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Autore: marguerite_murcielago    28/10/2012    1 recensioni
Ritorno in grande stile dei personaggi de 'La neve nell'acqua'.
Continuò a camminare finché il sole non bruciò come un ferro incandescente, intontito dalla stanchezza. Se si fosse voltato e fosse tornato indietro sarebbe rimasto qualcosa da salvare, ma il destino volle che quel giorno Filippo incontrasse la donna che gli avrebbe rubato il sonno, l’amore, e alla fine anche la vita.
Genere: Angst, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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A JetpackJoyride,
per le recensioni altamente positive.

 

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.

(La cavalla storna, G. Pascoli)

 

- Sono incinta, Filippo.
Immobile, attonito, fissò la porta come se fosse stata un fantasma: invece, l’unico fantasma presente tra loro aveva svuotato, con una zampata feroce, qualcosa di insostituibile nel cuore di Filippo, per riempire con un bastardo il corpo di Morosina. Incinta, sola, privata in un sol gesto della reputazione e del futuro.
Il vuoto nero che celava dietro il cuore emise un risucchio malevolo, simile a delle labbra che schioccano: e se avesse cercato di nutrirlo con la debolezza di Morosina, fino a farlo scomparire? A quale prezzo avrebbe accettato di non soffrire più? Non avrebbe mai fatto del male alla promessa sposa – già vedova – di suo fratello.
- Qualsiasi cosa accada – mormorò, alzandosi dalla poltrona dopo ore di riflessioni inconcludenti.

 

Forse, rifletté mentre camminava attraverso i campi lussureggianti, avrebbe ritrovato qualcosa nel bambino che doveva ancora nascere. Gli riusciva impossibile immaginare che Morosina desse alla luce una femmina.
Continuò a camminare finché il sole non bruciò come un ferro incandescente, intontito dalla stanchezza. Se si fosse voltato e fosse tornato indietro sarebbe rimasto qualcosa da salvare, ma il destino volle che quel giorno Filippo incontrasse la donna che gli avrebbe rubato il sonno, l’amore, e alla fine anche la vita.

 

***

 

La sagoma si staccò ondeggiando dal tronco del salice – altrettanto snella.
Filippo camminò nella sua direzione, arrestandosi sulle rive di un fosso increspato di luce.
La guardò.
Era una donna: i muscoli guizzavano come pesciolini sotto la pelle lattea e coperta di goccioline, le gambe ripiegate sotto il corpo; i capelli biondi si stendevano come un velo impalpabile sulla schiena e sulle spalle. Sentì che il sangue affluiva dappertutto, il suo cuore batteva più forte. Si sentì, da molti mesi a quella parte, vivo.
- Signore! – la donna si era voltata e ora si premeva un telo verde contro il petto, gli occhi smarriti.
Aveva il viso tondo, le guance appena rosate, gli occhi verdi come l’erba sotto i suoi piedi nudi, le labbra rosse come petali di papavero. Gli sembrò piuttosto sciocco pensarlo, ma sembrava possedere la bellezza della natura che li circondava.
- Perdonatemi, non intendevo spiarvi – gracchiò lui, facendo un passo indietro.
- Siete il signor Avezzù, non è vero?
- Sì, sono io – replicò, la voce strozzata. Quant’era bella, quanto! Più la guardava, più era appagato, colmo di qualcosa di inesprimibile e rassicurante; il pensiero di Morosina e del figlio che portava in grembo sbiadì piano.
Lei sorrise, innocente. – Io mi chiamo Scilla.
Lui annuì, non sapeva in che modo rispondere.
Scilla, nascondendo malamente le proprie forme dietro al telo verde, si rialzò e gli passò accanto.
- Potremmo incontrarci ancora – disse a bassa voce, socchiudendo appena la bella bocca.
Si allontanò in fretta, luminosa come la polvere bianca della strada, mentre Filippo aspirava il suo profumo.

 

***

 

- Dove stai andando? – Morosina lo incrociò sulla porta; lei cullava il ventre ingrossato con entrambe le mani: all’anulare sinistro brillava l’anello d’oro che lui le aveva infilato, solo un paio di mesi prima. Lui indossava uno dei suoi completi migliori, intendendo cercare Scilla.
- A fare una passeggiata – la ragazza piegò appena la testa di lato: era sua amica ed era intelligente.
Sapeva benissimo che le stava nascondendo qualcosa, ma non aveva mai voluto il suo amore, perciò non se ne curava. Sorridendo, si scostò e lo lasciò passare.

