stava aspettando.
1807 - Contralto
Il
tramonto, più che l’alba, era il momento della giornata che preferivo.
Nonostante fossi una tra le poche anime a non amare Notre Dame, mi ritrovavo lì
davanti ogni pomeriggio, mentre il sole tramontava e tingeva d’arancio la
pietra, creando un’atmosfera magica, da
fiaba, con le ombre che disegnavano strane figure geometriche attorno a me. In
quei momenti, in cui la diversa posizione del sole era l’unico segno che il
tempo stesse trascorrendo anche per me e non si fosse fermato in giornate che
trascorrevano identiche le une alle altre, mi sentivo in pace con il mondo e
con me stessa. Felice. Il Louvre, che un tempo avevo sognato poter chiamare casa, era diventata la mia prigione.
Non
avevo mai desiderato abbandonare la mia signora, ma avevo sempre sognato di
sposarmi, di avere una mia famiglia, dei figli; non avrei mai amato nessun uomo
quanto amavo l’Imperatore, ma desiderato ardentemente diventare madre, più di
ogni altra cosa al mondo. Ero la pupilla dell’Imperatrice, avevo nobili natali
ed ero giovane e bella, sapevo che in molti avevano chiesto la mia mano, ma
tutti erano stati respinti con un secco diniego: non mio, né di Joséphine, ma suo. I giorni diventarono mesi, e i mesi
anni, e io rimanevo sola mentre fanciulle molto più giovani di me mostravano i
propri ventri rigonfi a corte, speranza di vita e amore. A me non era rimasto
nulla, neppure la speranza che egli volesse usarmi come pedina politica, al
pari di Eugene e Hortense: ero destinata ad una vita da nubile, ad osservare il
mio corpo invecchiare poco a poco, insieme alla mia anima.
L’unico
momento di gioia era il tramonto, lì, dove anni prima avevo assistito
all’incoronazione.
Era
un giorno di primavera del 1807, l’aria era tiepida e piacevole e la risata di
un bambino mi raggiunse le orecchie colpendomi con la stessa intensità di una
pugnalata al cuore.
I
ricordi che ho di quel giorno sono confusi e sbiaditi, ma ciò che non
dimenticherò mai è la sensazione di ineluttabilità del mio destino, la
consapevolezza che nulla sarebbe mai cambiato. Mi chiesi quanto avrei impiegato
ad annegare se mi fossi gettata nella Senna e poi rabbrividii: da quanto i miei
genitori erano morti in mare avevo il terrore dell’acqua.
E,
in fondo, sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di compiere quel gesto
disperato. Corsi fino alla carrozza, e poi lungo i corridoi del Louvre,
attirando occhiate stupite e perplesse di cui non mi curai neppure un attimo.
Non
so se il destino ebbe pietà di me o fu solo un caso, so solo che quando crollai
ai piedi di Joséphine, ella mi tese una mano inaspettata.
-Fatemi
maritare, vi prego.
Non
era solo il desiderio di maternità, ero ormai rassegnata all’idea di non
diventarlo; era soprattutto il bisogno struggente di fuggire da lì,
dall’immutabilità della mia vita che rischiava di soffocarmi. Non ero nulla.
Non avevo nulla.
Solo
lei.
-Pensavo
non volessi.
-Non
ho mai desiderato altro. Non ho mai parlato per rispetto, ma ho sempre sperato
che prima o poi…
-Perché
ora?
I
suoi occhi erano guardinghi, come mai lo erano stati con me, e mi fece male,
terribilmente male: tutto ciò che avevo sempre desiderato era renderla felice e
fiera di me, e avevo fallito.
-Credevo…
ti compiacessi delle sue attenzioni, che fossi diventata superba.
Fu
come morire, quell’istante. Lei sapeva, forse aveva sempre saputo, eppure il
suo amore per me non era mai mutato.
-Mia
signora, io ho sempre desiderato solo essere degna di voi.
