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Autore: Mao_chan91    30/04/2007    8 recensioni
...ma non è certa di voler incontrare ancora quello che vuole essere un sorriso rassicurante su un armatura senza vita, che stringendo un Ed particolarmente infiacchito tra le giunture meccaniche, nervosamente le ripeterà che va tutto bene.
E per quale ragione non dovrebbe credergli, dopotutto?
Non potrebbe opporsi a niente, come sempre, in alcun modo.
[Post-trasmutazione umana, pre-viaggio, spesso angst]
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Elric, Winry Rockbell
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#03 Personal Jesus – Trauma

Someone to hear your prayers
Someone who cares
Your own personal Jesus
Someone to hear your prayers
Someone who's there

[Personal Jesus, Depeche mode]

E non sai
"Niente? Non vedi niente? Non ricordi
Niente?"
[…]
"Sei vivo, o no? Non hai niente nella testa?"

[La terra desolata, T. Elliot]

-

"Per favore, nii-san, non rendere le cose più difficili. Sono già tanto stanco."

Giorni di vuoto poco distanti; Ed lo fissa, e l’ha già perso.

Il morbido fratellino partorito dalla mamma per premiare la sua scontrosità, vincere l’indifferenza persa ed ora riacquisito, perché ha perso suo fratello, e suo fratello ha perso sé stesso.

Sulla carrozzella, cinto nel bianco lo osserva, scuote la testa; non vuole uscire fuori, dove il sole lo abbaglierà, e dipenderà ancora e ancora da Al, dalle mani non sue che lo trasporteranno, accorte ed inerti.

Winry li fissa, in casa alle loro spalle, sgomenta dalla tensione di Ed, ingentilita nella giovane età, bambina spaurita in un litigio che litigio non è, eppure l’uno è stanco, deluso, afflitto; l’altro è così scomposto da non permettere di definire cosa sia.

Ella tende le labbra, lentamente schiudendole; ma non ha voce in gola per gridare.

Né ha avuto voce per gridare ai suoi genitori di non lasciarla indietro; non in loro presenza.

Soffocandosi ha pianto, premendosi le dita sulla gola per non fare troppo rumore e non tormentare nessuno col suo dolore, solo consumarlo in santa pace.

Allo stesso modo ora può solo proteggerlo schermandolo con la schiena sottile davanti allo sguardo spento di Al, scuotendo vigorosamente la testa.

No.

Edward le porge un esanime sorriso, gli occhi incavati nel viso simili a bottoni cinerei e sottili su campo bianco opaco, senza spessore, senza riguardo per l’insostenibile visione che le sta ora procurando, turbandola.

E’ dura.

E’ semplicemente troppo dura per spalle così infime e lo sguardo debole di lei, che ora cerca rifugio tra le pieghe della gonna a fiori fissandole come se gliene importasse qualcosa, quando in verità trema forte per pura frustrazione.

Lo sguardo opprimente di lui è così pesante da parere metallico ed aspro, stridente contro la testa china ch’ella gli volge.

Non c’è altra soluzione.

"Senti. Senti, Al, lo porto io." ella s’illumina allora, fievole luce mattutina nella stanza scura, rifugiandosi in questa scusa per fissare senza ragione il volto realmente metallico di Al che non le porge alcuna espressione né l’opprime fortemente come quello di Ed, annuendo piano.

Anche se il suo metallico lo è davvero.

-

"Guarda. Ricordi che da piccoli ci sedevamo spesso qui a far rimbalzare sassolini sull’acqua?"

Mossa sbagliata.

Rivangare ancora e ancora il passato non è esattamente la cosa che più possa confortarlo, mentre ella lo parcheggia con la carrozzella accanto a lei, sulla parte meno scoscesa della riva del lago, fissandolo in cerca d’un minimo, insensato incitamento a proseguire col suo tardo riesumare memorie lorde di terra ed ossa.

Sei felice? No, non puoi essere felice. Cosa posso fare per renderti meno infelice?

Lui fissa il cielo appena celato dalle ombre degli alberi, dinanzi a lui, seppur senza vederlo.

Quello che invece vedono i suoi occhi devastati, è precluso a chiunque altro.

"Ricordo. Qui è dove io ed Al litigammo per qualche stupidaggine."

Per sposare me, Ed.

E’ ancora vivo.

Nonostante tutto, lei ringrazia ora ogni Dio le venga in mente per quelle scarne e avvilenti parole.

-

Al.

Il primo colpo.

Perdonami, Al.

Il secondo colpo.

