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Autore: Momoko The Butterfly    19/10/2012    4 recensioni
Sono ormai passati cento anni dalla quasi distruzione del genere umano. Dopo un'estenuante battaglia tra bene e male, il mondo è caduto infine preda di tenebre fatte di solitudine e sofferenza; il Conte del Millennio regna baldanzoso su una terra devastata dalla fame e dalla morte, tartassata fin nel profondo dell'animo da eserciti di Akuma voraci e famelici. Ma l'umanità non demorde, per questo si nasconde dalla loro vista, fiduciosa di poter riassemblare i tasselli di una vita in frantumi. Leda e Alan, fratelli inseparabili, hanno perso ogni cosa. Eppure sembra che la sede Nord America possa davvero diventare la loro nuova casa, grazie a benevole persone che hanno saputo ridonare speranza ai loro cuori avviziti dal dolore.
Ma nulla andrà per il verso giusto. Quando la sede verrà messa sotto assedio, sarà tempo per loro di cominciare un viaggio fatto di rischi e incertezze alla ricerca di risposte. Ad accompagnarli, i paladini dell'Innocence, gli Esorcisti, e un sempre più enigmatico Tyki Mikk...
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bookman, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Tyki Mikk, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lady War
In un futuro post apocalittico, l’umanità è stata rovesciata. La terra non è più la stessa. Mostri orribili in grado di divorare le anime degli esseri umani, chiamati Akuma, vagano portando morte e distruzione. Dietro a tutto ciò c’è uno strano figuro che indossa un fantomatico cappello e un cappotto color crema: il Conte del Millennio. Leda e Alan viaggiano verso l’Ordine Oscuro, sede dei ribelli combattenti alla ricerca dei segreti per riscattare le sorti della loro gente, accompagnati da misteriosi personaggi le cui sorti si intreccieranno a quelle dei due fratelli.





Capitolo 1: Quell'uomo seduto accanto...


Il nulla si protendeva per chilometri e chilometri, senza fine, lungo le aride piane del Nord America. O meglio, di quel che ne rimaneva.
Un solo colore predominava su tutto quell’ambiente, il cui vento portava con sé l’odore della morte: grigio.  Esso ricopriva, come una patina di cenere, ogni dettaglio: terra, sassi, perfino le vecchie piante rinsecchite.
L’orizzonte era indistinto, si dissolveva nella nebbia e si fondeva con il cielo bianco sporco, ricoperto di nuvole.
Ciò che però era impossibile non notare, non era la totale assenza di policromia, quanto l’inesistenza di alcun tipo di suono. Lo stridio di un rapace in volo, il movimento trascinato di una serpe sul terreno, il rumore del vento… Erano completamente assenti. L’intera pianura presentava la stessa identica situazione, monotona, silenziosa, sterile.
Attraversarla tutta valeva a dire un mese di viaggio. E saperla attraversare tutta denotava una costanza e una forza d’animo incrollabili.
 
Leda l’aveva attraversata già tre volte. Quel giorno sarebbero diventate quattro.
A prima vista uno sconosciuto direbbe che una bambina non potrebbe mai farlo.
Leda però aveva già diciannove anni e di fanciullesco conservava solo l’aspetto. Ciò che si trovava oltre quel viso liscio e un po’ imbronciato era un atteggiamento rude, riservato e diffidente. Il viso di una ragazza plasmato dalla guerra, dovuta crescere in fretta per proteggere l’unica cosa che ancora le restava della vita che aveva perduto: suo fratello Alan, un ragazzino di dodici anni sempre sorridente, nonostante tutte le disgrazie passate.
Ora Leda stava tornando da lui, al luogo nel quale lo aveva lasciato con mille raccomandazioni: l’Ordine Oscuro. Una comunità di sopravvissuti, di persone scampate alla crudeltà della guerra e rifugiate in una grande struttura di forma piramidale, immensa, protetta da un campo di forza impenetrabile studiato dai più abili scienziati. In quel luogo suo fratello sarebbe stato al sicuro. Forse. Non si era mai fidata pienamente delle persone che lo comandavano. Più e più volte le era capitato di bisticciare con gli addetti della sezione scientifica, nonché con il loro supervisore: Renny Epstain, una donna a suo dire piuttosto fredda e calcolatrice.
Alan però era sempre stato felice. E questo, in qualche modo, la ripagava di tutti i sacrifici che era costretta a fare vivendo lì. Il suo sorriso era un sole luminoso che rischiarava la sua anima attorniata dalle tenebre.
 
