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Autore: rosie__posie    29/10/2012    16 recensioni
teen!Sherlock e teen!John, ai tempi della scuola.
John aveva notato Sherlock quando una folata d’aria sollevata dal treno in partenza aveva scompigliato i suoi riccioli neri, ricordandogli uno di quei personaggi romantici di cui aveva letto spesso nei suoi libri.
Sherlock aveva notato John per il libro di fumetti che teneva stretto stretto in mano come se fosse la cosa più importante di questo mondo.
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro personaggio, John Watson , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
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John aveva trascorso l’intera durata del volo con gli occhi fissi sull’unico fumetto che era riuscito a comprare e le orecchie tappate dalle cuffie della filodiffusione di bordo. Semisdraiato nella poltrona reclinabile – che personalmente riteneva troppo comoda, troppo lussuosa e troppo tutto – aveva fatto il possibile per ridurre la conversazione con Mycroft a un solo paio di scambi formali. C’era una parte di sé che avrebbe dato volentieri la milza pur di carpire informazioni – qualsiasi informazione – riguardante il suo giovane e bizzarro ragazzo, ma gran parte del suo corpo e del suo cervello era letteralmente atterrita da Mycroft e dall’aura di spaventosa magniloquenza che emanava la sua figura. Avrebbe avuto modo di scoprire un “po’ di Sherlock” in prima persona, ogni giorno. E sarebbe stato ancora più bello. La filodiffusione lasciò posto a un gracchiare sordo.
 
-Gentili passeggeri, vi informiamo che abbiamo iniziato la discesa su Parigi. Vi preghiamo di rimanere seduti e di allacciare le cinture.
 
John si riempì i polmoni con tutta l’aria che riuscì a ficcarci dentro, sforzandosi di non pensare troppo che a breve avrebbe potuto riabbracciare il suo ragazzo. Stritolarlo al petto, annusare la sua pelle, affondare il viso nei riccioli scuri, baciargli il naso e…
 
-Tieni. Ho notato che la tasca portaoggetti del tuo sedile ne è sprovvista.
 
Mycroft Holmes entrò non invitato nei suoi pensieri, porgendogli una busta di carta, che John prese titubante tra le mani.
 
-Durante la discesa potresti accusare un lieve disturbo allo stomaco, visto il pranzo tutt’altro che modesto che hai appena ingurgitato…
 
-Non è vero che soffro di mal d’aria!- borbottò John. –Non devi credere a tutto ciò che Harry…
 
Ma Mycroft era già tornato a concentrarsi sul suo giornale.
 
-Va bene. Grazie.
 
John appoggiò la busta in grembo, inspirò di nuovo e artigliò le mani ai braccioli della poltrona. Mancava poco.
 
 
 
 
 
 
 
Mentre scendevano le scale mobili che conducevano all’uscita, John saltellava nervosamente da un piede all’altro, con una mano avvinghiata alla borsa da viaggio stretta contro la sua coscia e l’altra all’ingombrante trolley della madre. Mycroft era di poco dietro di lui, sempre con la testa immersa nelle notizie di borsa. Ai piedi delle scale mobili c’era un gruppetto di hostess e autisti privati che, nelle loro uniformi dozzinali ma perfette, esibivano cartelli bianchi di varia grandezza su cui erano scritti cognomi, in pennarello o inchiostro da stampa. Gli occhi di John si posarono distrattamente su un ragazzo giovane in pantaloni blu, camicia bianca e berretto blu con visiera, sul cui cartello alzato all’altezza del viso notò scritto il suo cognome, Watson.
 
-Wow! Una macchina privata…-, mormorò, trattenendo a stento un sorriso. Una towncar, il Ritz, magari pure la possibilità di essere ricevuto all’ambasciata. Iniziava a sentirsi ricco. E, tempo di buttare le braccia al collo di Sherlock, si sarebbe addirittura sentito più ricco della Regina Elisabetta.
 
