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Autore: Momoko The Butterfly    28/10/2012    2 recensioni
Sono ormai passati cento anni dalla quasi distruzione del genere umano. Dopo un'estenuante battaglia tra bene e male, il mondo è caduto infine preda di tenebre fatte di solitudine e sofferenza; il Conte del Millennio regna baldanzoso su una terra devastata dalla fame e dalla morte, tartassata fin nel profondo dell'animo da eserciti di Akuma voraci e famelici. Ma l'umanità non demorde, per questo si nasconde dalla loro vista, fiduciosa di poter riassemblare i tasselli di una vita in frantumi. Leda e Alan, fratelli inseparabili, hanno perso ogni cosa. Eppure sembra che la sede Nord America possa davvero diventare la loro nuova casa, grazie a benevole persone che hanno saputo ridonare speranza ai loro cuori avviziti dal dolore.
Ma nulla andrà per il verso giusto. Quando la sede verrà messa sotto assedio, sarà tempo per loro di cominciare un viaggio fatto di rischi e incertezze alla ricerca di risposte. Ad accompagnarli, i paladini dell'Innocence, gli Esorcisti, e un sempre più enigmatico Tyki Mikk...
Genere: Angst, Avventura, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bookman, Nuovo personaggio, Rabi/Lavi, Tyki Mikk, Un po' tutti
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Lady War


Capitolo 2: Rabbia e disperazione


Erano passati due, no, anzi, tre minuti da quando l’allarme aveva preso a stridere dagli altoparlanti posizionati lungo le strade.
La voce di Renny Epstain echeggiò sicura e precisa fin nei più stretti vicoli della sede, disponendo le misure di sicurezza, annunciando il grado di emergenza di quello che spiegò essere un attacco da parte di Akuma: 5.
Il quinto grado… quello più alto. Non era mai stato raggiunto, in centinaia di anni di battaglie e assalti. La faccenda era grave, molto grave.
La gente cominciò a riversarsi nelle strade come un fiume in piena, gridando e spingendo, in preda al panico. I bambini venivano strattonati per le maniche dai genitori, i quali cercavano in tutti i modi di farsi largo tra la folla per correre verso i canali di sicurezza. Si trattava di porte alte e larghe, dalle quali all’occorrenza potevano persino passare due carri armati alla volta. Solitamente erano sempre chiuse ermeticamente ed era vietato avvicinarvisi, ma in caso di emergenza estrema venivano spalancate per permettere ai cittadini di barricarvisi dentro. All’interno erano presenti posti letto, cibo e qualsiasi altra risorsa utile al sostentamento della popolazione, ma in quantità limitate. Si avevano dai sei ai dieci minuti per radunarvi quante più persone possibili. Dopodiché, si sarebbero chiuse, e più riaperte fino a che non si fosse dato il cessato pericolo.
 