L’unica persona, a suo dire, degna di vero rispetto, era Theodore Prince, un anziano sulla sessantina, calvo, con un paio di folti baffoni candidi sul viso asciutto e rugoso, e con un corpo talmente esile da dare l’impressione di essere sempre sul punto di collassare. Era però un uomo forte ed essenziale, e aveva dimostrato, in più di un’occasione, una dolcezza quasi paterna per i due fratelli, che aveva accolto nella sua vecchia locanda offrendo un lavoro a Leda e prendendosi cura di Alan. I due fratelli gli dovevano molto, soprattutto Leda. I primi mesi, quando ancora piangeva e si dimenava nel sonno, cercando di fuggire le immagini dei suoi genitori, che ogni volta gridavano disperati invocando aiuto per poi tramutarsi in polvere, Theodore era sempre stato al suo fianco. Non corsero molte parole tra loro, ma questo bastò. La sola presenza dell’anziano fu determinante. Scosse infatti Leda nel profondo, aiutandola a superare la depressione e a farle capire che c’era qualcuno che doveva proteggere, ora: Alan. L’aiutò a trovare l’appiglio cui aggrapparsi per la sua salvezza. E non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza per questo.
 
Sul grigio orizzonte arido e secco si stagliò, avvolta da una leggera nebbiolina lattiginosa, la punta della gigantesca piramide.
Leda sollevò lo sguardo dal terreno facendo ombra sugli occhi per evitare di venire investita dal cielo bianco sporco, che con la sua ingannevole lucentezza sembrava volesse accecarla.
Quando la vide, mandò giù un groppo che le era venuto alla gola per l’emozione. Era ansiosa di rivedere Alan e, finalmente, dopo ben due mesi e mezzo di assenza, ciò sarebbe stato possibile.
Accelerò appena il passo. Era stanca e le piante dei piedi le dolevano molto, probabilmente a causa delle vesciche, ma nulla le avrebbe impedito di raggiungerlo.
Effettuò un rapido calcolo mentale: in un’ora, massimo due, avrebbe varcato l’immensa soglia della sede.
Non sapeva con precisione che ore fossero, perché il sole era mascherato dai fitti e spessi nuvoloni bianchi che ricoprivano il cielo, ma in base alla luce che filtrava da essi dedusse che era ancora mattina.
Entro il pomeriggio avrebbe raggiunto la sua meta…




 
Leda raggiunse l’entrata della sede: un pesante portone che, date le ciclopiche proporzioni, pareva essere fatto di un qualche tipo di materiale metallico spesso. Era serrato, e non lasciava intravedere nemmeno il più sottile spiraglio di vita che brulicasse all’interno. Leda si avvicinò e batté un paio di volte la propria mano sulla superficie fredda e dura con decisione, chiedendo di entrare. Non successe nulla e così provò una seconda volta. Ancora niente.
Tutto ciò le pareva molto strano.
Solitamente, c’era un uomo o una piccola squadra addetti all’apertura del portone, e avevano il compito di identificare i viaggiatori che venivano dall’esterno. Quella volta, però, sembrava non ci fosse nessuno. Leda s’innervosì a quella distrazione. O forse avrebbe dovuto chiamarla presunzione?
Batté ancora i pugni sul portone, e il risonante clamore metallico si propagò per tutta la pianura ripetendosi nel nulla fino a disperdersi completamente, facendo ripiombare poi il luogo in un imbarazzante silenzio. A quel punto Leda perse le staffe, come d’altronde le accadeva in quelle situazioni. Cominciò a tirare calci e a inveire contro la porta, certa che, se non si fossero accorti di lei, in quel modo lo avrebbero fatto di sicuro.
- Fatemi entrare, bastardi! – gridò infuriata, al limite della sopportazione.
E proprio mentre stava per pronunciare tutta un’altra serie d’insulti davvero poco misurati, udì un flebile calpestio dall’altra parte dell’immensa porta.
Cigolò, con un pesante e rimbombante rumore di metallo che sferraglia. Subito dopo iniziò a schiudersi, pian piano, aprendosi sufficientemente a creare un sottile passaggio all’interno del quale Leda riuscì a sgattaiolare con facilità, avanzando a passo di marcia e pestando con rabbia i piedi sul terreno arido.
Si ritrovò all’interno di un corridoio alto quanto la porta, attraversato da lunghi tubi di ferro arrugginiti che emettevano piccoli sbuffi di vapore bollente. Accanto a lei comparvero due uomini vestiti entrambi con dei camici bianchi e puliti e dall’aria intelligente. Leda rivolse loro in un’occhiata tutto il suo disprezzo, mentre si allontanava da loro con passi pesanti. Uno dei due uomini ricambiò lo sguardo. Evidentemente la conosceva, o meglio; conosceva le sue maniere. Entrambi, però, non osarono aprir bocca. Conoscevano anche la sua lingua biforcuta…
 
