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Autore: lalla    21/10/2012    4 recensioni
Se lo abbandoni, sei tu la bestia.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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RANDAGI
 
 
 
Era sopravvissuto, nonostante tutto: a un’estate torrida, al peso degli anni, a un dolore grande come il mondo. Ma non sarebbe sopravvissuto al gelo di quell’inverno che aveva spruzzato di neve il ciglio della strada e teneva la gente chiusa dentro le case. Difficile procurarsi la carità degli avanzi o la carezza distratta di chi aveva capito che il suo aspetto macilento erano stati gli stenti a regalarglielo, non gli agenti patogeni di qualche orribile malattia  che avrebbe potuto contagiare anche gli umani. Soprattutto i loro adorati bambini.
 
Eppure, c’era stato un tempo in cui la  sua vita era  diversa. Li aveva avuti anche lui, carezze, e pappa buona, e una cuccia calda, e  paroline stupide, e un lungo guinzaglio al quale veniva assicurato quando lei lo portavano a passeggio, non per  sancire una condizione di schiavitù ma perché non si perdesse e non corresse pericoli, piccolo com’era: quei pericoli che non gli venivano, a detta della sua padrona, solo dalle auto che sfrecciavano per strada, ma perfino dagli altri cani, quelli grossi, bavosi e ringhiosi  che dall’uomo avevano imparato a odiare alla morte i loro simili.
 
Lei gli aveva valuto bene. Non era stato il primo, ma a tutti aveva riservato lo stesso affetto, le stesse cure e le stesse lacrime, quando, sempre troppo presto, la loro esistenza era giunta a compimento. Li seppelliva in campagna, ai piedi di un grande albero, dopodiché si recava al canile comunale e cercava un cucciolo che gli somigliasse. Infischiandosene di chi spettegolava sul conto della zitella acida che nessuno aveva voluto e amava più le bestie degli esseri umani. Se avesse potuto parlare, lui avrebbe smentito quelle dicerie sciocche, urlando al mondo intero quanto grande fosse il cuore della sua amica umana. Quel cuore che, un brutto giorno, l’aveva tradita senza preavviso, sconvolgendo l’ordine naturale delle cose. E lasciandolo solo. I cani vivono meno di loro, ma a volte accade che dentro gli uomini si  rompa qualcosa, qualcosa di piccolo e maledettamente importante…Ed è la fine, anche per chi resta e non ha voce né diritti.
 
Clelia Rinaldi, di anni 69, insegnante in pensione, non aveva altri parenti se non il figlio  di un lontano cugino. Li ricordava bene, lui, questi lontani parenti troppo gentili, che ogni domenica si recavano “a trovare la zia” con il cabaret delle paste, la scatola dei cioccolatini e l’osso “per il cagnolino”: un uomo dall’aria grigia, una  donna dai capelli tinti…e la loro bambina. Una bella bambina timida ed educata. Lei gli piaceva, al contrario dei suoi genitori, perché quando gli diceva “ Pallino, ti voglio bene” non mentiva per un tornaconto. Le sue carezze avrebbero lenito il dolore e finché Dio gli avesse dato vita, coccole, passeggiate, pappa buona e cuccia calda non gli sarebbero mancate.
 
Che stupido sono stato a illudermi. Aveva pensato quando i  suoi occhi annebbiati avevano visto l’auto allontanarsi. Non l’aveva rincorsa perché gli mancavano le forze, e poi sarebbe stato inutile. L’eredità della casa, una  dignitosa villetta a schiera,  era stata la manna dal cielo che aveva consentito loro di lasciare finalmente l’appartamentino in affitto; l’automobile, una vecchia carretta,  per andare a fare la spesa e accompagnare la bambina a scuola andava ancora bene e c’erano pure i buoni postali, i risparmi di una vita, una discreta sommetta. La seccatura, piuttosto, era quel decrepito bastardo a cui la vecchia era attaccata come a un figlio: una bestiaccia  maleodorante che avrebbe riempito la casa di microbi e il divano di peli. E che quando, si presumeva presto, sarebbe crepata, avrebbe provocato un terribile trauma alla bambina, che era tanto sensibile e le si stava pericolosamente affezionando…Meglio portarlo a
 sperdersi e trovare con Robertina la scusa che, in campagna, avrebbe vissuto libero e felice gli ultimi anni che gli restavano da vivere. Lei avrebbe pianto un paio d’ore, poi la promessa del viaggio a Disneyworld resa finalmente possibile dai risparmi della zia, avrebbe asciugato le sue lacrime. Tutte quante.
 