Leda era balzata fuori dal refettorio e si era precipitata nella caffetteria, la quale si stava svuotando proprio in quel momento.
Mosse frenetica lo sguardo tra i clienti, alla ricerca di Alan, Theodore, o di chiunque avesse riconosciuto.
- ALAN! – chiamò a squarciagola, girando attorno ai tavoli, guardando dietro al bancone, sul retro, dove tenevano le provviste. Non c’era nessuno, e intanto la stanza si era svuotata. Lei era rimasta lì, da sola.
- ALAN!!! – gridò ancora più forte, tanto da sentire la gola pizzicarle di dolore.
Corse su per le scale con una rapidità mai vista, e aprì tempestivamente la porta della loro stanza facendola sbattere sonoramente contro il muro. Entrò e non vide nessuno. Tornò indietro. Attraversò la caffetteria e il corridoio, si precipitò nell’ingresso, vuoto.
- ALAN!!!! – urlò, e la sua voce disperata echeggiò nell’androne deserto, come se volesse farle capire malignamente che lei era l’unica anima rimasta in quell’edificio. Pensò subito ai canali di sicurezza. Alan doveva essere andato laggiù, sicuramente, con Ted e tutti gli altri. Sì, era certamente così. Cominciò a correre verso l’uscita, quando le sue gambe cedettero a una potente scossa di terremoto, che fece tremare violentemente i muri e dondolare i lampadari. Leda cadde e terra e si guardò attorno, sconcertata.
Che diavolo stava succedendo?!
Tentò di rialzarsi, ma non riusciva a reggersi in piedi. Le sue gambe non ne volevano sapere di stare dritte. Sentiva la testa spaccarsi dalla confusione, la gola bruciarle e il panico aumentare. Sembrava di essere su un’enorme tappeto elastico, sul quale non riuscivi a metterti in piedi per via dei sobbalzi provocati da tutti gli altri.
Si trascinò verso l’uscita, quando su questa crollò spaventosamente un grosso masso delle dimensioni di una casa. Il pavimento di legno si frantumò in milioni di schegge e la porta d’ingresso scomparve in mezzo a una nuvola di polvere bianca e spessa. Leda venne scagliata lontano di qualche metro a causa dell’impatto. Sbatté contro il muro sentendo un brivido di dolore correrle lungo la schiena. Tossì, cercando di allontanare i detriti che le volavano attorno per soffocarla, e tutta tremolante riuscì finalmente ad alzarsi. La scossa si era arrestata, fortunatamente, e questo non le impedì più di correre via, per dirigersi verso l’uscita secondaria della locanda. Quando si ritrovò in strada, ad accoglierla fu il caos. La gente correva disperata da un angolo all’altro della strada, i muri degli edifici erano crollati e altri stavano ancora crollando, sotto la pressione della forza di gravità. La cosa però che la sconcertò di più però, era la luce. C’era un alone luminoso e pieno attorno a lei, che formava una forma vagamente circolare. Alzò immediatamente lo sguardo. Poi la vide: una grossa apertura nell’impenetrabile muro spesso e grigio che avrebbe dovuto proteggerli. Il masso che era crollato sopra di lei poco prima era il pezzo mancante in quel buco enorme.
Qualcosa proiettò la propria ombra su di lei, stagliandosi al centro dell’apertura: una nera sagoma alta e magrolina, da cui spuntavano delle ali appuntite, che si muovevano ad ogni battito. Sopra quella che riconobbe come una testa, c’era un’aureola. O almeno, così sembrava…
L’essere volò sopra i tetti delle case. Non essendo più in controluce, Leda poté vederlo più chiaramente, constatando che non aveva mai visto una ‘roba’ simile. Completamente bianco, con strani tatuaggi attorno alle braccia e alle gambe, aveva un volto fanciullesco e dall’aria curiosa. Sembrava un bambino, no, un angelo. Un bambino angelico. Alcuni si fermarono e fissarono i loro occhi su di lui, convinti che fosse una specie di creatura divina. Forse lo era. O forse no. L’essere a quel punto tese una mano verso la folla, e il suo volto fanciullesco e innocente sparì, sostituito da un ghigno inquietante che solo un orribile mostro bramoso di sangue poteva avere.
Si accesero lampi viola lungo le strade. La gente cominciò a gridare; i bambini a piangere. Corsero al riparo dentro le case le cui porte erano ancora aperte, o nei cunicoli offerti dai detriti degli edifici come illusionistica promessa di salvezza. Sulla grande apertura comparvero altri angeli, i quali si gettarono indemoniati sulla folla sparando raggi violacei ovunque. Leda arresto la sua corsa verso la strada. Vide le creature volanti ghignare sadiche spostandosi da un tetto all’altro. Poi calpestò qualcosa. Guardò e terra e il respiro le rimase bloccato in gola, incapace di uscire. Ciò che vide la orripilò talmente tanto che sentì lo stomaco ingarbugliarsi e un conato di vomito salirle in gola. C’era un braccio, al quale era attaccato il cadavere di una donna. Era completamente nero, come carbonizzato. Puzzava di bruciato, di morte, di un odore pestilenziale che nemmeno Leda seppe riconoscere. Uno strano fumo bianco si sprigionava da quel corpo senza vita il cui volto era rimasto bloccato in un’espressione straziata, urlante. Leda guardò con attenzione quel viso, avvertendo su di sé le medesime sensazioni. Si sentì oppressa, incapace di muoversi. Più lo guardava, e più il peso del dolore degli ultimi attimi di quella giovane premeva su di lei. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, e la sua vista rimanere annebbiata da esse, farsi liquida. Rimase lì, alla mercé di quel cadavere nero e polveroso. Come spostò il piede dal braccio, lo mandò in frantumi. Si decompose all’istante, svanendo nell’aria come cenere. No, era proprio cenere. Il corpo di un essere umano era appena svanito sotto i suoi occhi.
 