Leda sfrecciò lungo il corridoio, respirando a fondo per recuperare la calma. S’innervosiva facilmente, ed era molto difficile per lei poi tornare normale. Quando però arrivò in fondo e girò a destra, imboccando una strada più bassa ma comunque larga, venne investita improvvisamente dal vociare acuto e sommesso della gente, numerosa, che si spostava da una bancarella all’altra con grossi sacchi carichi di provviste in mano. Il Mercato.
L’ambiente era illuminato e ampio, e le voci delle persone si sovrapponevano fra loro, confuse, rimbombando fastidiosamente nelle orecchie. I rumori, gli odori della frutta, della verdura e dei cibi che le saettavano davanti in mano alle donne coi figli, in qualche modo la rilassarono. Fecero riemergere nella sua mente sensazioni famigliari. Strinse il suo zaino sulle spalle, calcandoselo ben bene in modo che non gli sfuggisse di mano e s’inoltrò tra la gente che si muoveva frenetica da un punto all’altro, senza badare a lei e urtandola in tutti i modi possibili.
Leda avanzava a tentoni, aguzzando la vista per scorgere ciò che oltre quel mare di persone non riusciva a vedere, cercando un viso amico, o che comunque conosceva. Nessuno.
Da quando erano arrivati, la popolazione della Sede era aumentata a dismisura. Leda si chiese come facessero per vivere, per dormire, per mangiare, poiché la maggior parte del cibo proveniva da fuori, e le gallerie sotterranee usate per sistemare gli alloggi non andavano oltre una certa profondità. Probabilmente alcuni erano viandanti, stranieri in viaggio… e altri vagabondi.
Il sovraffollamento era un bel problema. Lo sarebbe potuto diventare, se il Supervisore Epstein non avesse fatto qualcosa.
La zona del Mercato era molto lunga. Percorreva un intero corridoio principale per qualche chilometro, fino a giungere alle prime abitazioni, quelle fatte di legno e mattoni. Leda doveva attraversarlo tutto, perché la locanda di Theodore era una di quelle costruzioni antiche. Per lei, che aveva avuto l’abilità di camminare sulle vaste e aride pianure del nord già quattro volte, il Mercato sarebbe stato uno scherzo. In un quarto d’ora raggiunse il confine, segnato da quelle bancarelle che vendevano chincaglierie inutili e che solitamente guadagnavano ben poco.
 
Davanti a lei il corridoio il soffitto si estese, fino a trasformare il corridoio in un’immensa stanza ampia e piena di case, palazzi sbeccati e vecchie baracche di legno. Sembrava quasi una città, senza i viottoli ciottolati e la luce diretta del sole che veniva riflessa sui tetti. Il pavimento era di pietra, liscio e anche un po’ consumato dal tempo; l’illuminazione era artificiale, e non vi era alcun tipo di apertura che potesse lasciar penetrare uno spiraglio di luce naturale. Leda si era oramai abituata a quel genere di vita, e così anche tutto il resto della popolazione. Era una precauzione necessaria affinché gli Akuma non li attaccassero. All’esterno erano protetti da quattro pilastri antichi, che creavano una barriera di energia sufficiente a non far passare nemmeno la più piccola impurità.
Solo gli esseri umani potevano attraversarla, e gli intrusi venivano abbattuti dalle guardie.
Aveva sentito parlare di entità mistiche chiamate ‘Apostoli di Dio’, che in passato sconfiggevano gli Akuma e difendevano le persone ma, da quello che aveva letto nei testi antichi, si erano tutti estinti, o nascosti. Il loro numero si contava però sulle dita di una mano. Se non erano ancora spariti del tutto, lo avrebbero fatto presto. Leda li considerava dei vigliacchi. Avevano abbandonato la loro gente lasciandola morire nel dolore. Ovunque fossero stati sperava che ci restassero, perché dall’umanità non avrebbero ricevuto altro che odio, e un immenso senso di vergogna. Ormai la gente si era arrangiata a combattere gli Akuma con tutti i mezzi tecnologici in loro possesso, e ne andava fiera.
 