Perdonami se ho sorriso, Al.

Un altro ancora.

Non volevo sorridere, Al, davvero. Non volevo.

"Nii-san, cosa…"

Scusami.

La visione lo atterrisce, e così non riesce più a ragionare; dapprima indietreggia pesantemente, gemendo come un pianoforte dalle corde rotte, poi scuote forte la testa, soccorrendolo e scuotendolo un poco.

Perché così non va, non va affatto.

L’ha fatto di nuovo.

Ha di nuovo preferito la propria felicità a discapito della sua preoccupazione.

Dovresti smetterla, nii-san. Ci farai ancora preoccupare tutti.

Eppure, dolcemente, lo raccoglie come sempre, tra scricchiolii di giunture non oliate ed odore di pena che solo chi, come lui, non può sentire col naso può percepire.

Il retrogusto amaro di un impeto instancabile che ogni notte aggredisce Ed con furia animale, componendolo in pezzi simili a sabbia, allontanandoli ed avvicinandoli sempre di più.

Guarda, Al, nessuna ferita. Io sto bene, Al. Credimi, Al.

Ci sono cose che solo Al può capire.

Poiché è una femmina, è sempre stato lecito escluderla dai nostri segreti, i nostri “affari tra uomini”.

Ci sono cose che solo Al non può capire.

Poiché è una femmina, non possiamo permettere che soffra con noi, perché sarebbe ancora più doloroso.

Ci sono cose che solo ad Al non desidera dire.

Anche se prendere a testate il muro come espiazione non è normale.

E Winry sarà già troppo inquieta per rendere tanto più salate le giornate insapori che condividono.

Ultimamente lei di notte, infatti, ha spesso sentito rumori che l’hanno fatta stringere di più alla coperta, gelidi fremiti a pizzicarle la schiena vibrandone fortemente ogni muscolo sobbalzante e scalpitante, ma non è certa di voler incontrare ancora quello che vuole essere un sorriso rassicurante su un armatura senza vita, che stringendo un Ed particolarmente infiacchito tra le giunture meccaniche, nervosamente le ripeterà che va tutto bene.

E per quale ragione non dovrebbe credergli, dopotutto?

Non potrebbe opporsi a niente, come sempre, in alcun modo.

-

"Preparerò dei biscotti."

Non sai preparare biscotti, Winry. Perché allora te lo riproponi?

La carrozzella di Ed è ancora voltata verso la finestra, così non può vedere cosa manifesti in viso; non può, principalmente, vedere se manifesti qualcosa in viso.

Perché anche il minimo stimolo può essergli vitale. Anche una parola può fargli riaprire gli occhi.

"Dai, non ridere, Ed. Imparerò in fretta a farli. Davvero."

Ridi. Ti prego.

Non c’è risposta al suo replicarsi da sola quando lui non risponderà né riderà.

Riempire il silenzio con le proprie parole è quanto l’aiuti a non sentirsi sola, quando lui non le risponde mai.

Non si è mai sentita così stupida, ma non si è nemmeno mai sentita così sola.

Preparerò biscotti per lui perché sarà come vivere con qualcuno affianco, quando Al non respira e la nonna me li affida entrambi per lavorare. Leggerò un libro per imparare a prepararli.

Gli passa accanto per svuotare il vaso di fiori appassiti a lui accanto.

E’ un mese che dimentica di annaffiarli.

E saranno i più buoni biscotti che abbia mai assaggiato. Davvero, bruciacchiati o meno avranno il sapore della mia vicinanza. Il sapore di me.

Armeggia a lungo, muscoli tesi e viso tirato, ai fornelli, senza distrarre un istante gli occhi.

Consumandoli sino a farli lacrimare, bruciandosi le dita.

Porgendogli il prodotto delle sue fatiche con mani timide ed affannate, scivolose di sudore e nere di bruciature.

Lui non allunga le mani a prenderli, si limita a riflettere i suoi occhi in uno sguardo sconsolato.

Facendosi un poco forza, allunga il collo a prenderne uno tra i denti.

"Mh. Sai…"

Mastica piano, assaporando con lentezza senza poi alcun reale interesse nel paesaggio che aveva sino ad allora scrutato ed ora disinvoltamente abbandona temporaneamente.

"…la mamma ne faceva di buonissimi. E’ dura trovarne di buoni come quelli."

Lei trema, un poco, scostante e ferita con gli occhi lucenti di lacrime rabbiose ed esauste, poi lasciandogli cadere il piatto sulle ginocchia per crollare lontano, congedandosi con labbra morbidamente celate da una mano opprimente.