Joséphine
si alzò dal suo divano e mi prese le mani, facendomi rialzare. –Piccola
Claudia, siamo noi a non essere degni di te, io per prima. Hai l’aspetto
gracile di un folletto, ma ha il cuore bellicoso di Marte. Avrei dovuto fare di
più per te.
-Potete
fare qualcosa ora. Vi prego.
-Henri Puyguilhem, marchese di Montpensier, è stato qui pocanzi. È rimasto vedovo
da quattro anni e ora vorrebbe risposarsi per generare un erede. Non frequenta
la corte ed è di antica nobiltà, per cui non credo tema le ire dell’Imperatore,
ma…
-Nessun ma, mia signora. Starò benissimo.- Una vita lontana
dalla corte, una casa da dirigere, un figlio… Non avrei potuto desiderare di
più. Mi sarei inventata di nuovo e, anche se avrei costantemente sentito la
mancanza della coppia imperiale, sapevo che era la scelta giusta.
-Claudia, ha il doppio della tua età.
-Non cerco l’amore mia signora, ma la serenità. Pensate che
potrò trovarla?
Joséphine mi prese il volto tra le mani e annuì. –Mi
mancherai.
1811 – Tenore
In
quattro anni, la mia vita cambiò drasticamente. Claudia Montel si trasformò
nella marchesa di Montpensier
e io e mio marito diventammo famosi come mecenati: persino David si degnò di
venirci a trovare, realizzando lo schizzo di un ritratto mio e di mio figlio.
Josephe Henri Puyguilhem nacque un anno dopo le nozze e
divenne il nuovo marchese di Montpensier ad appena
due anni. Ero stata una moglie felice, anche se una febbre troppo violenta mi
aveva portato via prematuramente mio marito; Henri condivise il mio letto solo
il tempo di generare un figlio, successivamente la nostra rimase una relazione
puramente intellettuale.
Anche la Francia cambiò, in quegli anni: mi ero
illusa che osservare le vicende da lontano le avrebbe rese più sopportabili, ma
sbagliavo. Da un anno sul trono francese sedeva una donna che non era
Joséphine, una nipote della regina che noi stessi avevamo decapitato, come
infausto presagio che camminava e danzava e cantava tra noi. Perpetuo memento.
Non ho mai conosciuto Maria Luisa, figlia d’Asburgo-Lorena, mio marito non
aveva mai espresso il desiderio di recarsi a corte e io gli fui riconoscente;
avevo rivisto la mia madrina una sola volta, subito dopo il parto, poi mi
nascosi dietro l’impossibilità di lasciare mio figlio per giustificare le mie
mancate visite. Sarei potuta andare alla Malmaison senza timore di incontrare
Napoleone, ma la verità era che non sapevo come avrei reagito anche solo
incontrando lei: lasciare la corte era stato il gesto più difficile della mia
vita, raggiungere un equilibrio era stato un percorso lungo e difficile che,
forse, non si sarebbe mai concluso. Le ferite erano ancora troppo fresche, nel
1811, gli incubi ancora ricorrenti.
Non si sfugge al destino, però, avrei dovuto
saperlo, e con precisione aritmetica ciò che deve succedere, accadrà. Sempre.
Ero
in visita da una vicina quando la notizia arrivò: l’Imperatore chiedeva riparo
per la notte.
Nonostante fossi famose per il contegno sempre
impeccabile, quella fu l’unica volta in cui impiegai alcuni minuti a
ricompormi: fortunatamente la mia ospite non si stupì, giacché la notizia
dell’arrivo dell’Imperatore da un momento all’altro avrebbe creato
scombussolamenti a chiunque. Mi congedai in fretta e corsi a casa, sperando di
non incontrarlo prima di cena: avevo bisogno di tempo, avevo bisogno di
ritornare padrona di me stessa, delle mie emozioni. Napoleone sapeva chi era la
signora di quella casa? Joséphine aveva fatto di tutto per tenergli nascosta
l’identità di mio marito, ma egli aveva spie ovunque.