Improvvisamente, il bisogno di rivedere Alan si fece più forte. Il terrore che potesse aver fatto la stessa fine della donna invase gradualmente le sue membra, terrorizzandola.
Cominciò a correre.
Accanto a lei sfilarono veloci altri corpi carbonizzati: uomini, donne, bambini… persino animali. Cercò di non guardarli, perché sapeva che se lo avesse fatto avrebbe sputato fuori ciò che le ribolliva nello stomaco. Dentro il suo cuore pregava Dio che suo fratello e Theodore ci fossero ancora. Desiderava rivederli con tutta sé stessa.
 
Davanti a lei si stagliò l’immensa folla composta dagli abitanti della sede. Gli esseri bianchi volavano sopra le loro teste con quel loro maledetto ghigno sempre stampato in volto, uccidendo chiunque volessero. In quelle condizioni, con la gente che si accalcava, spingeva e persino calpestava per arrivare alla propria salvezza, ci sarebbe stato poco da fare. Leda non aveva la minima intenzione di imbottigliarsi anche lei in quel traffico di persone urlanti, dentro al quale avrebbe fatto sicuramente una fine analoga a quella dei corpi carbonizzati lungo la strada. Così scattò di lato, imboccando un vicolo deserto che la portò abbastanza distante dal caos. Seguì una strada messa in ombra dai tetti che la sovrastavano, correndo a perdifiato. L’aria entrava e usciva ritmicamente dai suoi polmoni. La gola era secca, la faccia in fiamme per la stanchezza. La paura era tanta. E anche la rabbia lo era. Come diamine si erano permessi di abbandonare i posti di guardia?! Come avevano potuto permettere che succedesse quella strage?
Un complesso di persone presuntuose e disorganizzate, ecco cos’era la sede Nord America!
Inciampò, cadendo rovinosamente a terra. Ebbe solo il tempo di rialzarsi che uno dei mostri la vide, e si scagliò contrò di lei, ridendo maligno.


 
L’aria era satura di polvere, e morte.
Avanzò deciso e spavaldo in mezzo alla confusione, portando le dita della mano sinistra all’impugnatura della sua arma. Gli sembrò di sentirla vibrare, fremere eccitata, quasi lo stesse implorando di usarla.
 
In meno di un secondo, una pallottola andò a piantarsi in mezzo alla testa di un uomo. Questo morì all’istante, cadendo a terra. Una pozza di sangue sempre più vasta si spanse dal suo corpo, circondandolo in un caldo abbraccio di morte.
 
Ripose l’arma, fumante, nel fodero legato alla vita.
Sentì i rumori della gente spaventata correre in salvo. Trattenne una smorfia di disgusto. Gli esseri umani… non erano altro che formiche. Si facevano forti dentro la loro inespugnabile fortezza, ma una volta allagato loro il formicaio… ecco cosa rimaneva. Masse di morti ambulanti che correvano pensando che avrebbero potuto ancora salvarsi. Tutto ciò era patetico. Non si sarebbe salvato nessuno, lui lo sapeva bene.
- Niente sopravvissuti – sentenziò, tombale eppure divertito da quell’affermazione dalla valenza suprema, a un gruppo di Akuma che comparvero alle sue spalle, bramosi di vite umane quasi quanto lui.
- Agli ordini – risposero in coro questi, avanzando lugubri.
 
Estrasse le sue pistole, impugnandole come faceva sempre: con forza e destrezza; e un pizzico di arroganza.
Puntò, e sparò sulla folla, mentre un ghigno sadico e eccitato mal celato si faceva strada sul suo viso.


