A
JetpackJoyride,
per
le recensioni altamente positive.
Mia
madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.
(La
cavalla storna, G. Pascoli)
-
Sono incinta, Filippo.
Immobile,
attonito,
fissò la porta come se fosse stata un fantasma:
invece, l’unico fantasma presente tra loro aveva svuotato,
con una zampata
feroce, qualcosa di insostituibile nel cuore di Filippo, per riempire
con un bastardo il corpo di
Morosina. Incinta,
sola, privata in un sol gesto della reputazione e del futuro.
Il vuoto nero che celava dietro il
cuore emise un risucchio malevolo,
simile a delle labbra che schioccano: e se avesse cercato di nutrirlo
con la
debolezza di Morosina, fino a farlo scomparire? A quale prezzo avrebbe
accettato di non soffrire più? Non avrebbe mai fatto del
male alla promessa
sposa – già vedova
– di suo fratello.
- Qualsiasi cosa accada
– mormorò, alzandosi dalla poltrona dopo ore di
riflessioni inconcludenti.
Forse,
rifletté mentre
camminava attraverso i campi lussureggianti, avrebbe ritrovato qualcosa
nel
bambino che doveva ancora nascere. Gli riusciva impossibile immaginare
che
Morosina desse alla luce una femmina.
Continuò a camminare
finché il sole non bruciò come un ferro
incandescente, intontito dalla
stanchezza. Se si fosse voltato e fosse tornato indietro sarebbe
rimasto
qualcosa da salvare, ma il destino volle che quel giorno Filippo
incontrasse la
donna che gli avrebbe rubato il sonno, l’amore, e alla fine
anche la vita.
***
La sagoma si
staccò
ondeggiando dal tronco del salice – altrettanto snella.
Filippo camminò nella
sua direzione, arrestandosi sulle rive di un fosso increspato di luce.
La guardò.
Era una donna: i
muscoli guizzavano come pesciolini sotto la pelle lattea e coperta di
goccioline, le gambe ripiegate sotto il corpo; i capelli biondi si
stendevano
come un velo impalpabile sulla schiena e sulle spalle. Sentì
che il sangue
affluiva dappertutto, il suo cuore batteva più forte. Si
sentì, da molti mesi a
quella parte, vivo.
- Signore! – la donna
si era voltata e ora si premeva un telo verde contro il petto, gli
occhi
smarriti.
Aveva il viso tondo, le
guance appena rosate, gli occhi verdi come l’erba sotto i
suoi piedi nudi, le
labbra rosse come petali di papavero. Gli sembrò piuttosto
sciocco pensarlo, ma
sembrava possedere la bellezza della natura che li circondava.
- Perdonatemi, non
intendevo spiarvi – gracchiò lui, facendo un passo
indietro.
- Siete il signor
Avezzù, non è vero?
- Sì, sono io –
replicò, la voce strozzata. Quant’era bella,
quanto! Più la guardava, più era
appagato, colmo di qualcosa di inesprimibile e rassicurante; il
pensiero di
Morosina e del figlio che portava in grembo sbiadì piano.
Lei sorrise, innocente.
– Io mi chiamo Scilla.
Lui annuì, non sapeva
in che modo rispondere.
Scilla, nascondendo
malamente le proprie forme dietro al telo verde, si rialzò e
gli passò accanto.
- Potremmo incontrarci
ancora – disse a bassa voce, socchiudendo appena la bella
bocca.
Si allontanò in fretta,
luminosa come la polvere bianca della strada, mentre Filippo aspirava
il suo
profumo.
***
- Dove stai
andando? –
Morosina lo incrociò sulla porta; lei cullava il ventre
ingrossato con entrambe
le mani: all’anulare sinistro brillava l’anello
d’oro che lui le aveva
infilato, solo un paio di mesi prima. Lui indossava
uno dei suoi completi migliori, intendendo cercare Scilla.
- A fare una
passeggiata – la ragazza piegò appena la testa di
lato: era sua amica ed era
intelligente.
Sapeva benissimo che le
stava nascondendo qualcosa, ma non aveva mai voluto il suo amore,
perciò non se
ne curava. Sorridendo, si scostò e lo lasciò
passare.
- Siete
tornato per me?
– il sorriso di Scilla mancava della purezza infantile che
contraddistingueva i
suoi lineamenti. Atteggiate così, le labbra morbide
assumevano l’aspetto di
cicatrici rosee e il suo sguardo si faceva ferino, quasi spaventoso
nella sua
limpidezza.
Filippo, seduto
sull’erba accanto a lei, non ebbe la forza di rispondere.