Padre Stefano, il precettore di mio figlio, mi
comunicò che l’Imperatore era stato alloggiato nelle stanze del conte, proprio
accanto alle mie: rimasi a fissare la porta chiusa per alcuni minuti, cercando
di vincere l’istinto di fuggire o di aprirla, rivelando la mia presenza. Fu una
cameriera a riscuotermi, comunicandomi che il bagno era pronto, ma la congedai
in fretta, bisognosa di solitudine e silenzio.
Erano trascorsi quattro anni e il ricordo del nostro
ultimo incontro bruciava ancora.
Non vi era stato giorno in cui non avessi pensato a
lui. La maternità e la malattia del conte avevano riempito nel bene e nel male le
mie giornate, ma quando di notte mi ritrovavo da sola, la mia immaginazione
correva inevitabilmente a Lui.
Cosa sarebbe successo, di lì a poco, non riuscivo a
prevederlo. Indossai un abito con il corpetto in seta bianco scollato davanti e
una gonna a strisce bianche e gialle, mi feci acconciare elegantemente i
capelli e truccare appena: ero la marchesa madre di Montpensier, ricoprivo
quella parte da ormai così tanto tempo, ma quella notte qualsiasi maschera
scivolò dal mio viso, rivelando semplicemente Claudia, la fanciulla innamorata
di un uomo che non avrebbe mai potuto avere.
Mi aggrappai a mio figlio, mentre scendevo
l’imponente scalinata, e mi sentii così sciocca, eppure il mio cuore palpitava
di felicità: era di spalle ed ebbi alcuni istanti per osservarlo in silenzio
prima che mi notasse. Solo allora mi resi conto di quanto ardentemente mi fosse
mancato. Quando si
voltò e il sorriso gli morì sulle labbra; lo vidi impallidire e seppi che, come
il mio, anche il suo cuore si era fermato.
Padre Stefano si fece avanti per occuparsi delle
presentazioni, ma io non mi accorsi di nulla: mi limitai ad osservarlo,
semplicemente.
-Siete ancora di più bella di come vi ricordassi,
marchesa.
-Voi siete sempre il solito, invece, Imperatore.
Se non fossi stata io, se non fosse stato lui,
quella familiarità sarebbe stata sconvenite, ma noi… A noi tutto era concesso.
-Deduco vi conosciate già.- fu il commento perplesso
del prete.
Io gli sorrisi, ma fu Napoleone a rispondere per me.
– Sì. La vostra signora è cresciuta con la prima moglie, è la sua figlioccia.
La conosco da quando non era che una bambina.
L’incontro nelle scuderie aleggiò tra di noi,
seguito da altri frammenti di vita che avevamo condiviso e che, ne ero certa,
neppure lui aveva mai dimenticato.
Non ricordo molto della serata, ciò che so è che
poco a poco tutti si congedarono finché nel salotto non rimanemmo che io e
l’Imperatore.
Soli, come da tempo accadeva. Vicini, come mai
eravamo stati.
-Josephe, dunque. È un bel bambino.
-Henri mi ha lasciato scegliere il nome e non poteva
essere che quello. Joséphine è stata più che una madre per me.
-Lo so, è stata importante per entrambi. Non avrei
mai voluto lasciarla.
Annuii appena. La ragione di Stato. La necessità di
un erede.
-Sono felice che il parto dell’Imperatrice sia
andato a buon fine e che il re di Roma goda di ottima salute.
Napoleone si alzò di scatto e iniziò a camminare
lungo il salottino, nervoso almeno quanto io ero calma, in attesa di
un’esplosione che non tardò ad arrivare.
-Vi credevo in Italia, lontana da me, e invece eravate qui, a due ore da
Parigi!
-Non
è stato facile, mio signore, credetemi.
-Perché,
allora?
