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Autore: Emily Alexandre    12/10/2012    9 recensioni
"Sette sono i colori dell’arcobaleno, le chiavi musicali, i vizi capitali, i cieli dell’antichità, le arti liberali.
Se dovessi cristallizzare la mia vita in momenti, questi sarebbero sette.
Il primo nel 1796, avevo quindici anni, un passato intriso di sangue e un futuro ancora incerto.
Il secondo nel 1800, quando sfiorai la morte.
Il terzo nel 1804, nella più imponente Cattedrale del mondo cristiano.
Il quarto nel 1807, quando quasi scivolai e una mano afferrò la mia.
Il quinto nel 1811, l’unica debolezza.
Il sesto nel 1814, colsi l’ultimo respiro di colei che era stata per me come una madre.
Il settimo nel 1820, un’ultima lettera, un ultimo amore."
Maria Claudia Montel nacque il diciotto giugno del 1781, unica figlia di una potente famiglia romana. La madre, una contessa francese, inconsapevole delle conseguenze che avrebbe avuto il suo gesto, si premurò affinché fosse tenuta a battesimo dalla sua amica d'infanzia, Maria Josephe Rose Tascher de la Pagerie, moglie del visconte di Beauharnais. Chi avrebbe mai potuto immaginare, vedendo la bella viscontessa con la bambina in braccio davanti al fonte battesimale, come quelle vite si sarebbero irrimediabilmente intrecciate?
Genere: Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Napoleonico
- Questa storia fa parte della serie 'Attraverso la Storia. Attraverso l'Amore'
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A Camilla, che l’ha capita e mi ha capita.

Alle persone che il destino unisce.

 

Ognuno di noi viene al mondo con un destino da compiere.

C'è chi è destinato a grandi imprese di guerra, chi a immense opere artistiche, chi a comandare popoli, chi più umilmente è destinato a lavorare giorno dopo giorno, senza sosta. Ma quando nasciamo non siamo che dei bambini inermi. Nessuno sa, in quell'ora, a cosa siamo destinati. Può esservi un principe destinato all'oblio della storia, e un uomo comune le cui gesta saranno immortali. Ci sono poi strade destinate ad incrociarsi nei modi più impensabili, senza apparente ragione.

Quando, quel 15 agosto del 1769, una giovane donna della nobiltà corsa portò a compimento la sua quarta gravidanza, nessuno sapeva a cosa sarebbe stato destinato quel bambino, dubitando persino della sua sopravvivenza alla delicata fase dell'infanzia.

Esattamente come quando una bambina dai capelli rossi vide la luce nella città dei Papi alcuni anni dopo, tutti immaginavano per lei una vita semplice e felice. Erano ignari di quanto tortuoso sarebbe stato il suo cammino, né che un tragico evento l'avrebbe portata a incrociare la strada di quel bambino ormai dodicenne.

Nessuno poteva immaginare che quel bambino un giorno avrebbe governato su quasi tutta l'Europa e che quella bambina gli avrebbe rapito il cuore.

Ci sono persone destinate ad amarsi.

E questo era il destino di quelle due giovani vite.

Maria Claudia Montel nacque il diciotto giugno del 1781, unica figlia di una potente famiglia romana. La madre, una contessa francese, inconsapevole delle conseguenze che avrebbe avuto il suo gesto, si premurò affinché fosse tenuta a battesimo dalla sua amica d'infanzia, Maria Josephe Rose Tascher de la Pagerie, moglie del visconte di Beauharnais. Chi avrebbe mai potuto immaginare, vedendo la bella viscontessa con la bambina in braccio davanti al fonte battesimale, come quelle vite si sarebbero irrimediabilmente intrecciate?

 

 

Sette

 

Sette sono i colori dell’arcobaleno, le chiavi musicali, i vizi capitali, i cieli dell’antichità, le arti liberali.

Se dovessi cristallizzare la mia vita in momenti, questi sarebbero sette.

 

Il primo nel 1796, avevo quindici anni, un passato intriso di sangue e un futuro ancora incerto.

Il secondo nel 1800, quando sfiorai la morte.

Il terzo nel 1804, nella più imponente Cattedrale del mondo cristiano.

Il quarto nel 1807, quando quasi scivolai e una mano afferrò la mia.

Il quinto nel 1811, l’unica debolezza.

Il sesto nel 1814, colsi l’ultimo respiro di colei che era stata per me come una madre.

Il settimo nel 1820, un’ultima lettera, un ultimo amore.

 

Sette istanti, sette battiti del cuore. Ho amato un solo uomo in tutta la mia vita, ma ancor di più ho amato una donna, in una scia di amori e tradimenti durata venticinque anni.

Mi chiamo Maria Claudia Montel e questa è la mia storia.

 

 

 

1796 – Violino

 

 

La prima lezione che ho imparato in vita mia è stata: “non importa quanto sangue nobile hai nelle vene se poi ti comporti da lavandaia.”

La seconda fu che la suddetta lavandaia era una signora in confronto a molte altre nobili che frequentavano la casa, dunque non mi preoccupavo troppo quando venivo rimproverata per le mie maniere.

La sala della musica era stata rinominata " Sala delle torture" sin da quando avevo iniziato a prendere lezioni di violino, non solo perché la mia espressione quando attraversavo i corridoi per recarmici era simile a quella di un condannato a morte, ma anche perché ero così poco portata che quelle due ore erano una tortura per l’intera popolazione della casa.

L’unica che sembrava sopportare stoicamente i miei tentativi di suonare il violino era la nostra signora e padrona, la regina di quel luogo che era divenuta la mia dimora da un anno. A soli quindici anni avevo visto la morte così spesso che a volte me ne sentivo addosso cinquanta, e probabilmente sarei impazzita da tempo se lei non mi avesse salvata infinite volte.

La prima a cinque anni, quando la nave su cui viaggiavamo dall’Italia alla Francia naufragò: donne e bambini avevano la precedenza sulle scialuppe, ma mia madre si rifiutò di abbandonare mio padre e mi affidò alla governante, con l’ordine di portarmi dalla sua amica d’infanzia, certa che si sarebbe presa cura di me.