 
Leda vide il mostro scagliarsi minaccioso su di lei.
Si rialzò con un balzo e si gettò in strada, mandando a monte la sua idea di fare il giro largo passando per i vicoli. Si infilò tra la gente e cominciò a farsi più piccola che poté, scivolando tra una persona e l’altra il più velocemente possibile. Il mostro le stava dietro. In mezzo a tutta quella confusione, però, la confuse e non fu più in grado di vederla. Ciò che gli appariva davanti agli occhi era solo un mare di piccoli uomini tutti ammassati l’uno contro l’altro. Volò più basso, ma niente. L’aveva persa di vista.
Leda si nascose dietro a un uomo piuttosto robusto, che ne coprì l’esile sagoma. Scattò così verso i bordi della strada, dove individuò un vicoletto stretto e deserto, sgattaiolandoci dentro. Camminò frettolosa accanto a dei bidoni e si affacciò su un incrocio. Il fetore dell’immondizia accanto a lei era davvero nauseante, tanto che cominciò nuovamente a sentirsi male. Corse così dalla parte opposta alla strada, e appiattendosi sui muri scrostati e consumati dal tempo, avanzò a tentoni.
I capelli le si erano appiccicati alla fronte, e piccole goccioline di sudore dovute alla tensione le scendevano lentamente lungo le tempie, facendole il solletico. E mentre strisciava da un edificio all’altro, milioni di interrogativi si accavallarono dentro di lei, ansiosi di trovare per primi una risposta.
Che cosa diamine erano quei mostri?!
I suoi più logici ragionamenti la portavano a pensare che fossero Akuma.
“Ma è impossibile!” pensò, sopprimendo un grido che le forzava la gola per uscire. Certo, era impossibile. Gli Akuma non potevano oltrepassare la barriera loro imposta attorno alla sede. Era impossibile.
Impossibile, impossibile, impossibile, si ripeteva Leda come un disco rotto.
Ma nulla è impossibile.
Solo in quel momento si rese conto che la sede era stata davvero attaccata da degli Akuma, e che la barriera impenetrabile che avrebbe dovuto proteggerli si era spezzata. Il Conte del millennio aveva trovato il modo di superarla, eh? Che mossa magistrale, attaccare gli innocenti nel luogo dove questi sono più al sicuro; e meschina, vile, orribile. Non avrebbe perdonato nessuno, nemmeno il Supervisore, se fosse accaduto qualcosa a Alan. O a Ted. O a chiunque altro lei avesse a cuore. Dentro di sé sentiva che avrebbe potuto persino uccidere. Non sapeva però se ne sarebbe stata davvero in grado. In fondo, a parole sono bravi tutti, e mascherarsi dietro promesse false o che non abbiamo il coraggio di mantenere è del tutto inutile. No, non avrebbe sottratto la vita a nessuno. Lei stessa sapeva quanto fosse importante. Lei, che le vite altrui le aveva viste dissiparsi come gli sbuffi delle fiamme crepitanti del camino che salgono verso il cielo, per mano di persone malvagie e senza scrupoli. Non sarebbe stata mai in grado di uccidere, di privare una persona di un dono tanto grande come la vita. Di diventare come quegli orribili mostri che detestava tanto.
 
Si affacciò su un’altra strada, sbriciando con la coda dell’occhio attorno a lei per controllare che non ci fosse nessuno, e poi direttamente sul vicolo. I caos della popolazione che gridava e piangeva, diventando polvere, riempiva l’aria. Leda era circondata da quei rumori strazianti dai quali però doveva estraniarsi. Serviva concentrazione, scaltrezza, buon senso e anche un pizzico di fortuna, per non farsi scoprire. Era un po’ come giocare a nascondino. Solo che se avesse perso, Leda sarebbe morta. Una sottile differenza il cui esito dipendeva tutto dalle sue abilità. Lei era sempre stata brava a nascondersi. Era una cosa che le veniva naturale, da piccola. Le tornò a galla un vecchio ricordo, fatto di dolcezza, sorrisi, ma anche di quella prima angoscia che avrebbe presto imparato a sopportare; si contrappose quasi a forza con l’angosciante realtà del suo presente, mischiando insieme l’oro degli alberi e il rosso del sangue della guerra.
 