Lui
sapeva, così come sapevo io. –Non avrei mai potuto tradire la mia madrina e non
sopportavo la punizione che…
-Punizione?
-Negate,
forse, che volevate punirmi privandomi di un marito, costringendomi a vivere da
sola tutta la mia vita.
Qualcosa
cambiò tra di noi, in quel momento: lo percepii nell’aria, e nei suoi occhi.
Cadde ai miei piedi, letteralmente, e mi prese le mani tra le sue.
-Oh,
Claudia, cos’ho fatto? Io non sopportavo l’idea di perdervi, per questo non ho
mai acconsentito ad alcun corteggiamento.
Si
chinò sulle mie mani e io dovetti fare appello a tutte le mie forze per non
tremare. Il silenzio si prolungò al punto che mi parve di impazzire, ma proprio
quando ero sul punto di spezzarlo, egli parlò di nuovo.
-Sono
stato così egoista, ma l’amore è così, egoista e crudele, e io vi amo, Claudia,
ardentemente, sin dal primo istante in cui vi vidi. Potrete mai perdonarmi?
Non
avrei mai potuto perdonarlo, ma non avrei mai perdonato neppure me per ciò che
stavo per fare. Eppure, in quell’istante, in quella notte qualunque, nulla
appariva più giusto.
Mio
marito era morto e Maria Luisa non era nulla per me.
Napoleone,
però, era tutto il mio mondo.
Il
primo bacio fu una scoperta, timida e incerta, il secondo una rivelazione.
Lussuria,
struggente desiderio. Mi aveva chiamata Eos, molti anni prima, ma quella notte
non sarei stata altro che Venere.
L’amore.
1814 – Baritono
Quando i miei genitori erano
morti non ero che una bambina: avevo pianto, sì, ma poi mi ero ripresa, grazie
a Joséphine. Il profumo delle rose aveva invaso ogni angolo di quel luogo
ameno, ma quel giorno la Malmaison faceva onore al suo nome: il 28 maggio 1814
splendeva il sole sul castello di Joséphine, ma tutto ciò che vedevo erano
ombre e dolore.
Ero giunta di corsa alcuni
giorni prima, richiamata da una lettera che lasciava poco spazio
all’immaginazione: la mia antica protettrice stava morendo e desiderava vedermi
un’ultima volta. Neppure per un istante pensai di rimandare: affidai mio figlio
a padre Stefano, feci preparare le valigie e neppure un’ora dopo l’arrivo del
messo ero in viaggio, diretta verso una donna che per me era stata tutto il mio
mondo e che non avevo mai ringraziato abbastanza. Temevo di non avere più tempo
per farlo.
La donna che trovai non era
che lo spettro di quella che era stata: nel giro di una settimana la polmonite
l’aveva resa ancor più magra e pallida di quanto già non fosse e i suoi occhi,
un tempo sempre lieti e luminosi, erano come spenti.
Trascorsi con lei quattro
giorni e tre notti, dormendo poco e mangiando ancora meno, allontanandomi dal
suo capezzale solo lo stretto necessario: la accudii come lei aveva accudito
una bambina che non era la sua, ma amandola come se fosse sangue del suo
sangue. Non sarebbe mai servito a ripagare l’enorme debito nei suoi confronti,
ma era il minimo che avrei potuto fare. L’attività, inoltre, mi impediva di
pensare a come sarebbe stato il mondo senza di lei, a come sarebbe stata la mia
vita. Ero una donna matura, con una casa da governare e un figlio da crescere,
ma per quanto osannassi la mia
indipendenza, ero perfettamente conscia di come non mi fossi mai davvero
separata da lei, di come, anche in quegli anni di separazione, mi fossi
costantemente chiesta cosa lei avrebbe pensato delle mie azioni e delle mie
scelte, come lei si sarebbe comportata. Joséphine di Beauharnais era l’unico
modello di donna a cui avessi mai aspirato, nel bene e nel male.