Non ricordo molto di loro, ma ho ricordi vividi di quella notte, degli occhi indaco di mia madre, così simile ai miei, colmi di lacrime e dolore; i loro corpi non furono mai ritrovati, ma io fui accolta nella casa di una donna sconosciuta che per mesi mi sembrò un angelo. Bella ed elegante, amavo trascorrere le ore ad ascoltarla chiacchierare, nonostante il più delle volte non sapessi di cosa parlasse, beandomi della sola melodiosità della sua voce.

Mi accolse e mi amò come una figlia ed io la ricambiai senza remore perché, con la perdita dei miei genitori, lei era rimasta tutto ciò che avevo. Suo marito viveva lontano, la figlia era troppo concentrata su stessa per prestarmi attenzione, ma suo figlio fu sempre un buon amico per me, tanto che credo che per qualche tempo si sia ventilata l’ipotesi di un matrimonio. Avrei accettato, se lei me l’avesse chiesto, ma non si arrivò mai a tanto.

Con la capacità di adattamento tipica dei bambini, nel giro di un anno mi ero perfettamente adeguata a quella nuova vita, perdendo l’accento italiano, eredità paterna, per diventare una piccola copia della mia francesissima madre. Capelli rossi, occhi chiari e fisico filiforme, cercavo al contempo di somigliare alla donna dei miei ricordi e a quella che ammiravo ogni giorno, non possedessi la seducente indolenza della mia signora.

Per quanto mi sforzassi ad essere riversa, però, alle chiacchiere in salotto avrei sempre preferito lunghe cavalcate solitarie, e fintanto che la mia signora fosse stata contenta di me, avrei proseguito per la mia strada.

Poi, però, quando tutto sembrava perfetto, la crudeltà della vita si abbatté nuovamente su di me: durante il regime del Terrore la mia signora fu imprigionata e io e sua figlia fummo affidate ad un convento.

L’anno prima l’inizio della mia storia, nel 1795, appena uscita dalla prigione di Carmen, la prima cosa che fece fu venire da noi; pochi mesi dopo, rientrammo in questa casa e ci fu impedito di abbandonarci ai cattivi pensieri e al ricordo di chi non c’era più, tra cui suo marito.

La vita va avanti.

Ancora adesso, dopo anni, mi sembra di sentirla pronunciare quelle parole con il sorriso sulle labbra e le ombre del Terrore ancora lì ad offuscarle gli occhi.

Mi feci forza, per lei. Ricostruii la mia vita fatta a pezzi con la tranquillità di chi non ha mai fatto altro e impedii alle tenebre di trascinarmi giù.

Ricordo gli oscuri abissi del mare la notte in cui i miei genitori morirono, ricordo il freddo, il dolore, e la sua mano tesa verso di me quando fui fatta scendere dalla carrozza. E ancora il calore della sua pelle quando mi strinse a sé, il suo profumo.

La vita va avanti.

Poi un giorno la vita andrò avanti davvero, la vidi tornare a casa con gli occhi che sprizzavano gioia e speranza nel futuro: le era stata fatta una proposta di matrimonio.

Quel giorno il mio mondo crollò nuovamente, quella notte la trascorsi insonne chiedendo a Dio di perdonare l’invidia che per un attimo aveva offuscato la mia razionalità, che io, sciocca ragazzina infatuata di un uomo inarrivabile, avevo provato nei confronti dell’unica persona davvero importante nella mia vita.

Il giorno dopo, mi offrii di accompagnarla a scegliere il vestito, con il cuore in pace e il sorriso sulle labbra.

Fu una giornata intensa e il pomeriggio, quando rincasammo, indossai l’abito da cavallerizza e partii insieme al mio cavallo verso il sole, lasciando che i raggi mi accarezzassero e mi purificassero.

1796, il primo dei sette istanti.

Scesi da cavallo senza curarmi dei capelli che la cavalcata furiosa aveva fatto sfuggire dal cappellino, delle gote arrossate e dell’abito in disordine. Fu allora che lo vidi.

Non era bello, ma tutto nella sua persona sprigionava possanza e potere, incutendo rispetto e soggezione.

-Perdonate, mia signora, sono stato cacciato da casa e ho pensato di rifugiarmi nelle scuderie. È uno splendido esemplare il vostro,- disse accennando al mio purosangue nero, -posso chiedervi come si chiama?

Arrossii, ma qualcosa di caldo si diffuse nel mio petto e nella mia anima. –Violino, signore.

-Violino?

-Generalmente scappo qui quando dovrei prendere lezioni di musica, e così è solo una bugia a metà quando dico di essere con il violino.

Mi sorrise, per poi scoppiare a ridere di cuore subito dopo. –Molto astuto signorina. E voi, invece, siete?

-Claudia Montel, signore.

-Oh, la pupilla. Io sono...

-So chi siete,- esclamai prima di potermi fermare, addolcendo la frase irriverente con un sorriso, -Nonostante la mia signora mi ripeta spesso che la politica non è cosa da donne, non posso reprimere la mia curiosità: ho seguito le vicende della Corsica, dell'Italia. Non si parla che di voi a Parigi, la stella nascente della nostra Repubblica.

Forse fu allora che tutto cambiò, in quella stalla, grazie alle parole di una sciocca quindicenne che non aveva ancora imparato a tenere a freno la lingua. Forse, se avessi taciuto, le cose sarebbero andate diversamente. Forse no.

-È un onore per me conoscevi, signor Buonaparte.

 

 

 

1800 - Soprano

 

Lo rividi solo un’altra volta, il giorno del matrimonio, poi Joséphine mandò sia me che sua figlia Hortense al collegio per signorine fondato da Madame Jeanne Campan, prima cameriera della regina Maria Antonietta e una delle poche persone intime dei reali di Francia sfuggite al Terrore. Ne soffrii, mi sentii respinta e sola, come se avessi perso di nuovo la mia famiglia; solo il tempo mi fece comprendere che si trattava solo di una separazione momentanea, sarei tornata da lei –da loro- e mi sarei dovuta far trovare preparata per frequentare l’élite di Parigi senza far sfigurare la mia madre adottiva. Cambiai molto, in quei quattro anni, Madame mi fece diventare la nobildonna che ero per nascita, pur non essendolo mai stata davvero, e se io e la musica continuavamo a camminare su due strade parallele che non si sarebbero mai congiunte, nessun’altra mancanza mi si sarebbe potuta rimproverare.