 

- Siete tornato per me? – il sorriso di Scilla mancava della purezza infantile che contraddistingueva i suoi lineamenti. Atteggiate così, le labbra morbide assumevano l’aspetto di cicatrici rosee e il suo sguardo si faceva ferino, quasi spaventoso nella sua limpidezza.
Filippo, seduto sull’erba accanto a lei, non ebbe la forza di rispondere.
Le passò le mani lisce, da scrivano, sulle fossette in fondo alla schiena, sulla curva delle natiche, sulle gambe, e il sorriso di Scilla impazzì e si tramutò in un’espressione sorprendentemente lasciva. Rotolò sulla schiena, nuda, le braccia incrociate sopra la testa.
- Tu non sei umana – ringhiò Filippo, all’improvviso. Mentre si beava di lei come un affamato si sfamava solo dopo innumerevoli portate, il nulla che cercava di placare sussultò e gli vomitò addosso un ricordo orribile: quello di una giacca fradicia che aveva stretto per minuti, ore, eternità leggere e fredde come la neve.
Scilla non era sufficiente; anzi, non era adatta.
Maledicendola in mille modi, travolto dall’ira e dall’inadeguatezza, balzò in piedi e scappò via.

 

***

 

Tornò da lei, però. Più e più volte.
Non desiderava altro, finché non poteva stare con lei – e la pancia di Morosina si ingrossava e le lingue ciarlavano. La raggiungeva, lei sempre puerile e candida finché non sorrideva e si lasciava prendere sull’erba che ingialliva con il passare delle settimane, allora Filippo sentiva crescere il disgusto, la lasciava senza avere piacere da lei, rimaneva con le mani in grembo, mentre il grigiore e la morte lo riempivano tutto.
Come il sangue gocciava fuori da una ferita senza mai interrompersi, il vuoto si sgretolava poco a poco.
- Non basti – le diceva a volte, combattuto tra la disperazione e l’irritazione: - La coda delle lucertole sussulta anche dopo essere stata strappata dall’animale – rispondeva Scilla e lui si convinceva che fosse l’unica che potesse aiutarlo.

 

- Trovatelo, voglio che troviate quell’assassino!
Vincenzo lo osservava con aria di compatimento, ne era consapevole.

Un anno, aveva detto a Morosina quel mattino. Morosina era scoppiata in lacrime, stringendo Giacomo al petto.
I due ufficiali abbassarono il capo in segno di rispetto, ma non avevano ancora scoperto niente. A volte gli sembrava quasi di sentirlo, suo fratello, che picchiava contro il coperchio della bara e gli chiedeva di trovare il suo assassino, di modo che potesse riposare in pace. Riposare in pace. Cercò la pozza d’acqua, tutto ciò che era rimasto di lui, senza trovarla.
- Lo faremo, signor Avezzù, statene certo. E quando lo faremo, sarà impiccato.
Il sangue scivolò via dal viso di Filippo. – Bene – disse e si congedò.

 

- Loro non faranno niente, non potranno far niente per aiutarmi a comprendere la verità! Per quanto codardi e nullafacenti essi siano, se mai dovessero catturarlo lo impiccherebbero e così finirebbe tutto! No! Mille volte no! Prima gli strapperò le dita, gli spaccherò le ossa una alla volta… e vedremo se proverà anche lui del dolore, finalmente, quando farò il suo corpo a brandelli!
Smise di tremare e tramare, rilassò le dita che aveva contratto nel momento dell’immaginazione, respirò a fondo. Doveva vedere Scilla, in quell’esatto momento: entrò nella camera di Giacomo, che dormiva nella culla, sotto gli occhi vigili di Amelia, la balia. La donnina accennò una riverenza, anche se era seduta su uno sgabello.
- Non alzatevi, non è necessario – mormorò Filippo, rivolgendole un cenno distratto, - volevo solo vedere il piccolo – aggiunse, senza dimostrare troppo interesse. Era un bel bambino, dalla carnagione rosea e la testa già coperta da una lanugine bionda e finissima.
- Vi assomiglia molto – commentò Amelia. Lui accolse il complimento con un sorriso dolente. – Lo so.