Chissà se dove era, perché da qualche parte, in qualche modo lei c’era e ci sarebbe stata sempre, la sua amica lo vedeva. Lui era convinto che oltre la vita ce ne fosse un’altra, più giusta e più buona. Come lei del resto, che pregava, frequentava la chiesa, aiutava i bisognosi, alla faccia di chi sostiene che chi ama gli animali non ama il prossimo. E poi  non l’aveva sentito con le sue stesse orecchie, detto proprio da qualcuno di loro, che  mancare di parola a un defunto poteva costare caro? Parecchi umani avevano paura dei morti, ma evidentemente il lontano nipote di millesimo grado, colui che s'era acchiappato la casa, l'auto, il conto in banca ma di quel decrepito bastardo un po' yorkshire, un po' volpino e un po' chissà che altro non avrebbe saputo che farsene, non apparteneva alla schiera numerosa dei superstiziosi. E sì che lo sapeva, con tutte le volte che s'era presentato a casa con le paste fresche e l'osso per il cagnolino, quanto la zia gli fosse affezionata. Ipocrita. Se lo portava perfino addosso, l'odore della sua falsità. Fosse stato un altro, gli avrebbe piantato i denti negli stinchi, che spuntavano rinsecchiti e pelosi dai calzini corti. O, almeno, gli avrebbe ringhiato contro. Ma lui era buono. Il cane più buono del mondo, diceva sempre la sua amica. E anche i ragazzetti timidi e zucconi ai quali dava lezioni private di latino e greco dovevano essere  dello stesso avviso, quando si distraevano un attimo per allungargli sotto il tavolo una carezza che lui  gradiva con un profondo sospiro di beatitudine.
 
Faceva freddo. Un freddo del diavolo che gli entrava nei polmoni con l'aria che respirava e faceva ghiacciare  l'immondizia dentro i sacchi. Perfino trovare qualcosa da mettere sotto i pochi denti che gli restavano diventava difficile, e poi c'erano i maledetti gatti, più furbi, agili e scafati di lui, al quale la sua amica umana non aveva mai fatto mancare niente di  quanto aveva bisogno, fin da quando, cucciolo di pochi mesi, si era accoccolato quieto tra le sue braccia e si erano giurati eterno amore.
 
Mosse qualche passo incerto, fino al fosso al lato della strada. Lì, almeno, sarebbe stato al sicuro dalle automobili e al riparo dal freddo. Avrebbe chiuso gli occhi e cercato di sognare. Di rivivere, almeno nei sogni, l'altra vita. Carezze. Coccole. Cuscino morbido. Pappa buona. Rosarosaerosae...
 
Aprì gli occhi ed era già buio. O magari erano i suoi occhi che non funzionavano più come avrebbero dovuto. Succede anche ai cani, e tredici anni sono tanti. Grazie al Cielo, ci sentiva ancora bene. E gli odori li percepiva alla perfezione, bestie, uomini, avanzi fermentati dentro quei grossi sacchi neri addossati ai muri. Immondizia. Bestie. Uomini. Donne che non erano gentili come lo era stata lei, bambini e ragazzi dalle facce torve, che non somigliavano a Robertina e neppure agli adolescenti timidi e perbene ai quali la sua amica cercava d'infilare in testa quello che non sapevano e avrebbero dovuto sapere. Rosarosaerosae... Cazzo. Aveva sbottato uno di loro A che cazzo mi serve sto latino del cazzo. Cazzocazzocazzo... Lei gli aveva saettato addosso un'occhiata soltanto, e quello s'era fatto rosso come un tacchino , se avesse avuto la coda gli sarebbe sparita tra le gambe. Se lei fosse tornata un attimo da dove si finisce quando si muore, li avrebbe sistemati, i ragazzacci dalle facce torve che gli tiravano sassi e sghignazzavano quando lo colpivano, strappandogli un lamento che non li impietosiva. Ma se fosse tornata,  a vederlo così, il cuore le si sarebbe spezzato un'altra volta.  Meglio che non tornasse. Meglio che non vedesse niente.
 
Il vento freddo  gli portò l'odore dell'altro, prima ancora che i suoi occhi annebbiati potessero vederlo. Un sentore sgradevole. Non quello che si sentiva addosso, l'odore stantio della vecchiaia, ma quello acido della malattia. Non tentò neppure di chiedere alle sue zampette artritiche lo sforzo di scappare, anche se lei, e prima ancora il suo istinto, gli avevano insegnato a diffidare di chi  ha testa grossa, occhi piccoli e orecchie ridotte a moncherini. Quelli cattivi erano fatti così. E se erano maschi, peggio ancora. Se poi erano anche scuri, o striati come iene, meglio non incrociare la loro strada.
 
Puzzava di malattia da lontano, il cane assassino con le orecchie monche, striato come una iena. Puzzava del sangue che gli incrostava le narici, di pus, di piscio e di merda. Era giovane, i canini  gli balenavano fra le labbra bavose  candidi e aguzzi. Era giovane, anche se  aveva l'aspetto  di un animale vecchio. Più di lui. Non ci sarebbe arrivato, ai suoi tredici anni portati male, ma chissà se si poteva definirla  una sfortuna, quella.
 
-E' capitato anche a te quello che non ti saresti mai aspettato, pulce fottuta?
 
Tremò, e non era per il freddo, o per quello soltanto. Occhi piccoli, orecchie mozze, testa grande, pelo striato solcato dalle cicatrici e  chiazzato di rogna. Narici incrostate di sangue secco. Il puzzo della morte addosso.
 
-Non mi guarderesti come mi guardi se non fossi ridotto così, vero, pulce fottuta?
 