La luna, il 28 maggio, era
nel primo quarto, e io e Joséphine ci fermammo ad osservarla attraverso la
finestra della sua camera da letto: l’aria era tiepida e la mia madrina
sembrava stare meglio.
-Sai, ricordo ancora il
giorno in cui mi portarono la notizia della morte dei tuoi genitori. Tua madre
era la mia più cara amica e le avevo giurato che mi sarei presa cura di te, se
le fosse mai successo qualcosa: non credevo, però, che si arrivasse a tanto.
Immaginavo che, quando fossi diventata più grande, ti avrei accolta a Parigi
per farti conoscere la corte più famosa d’Europa, ma…
Le si incrinò la voce,
mentre gli occhi osservavano ricordi che io non potevo vedere. La pregai di
tacere, ma non volle darmi ascolto.
-Ti ho amata come una
figlia, Claudia, sin dal primo momento in cui mettesti piede in casa mia,
spaventata e sola, ma vorrei aver fatto di più per te. Hai subito gli orrori
del Terrore, a causa mia, e dopo il ruolo di Imperatrice non mi ha permesso di
darti le attenzioni che meritavi.
-Mia signora, voi mi avete
dato una vita che non avrei mai osato sperare.
-Una vita che comprendeva
lui.
Lui, il terzo membro di quello strano triangolo che
aveva segnato la mia intera esistenza e che, nonostante le distanze, non si
sarebbe mai risolto. Lui,
l’Imperatore esiliato, l’uomo che entrambe avevamo amato, anche se in maniera
diversa.
Il volto di Josephine era
pallido e incavato, ma per me sarebbe rimasta sempre la bellissima donna che mi
aveva affascinato tanti anni prima, che con il suo fascino aveva fatto
innamorare i suoi sudditi, nonostante fosse osteggiata dalla famiglia del
marito e da molte personalità di spicco. Aveva camminato a testa alta, in ogni
istante, in prigione o davanti all’altare di Notre Dame, e a testa alta era
uscita di scena, senza scandali o scalpore, con un ultimo solenne gesto
d’amore. Una donna così, forse, il mondo non l’aveva mai vista, né l’avrebbe
vista mai.
-Noi siamo come quelle tre
stelle lì su, inesorabilmente destinate a stare vicine- Alzò debolmente il
braccio, indicando un triangolo di stelle in cielo. –Sai che costellazione è?
-Il triangolo.
-Ho fatto bene a farti
studiare astronomia, dunque.
Sorrisi, e sorrise anche
lei, ricordando gli antichi conflitti sulla mia istruzione, che solitamente si
risolvevano in una risata.
-Non avete sbagliato nulla
con me.
Joséphine annuì –Ho
sbagliato, ma nonostante ciò sei diventata una splendida donna. Lo capisco,
sai? So che ti ha vista, anni fa.
Quella rivelazione mi colse alla
sprovvista e non riuscii a evitare di arrossire. Lei sapeva?
-Mi dispiace.
-Per cosa? Per aver ceduto
ad una debolezza? Per esserti comportata da umana?
La perfezione non è di questo mondo, non importa quanto tu possa cercarla. Ho
fatto infiniti errori in vita mia, soprattutto con Napoleone, ma non mi pento
di nulla. Non farlo neppure tu.
Provai a parlare, ma un nodo
in gola me lo impedì. Joséphine lo notò e sorrise. –Non ha amato solo noi, sai?
Anni fa, molti anni fa, perse la testa per una polacca, quella Maria Laczynska.
Storse il
naso e io soffocai una risata. Ricordavo bene quel nome, così come quello del
figlio che l’Imperatore aveva avuto da lei, Alessandro: l’avevo odiata, allora,
perché lei aveva potuto avere ciò che io pensavo sarebbe rimasto solo un sogno,
il suo amore.