Quattro anni di lezioni per inventarmi ancora, e ancora, pronta ad interpretare l’ennesimo ruolo che il destino mi chiedeva di portare in scena, ad indossare un’altra maschera, un altro sorriso di circostanza. Vivevo per il futuro, vivevo delle lettere che ogni tanto ricevevo da Joséphine, ma c’era qualcosa –un vuoto, un’assenza, una pagina bianca- che mi torturava giornalmente. L’ora di attualità era quella che preferivo perché vi era un solo nome che riecheggiava sulle labbra di tutti.

Tranne che su quelle della moglie.

Si vociferava di un amante, o di più d’uno, e nonostante tutti facessero attenzione a non parlarne in presenza mia e di Hortense, le mie orecchie coglievano ogni dialogo sulla coppia del momento. Mi chiedevo perché tacesse e se lo amasse.

La sua dialettica le permise di soffocare le voci e le malignità che, se si fosse trattato di qualcuno meno abile nell’arte della parola, l’avrebbero distrutta, ma io conoscevo bene Joséphine, avevo visto gli uomini con cui si era accompagnata dopo la morte di suo marito pur di continuare ad avere uno stile di vita elevato.

L’amavo, l’amavo profondamente e non l’avrei mai giudicata, ma proprio a causa di quel sentimento ero certa che le dicerie fossero fondate e non mi capacitavo di come, con un uomo del genere come marito, potesse guardare altrove.

Ogni mattina mi fermavo alcuni minuti in contemplazione di un quadro su Saturno raffigurato come il dio greco: Kronos, il tempo. Quel tempo che sembrava scorrere sempre più lentamente e che mi schiacciava nell’inerzia delle mie giornate, tutte identiche, persino nei battiti del cuore che si susseguivano monotoni, privi di qualsiasi emozione.

Io agognavo emozioni.

A novembre del 1800 finalmente Joséphine mi richiamò a casa: Hortense sarebbe rimasta ancora presso Madame, ma voleva me di nuovo al suo fianco. Giunsi a Parigi il quindici dicembre e la mia signora mi accolse nella sua nuova dimora, più splendente che mai: tutto in lei sembrava dichiarare la sua fedeltà e la sua abnegazione al marito. Commissionò per me uno splendido abito violetto e fino alla sera della vigilia non feci che prepararmi all’evento, alla serata all’Opera in cui sarei stata al fianco della moglie dell’uomo del momento.

E l’avrei rivisto.

Il mio umore, in quei giorni, fu quasi un’altalena che mi trascinava dall’emozione al terrore, dalla felicità perché l’avrei rivisto alla paura di come avrei reagito a quel contatto; ero giovane, sì, ma avevo conosciuto abbastanza la vita da essermi lasciata alle spalle qualsiasi frivolezza infantile, qualsiasi sentimento adolescenziale che arriva e se ne va in battito d’ali. La mia vita, il mio amore, era tutto o niente. Buonaparte mi avrebbe sconvolta ancora, come aveva fatto anni prima, o i miei sentimenti si sarebbero rivelati solo frutto di una mente troppo lavoratrice e si sarebbero infranti alla prima parola?

Quali sentimenti, poi? Non sapevo come classificarli, o forse avevo solo paura a farlo. Mi convincevo di provare ammirazione, stima, venerazione quasi, ma nulla più. Continuavo a ripetermi che l’infatuazione era passata, io ero cresciuta.

Compresi di essermi sbagliata non appena scesi in salone. Lo trovai da solo, in attesa che sua moglie lo raggiungesse, tra le mani un dolce proveniente dalla migliore pasticceria di Parigi.

L’amore.

Quello che credevo passato, quello che non avrei mai dovuto provare, quello che era cresciuto nel mio cuore anno dopo anno, attraverso i racconti delle sue gesta, e che avevo scambiato per semplice ammirazione. In quel momento l’ineluttabilità del mio destino mi serrò la gola e mi inchinai per guadagnare preziosi istanti in cui cercai di ricompormi: quando mi rialzai, nulla di ciò che avevo nel cuore traspariva al di fuori.

Napoleone mi si avvicinò e io mi vidi riflessa nei suoi occhi, non più una irrequieta bambina, ma una elegante giovane donna fasciata da metri di stoffe preziose e da una mantella di ermellino.

-Assaggiate.

Nessun saluto, nessun convenevole, solo le sue dita che tenevano stretto un pasticcino al caramello su cui posai appena le labbra. Gola.

-Joséphine, mi aveva detto che eravate cresciuta, ma non avrei mai pensato…

La frase gli morì in gola e io mi schermii, allontanandomi di corsa dall’unico uomo che non avrei mai dovuto –potuto- desiderare; rispettò quelle distanze e non parlò ulteriormente, ma la tensione era così palpabile che mi chiesi se anche la mia signora se ne fosse accorta quando entrò nel salone, bella ed eterea. Quando salii sulla carrozza mi sedetti davanti a loro, rintanandomi in un angolo e cercando di non guardare le loro mani intrecciate, di non udire i bisbigli innamorati. Mi ero illusa che tutto fosse cambiato, in quegli anni, che mi sarei innamorata di un giovane e promettente francese, che mi sarei sposata, che sarei stata felice e avrei ricordato con affetto quell’infatuazione giovanile per il marito della mia madrina. Ero stata così sciocca. Lo guardavo e tutto ciò che provavo era amore: non desiderio, ma amore e ammirazione per un uomo che coltivava un sogno, un progetto, e che da esso si era fatto guidare giorno dopo giorno, senza mai perdere la via.

Mi voltai verso di lui nello stesso istante in cui i suoi occhi si spostarono dalla moglie per posarsi su di me, poi tutto divenne solo un caos di esplosioni e urla, in cui egli fu l’ultima persona che vidi prima di svenire.

 

 

1804 - Mezzosoprano

 

Quella notte scampammo all’attentato, senza riportare particolari ferite; una cicatrice lunga quanto un pollice probabilmente non sarebbe mai sparita del tutto dalla mia caviglia, ma eravamo vivi, tutti, ed era l’unica cosa che contasse.