Si portò sul lato destro della strada. Subito dopo, un carro sfrecciò veloce accanto a lei, smuovendole i capelli castani e vaporosi con una forte ventata che li portò all’indietro. Leda se li ravviò con un gesto istintivo della mano. Gettò un’occhiata scocciata alla vettura e poi tornò a camminare con lo sguardo fisso davanti a sé. Proprio in quel momento svoltò a destra, seguendo ancora la strada e passando di fronte alla vetrina di un negozio di giocattoli, l’unico di tutta la sede. C’erano molti bambini, soprattutto piccoli, e i peluche e i trenini di legno andavano a ruba, tra la gente più ricca. Proprio mentre stava per passare oltre, si fermò. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione in quella vetrina spenta e impolverata.
Si appiattì contro il vetro e puntò i suoi grandi occhi di liquirizia su una scatoletta piccola e tonda, metallica, con incisioni e rifiniture scintillanti ed eleganti. Stette per qualche secondo ad osservarla, poi si staccò ed entrò timidamente nel negozio facendo suonare un campanello appeso al soffitto. Si bloccò, aspettando che tornasse il silenzio, guardando lo strumento quasi con timore. Non aveva mai amato quel suono tintinnante e fastidioso che si propagava per tutto il locale, annunciando festoso che qualcuno era entrato per spendere il proprio, sudato, denaro. Difatti, qualche attimo dopo, comparve un uomo anziano, che indossava un berretto verde spento e portava sul naso un paio di occhiali tondi e piccoli. Leda lo osservò avvicinarsi al bancone con circospezione, per poi fare lo stesso.
L’uomo si chinò lievemente su di lei, poi sorrise.
- Cosa posso fare per te, signorina? – domandò con una vocetta tremula, sfregandosi le mani.
- Vorrei… fare un acquisto – biascicò la ragazza voltando la testa verso la vetrina e cercando di fuggire lo sguardo compiaciuto dell’uomo.
Questo sussultò lievemente, interessandosi di più.
Fece il giro del bancone e le si affiancò, rivolgendole un falso sorriso.
- Cosa ti piacerebbe acquistare?
Leda alzò il braccio e indicò con decisione la scatoletta in vetrina.
- Quello – disse, con tono atono.
All’uomo brillarono gli occhiali. Veloce si spostò nella direzione indicata e prese delicatamente tra le mani ossute il piccolo oggetto. Tornò indietro e lo mostrò alla ragazza.
- Questo, signorina? – chiese, aprendo la mano davanti al suo naso.
- Sì – pronunciò Leda, senza aggiungere alcun sentimento.
Gli atteggiamenti di quell’uomo la innervosivano. Era una persona avida di denaro. Un giocattolaio dovrebbe però essere avido dei sorrisi dei bambini, non del tintinnare delle monete. A stento trattenne la stizza, mentre gli posava sul bancone i soldi per pagare. Lo vide afferrarli e stiparli dentro un sacchetto di iuta. A quel punto s’impadronì della scatoletta, la infilò nel suo zaino e velocemente si avviò all’uscita.
- Arrivederci – disse, mentre richiudeva la porta dietro di lei e usciva in fretta e furia, senza aspettarsi alcuna risposta.
 
Si ritrovò nuovamente all’esterno, immersa caos della gente che saettava da una strada all’altra in preda a una fretta quasi maniacale. Leda non se ne curò, e cercò di allontanarsi alla svelta dal campo visivo del vecchio negoziante avido. Continuò a camminare frettolosa lungo la strada, guardandosi circospetta attorno e squadrando ben bene i visi delle persone che le sfrecciavano accanto, noncuranti: tutte persone nuove, mai viste.
Arrivò fino a un incrocio. Attraversò svelta dalla parte opposta e andò dritta. In fondo alla via riuscì a scorgere un edificio di mattoni e legno ancora in buono stato, con un’insegna sbiadita dal tempo sulla grande porta di legno scuro. Accelerò il passo.
Urtò di striscio un passante che si voltò a lanciarle un’occhiata fulminante, ma Leda era già andata avanti e non badava più a nulla. Le sue gambe la facevano correre a perdifiato lungo la strada, senza che se ne accorgesse. La gioia di poter finalmente rivedere suo fratello faceva di lei l’essere più felice della terra.
Si catapultò letteralmente all’interno dell’edificio, spingendo con forza la pesante porta di legno. I presenti – un paio di anziani – si voltarono lentamente verso di lei rivolgendole sguardi confusi. Leda li guardò scoraggiata, per poi ricomporsi e iniziare a guardarsi attorno. Theodore non c’era, e nemmeno Alan. Una cameriera le sfrecciò davanti con due coperte bianche e pulite tra le mani ma, quando si accorse della sua presenza, si arrestò immediatamente.
- Oh, Leda cara! – esclamò, mentre un sorriso pieno di emozione si allargava sul suo volto incorniciato da lunghi capelli rossi.
- Anais – pronunciò Leda, senza emozione. Non si aspettava di vedere lei, ma qualcun altro.
- Quando sei tornata? – domandò la cameriera, avvicinandosi, curiosa. Le mise una manina delicata sulla spalla, chinandosi appena sul suo viso imbronciato.
Leda la guardò negli occhi: due ametiste brillanti e misteriose, ma calde e accoglienti al tempo stesso.
- Ora – disse, lasciandosi fare una carezza amorevole sulla guancia.
- Allora riposati e fa’ con calma – le disse così la donna, con un sorriso.
Poco prima di sparire nuovamente alzò un braccio e le indicò un corridoio alla sua sinistra.
- Ted è di là. Forse c’è anche Alan.
 