Non so che fare. Non so cosa dare. Non c’è altro. Niente. Niente. Non so che fare. Non so che fare.

Lui volta leggermente la carrozzella a guardarla, e la fissa un poco, senza forze per schiudere le labbra e dirle che il punto era che, dopotutto, gli piacevano tantissimo anche questi.

Il vento rumoreggia alle sue spalle, ed è ingiusto sforzarsi di percepire ogni più velato di lei singulto, quando lei vorrebbe solo stroncare la propria vita se è così inutile, e sarebbe ancora più inutile se lui non la riconoscesse come solido supporto ; dopotutto può capirla, e torna a fissare a lungo il cielo, voltandosi.

-

Questa volta sta per giungere una giornata dura, una giornata spaventosa.

Lui può sentire le mani di lei tremare anche mentre gli pettina i capelli per poi intrecciarli, ed Al tiene il capo fisso su di loro, rannicchiato a ridosso di un muro, indecifrabile e terrificante come non può che essere un’armatura senza respiro che è in vita.

Solo, li guarda.

Lei rammenta, tremante, lo sguardo puro e coraggioso di Ed, sempre levato su chiunque lo fissasse, bambino impertinente e sicuro di sé.

Lo sguardo protettivo che sempre aveva rivolto ad Al.

E di questi ricordi non fanno parte le scuri che sono diventate i suoi occhi che si aprono a fatica, senza fiato e taglienti nei bulbi oculari brucianti di sudore salato, avvelenati dalla visione liscia dei riflessi del sole su di Al.

I riflessi dell’oggetto che lo hai fatto diventare.

"Non ci vorrà molto." lei lo incoraggia per salvarlo ancora e ancora d’ogni constatazione infelice che gli comporti la visione lucente di Al.

Ed entrerai in quel maledetto esercito. Lontano da me.

Lui abbassa il capo lentamente, e lei si volta per adagiarselo su un fianco senza che Al lo scorga chiaramente, come un gesto casuale.

Potrebbe essere bellissimo averti lontano da qui, senza nuove torture, senza espressione.

Lo stringe teneramente, pur certa che se fosse più in forze l’allontanerebbe nuovamente con parole amare perché no, davanti ad Al non si può fare.

Ma non sarà bellissimo; sarà terrificante. Più spaventoso del tuo viso perso in quello che non c’è più.

Sopprimerà un’altra volta la voce nel rendergli arti tangibili, nel pomeriggio.

Chissà se tornerai. Chissà se vorrai ritornare. Ma io attenderò con pazienza; sei ancora qui e già sono confusa.

Quando Al tremerà davanti alla porta compensando l’assenza di urla fraterne, in un terrore che gli bagnerebbe gli occhi, se potesse accadere.

Se avesse degli occhi.

-

Sei così fortunato, nii-san. Tu puoi ancora mangiare. E’ molto buono, te lo assicuro.

Un colpo e non sanguina.

E’ colpa mia scusami perdonami ancora e ancora. [Chissà se mi odia. Chissà quanto mi odia.]

Batte la testa un’altra volta, stridente rincorsa delle ruote, pesante di molli arti che non può ancora utilizzare.

E’ colpa mia scusami perdonami lasciami scontare la pena. [Come posso rimediare? Va bene se rimedio così?]

Il cuoio capelluto diventa livido con lentezza, coperto fittamente dalla massa bionda che ormai lascia crescere a piacimento d’essa a quest’unico scopo.

Se non la celasse appieno sarebbe tutto inutile.

Un fugace pensiero gl’allevia il peso in animo, e passa l’unica mano di carne sul ginocchio meccanico, serrando le dita a gettarlo giù dalla carrozzella per ovattare gentilmente il suono delle ruote sul pavimento.

E’ colpa mia scusami perdonami non farò altro rumore. [Io l’ho messo in un corpo che odia. Io continuo a rovinare tutto.]

Quando non ha altre forze si limita a crollare il capo pesantissimo sulla spalla, ansante e fiero come un leone arruffato dopo aver dato la caccia a una gazzella.

Non ha nemmeno svegliato Al.

Va bene così.

Ed andrà meglio di giorno in giorno, camminando, camminando con Al e salutando Winry.

Allontanandosi dai ricordi, che sono oggetti da fare a pezzi e seppellire lontano.

Al sarà l’unico ricordo che porterà con sé.

Al sarà l’unico oggetto che porterà con sé.