Quattro anni prima, Napoleone Bonaparte era sopravvissuto a una congiura sventata e a un attentato, quattro anni dopo si apprestava ad essere incoronato Imperatore dei francesi.

I pareri al proposito erano tanti e contrastanti, come sempre accadeva quando si parlava di Lui: tanti ricordavano con odio la monarchia, ma altrettanti piangevano ancora le vittime del Terrore. Di fatto, nessuno sembrava poterglisi opporre.

Imperatore dei francesi. Continuavo a ripetere quelle semplici parole assaporandole sulla lingua quasi fossero miele e solitamente le ore che avrei dovuto trascorrere a prendere lezioni di grammatica erano il luogo perfetto per immaginare nella mia mente l’intera cerimonia, quando avrei indossato un abito bianco e avrei tenuto il mantello rosso di Joséphine, futura Imperatrice.

Sapevo che la mia signora aveva temuto di esser messa da parte, lasciata per una donna più giovane e di nobili natali che assicurasse al neonato impero alleanze e successione, ma non mi ero affatto stupita quando Napoleone l’aveva voluta con sé.

Ricordo che una notte, mentre sedevo in biblioteca approfittando della quiete per leggere, lo colsi ad osservarmi dall’uscio della porta; nonostante vivesse ufficialmente in quella casa, era raro che vi si palesasse e ancor più raro che io lo incontrassi, vivendo nell’ala riservata alla moglie in cui non metteva mai piede.

-Cosa leggete?

-Una raccolta di miti greci.

Egli annuì e mi si sedette accanto, sul tappeto persiano tanto amato da Joséphine. Era sempre così, con lui: altero e rigido con tutti, soprattutto fuori da quelle mura, ma affettuoso con me, complice quasi. Amico, sempre ammesso che un uomo come lui potesse mai avere un’amica come me.

-Un giovanotto banale che desiderasse impressionarvi a questo punto potrebbe paragonarvi a Venere, mia bella Claudia.

Ricordo di essere arrossita così violentemente che neppure la penombra poté celarlo. Io amavo, sì, ma di un amore puro, scevro da qualsiasi carnalità: l’avevo capito da tempo ormai, e avevo smesso di negarlo a me stessa, ma custodivo quell’amore in segreto, in silenzio.

-Io non sono Venere, mio signore, ma voi siete senza dubbio Giove.

Sorrise, annuendo appena. –E Joséphine sarà la mia Giunone, come è giusto che sia.

Avevo smesso di soffrire, di essere gelosa: non sarebbe stato giusto e non avrebbe avuto alcun senso. Amavo entrambi, immensamente, e tutto ciò che mi rimaneva era una melanconica rassegnazione per ciò che non avrei mai avuto.

-E io, mio signore? Se non Venere, chi?

-Eos, la dea dell’aurora, perché quando voi siete con me, Claudia, tutto assume le connotazioni dell’alba, di una nuova nascita, della speranza.

Mi schermii, alzandomi in piedi ed allontanandomi da lui: aveva taciuto, ma la ricordavo perfettamente, sulla relazione di Eos con Zeus, corrispondente greco di Giove.

-Devo andare.

-Claudia!

Mi afferrò un polso, trascinandomi verso di lui. –Claudia…

Un sussurro, un sospiro.

Oh, quanto avrei desiderato abbandonarmi a lui, cedere a quel desiderio che sembrava farmi impazzire, ma poi i miei occhi caddero su un ritratto di Joséphine e bastò quello per darmi la forza necessaria a scappare.

Non lo rividi più, fino al giorno dell’incoronazione nella più imponente Cattedrale del mondo cristiano, Notre Dame. Seguii la mia signora lungo la navata, con il cuore che batteva furioso in attesa del momento in cui l’avrei visto, chiedendomi se sarei stata in grado di sopportare il dolore. Entrammo a cerimonia già quasi conclusa e, inchinata davanti all’altare, lo osservai porsi sul capo la corona, in un gesto che simboleggiava tutto il suo potere, poi prese quella dell’Imperatrice e si avvicinò a noi. Nell’istante in cui la corona sfiorò i capelli che io stessa avevo acconciato, egli mi guardò. Non più uomo, ma Imperatore, e benché avesse affermato che il suo potere derivava dal popolo e non da Dio, mai come in quel momento sembrò uguale a Giove, superiore a tutti noi.

E quello sguardo aveva un unico, chiaro scopo: mostrarmi a cosa avevo rinunciato, cosa avrei potuto avere e cosa mi ero lasciata scivolare dalle dita come fosse sabbia, ma avevo ventitre anni, ero folle d’amore per quell’uomo che dal nulla era salito sul trono più importante dell’Europa intera, per i suoi sogni di unità, per la costante ricerca della modernità.

Non avrei mai permesso a me stessa di diventare la sua amante, di svilire in quel modo quei sentimenti.

Era una strada senza uscita, la mia, nessuna alba mi stava aspettando.

 

 

 

 

1807 - Contralto

 

Il tramonto, più che l’alba, era il momento della giornata che preferivo. Nonostante fossi una tra le poche anime a non amare Notre Dame, mi ritrovavo lì davanti ogni pomeriggio, mentre il sole tramontava e tingeva d’arancio la pietra,  creando un’atmosfera magica, da fiaba, con le ombre che disegnavano strane figure geometriche attorno a me. In quei momenti, in cui la diversa posizione del sole era l’unico segno che il tempo stesse trascorrendo anche per me e non si fosse fermato in giornate che trascorrevano identiche le une alle altre, mi sentivo in pace con il mondo e con me stessa. Felice. Il Louvre, che un tempo avevo sognato poter chiamare casa, era diventata la mia prigione.

Non avevo mai desiderato abbandonare la mia signora, ma avevo sempre sognato di sposarmi, di avere una mia famiglia, dei figli; non avrei mai amato nessun uomo quanto amavo l’Imperatore, ma desiderato ardentemente diventare madre, più di ogni altra cosa al mondo. Ero la pupilla dell’Imperatrice, avevo nobili natali ed ero giovane e bella, sapevo che in molti avevano chiesto la mia mano, ma tutti erano stati respinti con un secco diniego: non mio, né di Joséphine, ma suo. I giorni diventarono mesi, e i mesi anni, e io rimanevo sola mentre fanciulle molto più giovani di me mostravano i propri ventri rigonfi a corte, speranza di vita e amore. A me non era rimasto nulla, neppure la speranza che egli volesse usarmi come pedina politica, al pari di Eugene e Hortense: ero destinata ad una vita da nubile, ad osservare il mio corpo invecchiare poco a poco, insieme alla mia anima.