Leda si avviò nella direzione indicatale. Quel passaggio conduceva alla caffetteria della locanda, dove gli ospiti erano soliti bere, giocare a carte o consumare qualche pasto veloce prima di partire. Di solito Theodore non lavorava lì. Quello era compito suo. Probabilmente era stato costretto a fare qualche mansione in più, per compensare la sua assenza. Si sentì dispiaciuta. Le ragioni per le quali era partita, però, erano assai più forti. L’unica cosa che avrebbe potuto fare per sdebitarsi, sarebbe stato raccontare a lui e a Alan le scoperte incontrate durante il suo viaggio, se ne avesse mai trovato il coraggio…
Si avvicinò al bancone, dove un uomo anziano ed esile, girato di schiena, stava versando un liquido rossastro in un bicchiere di vetro. Si mise di fronte a lui e, ingrossando la voce, esclamò:
- Hey, tu, qui c’è qualcuno senza drink!
L’altro si voltò di scatto, già pronto a riprendere la maleducata, quando si accorse di chi fosse realmente. Mancò poco perché il bicchiere gli cadesse di mano. Lo porse invece al cliente, fece veloce il giro del bancone e corse letteralmente contro la ragazza. L’abbracciò con una forza tale da soffocarla, nonostante la sottile corporatura.
Leda diventò rossa in viso, sentendosi stritolare da quelle vecchie e forti braccia. Fece di tutto per dimenarsi e quando infine tornò a respirare restituì il gesto all’uomo con altrettanta forza, mostrandogli a sua volta quanto fosse felice di vederlo.
- Oh, Leda… - mormorò l’uomo ridendo di gioia, con le lacrime agli occhi per l’emozione – Finalmente sei tornata!
Leda sorrise, sentendo persino lei gli occhi pizzicare.
- Ciao Ted – disse, contenendo l’eccitazione e catalizzandola in uno sguardo gioioso.
Theodore tornò dietro al bancone afferrando un grosso boccale per pulirlo con un panno candido.
- Com’è andato il tuo viaggio, hai scoperto qualcosa? – domandò, con cuore che batteva a mille per la felicità e la curiosità.
La ragazza abbassò lo sguardo, facendosi improvvisamente seria. Ciò che voleva dire le comportava uno sforzo immane. Il silenzio l’avvolse, immerso nel caos della numerosa clientela del locale.
- L’ho trovata – disse infine, tombale.
L’anziano sussultò, perdendo in un colpo d’occhio tutta la contentezza. Volse i suoi piccoli occhietti bruni sulla superficie di ciliegio del bancone e tacque.
Non domandò altro.
Leda prese posto su uno sgabello, con aria cupa. Giocherellava distrattamente con un pezzetto di carta che si era ritrovata tra le mani senza accorgersene. Era così che reagiva alle situazioni difficili: mostrava il muso e si chiudeva in un atteggiamento rude e scontroso, da maschiaccio.
- Dov’è Alan? – domandò.
- L’ho mandato a prendermi un paio di verdure al mercato. Tra poco tornerà. Posso darti qualcosa, intanto? – domandò Theodore, chinandosi appena su di lei, affrancato.
- Una birra – rispose, atona. Era sollevata però che suo fratello stesse bene. Non vedeva l’ora che arrivasse.
L’anziano le diede le spalle per servirle quanto richiesto. Gli avrebbe raccontato tutto, ma non in quel momento. Non in mezzo a tutta quella gente. Udì infatti una lieve risatina derisoria provenire dalla sua sinistra. Voltò lentamente la testa in quella direzione, con un cipiglio spaventoso.
C’era un uomo accanto a lei, che non aveva mai visto in vita sua. Aveva il viso costantemente messo in ombra da un lungo e, all’apparenza pesante, mantello. Le uniche cose che fu in grado di vedere con chiarezza furono le mani, forti, che stringevano un boccale simile a quello che aveva ordinato anche lei. Nonostante l’aspetto per nulla rassicurante, Leda non si fece troppi problemi. Odiava chi la derideva, e chi si prendeva la sfacciataggine di origliare le sue conversazioni, e non provava timore alcuno nel rispondere alle provocazioni.
- Che c’è di così divertente? – gli ringhiò, bruscamente.
L’uomo mosse piano la testa verso di lei. La ragazza riuscì a vedere solo delle labbra suadenti, che veloci risposero:
- Una birra, per una bambina come te… non pensi che sia un tantino esagerato?
 