Le passò le mani lisce,
da scrivano, sulle fossette in fondo alla schiena, sulla curva delle
natiche,
sulle gambe, e il sorriso di Scilla impazzì e si
tramutò in un’espressione
sorprendentemente lasciva. Rotolò sulla schiena, nuda, le
braccia incrociate
sopra la testa.
- Tu non sei umana –
ringhiò Filippo, all’improvviso.
Mentre si beava di lei come un
affamato si sfamava solo dopo innumerevoli portate, il nulla che
cercava di
placare sussultò e gli vomitò addosso un ricordo
orribile: quello di una giacca
fradicia che aveva stretto per minuti, ore, eternità leggere
e fredde come la
neve.
Scilla non era
sufficiente; anzi, non era adatta.
Maledicendola in mille
modi, travolto dall’ira e dall’inadeguatezza,
balzò in piedi e scappò via.
***
Tornò
da lei, però. Più
e più volte.
Non desiderava altro,
finché non poteva stare con lei – e la pancia di
Morosina si ingrossava e le
lingue ciarlavano. La raggiungeva, lei sempre puerile e candida
finché non
sorrideva e si lasciava prendere sull’erba che ingialliva con
il passare delle
settimane, allora Filippo sentiva crescere il disgusto, la lasciava
senza avere
piacere da lei, rimaneva con le mani in grembo, mentre il grigiore e la
morte
lo riempivano tutto.
Come il sangue gocciava
fuori da una ferita senza mai interrompersi, il vuoto si sgretolava
poco a
poco.
- Non basti – le diceva
a volte, combattuto tra la disperazione e l’irritazione: - La
coda delle
lucertole sussulta anche dopo essere stata strappata
dall’animale – rispondeva
Scilla e lui si convinceva che fosse l’unica che potesse
aiutarlo.
- Trovatelo,
voglio che
troviate quell’assassino!
Vincenzo lo osservava
con aria di compatimento, ne era consapevole.
Un
anno, aveva detto a
Morosina quel mattino. Morosina era
scoppiata in lacrime, stringendo Giacomo al petto.
I due ufficiali
abbassarono il capo in segno di rispetto, ma non avevano ancora
scoperto
niente. A volte gli sembrava quasi di sentirlo, suo fratello, che
picchiava
contro il coperchio della bara e gli chiedeva di trovare il suo
assassino, di
modo che potesse riposare in pace. Riposare
in pace. Cercò la pozza d’acqua, tutto
ciò che era rimasto di lui, senza
trovarla.
- Lo faremo, signor
Avezzù, statene certo. E quando lo faremo, sarà
impiccato.
Il sangue scivolò via
dal viso di Filippo. – Bene – disse e si
congedò.
- Loro non
faranno
niente, non potranno far niente per aiutarmi a comprendere la
verità! Per
quanto codardi e nullafacenti essi siano, se mai dovessero catturarlo
lo
impiccherebbero e così finirebbe tutto! No! Mille volte no!
Prima gli strapperò
le dita, gli spaccherò le ossa una alla volta… e
vedremo se proverà anche lui
del dolore, finalmente, quando farò il suo corpo a
brandelli!
Smise di tremare e
tramare, rilassò le dita che aveva contratto nel momento
dell’immaginazione,
respirò a fondo. Doveva vedere Scilla, in
quell’esatto momento: entrò nella
camera di Giacomo, che dormiva nella culla, sotto gli occhi vigili di
Amelia,
la balia. La donnina accennò una riverenza, anche se era
seduta su uno
sgabello.
- Non alzatevi, non è
necessario – mormorò Filippo, rivolgendole un
cenno distratto, - volevo solo
vedere il piccolo – aggiunse, senza dimostrare troppo
interesse. Era un bel
bambino, dalla carnagione rosea e la testa già coperta da
una lanugine bionda e
finissima.
- Vi assomiglia molto –
commentò Amelia. Lui accolse il complimento con un sorriso
dolente. – Lo so.
- Un anno
è passato,
Scilla! sono degli incompetenti, talmente stupidi che non troverebbero
nemmeno
la propria mano, se ne avessero bisogno –
strepitò. Scilla sorrideva nel suo
modo animalesco, leccandosi l’angolo della bocca. Sotto il
sole di quell’estate
di san Martino era ancora più bella del solito.
- Non preoccuparti,
Filippo, sono sicura che giustizia sarà fatta. Tu non credi?
– domandò con
occhi ardenti.