Perché non è nient’altro che questo, oramai. A causa mia. [Ed è colpa mia, scusami. Perdonami sino alla morte.]

-

"Davvero, non disturbarti più di così. Nii-san è mia responsabilità. Lo accompagno io. Se si stancasse troppo non potresti certo portartelo in spalla."

Al l’accompagna sorridente con lo sguardo; qualcosa che entrambi gli undicenni presenti possono discernere solo dall’inclinazione tranquilla del capo, il premere gentilmente le mani alle basse spalle del fratello che non lo guarda, ma guarda il muro.

Non vuole più guardarlo se può evitare di farlo.

Può solo annuire.

"Non è mica così debole. No, ce la farei." ribatte lei supplicandolo con la fermezza della presa all’indumento che ha tra le dita.

E’ basso e deperito, accidenti. Ovvio che non pesi tanto, auto-mail a parte.

"E’…lo stesso, sì." sussurra lui un poco incerto, cercando di stabilire chi dei due abbia già fatto troppo per lui, ma è una scelta troppo, troppo difficile; così non sceglie affatto, e lei gli porge la giacca rossa perché è inverno e se no prenderà freddo.

Lo avvolge col calore delle acque profonde in cui sono immersi i suoi occhi, e lui farà per sempre tesoro di questa visione afflitta, vulnerabile ed inattesa.

Lo sta lasciando andare, e non è nemmeno totalmente certo di volere questo.

"…Al. Senti, Al. Io non voglio…disturbare nemmeno te. Ecco. A lei non pesa, a lei…non devo…così tanto."

"Ma nemmeno a me pesa, nii-san."

Ma se i tuoi occhi fossero qui diresti il contrario.

"Vuoi farti aiutare da una ragazza, nii-san?"

Ma se uno specchio riflettesse la tua sagoma spigolosa, se scorgessi sul suolo la tua ombra innaturale, tremeresti.

"…sì, io..sì. Voglio farmi aiutare da una ragazza."

"Nii-san…"

I fratelli si fissano un poco, senza comprendersi, e l’amica timidamente esulta in cuore, sperando di aver inconsapevolmente sfiorato le corde giuste di quello di Ed.

Sperando di riuscire a scioglierle una per una, ma senza fretta, dai vigorosi e stretti nodi che le stringono, rendendo mostruose e senza sonno le sue notti come quelle di Al.

-

Ha desiderato testare gli auto-mail ora che è ancora fresco d’intervento, e gli arti non gli rispondono certo bene, ai primi comandi.

Flettiti. Piegati. Indietro. Avanti. Su. Giù.

Camminano vicini per la strada, ed in preda ad un istinto impetuoso lui si ferma e fissa un albero.

Lentamente si concentra per flettere le dita e chiudere il pugno argenteo, poi lo abbatte con forza contro la corteccia ruvida ed incisa di ombre profonde.

Non fa male.

Né ottiene di scuotere l’albero, poiché il gesto l’ha stancato, ma non è ancora pienamente in forze.

Dovrà diventare molto, molto più abile di così.

Lei lo guarda un poco, curiosamente, e lo chiama sfregandovi lo sguardo addosso da lontano.

Lui lo percepisce nitidamente, dunque la segue ancora, sguardo sempre l’uno sulla schiena dell’altra e poi viceversa; cambiano di posto allontanandosi sempre maggiormente.

Sono infelici quando riposano le caviglie stanche sull’erba ruvida ed affatto confortevole al primo pomeriggio; non parlano, non fiatano neanche per timore di darsi vicendevolmente fastidio.

Così diventano pian piano più pallidi, senza guardarsi negli occhi dalle palpebre pesanti d’un insonnia condivisa, che va avanti da giorni e giorni, da quando lui si è sforzato di non urtare più i nervi altrui rumoreggiando contro il muro.

Lei ha teso le orecchie per sentirlo, vegliando a lungo; ed ha preso questa situazione di controllo.

Né lui può più andare avanti nell’espiare ogni colpa, se questo può sconfortarla tanto; se questo può sospingerla a reagire in qualche maniera.

Perché non sarebbe giusto per nessuno.

Così lui si alza, sentendo l’erba troppo fievole e lieta tra i piedi nudi delle scarpe accostate ad entrambi, e vuole allontanarsi, mentre lei lo guarda.

C’è qualcosa d’insostenibile in tutta quest’atmosfera candida e silenziosa, qualcosa di macchiato.