Leda si indispettì parecchio.
Strinse i pugni sul bancone trattenendo la rabbia, e la volontà di tirargli un sonoro pugno in faccia, rispondendo per le rime.
- L’età per bere ce l’ho. Si faccia gli affari suoi.
L’uomo non disse niente. Le sue labbra si incurvarono in un sorrisetto beffardo, senza più emettere alcun suono. Allontanò da sé il bicchiere che stringeva in mano e si alzò, badando a non scoprirsi il volto. Dopodiché si allontanò, facendo ondeggiare il lungo mantello ad ogni passo, fino a sparire oltre il corridoio del locale.
 
Leda non staccò gli occhi da lui nemmeno un secondo, finché non sentì il rumore di un oggetto di vetro alle sue spalle. Si girò di scatto e vide Theodore. Aveva posato il suo boccale pieno sul bancone e ora la guardava, incuriosito.
- Sai chi era quello? – gli domandò Leda guardando seriosa verso il corridoio vuoto, come se potesse ancora vedere lo straniero dal lungo mantello, oltre di esso.
- Non so dirti molto. E’ arrivato qui mezz’ora fa, ha ordinato una birra ed è stato in silenzio per tutto il tempo – spiegò l’anziano, grattandosi la testa, confuso, senza sapere cosa dire esattamente – E mi ha anche pagato in anticipo.
Chiunque fosse, avrebbe fatto meglio a starle lontano. Apparteneva sicuramente a quella categoria di persone che non hanno meta, viaggiano per il mondo e perciò si credono in diritto di beffarsi del mondo e di chi ne fa parte. E Leda, quelli, non li sopportava proprio. Afferrò con forza il manico del boccale e trangugiò stizzita il contenuto. Non si sarebbe lasciata prendere in giro, lei. Mai.
- Non lasciarti impressionare, Leda – intervenne Theodore, frenando i suoi pensieri – Tu sai chi sei, e questo è sufficiente.
Aveva ragione, maledettamente ragione. Lui sì che sapeva parlarle. Aveva sempre qualcosa da dirle per ogni situazione. Di qualunque cosa si trattasse, era capace di rintracciare quella piccola parola nel suo vasto vocabolario e di incastonarla nella frase giusta, sollevando il suo morale quasi all’istante.
- Lo so – disse così Leda, finendo di bere con un ultimo sorso ciò che era rimasto del liquido dorato e spumoso nel boccale. Poi però pensò:
“Ma io non lo so chi sono…”
Tuttavia, tenne quel pensiero per sé, perché non voleva mancare di rispetto all’anziano. Si alzò con un po’ di sforzo dallo sgabello, guardandosi attorno soddisfatta e cercando la prossima cosa da fare. Theodore fu però più veloce e la anticipò.
- Va’ a disfare i bagagli, tranquilla. Per oggi sei esonerata dai lavori domestici.
 