 

- Un anno è passato, Scilla! sono degli incompetenti, talmente stupidi che non troverebbero nemmeno la propria mano, se ne avessero bisogno – strepitò. Scilla sorrideva nel suo modo animalesco, leccandosi l’angolo della bocca. Sotto il sole di quell’estate di san Martino era ancora più bella del solito.
- Non preoccuparti, Filippo, sono sicura che giustizia sarà fatta. Tu non credi? – domandò con occhi ardenti.
- Io non voglio la giustizia: io voglio che lui capisca cosa ci ha inflitto. A me, a Morosina… a Renzo…
- Filippo, Filippo, Filippo! Forse non sei stato in grado di superare la perdita di tuo frat –
- Non era mio fratello – la troncò, secco, - ma il mio gemello. Hai mai sentito parlare del legame che può crearsi tra due persone quali eravamo noi? – la sua voce tremava e non andava affatto bene, - La morte è di più: è dolore, amputazione. Siamo incompleti.
- Ricordi l’apologo della lucertola?
- Credo di non averlo mai letto, né sentito raccontare.
- A questo possiamo rimediare subito; una lucertola attraversava la strada, quando si ritrovò sotto gli zoccoli di un cavallo. Scivolando con tutta la rapidità che le era consentita ebbe salva la vita, ma una zampa pesante le tranciò di netto la coda. Triste e dolorante, la lucertola rimase sul ciglio della strada ad osservare come quella misera appendice si contorceva tra la polvere, ma si rese conto che non poteva rimanere lì per sempre, perché prima o poi una nuova coda sarebbe cresciuta… e d’altronde, quella vecchia era ormai cibo per i vermi.
Filippo l’aveva ascoltata con attenzione, ma a quella conclusione fece una risata scoppiettante, benché avvertisse il pizzicore delle lacrime agli angoli degli occhi: - Proprio… - esclamò tra i singulti, - materia per i vermi!
La ragazza si fece ancora più vicina a lui, carezzandogli la gola e la fronte.
- Rilassati, caro… una maniera la troverai – sogghignò.

 

***

 

Fontana non si accorse di lui, troppo concentrato a fare il galletto davanti alle contadine.
- Ah, non ci credete? Fate male! L’ho sempre detto, io, che prima o poi i signorotti Avezzù avrebbero fatto una brutta fine, altroché! Se non ci credete, potete sempre chiedere a Giorgio, lui mi ha sempre ascoltato e mi è sempre stato vicino, un vero amico. Non è così, Giorgio?
Non era che un contadino gretto e ottuso, ed era probabile che si fosse inventato tutto di sana pianta, ma Filippo sapeva che se non ci fosse stato Vincenzo a trattenerlo, mettendogli con discrezione una mano sulla spalla, gli si sarebbe scagliato addosso.
- Manteniamo la nostra reputazione, sior – gli propose il giardiniere.
- Non preoccupatevi. Adesso andiamocene, non voglio star qui ad ascoltare i suoi deliri – fece una smorfia.
Sulla strada del ritorno si perse nelle sue fantasticherie, ma ad un certo punto si rivolse al dipendente: - Chi era quell’uomo? – chiese, imperturbabile. Vincenzo tentennò un poco, prima di abbozzare una risposta.
- Un mezzadro, signore.                              
Lui lo fulminò con lo sguardo.
- Ditemi qualcosa di più, Vincenzo.
- Io non lo conosco di persona, badate bene, non vorrei mai avere a che fare con un individuo del genere, con quello che mi hanno raccontato di lui: è una persona violenta, che si vanta spesso di scuoiare le faine che cattura con le tagliole. Pochi, in paese, hanno il coraggio di domandargli qualcosa, però ripara benissimo gli attrezzi rotti.
- Può bastare, grazie. È tutto quello che mi interessava.
Morosina lo aspettava in giardino, il viso scuro.
Lui si sedette timidamente accanto a lei, che però continuò a controllare che Giacomo non si facesse male.
- Sono tornato – disse. Lei si voltò, fissandolo dritto negli occhi. – Filippo.
- Sì? – era a disagio, come quando Nilde, la sua vecchia balia, lo scopriva a combinar casini.
- Non so cosa ti stia capitando; ma non voglio che tu faccia qualcosa che ci metta in pericolo.
- Io non so di cosa tu stia parlando, ti giuro che…
- Oh, non mentire! Metti nei guai Giacomo, toglili una casa e il rango che gli spetta e me ne andrò per sempre. E lo porterò via. Sono stata chiara? Bene. Pensaci, Filippo. Cosa desideri avere?
Si alzò, prese in braccio il bambino, che lo chiamò papà e agitò le manine paffute, e tornò in casa voltandogli le spalle.
- Come fai a sapere cosa voglio veramente? – le gridò dietro, nella quiete del giardino.