Qualcosa che non sono né gli occhi stanchi, gelati di lei, né il putridume riversato nel fiumiciattolo dai depositi alluvionali degli ultimi giorni; qualcosa che a spiegarlo a parole è una gratitudine incerta, un soppesare nuove e nuove colpe, un capire di aver negato qualcosa a qualcuno un’altra volta.

"…c’è ancora qualcosa che non va bene, in questo posto tranquillo, sai?" lei spezza il silenzio con la disinvoltura casuale e soppesata d’una sensibilità per lui e non altri, che non urta, non crepa gli arti tenuti insieme da un’attenta saldatura e non ossa, e con esse la nuova maschera di ferro di lui.

Perché se stringo i pugni, può sembrare una contrazione involontaria.

"E questo non sei tu, eh.", prosegue ella, serenamente, d’una serenità inquieta e disturbante, perché lei, che lo fissa, per una volta, dal basso, non ha motivo d’essere serena; può scagionarla soltanto premendo sul fatto che il cullarli del vento, inibendoli, li affondi entrambi nella dolce dimenticanza d’un posto pieno della parte migliore dei ricordi, non quella crudele.

Se non ricorda altro, non può essere infelice.

Perché se anche solo accosto un pugno falso ad uno vero, non si può vedere quanto faccia male.

"Io non…voglio che tu pensi male di te stesso.

Perché se tu non avessi provato sulla pelle le cose sbagliate, non sapresti che lo sono, ed ora saresti insoddisfatto.

Hai pagato un prezzo e non ottenuto quanto volevi, ma non c’è una scelta totalmente felice.

Non c’è mai.

Se ci fosse, sarebbero sempre tutti felici e contenti, e non è così.

Se non è così, va bene; hai sbagliato, ma non completamente.

Quando si fa qualcosa per qualcuno a cui si tiene, non si è mai del tutto razionali.

Ed il valore di una persona non si misura né in centimetri, né nella quantità di sangue che versa.

Non meriti di…passare ancora questo.

Di scontare così, perché esistono parole più confortanti e buone, che alleviano il dolore, risolvono tante cose ma non tutto; perché hai già pagato abbastanza.

Non è il modo giusto di farti perdonare, questo; lo sai, no?"

Lui è un poco turbato e qualcosa pulsa, distintamente, tra le tempie e le sue orecchie; sangue ribolle d’un ribollire dolceaspro, eppure in breve è tutto passato, il tempo di contrarre un labbro in dolore e rovinare giù sul prato, pesantemente su di lei che lo guardava, seduta, di fronte a lui.

L’auto-mail nuovo non ha risposto affatto, affatto bene; se prima voleva allentarsi, che ancora forza un sorriso confermandogli che va tutto bene, anche se i battiti accelerati del suo cuore affermano il contrario.

Perché se no sarebbe un nuovo motivo di contrariarsi, di odiarsi, di sapere di aver sbagliato ancora.

Così lei è gentile e lui alza il braccio per sollevarsi, carponi, fissandola senza scampo negl’occhi; non c’è altra via, non c’è altro da guardare se non iridi spaventate e gentili che paiono tastarlo con la gentilezza d’un paio di carezze sul viso contrito ed inumano.

Non va affatto bene, perché lui scivola ancora, troppo sconvolto per avere una minima padronanza degli auto-mail sul suo corpo ormai da innumerevoli mesi; sente il petto di lei sconvolgersi ancora e ancora, caldo ed accogliente, in una maniera che non aveva mai attestato fosse per davvero.

Piacevole.

"Se…se…"

"…se?"

"Se ti calmassi, sarebbe come il respiro della mamma. E…sarebbe molto bello."

Ed arrossisce lievemente, scontroso e timido come non mai, e lei chiude gli occhi ed espira forte, difficoltosamente placandosi, per accoglierselo calma in seno.

Guida il suo capo sul proprio cuore, aspro ed incerto in puerile pudore, e lì lui giace a lungo, riposando le palpebre, ammorbidendo la rigidità dei muscoli tesi, ed è salvo tra quei battiti di cuore che paiono scandire lentamente che è stato salvato e va tutto bene, va tutto bene.

Anche se poi dimenticherà questa sorta di momento intimo tra loro, tenero e vellutato, in favore d’un senso di colpa che gl’imporrà di dimenticare per non detestarsi ancora, perché Al questo quietarsi d’animo non potrà provarlo.

Lentamente, impara a proteggere sé stesso.

-

In altri mesi lui è pronto a partire, più alto e segnato di ferite visibili, che fanno sperare dentro ve ne siano poche.