- Io non voglio la giustizia: io
voglio che
lui capisca cosa ci ha inflitto. A
me, a Morosina… a Renzo…
- Filippo, Filippo,
Filippo! Forse non sei stato in grado di superare la perdita di tuo
frat –
- Non era mio fratello
– la troncò, secco, - ma il mio gemello. Hai mai
sentito parlare del legame che
può crearsi tra due persone quali eravamo noi? –
la sua voce tremava e non
andava affatto bene, - La morte è di più:
è dolore, amputazione. Siamo
incompleti.
- Ricordi l’apologo
della lucertola?
- Credo di non averlo
mai letto, né sentito raccontare.
- A questo possiamo
rimediare subito; una lucertola attraversava la strada, quando si
ritrovò sotto
gli zoccoli di un cavallo. Scivolando con tutta la rapidità
che le era
consentita ebbe salva la vita, ma una zampa pesante le
tranciò di netto la
coda. Triste e dolorante, la lucertola rimase sul ciglio della strada
ad
osservare come quella misera appendice si contorceva tra la polvere, ma
si rese
conto che non poteva rimanere lì per sempre,
perché prima o poi una nuova coda
sarebbe cresciuta… e d’altronde, quella vecchia
era ormai cibo per i vermi.
Filippo l’aveva
ascoltata con attenzione, ma a quella conclusione fece una risata
scoppiettante, benché avvertisse il pizzicore delle lacrime
agli angoli degli
occhi: - Proprio… - esclamò tra i singulti, -
materia per i vermi!
La ragazza si fece
ancora più vicina a lui, carezzandogli la gola e la fronte.
- Rilassati, caro… una
maniera la troverai – sogghignò.
***
Fontana non si
accorse
di lui, troppo concentrato a fare il galletto davanti alle contadine.
- Ah, non ci credete?
Fate male! L’ho sempre detto, io,
che
prima o poi i signorotti Avezzù avrebbero fatto una brutta
fine, altroché! Se
non ci credete, potete sempre chiedere a Giorgio, lui mi ha sempre
ascoltato e
mi è sempre stato vicino, un vero amico. Non è
così, Giorgio?
Non era che un
contadino gretto e ottuso, ed era probabile che si fosse inventato
tutto di
sana pianta, ma Filippo sapeva che se non ci fosse stato Vincenzo a
trattenerlo, mettendogli con discrezione una mano sulla spalla, gli si
sarebbe
scagliato addosso.
- Manteniamo la nostra
reputazione, sior – gli
propose il
giardiniere.
- Non preoccupatevi.
Adesso andiamocene, non voglio star qui ad ascoltare i suoi deliri
– fece una
smorfia.
Sulla strada del
ritorno si perse nelle sue fantasticherie, ma ad un certo punto si
rivolse al
dipendente: - Chi era quell’uomo? – chiese,
imperturbabile. Vincenzo tentennò
un poco, prima di abbozzare una risposta.
-
Un mezzadro, signore.
Lui lo fulminò con lo
sguardo.
- Ditemi qualcosa di
più, Vincenzo.
- Io non lo conosco di
persona, badate bene, non vorrei mai avere a che fare con un individuo
del
genere, con quello che mi hanno raccontato di lui: è una
persona violenta, che
si vanta spesso di scuoiare le faine che cattura con le tagliole.
Pochi, in
paese, hanno il coraggio di domandargli qualcosa, però
ripara benissimo gli
attrezzi rotti.
- Può bastare, grazie.
È tutto quello che mi interessava.
Morosina lo aspettava
in giardino, il viso scuro.
Lui si sedette
timidamente accanto a lei, che però continuò a
controllare che Giacomo non si
facesse male.
- Sono tornato – disse.
Lei si voltò, fissandolo dritto negli occhi. –
Filippo.
- Sì? – era a disagio,
come quando Nilde, la sua vecchia balia, lo scopriva a combinar casini.
- Non so cosa ti stia
capitando; ma non voglio che tu faccia qualcosa che ci metta in
pericolo.
- Io non so di cosa tu
stia parlando, ti giuro che…
- Oh, non mentire!
Metti nei guai Giacomo, toglili una casa e il rango che gli spetta e me
ne
andrò per sempre. E lo porterò via. Sono stata
chiara? Bene. Pensaci, Filippo.
Cosa desideri avere?
Si alzò, prese in
braccio il bambino, che lo chiamò papà e
agitò le manine paffute, e tornò in
casa voltandogli le spalle.
- Come fai a sapere
cosa voglio veramente? – le gridò dietro, nella
quiete del giardino.
- Aspetta,
Filippo!
Scilla scosse i capelli
biondi, luccicante come una sirena appena uscita dal mare.
Dopo due anni, Filippo
si stupiva ancora di quanto fosse giovanile la sua pelle e la sua
espressione.