 

- Aspetta, Filippo!
Scilla scosse i capelli biondi, luccicante come una sirena appena uscita dal mare.
Dopo due anni, Filippo si stupiva ancora di quanto fosse giovanile la sua pelle e la sua espressione.
- Oggi non ho voglia di parlare, scusami – le voltò le spalle, abbacchiato. La voce fredda di Scilla lo sorprese.
- Si tratta di Fontana?
- Tu come… come fai a saperlo?
La ragazza scosse la testa e fece un passo avanti. – Se te l’avessi detto, ti avrei perduto per sempre.
Filippo troncò l’urlo che lottava per sfuggirgli dalla gola: - E adesso me lo dici? Adesso?!
Quella che poi gli andò incontro fu una macchina da guerra, non più la dolce ondina che credeva di aver incontrato: con un bagliore metallico negli occhi verdi, la bocca digrignata, la pelle di un rosso insano, gli mise le mani sugli avambracci: - Uccidilo.
La guardò, cadde nelle sue iridi limpide, e comprese che l’avrebbe fatto davvero.

 

***

 

Aveva rubato una falce arrugginita dal capanno.
Non intendeva certo ammazzarlo in quella maniera, ma era l’unico pretesto con cui osasse presentarsi alla porta di Fontana. Indossava un completo di Vincenzo, ma non lo preoccupava l’idea che lui potesse accorgersene. Bussò alla porta.
- Arrivo – grugnì qualcuno dall’altra parte e Fontana fece il suo ingresso in scena.
- Be’, che volete? – grugnì, grattandosi la testa. Filippo deglutì e mostrò la falce.
- Avete di che pagarmi, o non lascerete questa casa.
- State tranquillo, ho tutto quello che potete desiderare – rispose, mellifluo.
Fontana annuì e gli voltò le spalle, con tanta rilassatezza che Filippo dovette farsi forza per ricordare che lui non aveva idea di chi fosse l’uomo con il berretto che gli aveva chiesto aiuto. Attraversarono una camera spoglia, un’altra illuminata da due finestroni. Fontana lo condusse ad un capanno e lì gli chiese la falce.
- Come?
- Vorreste che ve la ripari con l’imposizione delle mani? – non aveva mai udito una risata più sgraziata di quella. In silenzio, gli porse la falce, con le mani che tremavano al pensiero di dover lasciare l’arma in mano altrui.
Rimase imbambolato sull’uscio, almeno finché non l vide.
Allungò la mano, lentamente, e strinse la mazzetta sul tavolo.
Fontana aveva seguitato a parlare di filo, ruggine, incuria nella breve eternità culminata con la scoperta dell’arma; colpire un uomo disarmato… ma era colpevole, se esisteva qualcuno che meritasse la morte era proprio lui… avvicinò il contadino da dietro, il braccio che reggeva l’arma piacevolmente appesantito.
La testa della mazza ondeggiò sopra la sua testa per un piccolo intervallo; poi Filippo la calò sull’uomo.
- Sembra che non usiate questa falce da un sac – il primo colpo gli sfracellò la mandibola, perché si stava girando. Fontana fece una mezza piroetta e sbatté contro il tavolo, premendosi la mano sulla bocca sanguinante. Non ebbe il tempo di chiedere alcunché, perché la mazza gli ruppe anche il polso destro. Gridando, barcollò indietro e inciampò in uno sgabello di vimini.
- Sei un figlio di puttana! Un grande, schifoso figlio di puttana! – lo colpì con un calcio.
- Lasciami in pace! – Fontana si rialzò e tentò di afferrargli il polso con le mani viscide di sangue. Facendo roteare l’arma con una mano, gli ruppe il naso; lo colpì alla spalla, sulle mani, finché le dita non penzolarono come ramoscelli spezzati, su tutto il viso in modo da deformarlo completamente. Sudava, grugniva come un animale, continuando a colpire in maniera quasi elegante, ininterrotta.
Il sangue gli era schizzato anche in bocca.
Dopo quelle che gli parvero ore di grida inarticolate e tonfi sempre più molli, qualcuno lo prese per le braccia e lo allontanò a forza dalle ossa bianche e rivoltate di Fontana. Filippo menò un fendente nel vuoto, si liberò e scappò via, dopo aver gettato la mazza in un canto del giardino.