Leda sorrise, grata. Non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza...
Si inoltrò in direzione di una lunga rampa di scale scricchiolanti. Le salì, ritrovandosi così al primo piano: un lungo corridoio sul quale si affacciavano una serie di porte di legno tutte uguali, tranne che per una targa bianca e logora che riportava inciso un numero diverso per ciascuna. La ragazza avanzò lungo il corridoio scorrendole tutte. Si fermò di fronte alla numero centocinque. Afferrò la maniglia, la fece girare e spinse piano la porta, entrando in quella che era la loro stanza.
Non era tanto grande: comprendeva due letti singoli ai quali si alternavano due piccoli comodini e un enorme cassettone dalla parte opposta. A terra c’era un soffice tappeto peloso dai colori spenti e smorti. Le lenzuola sui letti erano bianche e profumavano di pulito. A Leda ricordava casa, accoglienza, amore, famiglia. Tutte cose che aveva riscoperto grazie a Theodore. L’odore della stanza era piacevole, sapeva di fresco e sapone.
Era immacolata. Sui mobili non scorreva un solo filo di polvere. Era stata pulita da poco, e ancora si poteva sentire, flebile, il profumo alla lavanda di Anais.
Leda la ringraziò per essersi occupata della pulizia della loro stanza, in silenzio, passando sbalordita un dito sul grande comò di legno scuro, lucidissimo. Perfettamente pulito.
L’essere tornata finalmente nella propria stanza, aver sentito i profumi e la nostalgia farsi vivi, tangibili, l’avevano acquietata. Si era persino dimenticata dell’impertinenza del viaggiatore sconosciuto.
Si sedette sul letto di destra, quello più vicino alla porta d’ingresso. Le molle scricchiolarono leggere sotto il suo peso. Poggiò lo zaino accanto a lei e frugò nella tasca principale facendo tintinnare gli oggetti al suo interno. Alla fine, afferrò con delicatezza la piccola scatoletta elegante, tirandola fuori e posandola sulle proprie gambe. La studiò con attenzione, senza toccarla, poi la capovolse e scoprì così una manovella dalle sfumature brillanti e con una piccolissima incisione floreale sopra. Lentamente, la girò in senso orario, ripetendo l’operazione un paio di volte. Poi la lasciò andare. Improvvisamente il coperchio si schiuse, aprendosi come una bellissima conchiglia. C’era una ballerina con un delicato tutù rosa confetto che piroettava sulla punta di un solo piede, dentro. E come prese a girare su se stessa, si diffuse nell’aria una soave melodia, la quale rivelò così il vero nome di quella piccola scatoletta: carillon.
Quello era un carillon. Il leggero tintinnare dei dentini sulla piastra metallica al suo interno sprigionava nella stanza suoni affettuosi e dolci, simili a quelli di una ninnananna. Ogni nota si librava in aria e rimaneva lì, sospesa, evocando i ricordi del passato di Leda. Felici e tristi, allegri e malinconici. Un turbinio di emozioni scomposte vorticava nel suo cuore, e le immagini nella sua mente scorrevano veloci, talmente tanto da non darle abbastanza tempo per rimembrarle tutte. La melodia aveva un piccolo ritornello molto carino, che Leda canticchiò a bocca chiusa con molta nostalgia nello sguardo perso, mentre osservava la leggiadra ballerina piroettare e piroettare ancora sulle sue note.
Non lo aveva comprato senza motivo, ma perché lo aveva riconosciuto. L’aveva costruito suo padre.
 
- Leda! Leda!
Una voce rimbombò nel corridoio della locanda, ansiosa.
Leda chiuse alla svelta il carillon, fermandone all’istante la melodia con uno scatto pauroso, sussultando per essere stata colta di sorpresa. Lo stipò in fretta e furia nella borsa e si precipitò giù per le scale, scendendole con rapidità.
Aveva riconosciuto quella voce. Un timbro né troppo acuto né troppo grave, con quella punta di emozione in più che solo un ragazzo poteva avere: Alan. Suo fratello. La persona più importante della sua vita.
Si catapultò nell’ingresso, schivando chi si trovava sul suo cammino. E quando lo vide lì, in piedi davanti a lei, con un ingombrante sacchetto di iuta in mano contenente la spesa, non seppe più resistere. Gli saltò al collo e lo abbracciò con tutta la forza che aveva in corpo. Alan lasciò cadere il sacchetto e l’abbracciò a sua volta, ridendo di gioia, strofinando la propria guancia nell’incavo della sua spalla, affettuoso.
- Quando sei tornata? – le domandò, mentre si discostava da lei e recuperava il proprio bagaglio.
Leda lo prese per le spalle e lo guardò negli occhi, pensando che mai avrebbe visto pietre preziose più brillanti e lucide. Avevano delle bellissime sfumature violette e blu, ed erano capaci di comunicare meglio di mille parole. Leda li adorava. Sembrava potesse persino scorgere la sua anima, nel loro profondo, senza segreti né bugie che la celassero.
- Sono tornata ora – rispose, scompigliandogli amorevolmente i capelli castani chiari.
- Quante cose ti devo raccontare! – esordì il bambino, eccitato – C’è stata la festa del paese, e Theodore ha lavorato come un matto. Dovevi vederlo, faceva così ridere!
Leda sorrise.
- Dopo mi dici tutto, ok? – gli chiese, frenando la sua contentezza.
Alan annuì energicamente, con un largo sorriso stampato in faccia. Strinse ancora di più il sacchetto di iuta e corse via, verso la caffetteria.
 