- Oggi non ho voglia di
parlare, scusami – le voltò le spalle,
abbacchiato. La voce fredda di Scilla lo
sorprese.
- Si tratta di Fontana?
- Tu come… come fai a
saperlo?
La ragazza scosse la
testa e fece un passo avanti. – Se te l’avessi
detto, ti avrei perduto per
sempre.
Filippo troncò l’urlo
che lottava per sfuggirgli dalla gola: - E adesso me lo dici? Adesso?!
Quella che poi gli andò
incontro fu una macchina da guerra, non più la dolce ondina
che credeva di aver
incontrato: con un bagliore metallico negli occhi verdi, la bocca
digrignata,
la pelle di un rosso insano, gli mise le mani sugli avambracci: -
Uccidilo.
La guardò, cadde nelle
sue iridi limpide, e comprese che l’avrebbe fatto davvero.
***
Aveva rubato
una falce
arrugginita dal capanno.
Non intendeva certo ammazzarlo
in quella maniera, ma era l’unico pretesto con cui osasse
presentarsi alla
porta di Fontana. Indossava un completo di Vincenzo, ma non lo
preoccupava
l’idea che lui potesse accorgersene. Bussò alla
porta.
- Arrivo – grugnì
qualcuno dall’altra parte e Fontana fece il suo ingresso in
scena.
- Be’, che volete? –
grugnì, grattandosi la testa. Filippo deglutì e
mostrò la falce.
- Avete di che pagarmi,
o non lascerete questa casa.
- State tranquillo, ho
tutto quello che potete desiderare – rispose, mellifluo.
Fontana annuì e gli
voltò le spalle, con tanta rilassatezza che Filippo dovette
farsi forza per
ricordare che lui non aveva idea di chi fosse l’uomo con il
berretto che gli
aveva chiesto aiuto. Attraversarono una camera spoglia,
un’altra illuminata da
due finestroni. Fontana lo condusse ad un capanno e lì gli
chiese la falce.
- Come?
- Vorreste che ve la
ripari con l’imposizione delle mani? – non aveva
mai udito una risata più
sgraziata di quella. In silenzio, gli porse la falce, con le mani che
tremavano
al pensiero di dover lasciare l’arma in mano altrui.
Rimase imbambolato sull’uscio,
almeno finché non l vide.
Allungò la mano,
lentamente, e strinse la mazzetta sul tavolo.
Fontana aveva seguitato
a parlare di filo, ruggine, incuria nella breve eternità
culminata con la
scoperta dell’arma; colpire un uomo disarmato… ma
era colpevole, se esisteva
qualcuno che meritasse la morte era proprio lui…
avvicinò il contadino da
dietro, il braccio che reggeva l’arma piacevolmente
appesantito.
La testa della mazza
ondeggiò sopra la sua testa per un piccolo intervallo; poi
Filippo la calò sull’uomo.
- Sembra che non usiate
questa falce da un sac – il primo colpo gli
sfracellò la mandibola, perché si
stava girando. Fontana fece una mezza piroetta e sbatté
contro il tavolo,
premendosi la mano sulla bocca sanguinante. Non ebbe il tempo di
chiedere
alcunché, perché la mazza gli ruppe anche il
polso destro. Gridando, barcollò
indietro e inciampò in uno sgabello di vimini.
- Sei un figlio di
puttana! Un grande, schifoso figlio di puttana! – lo
colpì con un calcio.
- Lasciami in pace! –
Fontana si rialzò e tentò di afferrargli il polso
con le mani viscide di sangue.
Facendo roteare l’arma con una mano, gli ruppe il naso; lo
colpì alla spalla,
sulle mani, finché le dita non penzolarono come ramoscelli
spezzati, su tutto
il viso in modo da deformarlo completamente. Sudava, grugniva come un
animale,
continuando a colpire in maniera quasi elegante, ininterrotta.
Il sangue gli era
schizzato anche in bocca.
Dopo quelle che gli parvero
ore di grida inarticolate e tonfi sempre più molli, qualcuno
lo prese per le
braccia e lo allontanò a forza dalle ossa bianche e
rivoltate di Fontana. Filippo
menò un fendente nel vuoto, si liberò e
scappò via, dopo aver gettato la mazza
in un canto del giardino.
Sapeva che
avrebbe trovato Scilla lungo il canale,
dove avrebbe anche potuto lavarsi.
Infatti, riconobbe la sua sagoma nera che si
stagliava contro l’acqua illuminata dal sole.
- Scilla! – ma lei non lo aveva sentito, perché
non
si voltò. Filippo corse verso di lei, sorridendo. A pochi
passi di distanza,
però, una puzza tremenda lo fece quasi indietreggiare: era
il lezzo di un
cadavere, ma anche quello di acqua stagnante, di erba putrida, di mille
cose morte.