-Ehm, sono io Watson-, disse a bassa voce mentre si avvicinava al giovane autista, alzando una mano. –E anche lui. Cioè, lui non si chiama Watson, ma sta con me. Cioè, non con me “con me”, ma nel senso che siamo… in due…
 
John sentì di stare arrossendo violentemente, mentre si sforzava di non guardare Mycroft per non sentirsi dare tacitamente dello stupido dai suoi occhi ridotti a due fessure.
 
-Sei quasi più carino del solito quando fai lo sciocco in questo modo, John.
 
La mandibola di John si spalancò senza permesso e così rimase per un po’, mentre osservava Sherlock togliersi il berretto da autista, liberare i riccioli selvaggi che erano diventati un po’ più lunghi e atteggiare le labbra in quello che voleva essere un dolce sorriso sghembo.
 
-Era un complimento, John, nel caso non te ne fossi accorto. E, sì, sono io e puoi chiudere la bocca, adesso-, sentenziò Sherlock, strattonandolo per un braccio verso l’uscita.
 
-Ma sembri… più alto-, seppe solo dire John, ancora un po’ confuso.
 
-È il tuo unico commento?-, chiese Sherlock leggermente deluso mentre le porte si spalancavano di fronte a loro, senza che si curassero di controllare se Mycroft li stesse seguendo.
 
-Beh, vorrei tanto baciarti…
 
-Dove?-, chiese il moro, non riuscendo a mascherare una certa trepidazione nella voce.
 
-Dietro l’orecchio, dove ti piace tanto-, bisbigliò il biondo, sentendosi la pelle infiammare.
 
-Desolato di disturbare il vostro istruttivo tubare ai quattro venti, ma mi sembra di notare la limousine laggiù-, si intromise Mycroft, dividendoli con il suo ombrello mentre indicava un’auto di marca americana e dai vetri oscurati parcheggiata poco più avanti.
 
-Vieni! Ti piacerà quella macchina.
 
I fratelli Holmes erano già seduti quando finalmente John giunse all’auto, rallentato dal trolley pesante e con una rotella rotta. L’autista (quello vero) gli riservò un cenno del capo, prima di prendere la sua valigia e infilarla nel baule. John entrò nell’abitacolo esibendo la stessa reverenza che avrebbe riservato alla Basilica di San Pietro. Stava salendo su una vera limousine. Sedili di pelle nera a destra e sinistra, telefono, minitelevisore con lettore DVD, minibar.
 
John guardò da una parte e dall’altra, un po’ indeciso su cosa dovesse fare, vedendo i due fratelli seduti l’uno opposto all’altro. I suoi occhi erano rivolti a sinistra, sul maggiore degli Holmes che era già tornato a concentrarsi sul suo Financial Times, quando Sherlock lo afferrò per un polso e lo fece sedere di prepotenza accanto a sé, giusto mentre la limousine partiva a tutta velocità.
 
-Ho già predisposto un piano-, gli comunicò Sherlock, con gli occhi luccicanti.
 
-Oh, bene, abbiamo un piano-, mormorò John, tentando, non senza fatica, di tirarsi meglio a sedere e trovare la cintura di sicurezza. –E un piano per che cosa, esattamente?
 
-Per che cosa fare durante il tuo soggiorno qui. Ovvio-, sentenziò l’altro, sottintendendo A volte sei proprio sciocco.
 
-OK. E che cosa desideri fare? Turismo?
 
Mycroft, un metro e mezzo più in là, non riuscì a trattenere una risatina. John si voltò a guardarlo incuriosito, mentre Sherlock riservò al fratello maggiore un’occhiata che, a definirla gelida, sarebbe stato quanto meno riduttivo.
 
-Ascolta! Ascolta bene, John, i punti di interesse turistici che ha scelto il mio fratellino!-, e così dicendo il volto di Mycroft sparì nuovamente tra le pagine stampate.
 