-Quello che
intendo è che per un periodo sono stata avara, lo volevo solo per me, ma poi ho
capito che limitare i suoi sentimenti sarebbe stato impossibile. Napoleone era
così, passionale nella guerra come nell’amore e capisco perché tu te ne sia
innamorata, ma capisco anche perché lui abbia amato te.
Mi tese una mano e io la
presi: era calda e debole, ma non tremò neppure un istante.
-Nel terzo cassetto troverai
una lettera chiusa con un nastro verde, è per Napoleone e vorrei che tu gliela
portassi. È l’ultimo favore che ti chiedo.
-Cosa ne sarà di me poi?
Cosa avrei fatto, senza la
sua luce a guidarmi?
-La vita va avanti.- mi
rispose.
Era quella la fine, dunque?
Eppure non mi era mai parsa tanto bella come in quel momento, come se tutti i
conflitti che avevano contraddistinto la sua vita fossero svaniti in un soffio.
La bellezza delle debolezze, delle imperfezioni, di una donna che aveva
accettato se stessa molto tempo prima e che aveva lasciato al mondo –a me- una grande lezione: non importava
quanto la vita l’avesse messa alla prova, lei era sempre sopravvissuta, a
qualsiasi costo.
Quando mi svegliai, la
mattina dopo, Joséphine sembrava dormire, ma la mano nella mia era fredda e
inanimata.
1820– Basso
Quando Joséphine morì la
stella di Napoleone era già tramontata ed egli si trovava in esilio all’Elba.
Avrei desiderato partire subito, ma un’epidemia colpì le zone limitrofe a
Parigi e io mi allontanai con mio figlio, per proteggerlo: quando l’allarme
rientrò, era ormai inverno e un viaggio per mare era sconsigliato. Dovettero
trascorrere sei anni prima che potessi rivederlo: i Cento Giorni erano divenuti
un monito e le visite concesse all’antico Imperatore, nella sperduta isola di
Sant’Elena, erano molto ridotte. Vi giunsi nell’ottobre del 1820, dopo un
viaggio difficile durato due mesi: Joseph era ormai adulto e poteva sopportare
l’assenza di sua madre. Non ne era stato felice, aveva imparato presto a
comprendere il mondo e la sua politica, ma il suo titolo e il suo buon nome erano
tali che una visita della marchesa al marito della sua antica madrina non
avrebbe compromesso molto. Non ero che una donna, dopotutto, agli occhi del
mondo. Ai suoi, ero l’amata madre a cui non avrebbe mai negato nulla,
soprattutto perché non gli avevo mai nascosto nulla dei miei trascorsi presso
Joséphine.
Quando
toccai terra ricominciai a respirare normalmente, ma il sollievo dell’essere
fuori da quella nave durò poco: Longwood House era una dimora antiquata e
piccola, troppo piccola, per un uomo che aveva dormito nei più bei palazzi
d’Europa, e mentre vi entravo mi chiesi chi avrei trovato, oltre la porta della
biblioteca. L’ultima volta che l’avevo visto era un uomo all’apice del potere,
con un’alleata potente come l’Austria e un erede al trono.
L’uomo
che trovai mi riportò ad anni prima, ad un altro spettro, ma se Joséphine nei
suoi ultimi momenti era in pace, Napoleone era un leone in gabbia, privo di
qualsiasi speranza.
-Claudia?
Sconcerto,
perplessit, timore?
-O
sono totalmente impazzito, oppure sei tu.
-Sono
più vecchia, mio signore, ma sono io.- gli sorrisi e amai vederlo farlo a sua
volta.
-Ti
hanno fatta venire.
Mi
venne incontro con l’agilità che l’aveva sempre contraddistinto e mi prese le
mani nelle sue, ancora stupito per quello che aveva davanti.
-Io
e mio figlio abbiamo dovuto chiedere un po’ di favori in giro, ma alla fine ci
sono riuscita.
-Perché?