 

Sapeva che avrebbe trovato Scilla lungo il canale, dove avrebbe anche potuto lavarsi.
Infatti, riconobbe la sua sagoma nera che si stagliava contro l’acqua illuminata dal sole.
- Scilla! – ma lei non lo aveva sentito, perché non si voltò. Filippo corse verso di lei, sorridendo. A pochi passi di distanza, però, una puzza tremenda lo fece quasi indietreggiare: era il lezzo di un cadavere, ma anche quello di acqua stagnante, di erba putrida, di mille cose morte.
Era ben diverso dall’aroma floreale che era contraddistingueva Scilla.
- Scilla – ripeté, coprendosi il naso con un ansito. Lei piegò la testa di lato; solo allora cominciò a notare come i suoi capelli fossero una massa vischiosa, di un colore indefinibile. Un latrato solo riecheggiò nel suo cuore.
Lei lo guardò: i suoi lineamenti erano morti, deformati, le guance crepate, gli occhi torbidi, le labbra polverose.
In quel preciso momento, Filippo capì quale fosse stato il suo grande errore e a cosa era andato incontro.

 

- L’hai fatto veramente – stridette Scilla, con voce compiaciuta.
Se la sua voce lo fece rabbrividire dall’orrore, riconobbe il suo sorriso, quella folle eccitazione.
Chiunque fosse anzi qualsiasi cosa fosse Scilla, era stata lei ad uccidere Lorenzo; e lui l’aveva amata, aveva creduto che fosse un dono del Cielo, quando era il peggior diavolo dell’Inferno. L’odio lo pietrificò.
- Hai ucciso uno stupido, solo perché si pavoneggiava davanti a delle grasse vacche. Sei così coraggioso, Filippo, per questo ho sempre voluto te, ancora più del tuo bel fratello.
- Che cosa mi hai fatto fare!
- Per me eravate differenti come il giorno e la notte, per quanto mi piaceste entrambi. Però pensavo che il vostro legame fosse più forte di quanto si è rivelato… cos’hai percepito, tu?
- Smettila! – tentò di tapparsi le orecchie, ma le braccia pesavano come macigni.
- Niente! Scivolai sotto il cancelletto, mi tuffai nelle acque dello stagno; da lì vedevo la tua schiena, mentre compilavi le tue noiose carte; vidi arrivare tuo fratello. Renzo guardò le acque che ero e parve vedermi, perché si voltò con un’espressione dura e preoccupata, intendendo forse tornare in casa. Non glielo avrei mai permesso. Tremò, ma non si ribellò inutilmente quando lo strinsi a me. Lo uccisi solo per amor vostro.
Allora tentò di ammazzarla. Poteva avergli confessato di aver ucciso suo fratello, ma nessuno avrebbe mai potuto permettersi di dirgli che lui non era legato a Renzo, quello mai e poi mai! Di quel che accadde poi, non ricordò mai tutto: quando serrò le dita attorno alla gola disfatta di Scilla, l’acqua esplose come il fuoco da una bomba, attorno a loro. Lui tenne gli occhi aperti fino a quando non la vide annegare come una bestia qualunque.
Allora la lasciò andare.

 

***

 

- Dove mi trovo?
- A Venezia.
Morosina strizzò un fazzoletto nel bacile che aveva affianco, lo spiegò e glielo poggiò sulla fronte.
La camera era immersa in una luce soffusa e ambrata, almeno finché la donna non aprì le finestre.
Filippo tentò di sollevare almeno la testa, ma il dolore lancinante lo convinse a desistere. Poco alla volta, realizzò di avere il torace innaturalmente costretto da una fasciatura ben stretta, di avvertire una pulsazione sgradevole al fianco sinistro; infine ricordò anche l’ultima cosa che aveva compiuto prima di addormentarsi.
- No – pigolò, prossimo alle lacrime. Morosina tornò al suo capezzale: - Avevi una ferita orribile, temevo che saresti morto prima che arrivassimo – disse, infilandogli le dita tra i capelli. Lui annuì, preoccupato, ma lei sorrideva affettuosamente.
- Dimmi cosa hai fatto per ridurti così.
Sussultò, ricercando il nulla con spasmodica familiarità: - Ho ucciso un uomo.
Morosina si sciolse in un sorriso lacrimoso; aveva capito che cosa intendeva.

 

Il sudore gli imperlava le tempie, la ferita faceva ancora più male del solito.
Voltandosi da ogni parte, spaventato dal buio della camera, fu improvvisamente consapevole delle onde che sbattevano dolcemente contro le fondamenta della casa. Il ritmo del suo respiro si acquietò, tornò ad adagiarsi sui cuscini: non era ancora finita, capì un istante dopo, perché lei non era morta. Era invece probabile che non sarebbe morta mai, al contrario di lui.

Sbagliavi, Scilla,perché  il nostro legame – non più vuoto – sei tu.

   
 
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