-So già delle catacombe!-, sentenziò John, cercando di darsi importanza di fronte a Mycroft, il quale, tuttavia, si esibì in una scrollata di spalle.
 
-Fossero solo quelle...-, ribatté l'altro, senza degnarlo di uno sguardo.
 
-Voglio fotografare i gargoyle!-, proferì Sherlock, con occhi luccicanti. -E non solo quelli a Notre Dame. Ce ne sono decine, sparsi per tutta la città in luoghi meno noti- e, per sottolineare meglio il concetto, fece un ampio gesto con la mano abbracciando lo spazio attorno a sé.
 
-A me, onestamente, suscitano un po' di impressione quelle statue-, disse John, senza che Sherlock gli prestasse la benché minima attenzione.
 
-E poi voglio andare in Rue Morgue.
 
-Che cosa c'è in Rue Morgue?
 
-Senti! Senti bene questa, John.
 
Se avesse potuto, Sherlock avrebbe incenerito il fratello con lo sguardo.
 
-I delitti di Rue Morgue, John! Non ti avevo forse detto di leggerti i racconti di Poe?
 
-Ehm, ho letto quello del tizio sepolto vivo e mi è bastato...-, confidò titubante John, che non aveva molta voglia di fare visite turistiche a strade che avevano fatto da sfondo ad atroci delitti, reali o immaginari che fossero. Lui aveva solo in mente la Tour Eiffel, il picnic al parco e il tour del cioccolato. Si sarebbe anche azzardato a proporre un giro sul bateaux mouche, ma conoscendo bene Sherlock, sapeva già che si sarebbe trattato solo di fiato sprecato.
 
-Non voglio perdermi nemmeno passage Jouffroy, dove hanno ucciso lo storico Nataniel de Cantaussel. Ho letto che organizzano veri e propri giochi d’investigazione sul luogo del delitto! [1]
 
Con l’entusiasmo che avrebbe fatto concorrenza a quello di un bambino, Sherlock cercò la mancina di John e la strinse forte. Il ragazzo biondo sospirò: aveva la netta impressione che avrebbe dovuto dire addio ai suoi itinerari romantici.
 
-Finito?
 
-Più o meno sì. Ho letto che ci sono delle agenzie che organizzano tour a case infestate e altri luoghi macabri ma non mi sono ancora informato bene.
 
Grazie al Cielo, pensò John.
 
-Ma non c’era anche qualcos’altro di cui mi avevi parlato? Qualcosa riguardante… lucchetti, mi sembra.
 
Quelle parole avevano in apparenza gettato Sherlock nel panico, che lo guardò con occhi imploranti e scuotendo la testa, mentre Mycroft, incuriosito, aveva alzato finalmente lo sguardo dal suo quotidiano.
 
-No, no. Ti sei sbagliato, decisamente-, proferì il ragazzo moro, con decisione. John si strinse nelle spalle.
 
-Meglio così. Non ero sicuro che fosse una cosa del tutto legale… A me piacerebbe portare un mazzo di fiori sotto Pont de l’Alma, dove è morta Lady Diana-, azzardò John.
 
-Non se ne parla proprio!-, sibilò Sherlock.
 
-Ma Sher…
 
-Non ti lascio vagare come un’idiota sotto un tunnel con il rischio di vederti poi spiaccicato anche tu contro un pilone-, borbottò l’altro con decisione. Allorché, John si lasciò andare a un sorriso felice, consapevole che quello era il modo migliore di Sherlock per esprimere il suo affetto.
 