Era in giardino. Aveva appena tredici anni, mentre Alan quasi sette. Stavano giocando a nascondino in un pomeriggio assolato, in cui il sole riempiva ogni singolo spazio illuminandolo come fosse d’oro.
Leda stava contando. Detestava farlo, diceva che era una ‘palla’. Per questo, aveva preso l’abitudine di barare, saltando alcune cifre. Arrivava a cento con meno di cinquanta numeri. Alan non poteva sentirla, perché si nascondeva sempre in posti molto isolati e quindi, Leda ne era certa, non l’avrebbe mai accusata di giocare sporco. Quando disse il fatidico numero cento, allontanò la testa dal braccio con il quale si era coperta gli occhi e cominciò a guardarsi attorno, già pensando a dove suo fratello potesse essersi nascosto. Avanzò in una direzione a caso, pronunciando il nome del bambino con aria terrificante, come se fosse il lupo cattivo di una di quelle fiabe che erano soliti leggere insieme la sera, prima di dormine. O meglio, che Leda era solita leggere ad Alan. Per lei ormai quelle erano storielle da bambini.
Setacciò il cortile attorno alla casa, facendo il giro del grosso carretto che il loro padre usava per recarsi in città e fare compere. Passò per la stalla salutando allegra il cavallo Zucchero. Si chiamava così perché aveva una vera passione per gli zuccherini che gli davano dopo una giornata di viaggio, come ricompensa. La strada da fare era sempre stata tanta, ma Zucchero non aveva mai dato segni di stanchezza. Era un cavallo tanto fiero quanto forte. Rispose al saluto della ragazza, nitrendo energicamente, dondolando la folta coda bruna a destra e a sinistra. Poi tornò a farsi gli affari suoi – mangiare la paglia nella sua mangiatoia -.
Leda riapparve nel punto di partenza, senza aver trovato Alan. Guardò allora verso il boschetto a ridosso della loro casa, ed ebbe un’illuminazione. Si addentrò così al suo interno, sbirciando tra un albero e l’altro. Guardò dietro a ogni cespuglio sospetto, ficcò la faccia dentro alle tane degli animali, sporcandosi irrimediabilmente di terra, e osservò persino l’intera area dalla sommità di un albero.
Alan però non si trovava. Rimanevano pochi posti dove cercarlo, e Leda non si diede per vinta. Continuò imperterrita e decisa la sua ricerca.
Si fece il tramonto, e l’oro che ricopriva i tronchi degli alberi assunse tonalità più calde. Leda era seduta su una grossa roccia, sospirando affrancata. Odiava perdere ai giochi, soprattutto contro suo fratello. Doveva ammettere però che nel nascondersi, era decisamente più bravo di lei. Aveva passato un intero pomeriggio a cercarlo, senza riuscire a beccarlo. Ormai era stanca, e non aveva più voglia di giocare. Si alzò e cominciò a chiamare a gran voce Alan, con tono di resa.
- Basta giocare Alan, sono stanca! Torniamo a casa, mamma avrà sicuramente preparato la cena!
Le sue parole si persero tra gli alberi.
- Alan? – chiamò ancora Leda, senza mai ricevere risposta – Alan!
Ricominciò a cercarlo, questa volta più seriamente. Del fratellino, però, nessuna traccia. Per quanto Leda gridasse il suo nome, non riceveva alcuna risposta. Cominciò a preoccuparsi, e al posto dell’allegria comparve l’ansia, la preoccupazione. Dopo averlo cercato nuovamente nel bosco, corse verso casa. Spalancò la porta e si precipitò dalla madre, una donna bella come un miraggio: occhi color miele, capelli castani, e un sorriso dolce quanto solo può esserlo quello di una mamma. S’inginocchio pronta ad accogliere la figlia, che l’abbracciò d’istinto, disperata.
- Che succede, tesoro? – domandò con una voce melodica e affettuosa, stringendola tra le sue braccia.
- Io e Alan stavamo giocando a nascondino e all’improvviso è scomparso! – singhiozzò Leda affondando la faccia nell’incavo della sua spalla.
-Scomparso? – la madre rimase interdetta – Che intendi dire?
- Che ovunque cercassi lui non era da nessuna parte!
Sorrise, allontanandola da sé e asciugandole una lacrima che le colava dall’occhio. Si alzò e la prese per mano, conducendola in un accogliente salottino al cui centro svettava un divano rosso porpora, morbido e comodo. E proprio da quel divano, quasi per magia, emerse la piccola figura di Alan. Leda non riuscì a resistere dal corrergli incontro per abbracciarlo. Subito dopo, però, lo allontanò da sé e gli mollò un sonoro ceffone sulla guancia.
- Guai a te se mi fai preoccupare così di nuovo! – gli aveva gridato con le lacrime agli occhi.
Alan l’aveva guardata con occhi dispiaciuti, mentre si massaggiava la guancia arrossata con gli occhi lucidi dal male. La madre non disse niente. Stette a guardare i due fratelli abbracciarsi ancora, ridere sollevati, prendersi per mano e seguirla in cucina per apparecchiare la tavola. Quel giorno Leda si promise che non avrebbe mai più perso di vista Alan. Che lo avrebbe protetto, anche se ancora non sapeva nulla della guerra che, oltre quel gentile bosco dorato, la attendeva famelica.
 