Era ben diverso dall’aroma floreale che era
contraddistingueva Scilla.
- Scilla – ripeté, coprendosi il naso con un
ansito.
Lei piegò la testa di lato; solo allora cominciò
a notare come i suoi capelli
fossero una massa vischiosa, di un colore indefinibile. Un latrato solo
riecheggiò nel suo cuore.
Lei lo guardò: i suoi lineamenti erano morti,
deformati, le guance crepate, gli occhi torbidi, le labbra polverose.
In quel preciso momento, Filippo capì quale fosse
stato il suo grande errore e a cosa era andato incontro.
-
L’hai fatto veramente – stridette Scilla, con voce
compiaciuta.
Se la sua voce lo fece rabbrividire dall’orrore,
riconobbe il suo sorriso, quella folle eccitazione.
Chiunque fosse anzi qualsiasi cosa
fosse Scilla, era stata lei ad uccidere Lorenzo; e
lui l’aveva amata, aveva creduto che fosse un dono del Cielo,
quando era il
peggior diavolo dell’Inferno. L’odio lo
pietrificò.
- Hai ucciso uno stupido, solo perché si
pavoneggiava davanti a delle grasse vacche. Sei così
coraggioso, Filippo, per
questo ho sempre voluto te, ancora più del tuo bel fratello.
- Che cosa mi
hai fatto fare!
- Per me eravate differenti come il giorno e la
notte, per quanto mi piaceste entrambi. Però pensavo che il
vostro legame fosse
più forte di quanto si è rivelato…
cos’hai percepito, tu?
- Smettila! – tentò di tapparsi le orecchie, ma le
braccia pesavano come macigni.
- Niente! Scivolai
sotto il cancelletto, mi tuffai nelle acque dello stagno; da
lì vedevo la tua
schiena, mentre compilavi le tue noiose carte; vidi arrivare tuo
fratello. Renzo
guardò le acque che ero
e parve
vedermi, perché si voltò con
un’espressione dura e preoccupata, intendendo
forse tornare in casa. Non glielo avrei mai permesso. Tremò,
ma non si ribellò
inutilmente quando lo strinsi a me. Lo uccisi solo per amor vostro.
Allora tentò di ammazzarla. Poteva avergli
confessato di aver ucciso suo fratello, ma nessuno avrebbe mai potuto
permettersi di dirgli che lui non era legato a Renzo, quello mai e poi
mai! Di quel
che accadde poi, non ricordò mai tutto: quando
serrò le dita attorno alla gola
disfatta di Scilla, l’acqua esplose come il fuoco da una
bomba, attorno a loro.
Lui tenne gli occhi aperti fino a quando non la vide annegare come una
bestia
qualunque.
Allora la lasciò andare.
***
- Dove mi
trovo?
- A Venezia.
Morosina strizzò un fazzoletto nel bacile che aveva
affianco, lo spiegò e glielo poggiò sulla fronte.
La camera era immersa in una luce soffusa e ambrata,
almeno finché la donna non aprì le finestre.
Filippo tentò di sollevare almeno la testa, ma il
dolore lancinante lo convinse a desistere. Poco alla volta,
realizzò di avere
il torace innaturalmente costretto da una fasciatura ben stretta, di
avvertire
una pulsazione sgradevole al fianco sinistro; infine ricordò
anche l’ultima
cosa che aveva compiuto prima di addormentarsi.
- No – pigolò,
prossimo alle lacrime. Morosina tornò al suo capezzale: -
Avevi una ferita
orribile, temevo che saresti morto prima che arrivassimo –
disse, infilandogli
le dita tra i capelli. Lui annuì, preoccupato, ma lei
sorrideva affettuosamente.
- Dimmi cosa hai fatto per ridurti così.
Sussultò, ricercando il nulla
con spasmodica familiarità: - Ho ucciso un uomo.
Morosina si sciolse in un sorriso lacrimoso; aveva
capito che cosa intendeva.
Il
sudore gli imperlava le tempie, la ferita faceva
ancora più male del solito.
Voltandosi da ogni parte, spaventato dal buio della
camera, fu improvvisamente consapevole delle onde che sbattevano
dolcemente
contro le fondamenta della casa. Il ritmo del suo respiro si
acquietò, tornò ad
adagiarsi sui cuscini: non era ancora finita, capì un
istante dopo, perché lei
non era morta. Era invece probabile
che non sarebbe morta mai, al contrario di lui.
Sbagliavi,
Scilla,perché il nostro legame – non
più
vuoto – sei tu.