Un paio di minuti dopo, l’auto svoltò in Place Vendome, per poi fermarsi davanti all’ingresso principale dell’hotel Ritz. Un portiere in livrea aprì lo sportello dell’auto e, dopo che Mycroft e Sherlock scesero con noncuranza, anche John li seguì, posando le sue scarpe da ginnastica sopra il tappeto rosso, non senza una certa titubanza. Dopo il tappeto, fu la volta dell’ingresso vero e proprio e, una volta messo il naso nella hall, John fu letteralmente inghiottito dall’atmosfera magica delle fiabe che quasi gli fece girare la testa. In un batti baleno, perse di vista Sherlock e iniziò dunque a guardarsi intorno in preda al panico, notando tuttavia solo statue, stucchi, specchi principeschi e persino una giovane musicista intenta a suonare l’arpa con la leggiadria degna di una fata.
 
-Ti sei già imbambolato dopo due minuti? Stiamo perdendo tempo-, borbottò Sherlock, apparendo al suo fianco come per magia e tirandolo verso la reception prendendolo per il polso.
 
-Buongiorno e benvenuto all’Hotel Ritz!
 
Il giovane receptionist gli rivolse un sorriso caldo e sincero. Indossava un elegantissimo completo scuro e non doveva avere più di venticinque anni.
 
-Ehm, grazie…-, farfugliò John, cercando il documento d’identità. Notò allora che Mycroft si stava attardando poco lontano da loro a parlare con un giovane uomo più o meno della sua età.
 
Il receptionist scambiò il documento con una chiave elettronica. Quindi, premette il campanello per chiamare un valletto, al quale dette l’ordine di prendersi cura dei bagagli di John.
 
-Camera 221, secondo piano. Gli ascensori sono lì in fondo, girato a destra. Per qualsiasi cosa, chieda pure di me. Io mi chiamo Dedè.
 
John spalancò la bocca con stupore quando udì quel nome.
 
-Mi dica per cortesia che il suo cognome non è Martìn [2]-, mormorò, prendendo la chiave. Il receptionist rise, mentre Sherlock alzò un sopracciglio e prese a guardarli entrambi alquanto confuso e infastidito.
 
-Oh, no, glielo posso assicurare!-, rispose il ragazzo, ridendo. -Ma vedo con piacere che anche lei è un appassionato di Polanski!
 
-In verità, sono solo un appassionato di Harrison Ford e Frantic è uno dei miei film preferiti-, spiegò John, arrossendo leggermente.
 
A quel punto, Sherlock soffiò aria dal naso con decisione e incrociò le braccia: era davvero contrariato, stavano perdendo tempo prezioso per parlare di cinema.
 
-Un film bellissimo, uno dei miei preferiti. So buona parte delle battute a memoria-, rivelò Dedè, gli occhi luccicanti.
 
-Invece io, la prima volta che l'ho visto, ho deciso sarei dovuto venire a Parigi, un giorno o l’altro-, rilanciò John, con gli occhi che, in fatto di luccichio, facevano concorrenza a quelli di Dedè.
 
Sherlock sbuffò, roteando gli occhi al cielo.
 
-Comunque, le rivelerò una cosa-, mormorò il giovane receptionist, inclinando il capo leggermente in avanti, quasi come volesse confidare al ragazzo un clamoroso segreto. -Qui a Parigi normalmente non rapiamo le donne americane con così tanta facilità! E non abbiamo nemmeno un night-club di nome Blue Parrot in cui poter comprare droga… [3]
 
-Peccato, quello sì che sarebbe stato interessante!
 
Risero. Solo loro due, ovviamente.
 
-Avete finito di parlare di Polanski?-, borbottò Sherlock, la cui pazienza si era già esaurita da un pezzo.
 
-Potresti partecipare anche tu! Ti basterebbe solo sapere chi sia Polanski-, gli fece notare John. -Dovresti guardare dei film, qualche volta, così avremo qualcos'altro di cui poter parlare!
 
-Ma io so benissimo chi sia Polanski-, lo sorprese Sherlock, increspando le labbra.
 
John lo guardò a bocca spalancata.
 
-Davvero?-, bisbigliò, con lo stesso stupore che avrebbe avuto se Sherlock gli avesse confidato di aver preso il the con il Dalai Lama. [4] -Hai visto qualcuno dei suoi film?
 