L’unico momento di gioia era il tramonto, lì, dove anni prima avevo assistito all’incoronazione.

Era un giorno di primavera del 1807, l’aria era tiepida e piacevole e la risata di un bambino mi raggiunse le orecchie colpendomi con la stessa intensità di una pugnalata al cuore.

I ricordi che ho di quel giorno sono confusi e sbiaditi, ma ciò che non dimenticherò mai è la sensazione di ineluttabilità del mio destino, la consapevolezza che nulla sarebbe mai cambiato. Mi chiesi quanto avrei impiegato ad annegare se mi fossi gettata nella Senna e poi rabbrividii: da quanto i miei genitori erano morti in mare avevo il terrore dell’acqua.

E, in fondo, sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di compiere quel gesto disperato. Corsi fino alla carrozza, e poi lungo i corridoi del Louvre, attirando occhiate stupite e perplesse di cui non mi curai neppure un attimo.

Non so se il destino ebbe pietà di me o fu solo un caso, so solo che quando crollai ai piedi di Joséphine, ella mi tese una mano inaspettata.

-Fatemi maritare, vi prego.

Non era solo il desiderio di maternità, ero ormai rassegnata all’idea di non diventarlo; era soprattutto il bisogno struggente di fuggire da lì, dall’immutabilità della mia vita che rischiava di soffocarmi. Non ero nulla. Non avevo nulla.

Solo lei.

-Pensavo non volessi.

-Non ho mai desiderato altro. Non ho mai parlato per rispetto, ma ho sempre sperato che prima o poi…

-Perché ora?

I suoi occhi erano guardinghi, come mai lo erano stati con me, e mi fece male, terribilmente male: tutto ciò che avevo sempre desiderato era renderla felice e fiera di me, e avevo fallito.

-Credevo… ti compiacessi delle sue attenzioni, che fossi diventata superba.

Fu come morire, quell’istante. Lei sapeva, forse aveva sempre saputo, eppure il suo amore per me non era mai mutato.

-Mia signora, io ho sempre desiderato solo essere degna di voi.

Joséphine si alzò dal suo divano e mi prese le mani, facendomi rialzare. –Piccola Claudia, siamo noi a non essere degni di te, io per prima. Hai l’aspetto gracile di un folletto, ma ha il cuore bellicoso di Marte. Avrei dovuto fare di più per te.

-Potete fare qualcosa ora. Vi prego.

-Henri Puyguilhem, marchese di Montpensier, è stato qui pocanzi. È rimasto vedovo da quattro anni e ora vorrebbe risposarsi per generare un erede. Non frequenta la corte ed è di antica nobiltà, per cui non credo tema le ire dell’Imperatore, ma…

-Nessun ma, mia signora. Starò benissimo.- Una vita lontana dalla corte, una casa da dirigere, un figlio… Non avrei potuto desiderare di più. Mi sarei inventata di nuovo e, anche se avrei costantemente sentito la mancanza della coppia imperiale, sapevo che era la scelta giusta.

-Claudia, ha il doppio della tua età.

-Non cerco l’amore mia signora, ma la serenità. Pensate che potrò trovarla?

Joséphine mi prese il volto tra le mani e annuì. –Mi mancherai.

 

 

1811 – Tenore

 

 

In quattro anni, la mia vita cambiò drasticamente. Claudia Montel si trasformò nella marchesa di Montpensier e io e mio marito diventammo famosi come mecenati: persino David si degnò di venirci a trovare, realizzando lo schizzo di un ritratto mio e di mio figlio.

Josephe Henri Puyguilhem nacque un anno dopo le nozze e divenne il nuovo marchese di Montpensier ad appena due anni. Ero stata una moglie felice, anche se una febbre troppo violenta mi aveva portato via prematuramente mio marito; Henri condivise il mio letto solo il tempo di generare un figlio, successivamente la nostra rimase una relazione puramente intellettuale.

Anche la Francia cambiò, in quegli anni: mi ero illusa che osservare le vicende da lontano le avrebbe rese più sopportabili, ma sbagliavo. Da un anno sul trono francese sedeva una donna che non era Joséphine, una nipote della regina che noi stessi avevamo decapitato, come infausto presagio che camminava e danzava e cantava tra noi. Perpetuo memento. Non ho mai conosciuto Maria Luisa, figlia d’Asburgo-Lorena, mio marito non aveva mai espresso il desiderio di recarsi a corte e io gli fui riconoscente; avevo rivisto la mia madrina una sola volta, subito dopo il parto, poi mi nascosi dietro l’impossibilità di lasciare mio figlio per giustificare le mie mancate visite. Sarei potuta andare alla Malmaison senza timore di incontrare Napoleone, ma la verità era che non sapevo come avrei reagito anche solo incontrando lei: lasciare la corte era stato il gesto più difficile della mia vita, raggiungere un equilibrio era stato un percorso lungo e difficile che, forse, non si sarebbe mai concluso. Le ferite erano ancora troppo fresche, nel 1811, gli incubi ancora ricorrenti.

Non si sfugge al destino, però, avrei dovuto saperlo, e con precisione aritmetica ciò che deve succedere, accadrà. Sempre.

Ero in visita da una vicina quando la notizia arrivò: l’Imperatore chiedeva riparo per la notte.

Nonostante fossi famose per il contegno sempre impeccabile, quella fu l’unica volta in cui impiegai alcuni minuti a ricompormi: fortunatamente la mia ospite non si stupì, giacché la notizia dell’arrivo dell’Imperatore da un momento all’altro avrebbe creato scombussolamenti a chiunque. Mi congedai in fretta e corsi a casa, sperando di non incontrarlo prima di cena: avevo bisogno di tempo, avevo bisogno di ritornare padrona di me stessa, delle mie emozioni. Napoleone sapeva chi era la signora di quella casa? Joséphine aveva fatto di tutto per tenergli nascosta l’identità di mio marito, ma egli aveva spie ovunque.