Strinse i pugni avvolti in un paio di guanti cenciosi e consumati. Doveva proteggere Alan, questa era la sua missione. Scivolò su un muro dall’intonaco grigio e vecchio, che in alcuni punti si staccava. Si sporse oltre l’angolo della strada, e i suoi capelli castani dondolarono in avanti, seguendo le scaltre movenze della sua sottile corporatura. Mancavano solo un paio di isolati per raggiungere le porte. Non sapeva quanto tempo fosse passato. A pensarci bene, però, era piuttosto improbabile che fossero ancora aperte. Avrebbero potuto chiuderle prima a causa dell’attacco degli Akuma, lasciando però  quella povera gente che ancora doveva mettersi in salvo alla loro mercé. Doveva tentare, però. Almeno provarci. Dentro di lei sentiva che non tutto era perduto, che poteva ancora farcela.
Fece per correre verso il prossimo muro, quando si sentì tirare per la gamba. Scivolò e cadde all’indietro, sbattendo la testa sul cemento. Sentì un dolore lancinante propagarsi per tutto il corpo, arrivando fino alla punta delle dita e immobilizzandola a terra. Si strinse la spalla, che nella caduta era entrata in collisione diretta con il duro pavimento della sede, e perciò le bruciava. Con uno sforzo enorme, sollevò la testa e guardò dietro di sé. Un Akuma di livello tre, dall’armatura rossa come il sangue che sembrava stillare dai suoi occhi malvagi, ghignava in modo orribile, mentre una specie di filo nero e appiccicoso le cingeva strettamente la caviglia, stritolandola.
Leda grugnì di dolore, mentre sentiva quella massa oscura aumentare la presa. Cominciò a perdere sensibilità, e un formicolio fastidioso le invase il piede. Allungò prontamente una mano per liberarsi, ma rimase invischiata nella sostanza nera.
L’Akuma rise ancora più forte, cominciando a tirare verso di sé il filo.
- Grida, se vuoi, ragazzina! Tanto nessuno verrà a salvarti!
Leda strisciava sempre più verso di lui, mentre tentava ancora di liberarsi con tutta la forza che aveva. Voleva urlare aiuto, scalciare, scappare via, ma non poteva. E non voleva.
Non lo avrebbe mai fatto, perché l’Akuma aveva ragione: nessuno sarebbe arrivato. Doveva aiutarsi da sola, come sempre.
Solo che ormai era a non più di tre metri da quel mostro, aveva la testa e la spalla e la gamba doloranti, e nessuna via di fuga.




Angolo di Momoko

Salve gente! E' passato un po' di tempo, eh? xD Avevo detto che sarei tornata, e infatti eccomi qui ù_ù
Tyki: ci sono anch'io.
Ah, sì, c'è anche Tyki >.>
Tyki: hey, anch'io sono importante, per la trama! è_é
Non spoilerare!!
Tyki: nella lista dei personaggi hai messo anche me, ergo, sono uno dei personaggi principali. Ci sono arrivati tutti, mia cara.
Sì, ma non sanno perché sei importante per la trama! Zuccone!
Tyki: ò_ò' Porc... *se ne va a fumare*.
Allora, dopo questo semi-spoiler parliamo un po' del capitolo!
E' una storia strampalata, lo giuro, ho stravolto veramente ogni cosa. Questa volta il personaggio principale è Leda, una ragzza che ha molte cose da dire e da fare, e che nasconde molti misteri. Li svelerò tutti piano piano, a cominciare dal prossimo capitolo, dove spiegherò bene cos'è questa guerra che si menziona, la faccenda degli esorcisti e tutto il resto.
Spero che continuiate a seguire questa storia perché saprò sbalordirvi ù_ù *si vanta delle sue inesistenti capacità*.
Ringrazio di cuore la mia amica Lien, avendo dimenticato di farlo nella risposta alla sua recensione. Grazie! E ora dimmi, quand'è che aggiornerai Illusions??? è_é
Un grazie di cuore a tutti quelli che leggeranno o recensiranno la storia^^
A prestooo,

Momoko.

P.S. A tutte le autrici alle quali devo recensire un loro capitolo: scusatemi se non lo faccio, portate pazienza che prima o poi mi farò viva. Abbiate fede ù_ù
   
 
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