Leda rimase nuovamente da sola. L’unica differenza stava nel fatto che un piccolo sorriso felice le era comparso sul bel volto delicato e pallido. Quel bambino riusciva sempre, qualsiasi cosa succedesse, a farla sorridere. Era una colonna portante per la sua vita, l’Atlante che la sorreggeva.
Si allontanò dall’ingresso, dirigendosi verso il refettorio dove il personale della locanda era solito riunirsi per mangiare. A quell’ora i lunghi tavoli che percorrevano la sala erano sgombri, segno che la vecchia signora Richman, una donna dai crespi capelli argentati e con un’aria arcigna e severa, stava lavando le stoviglie.
Leda andò dritta verso la porta della cucina, subito accanto a quella dalla quale era entrata dal corridoio. La spinse ed entrò. Venne investita da un soffocante odore di vapore, cibo e una stucchevole fragranza al limone. Avanzò tra i fornelli e i piani cottura lucidi e puliti, e si fermò di fronte a un grande acquaio. Emily Richman era lì, vestita con un ingombrante grembiule bianco e una retina sulla testa. Aveva le maniche della giacca tirate su fino ai gomiti e le braccia immerse nell’acqua insaponata, mentre strofinava un piatto con una pezza.
Non era una persona amichevole. Spesso era dura, insensibile e sprezzante, specialmente con Leda. Da quando era arrivata non aveva fatto altro che educarla severamente su come cucinare, occuparsi dell’igiene del locale e migliorare i suoi atteggiamenti, a suo dire irrispettosi e per nulla femminili. Sembrava covare un odio profondo per lei, a causa del tono di voce che spesso usava per rivolgerglisi.
Leda aveva capito solo un anno dopo dal suo arrivo il motivo di tutto ciò: in passato Emily aveva avuto una figlia di nome Paula, che purtroppo era venuta a mancare a soli 6 anni per una malattia. In seguito era caduta in depressione, smettendo di mangiare e dormire, rischiando persino di morire a sua volta. Quando poi Theodore l’aveva assunta, o per meglio dire, accolta nella sua locanda, offrendole un tetto e una nuova famiglia, si era un po’ sollevata. E anche se con Leda era sempre stata rude, in realtà le voleva molto bene, e il motivo per il quale aveva scelto di fare la parte dell’antipatica nella sua vita era proprio perché voleva renderla forte, vigorosa, in grado di difendere Alan e fare in modo che le rimanesse accanto il più possibile. Leda aveva capito il lato nascosto del suo carattere, quello dolce e premuroso, e aveva imparato a giocarci, cercando di metterlo in luce in tutti i modi. Emily rimaneva però dura come una roccia, e non permetteva a nessuno di andare oltre quella sua fiera corazza da donna burbera e scontrosa.
 
Leda le si affiancò, osservando le sue braccia che si muovevano esperte nell’acqua producendo un gran sciabordio sui bordi dell’acquaio, contro cui le piccole onde di schiuma si andavano a schiantare, come una tempesta in miniatura.
- Salve – pronunciò con aria solenne ed educata.
La donna gettò un’occhiata verso di lei, ritirandola immediatamente.
- Sei tornata, eh? – disse senza alcuna enfasi, come se la sua presenza fosse seccante, per lei.
Leda si limitò ad annuire, con un sorriso.
- E non hai scoperto nulla? – domandò ancora Emily, con aria di rimprovero.
Leda annuì ancora.
- Bene – concluse la donna, continuando a strofinare il piatto – Lasciami finire di lavorare, ragazzina. Va’ a riposarti.
Non era un invito. Era un ordine.
- Va bene – fece per tutta risposta Leda, con un sorriso contento.
E fu tutto.
Si girò e tornò indietro, senza aggiungere nient’altro.
Richiuse la porta della cucina alle sue spalle, poggiandovisi contro con la schiena.
“Che ambiente opprimente…”pensò, mentre afferrava la maniglia del refettorio per tornare in corridoio e raggiungere Alan.
 
Proprio in quel momento però, comparve.
Un suono altisonante, fastidioso, ripetitivo, che si spanse per tutta la stanza e per tutta la sede.
Leda si bloccò, le mani tremolanti sulla maniglia, mentre ancora la sua mente stava realizzando l’entità di quel baccano. E quando finalmente capì, si precipitò fuori dalla porta, terrorizzata, accompagnata dal suono assordante e rimbombante dell’allarme d’emergenza.
   
 
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