Padre Stefano, il precettore di mio figlio, mi comunicò che l’Imperatore era stato alloggiato nelle stanze del conte, proprio accanto alle mie: rimasi a fissare la porta chiusa per alcuni minuti, cercando di vincere l’istinto di fuggire o di aprirla, rivelando la mia presenza. Fu una cameriera a riscuotermi, comunicandomi che il bagno era pronto, ma la congedai in fretta, bisognosa di solitudine e silenzio.

Erano trascorsi quattro anni e il ricordo del nostro ultimo incontro bruciava ancora.

Non vi era stato giorno in cui non avessi pensato a lui. La maternità e la malattia del conte avevano riempito nel bene e nel male le mie giornate, ma quando di notte mi ritrovavo da sola, la mia immaginazione correva inevitabilmente a Lui.

Cosa sarebbe successo, di lì a poco, non riuscivo a prevederlo. Indossai un abito con il corpetto in seta bianco scollato davanti e una gonna a strisce bianche e gialle, mi feci acconciare elegantemente i capelli e truccare appena: ero la marchesa madre di Montpensier, ricoprivo quella parte da ormai così tanto tempo, ma quella notte qualsiasi maschera scivolò dal mio viso, rivelando semplicemente Claudia, la fanciulla innamorata di un uomo che non avrebbe mai potuto avere.

Mi aggrappai a mio figlio, mentre scendevo l’imponente scalinata, e mi sentii così sciocca, eppure il mio cuore palpitava di felicità: era di spalle ed ebbi alcuni istanti per osservarlo in silenzio prima che mi notasse. Solo allora mi resi conto di quanto ardentemente mi fosse mancato. Quando si voltò e il sorriso gli morì sulle labbra; lo vidi impallidire e seppi che, come il mio, anche il suo cuore si era fermato.

Padre Stefano si fece avanti per occuparsi delle presentazioni, ma io non mi accorsi di nulla: mi limitai ad osservarlo, semplicemente.

-Siete ancora di più bella di come vi ricordassi, marchesa.

-Voi siete sempre il solito, invece, Imperatore.

Se non fossi stata io, se non fosse stato lui, quella familiarità sarebbe stata sconvenite, ma noi… A noi tutto era concesso.

-Deduco vi conosciate già.- fu il commento perplesso del prete.

Io gli sorrisi, ma fu Napoleone a rispondere per me. – Sì. La vostra signora è cresciuta con la prima moglie, è la sua figlioccia. La conosco da quando non era che una bambina.

L’incontro nelle scuderie aleggiò tra di noi, seguito da altri frammenti di vita che avevamo condiviso e che, ne ero certa, neppure lui aveva mai dimenticato.

Non ricordo molto della serata, ciò che so è che poco a poco tutti si congedarono finché nel salotto non rimanemmo che io e l’Imperatore.

Soli, come da tempo accadeva. Vicini, come mai eravamo stati.

-Josephe, dunque. È un bel bambino.

-Henri mi ha lasciato scegliere il nome e non poteva essere che quello. Joséphine è stata più che una madre per me.

-Lo so, è stata importante per entrambi. Non avrei mai voluto lasciarla.

Annuii appena. La ragione di Stato. La necessità di un erede.

-Sono felice che il parto dell’Imperatrice sia andato a buon fine e che il re di Roma goda di ottima salute.

Napoleone si alzò di scatto e iniziò a camminare lungo il salottino, nervoso almeno quanto io ero calma, in attesa di un’esplosione che non tardò ad arrivare.

-Vi credevo in Italia, lontana da me, e invece eravate qui, a due ore da Parigi!

-Non è stato facile, mio signore, credetemi.

-Perché, allora?

Lui sapeva, così come sapevo io. –Non avrei mai potuto tradire la mia madrina e non sopportavo la punizione che…

-Punizione?

-Negate, forse, che volevate punirmi privandomi di un marito, costringendomi a vivere da sola tutta la mia vita.

Qualcosa cambiò tra di noi, in quel momento: lo percepii nell’aria, e nei suoi occhi. Cadde ai miei piedi, letteralmente, e mi prese le mani tra le sue.

-Oh, Claudia, cos’ho fatto? Io non sopportavo l’idea di perdervi, per questo non ho mai acconsentito ad alcun corteggiamento.

Si chinò sulle mie mani e io dovetti fare appello a tutte le mie forze per non tremare. Il silenzio si prolungò al punto che mi parve di impazzire, ma proprio quando ero sul punto di spezzarlo, egli parlò di nuovo.

-Sono stato così egoista, ma l’amore è così, egoista e crudele, e io vi amo, Claudia, ardentemente, sin dal primo istante in cui vi vidi. Potrete mai perdonarmi?

Non avrei mai potuto perdonarlo, ma non avrei mai perdonato neppure me per ciò che stavo per fare. Eppure, in quell’istante, in quella notte qualunque, nulla appariva più giusto.

Mio marito era morto e Maria Luisa non era nulla per me.

Napoleone, però, era tutto il mio mondo.

Il primo bacio fu una scoperta, timida e incerta, il secondo una rivelazione.

Lussuria, struggente desiderio. Mi aveva chiamata Eos, molti anni prima, ma quella notte non sarei stata altro che Venere.

L’amore.

 

 

 

1814 – Baritono

Quando i miei genitori erano morti non ero che una bambina: avevo pianto, sì, ma poi mi ero ripresa, grazie a Joséphine. Il profumo delle rose aveva invaso ogni angolo di quel luogo ameno, ma quel giorno la Malmaison faceva onore al suo nome: il 28 maggio 1814 splendeva il sole sul castello di Joséphine, ma tutto ciò che vedevo erano ombre e dolore.

Ero giunta di corsa alcuni giorni prima, richiamata da una lettera che lasciava poco spazio all’immaginazione: la mia antica protettrice stava morendo e desiderava vedermi un’ultima volta. Neppure per un istante pensai di rimandare: affidai mio figlio a padre Stefano, feci preparare le valigie e neppure un’ora dopo l’arrivo del messo ero in viaggio, diretta verso una donna che per me era stata tutto il mio mondo e che non avevo mai ringraziato abbastanza. Temevo di non avere più tempo per farlo.