-Perché
non vi ricordate che le buone maniere, che in questo luogo abbandonato da Dio
avete evidentemente dimenticato, e mi invitate a fare una passeggiata?
Indossò
una giacca e mi diede il braccio.
Trascorsi
a Sant’Elena una settimana, e in quei sette giorni parlammo come mai avevamo
avuto la possibilità di fare, troppo compressi dagli impegni di stato, o impegnati
a ferirci reciprocamente. Parlammo del passato, di Joséphine, della Corsica,
ritornammo alle origini, al giorno della mia nascita, dodici anni dopo la sua,
e infine di nuovo lì, al presente, su quell’isola lontano da tutto ciò che
avevamo sempre chiamato casa. Mi chiesi come avesse fatto a non impazzire, ma
non lo domandai mai a lui.
Cavalcammo,
ricordando il mio Violino, e ci sfidammo a gare di retorica davanti ad una
platea di domestici che, davanti a sir Hudson
Lowe, il carceriere, trattenevano le risa.
Io
trattenevo l’ira, invece, davanti alle condizioni pessime in cui Napoleone era
costretto a vivere, ma tacqui per paura di peggiorare la situazione; inoltre,
dubitavo che lui avrebbe accettato il mio aiuto senza sentirsi svilito, così
continuai a sorridere, imperturbabile, fino alla fine.
L’ultima
notte la trascorremmo all’aperto, chiedendoci se il cielo fosse blu o nero,
parlando di nulla, lasciando che fossero i pensieri a colmare i silenzi. Era
quasi l’alba quando infine glielo chiesi.
-Ve
ne siete mai pentito? Avete mai desiderato aver avuto una vita tranquilla, in
Corsica, invecchiando con vostra moglie e crescendo i vostri figli?
Non
esitò neppure un istante. –Mai. Ero
destinato a questo, mia Claudia. A tutto questo. - La gloria, il potere, il
crollo. Napoleone si era aggrappato al suo sogno per tutta la vita, con
l’incrollabile certezza di essere predestinato alla grandezza. –E tu eri
destinata a me. Tu e Joséphine. Mi avete reso un uomo migliore e di tutte le
persone che si sono dette mie amiche, siete state le uniche a esserlo davvero.
Quattro
ore dopo attendevamo che le operazioni di carico e scarico della nave
terminassero, per poter ripartire.
-Sono
stata Eos e Venere, oggi sarò Mercurio.
Presi
dalla borsa la lettera di Joséphine, con il sigillo intatto come il giorno in
cui l’avevo ricevuta.
-È
un onore per me avervi conosciuto, signor Buonaparte.
Il
cognome che aveva quando ci eravamo conosciuti, una frase che ricalcava la
prima che gli avevo detto.
-Addio,
mio adorata Claudia.
Non
lo rividi più.
Note: per prima cosa, Claudia è un personaggio assolutamente inventato, ma i fatti storici narrati (l'attentato, l'incoronazione e via dicendo) sono dati reali, così come reali sono, ovviamente, Napoleone e Josephine. Questa
storia parla di tutto, e non parla di nulla. Parla di amore, di diversi tipi
d’amore. C’è quello riconoscente e filiale verso Joséphine, e c’è quello
romantico ma impossibile da vivere per Napoleone. E poi c’è l’amore della coppia
imperiale verso di lei, di Claudia. È un triangolo, ma un triangolo anomalo in
cui tutti amano tutti, benché in maniera diversa, e questi amori non sono mai
completi, non giungono mai a compimento, neppure nel 1811, perché anche allora
tra Claudia e Napoleone aleggia il pensiero di Joséphine. Non so davvero cosa
dire, se non che è una storia che avevo in mente da anni e che era giunto il
momento di scrivere. In tutti e sette i momenti trovate i colori
dell’arcobaleno, le chiavi musicali, i vizi capitali, i cieli dell’antichità e
le arti liberali, spero siate riusciti a riconoscerli. E spero che sia stata
una piacevole lettura.