Al sorride più affabilmente, perché il placarsi fraterno ha turbato meno lui, il loro rapporto; la serenità con cui si affrontano, anche a parole.

Non sa nemmeno perché, dopotutto, ma spera che duri; spera che Ed, crescendo, maturi oltre, migliori oltre, perché viva meglio.

Perché non può vivere con un fratello che non sa come vivere.

Non sanno quando, ma saranno pronti a tornare, presto.

O tardi.

Il cielo è ancora bianco perché è presto, e bruciata la casa con dite arrossate, il giorno prima, Edward ha congedato gli ultimi frammenti della loro vita, in favore d’un nuovo scopo, per ricomporre il puzzle.

E’ presto perché andranno lontano.

E’ presto perché lei ha vegliato sino a tardi con loro, per revisionare un’ultima volta gli auto-mail, ed ora starà sicuramente dormendo.

E’ presto perché lei piangerebbe; ed è l’ultima cosa che possano desiderare.

Eppure quando sono fuori con la vecchia Pinako, lei è in procinto d’uscire, madida del nuovo terrore di essere dimenticata lì, da sola, ed ansiosamente, in pigiama, scarmigliata, devastata, allunga la mano ad aprire l’ultima porta, barriera tra lei e l’esterno;lei ed il raggiungerli per un affliggente saluto.

"Lei piangerebbe, zietta, quindi non la saluteremo. Fallo tu, per favore."

Non vuoi salutarmi. Non vuoi salutarmi.

"Torneremo, comunque. Servirà qualche revisione agli auto-mail di nii-san."

Voglio vederlo. Voglio vederlo.

Ella sosta a lungo così, tra il nulla ed il tutto, a metà della bilancia, ove l’ago nemmeno si posa.

Lo sa, lo sa bene che ora è il suo, di sguardo, a risultare pesante a lui.

Perché ha dimenticato tutto, tranne l’ansia di starle vicino e l’ansia di starle lontano.

Che sia un bene o un male, non sa dirlo; ma se potrà servire a qualcosa, a cambiarli entrambi, non sarà tempo sprecato.

Non sarà gioia mancata; solo assenza d’un qualsivoglia aspetto della vita insieme, che era vuota e grama, ma tanto, tanto consolatoria.

Così non apre la porta, ma si raggomitola sulle ginocchia in terra, attendendo di sentire i rumorosi e pesanti passi metallici di entrambi i fratelli allontanarsi.

Risalirà piano le scale da cui si è precipitata giù, soppesando con lo sguardo ogni singola incrinatura del pavimento, col naso ogni singolo odore, per quanto effimero possa essere.

Poi, verrà il nuovo giorno.

-

Note finali: Altra fic per il theme-set Violator postato da Maki sul forum, ovviamente.
Ho aspettato secoli a pubblicare questa cosa senza un reale motivo, in verità.
Era pronta da tempo, con un’idea di base rimasta a lungo latente, anche, ma ora, uhm, direi che è proprio finita.
Mi sono sorti tanti e diversi dubbi nella pubblicazione, ma credo vada bene così, alla fine, non posso dirmi totalmente insoddisfatta, e spero vorrete lasciarmi qualche parere tramite recensioni.
E’ abbastanza angosciante trovare due o tre recensioni per una fic che segna un numero di letture pari a 150 o su di lì, no?
Ecco, lo apprezzerei molto.
Se tutto procederà per il verso giusto, mi metterò presto al lavoro per completare, prossimamente, Clean, una cosina apparentemente leggera in cui si scoprirà, tra le tante cose, del buffo momento in cui Ed e Al si contesero la piccola Win. Al momento, però sono piuttosto presa dalla mia eretica fic totalmente angst su Al e Winry, quindi, previo inconsueti scatti di ispirazione incontrollata, ci vorrà un po’ prima che mi dedichi ad altro.
Ringrazio ancora, e tanto, le mie recensitrici più accanite e fisse, Siyah (Apprezzo sempre molto i tuoi commenti, sono particolarmente personali e ragionati, spero continuerai a seguirmi), Cidori (Non credo di meritare tutti quei complimenti, ma ne sono ovviamente contentissima ^^) e Onda, che ha sempre anteprime complete ma mai si scorda di commentare anche qui. Il che è piuttosto scemo, ragazza mia, ma sei fatta così, eh?
E grazie mille anche ai recensitori nuovi e saltuari, che non si sa mai continuino a seguirmi ^^.
Detto questo, alla prossima fic, EdWin o meno che sia XD;.

  
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