La donna che trovai non era che lo spettro di quella che era stata: nel giro di una settimana la polmonite l’aveva resa ancor più magra e pallida di quanto già non fosse e i suoi occhi, un tempo sempre lieti e luminosi, erano come spenti.

Trascorsi con lei quattro giorni e tre notti, dormendo poco e mangiando ancora meno, allontanandomi dal suo capezzale solo lo stretto necessario: la accudii come lei aveva accudito una bambina che non era la sua, ma amandola come se fosse sangue del suo sangue. Non sarebbe mai servito a ripagare l’enorme debito nei suoi confronti, ma era il minimo che avrei potuto fare. L’attività, inoltre, mi impediva di pensare a come sarebbe stato il mondo senza di lei, a come sarebbe stata la mia vita. Ero una donna matura, con una casa da governare e un figlio da crescere, ma per quanto  osannassi la mia indipendenza, ero perfettamente conscia di come non mi fossi mai davvero separata da lei, di come, anche in quegli anni di separazione, mi fossi costantemente chiesta cosa lei avrebbe pensato delle mie azioni e delle mie scelte, come lei si sarebbe comportata. Joséphine di Beauharnais era l’unico modello di donna a cui avessi mai aspirato, nel bene e nel male.

La luna, il 28 maggio, era nel primo quarto, e io e Joséphine ci fermammo ad osservarla attraverso la finestra della sua camera da letto: l’aria era tiepida e la mia madrina sembrava stare meglio.

-Sai, ricordo ancora il giorno in cui mi portarono la notizia della morte dei tuoi genitori. Tua madre era la mia più cara amica e le avevo giurato che mi sarei presa cura di te, se le fosse mai successo qualcosa: non credevo, però, che si arrivasse a tanto. Immaginavo che, quando fossi diventata più grande, ti avrei accolta a Parigi per farti conoscere la corte più famosa d’Europa, ma…

Le si incrinò la voce, mentre gli occhi osservavano ricordi che io non potevo vedere. La pregai di tacere, ma non volle darmi ascolto.

-Ti ho amata come una figlia, Claudia, sin dal primo momento in cui mettesti piede in casa mia, spaventata e sola, ma vorrei aver fatto di più per te. Hai subito gli orrori del Terrore, a causa mia, e dopo il ruolo di Imperatrice non mi ha permesso di darti le attenzioni che meritavi.

-Mia signora, voi mi avete dato una vita che non avrei mai osato sperare.

-Una vita che comprendeva lui.

Lui, il terzo membro di quello strano triangolo che aveva segnato la mia intera esistenza e che, nonostante le distanze, non si sarebbe mai risolto. Lui, l’Imperatore esiliato, l’uomo che entrambe avevamo amato, anche se in maniera diversa.

Il volto di Josephine era pallido e incavato, ma per me sarebbe rimasta sempre la bellissima donna che mi aveva affascinato tanti anni prima, che con il suo fascino aveva fatto innamorare i suoi sudditi, nonostante fosse osteggiata dalla famiglia del marito e da molte personalità di spicco. Aveva camminato a testa alta, in ogni istante, in prigione o davanti all’altare di Notre Dame, e a testa alta era uscita di scena, senza scandali o scalpore, con un ultimo solenne gesto d’amore. Una donna così, forse, il mondo non l’aveva mai vista, né l’avrebbe vista mai.

-Noi siamo come quelle tre stelle lì su, inesorabilmente destinate a stare vicine- Alzò debolmente il braccio, indicando un triangolo di stelle in cielo. –Sai che costellazione è?

-Il triangolo.

-Ho fatto bene a farti studiare astronomia, dunque.

Sorrisi, e sorrise anche lei, ricordando gli antichi conflitti sulla mia istruzione, che solitamente si risolvevano in una risata.

-Non avete sbagliato nulla con me.

Joséphine annuì –Ho sbagliato, ma nonostante ciò sei diventata una splendida donna. Lo capisco, sai? So che ti ha vista, anni fa.

Quella rivelazione mi colse alla sprovvista e non riuscii a evitare di arrossire. Lei sapeva?

-Mi dispiace.

-Per cosa? Per aver ceduto ad una debolezza? Per esserti comportata da umana? La perfezione non è di questo mondo, non importa quanto tu possa cercarla. Ho fatto infiniti errori in vita mia, soprattutto con Napoleone, ma non mi pento di nulla. Non farlo neppure tu.

Provai a parlare, ma un nodo in gola me lo impedì. Joséphine lo notò e sorrise. –Non ha amato solo noi, sai? Anni fa, molti anni fa, perse la testa per una polacca, quella Maria Laczynska.

Storse il naso e io soffocai una risata. Ricordavo bene quel nome, così come quello del figlio che l’Imperatore aveva avuto da lei, Alessandro: l’avevo odiata, allora, perché lei aveva potuto avere ciò che io pensavo sarebbe rimasto solo un sogno, il suo amore.

-Quello che intendo è che per un periodo sono stata avara, lo volevo solo per me, ma poi ho capito che limitare i suoi sentimenti sarebbe stato impossibile. Napoleone era così, passionale nella guerra come nell’amore e capisco perché tu te ne sia innamorata, ma capisco anche perché lui abbia amato te.

Mi tese una mano e io la presi: era calda e debole, ma non tremò neppure un istante.

-Nel terzo cassetto troverai una lettera chiusa con un nastro verde, è per Napoleone e vorrei che tu gliela portassi. È l’ultimo favore che ti chiedo.

-Cosa ne sarà di me poi?

Cosa avrei fatto, senza la sua luce a guidarmi?

-La vita va avanti.- mi rispose.

Era quella la fine, dunque? Eppure non mi era mai parsa tanto bella come in quel momento, come se tutti i conflitti che avevano contraddistinto la sua vita fossero svaniti in un soffio. La bellezza delle debolezze, delle imperfezioni, di una donna che aveva accettato se stessa molto tempo prima e che aveva lasciato al mondo –a me- una grande lezione: non importava quanto la vita l’avesse messa alla prova, lei era sempre sopravvissuta, a qualsiasi costo.

Quando mi svegliai, la mattina dopo, Joséphine sembrava dormire, ma la mano nella mia era fredda e inanimata.