Sì, mi è capitato, anche se avevo una casa, cibo buono e  chi si preoccupava per me. Nessuno ti ha dato un nome che non sia cane soltanto, o peggio? Lei mi aveva chiamato Pallino. Immaginazione ne aveva poca. Ma bene me ne voleva per davvero, che tu ci  creda o no, maledetta bestiaccia. Ogni tanto, anche se non stavo male, mi  portava dal veterinario. Un signore simpatico, grasso e con la testa pelata. Ma non mi piaceva, essere portato in quel posto: puzzava di disinfettante che mi bruciava dentro il naso, e davanti alla porta puntavo i piedi per non entrare. Un giorno, mi cacciarono un non so che dietro l'orecchio con una grossa siringa. Era per il mio bene, mi disse lei, carezzandomi per consolarmi del fastidio che avevo sentito. Grazie a questo aggeggino, se ti perderai ti ritroverò...
 
-Quanto sei scemo, piccolo figlio di puttana. Lo vedi che ti sei perso lo stesso? O è LEI che ti ha mandato a sperdere?
 
Ringhiò, ignorando a bella posta che quella bestia malata era ancora abbastanza forte da afferrarlo per il collo e fracassargli le ossa.
 
-LEI mi amava! Ma un giorno il suo cuore s'è rotto. Così, all'improvviso. E io ho perso tutto.
 
-Io invece non ho mai avuto niente, e quello che ho perso valeva ben poco. Carezze poche, botte tante. Volevano che diventassi cattivo. Più sarei stato cattivo e più soldi sarebbero entrati nelle loro tasche. Ma poi...
 
Poi era accaduto l'imprevedibile. La malattia bastarda, quella che ti attaccano certe bestiole talmente piccole che non potresti afferrarle per il collo, scrollarle e ammazzarle come facevi con i vecchi gatti  che ti buttavano nella fossa per aizzarti a uccidere ed essere pronto, quando di fronte a te non ci sarebbe più stato un vecchio gatto rognoso ma un cane grosso e cattivo e arrabbiato e la gente avrebbe urlato da spaccarti i timpani e riso e bestemmiato...
 
La malattia bastarda, già. Quella che  ti toglie le forze un po' per volta e fa di un cane giovane una vecchia bestia decrepita come il fagotto di pelo e pulci che ti sta davanti.  Ed è stato amato da qualcuno, in giorni vicini che ormai devono sembrargli lontanissimi. Prima che la sua vita andasse in frantumi. Perché la imparasse anche lui, la lezione: gli uomini sono tutti quanti uguali, fottuti bastardi che se non ci fossero sarebbe meglio.
 
Passerà questo freddo maledetto. O passerà qualcuna di quelle donne, giovani o vecchie non importa, di quelle che amano i cani perché odiano il genere umano e un uomo non ce l'hanno perché nessuno le ha mai volute e allora diventano le samaritane dei cani che nessuno vuole; di quelle che girano tutte arruffate, ti caricano su una vecchia auto che puzza di cibo stantio e pelo bagnato e ti portano in un posto che urla e che puzza, ma almeno stai al caldo, sopra una vecchia coperta asciutta e hai davanti un piatto sbeccato con del pane duro e crocche insipide da discount.
 
-Vieni qui, piccola pulce fottuta-sbuffò il grosso cane malato-Non ce l'ho con te, l’ho capito subito che sei solo un povero vecchio imbecille, e non vale nemmeno la pena di ammazzarti. Fa freddo, e se stiamo vicini può darsi che ci scaldiamo un po'. Finché anche quest'altra notte passa, e poi...Sia quello che sia.
 
Non gli disse che quel gelo avrebbe potuto frantumare ciò che restava delle loro inutili vite, una macchina da guerra resa inservibile da un piccolo insetto, un vecchio botolo della cui compagnia nessuno avrebbe saputo che farsene.
 
-C'è un posto, aldilà delle nuvole. Si chiama Ponte dell'Arcobaleno. Non ci sono  fame, freddo, malattie, paura. Chi era vecchio, torna giovane, chi era malato torna sano. Non ci credi?
 
-Sta zitto, piccolo vecchio stronzo. Non c'è niente, dopo. E a dirtela tutta, avrei preferito averla qui, una vita decente. Non so che farmene, delle tue maledette  favole. Adesso lasciami dormire.
 
Peccato che ai cani non sia dato, come agli uomini, di piangere. Lo avrebbe fatto, allo stesso modo di un bambino deluso da una mancata promessa. Ma se avesse continuato, se al grosso cane striato come una iena avesse detto che, aldilà del ponte, qualcuno lo aspettava per stringerlo tra le braccia e non lasciarlo più, gli avrebbe fatto più male del gelo di quella notte senza luna e senza stelle. Perché nessuno, in questa vita e nell'altra, avrebbe abbracciato il grande cane ringhioso dalle orecchie mozze. Nessuno.
 
-Stringiti più forte. Fa tanto freddo, questa notte. Più di ieri. Più di sempre.
 
Il piccolo cane si accostò all’altro. Gli lambì la commessura delle labbra, il grosso naso incrostato di terra e di sangue  secco. E si addormentò.
 
 
 
   
 
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