 

 

1820– Basso

Quando Joséphine morì la stella di Napoleone era già tramontata ed egli si trovava in esilio all’Elba. Avrei desiderato partire subito, ma un’epidemia colpì le zone limitrofe a Parigi e io mi allontanai con mio figlio, per proteggerlo: quando l’allarme rientrò, era ormai inverno e un viaggio per mare era sconsigliato. Dovettero trascorrere sei anni prima che potessi rivederlo: i Cento Giorni erano divenuti un monito e le visite concesse all’antico Imperatore, nella sperduta isola di Sant’Elena, erano molto ridotte. Vi giunsi nell’ottobre del 1820, dopo un viaggio difficile durato due mesi: Joseph era ormai adulto e poteva sopportare l’assenza di sua madre. Non ne era stato felice, aveva imparato presto a comprendere il mondo e la sua politica, ma il suo titolo e il suo buon nome erano tali che una visita della marchesa al marito della sua antica madrina non avrebbe compromesso molto. Non ero che una donna, dopotutto, agli occhi del mondo. Ai suoi, ero l’amata madre a cui non avrebbe mai negato nulla, soprattutto perché non gli avevo mai nascosto nulla dei miei trascorsi presso Joséphine.

Quando toccai terra ricominciai a respirare normalmente, ma il sollievo dell’essere fuori da quella nave durò poco: Longwood House era una dimora antiquata e piccola, troppo piccola, per un uomo che aveva dormito nei più bei palazzi d’Europa, e mentre vi entravo mi chiesi chi avrei trovato, oltre la porta della biblioteca. L’ultima volta che l’avevo visto era un uomo all’apice del potere, con un’alleata potente come l’Austria e un erede al trono.

L’uomo che trovai mi riportò ad anni prima, ad un altro spettro, ma se Joséphine nei suoi ultimi momenti era in pace, Napoleone era un leone in gabbia, privo di qualsiasi speranza.

-Claudia?

Sconcerto, perplessit, timore?

-O sono totalmente impazzito, oppure sei tu.

-Sono più vecchia, mio signore, ma sono io.- gli sorrisi e amai vederlo farlo a sua volta.

-Ti hanno fatta venire.

Mi venne incontro con l’agilità che l’aveva sempre contraddistinto e mi prese le mani nelle sue, ancora stupito per quello che aveva davanti.

-Io e mio figlio abbiamo dovuto chiedere un po’ di favori in giro, ma alla fine ci sono riuscita.

-Perché?

-Perché non vi ricordate che le buone maniere, che in questo luogo abbandonato da Dio avete evidentemente dimenticato, e mi invitate a fare una passeggiata?

Indossò una giacca e mi diede il braccio.

Trascorsi a Sant’Elena una settimana, e in quei sette giorni parlammo come mai avevamo avuto la possibilità di fare, troppo compressi dagli impegni di stato, o impegnati a ferirci reciprocamente. Parlammo del passato, di Joséphine, della Corsica, ritornammo alle origini, al giorno della mia nascita, dodici anni dopo la sua, e infine di nuovo lì, al presente, su quell’isola lontano da tutto ciò che avevamo sempre chiamato casa. Mi chiesi come avesse fatto a non impazzire, ma non lo domandai mai a lui.

Cavalcammo, ricordando il mio Violino, e ci sfidammo a gare di retorica davanti ad una platea di domestici che, davanti a sir Hudson Lowe, il carceriere, trattenevano le risa.

Io trattenevo l’ira, invece, davanti alle condizioni pessime in cui Napoleone era costretto a vivere, ma tacqui per paura di peggiorare la situazione; inoltre, dubitavo che lui avrebbe accettato il mio aiuto senza sentirsi svilito, così continuai a sorridere, imperturbabile, fino alla fine.

L’ultima notte la trascorremmo all’aperto, chiedendoci se il cielo fosse blu o nero, parlando di nulla, lasciando che fossero i pensieri a colmare i silenzi. Era quasi l’alba quando infine glielo chiesi.

-Ve ne siete mai pentito? Avete mai desiderato aver avuto una vita tranquilla, in Corsica, invecchiando con vostra moglie e crescendo i vostri figli?

Non esitò neppure un istante. –Mai. Ero destinato a questo, mia Claudia. A tutto questo. - La gloria, il potere, il crollo. Napoleone si era aggrappato al suo sogno per tutta la vita, con l’incrollabile certezza di essere predestinato alla grandezza. –E tu eri destinata a me. Tu e Joséphine. Mi avete reso un uomo migliore e di tutte le persone che si sono dette mie amiche, siete state le uniche a esserlo davvero.

Quattro ore dopo attendevamo che le operazioni di carico e scarico della nave terminassero, per poter ripartire.

-Sono stata Eos e Venere, oggi sarò Mercurio.

Presi dalla borsa la lettera di Joséphine, con il sigillo intatto come il giorno in cui l’avevo ricevuta.

-È un onore per me avervi conosciuto, signor Buonaparte.

Il cognome che aveva quando ci eravamo conosciuti, una frase che ricalcava la prima che gli avevo detto.

-Addio, mio adorata Claudia.

Non lo rividi più.

 

 

 

 

Note: per prima cosa, Claudia è un personaggio assolutamente inventato, ma i fatti storici narrati (l'attentato, l'incoronazione e via dicendo) sono dati reali, così come reali sono, ovviamente, Napoleone e Josephine. Questa storia parla di tutto, e non parla di nulla. Parla di amore, di diversi tipi d’amore. C’è quello riconoscente e filiale verso Joséphine, e c’è quello romantico ma impossibile da vivere per Napoleone. E poi c’è l’amore della coppia imperiale verso di lei, di Claudia. È un triangolo, ma un triangolo anomalo in cui tutti amano tutti, benché in maniera diversa, e questi amori non sono mai completi, non giungono mai a compimento, neppure nel 1811, perché anche allora tra Claudia e Napoleone aleggia il pensiero di Joséphine. Non so davvero cosa dire, se non che è una storia che avevo in mente da anni e che era giunto il momento di scrivere. In tutti e sette i momenti trovate i colori dell’arcobaleno, le chiavi musicali, i vizi capitali, i cieli dell’antichità e le arti liberali, spero siate riusciti a riconoscerli. E spero che sia stata una piacevole lettura.

   
 
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