-Nessuno. Ma so tutto su Charles Manson [5], il mandante di uno dei più efferati delitti della storia degli Stati Uniti.
 
Anche il giovane receptionist prese a osservare Sherlock con una buona dose di stupore e sgomento.
 
-Tra cui quello di sua moglie, Sharon Tate. E la cosa più interessante fu che Manson non vi partecipò nemmeno di persona. Davvero brillante...
 
-Sherlock!-, lo riprese John, mezzo sconvolto e terrorizzato dalla pessima figura che poteva potenzialmente aver fatto il suo ragazzo. -È una cosa orribile invece!
 
-Ovvio che lo è. Sharon Tate era incinta di otto mesi.
 
John avrebbe quasi potuto giurare di aver udito una nota di sincera tristezza nella voce di Sherlock. Si mosse il labbro inferiore, dispiaciuto e arrabbiato con se stesso per aver pensato per un attimo, anche lui come facevano in tanti, che Sherlock fosse un brutto scherzo della natura. [6]
 
-Dio, Sherlock, tu sei... meraviglioso!-, sussurrò, con la voce e gli occhi che trasudavano amore. Il ragazzo moro arrossì lievemente sulle gote, mentre Dedé li guardò entrambi, prima l'uno poi l'altro, sorridendo come un bambino davanti a una cesta piena di cuccioli appena nati.
 
-Credo che ora sia meglio salire in camera-, farfugliò Sherlock, strappando imbarazzatissimo la chiave dalle mani dell'altro e voltandosi verso gli ascensori. Tuttavia, la sua fretta venne smorzata sul nascere andando a sbattere contro Mycroft, che si apprestava solo in quel momento a fare il check-in.
 
-Discutevate di qualcosa di interessante?-, chiese rivolto al fratello, con un sorriso sghembo di chi la sa lunga.
 
-Niente che possa essere di tuo gradimento-, replicò freddo Sherlock, mentre allungava una mano verso il braccio di John nel tentativo di tirarselo dietro, il quale obbedì in gran fretta e senza protestare. Mentre aspettavano l'ascensore, Sherlock decise che si sarebbe messo di impegno per trovare un dispetto da perpetrare nei confronti del fratello maggiore. Se lo meritava tutto. Se non altro anche solo per il fatto che Mycroft aveva avuto il privilegio di viaggiare in aereo con John, privilegio che a lui era stato negato.  Magari gli avrebbe tenuto in ostaggio per un po' il suo prezioso ombrello. Oppure, una volta rimesso piede in patria, gli avrebbe rigato tutta la fiancata della sua bella auto con il tappo di una bottiglia. Di champagne. Un sorrisetto beffardo si dipinse sul suo viso mentre le porte dell'ascensore si chiudevano di fronte a lui.
 
 
 
 
 
 
 
Entrando nella camera, l'atmosfera fiabesca non abbandonò di certo John, che si fermò a guardare imbambolato non tanto i suoi bagagli, arrivati ben prima di lui, ma soprattutto l'intonaco color salmone delle pareti, i pesanti tendaggi damascati, il piccolo camino sulla parete che incrociava la finestra, il tavolino su cui troneggiava un ricco cesto di frutta, i due letti singoli dalle testate dorate e la manciata di cioccolatini sparsi su entrambi i guanciali.
 
-Immagino che per una persona che sia sempre andata in campeggio questo possa essere definito un bel vedere. Ciononostante, è pur sempre una camera, non eccitarti troppo-, disse Sherlock, sedendosi sul bordo del letto più vicino.
 
-Guarda! Cioccolatini Godiva, i miei preferiti!
 
Gli occhi di John scintillavano, mentre prendeva in mano un cioccolatino e subito lo riponeva al suo posto in una sorta di timore reverenziale.
 
-E ci sono pure due letti-, si sedette sul bordo di quello più vicino alla porta del bagno e iniziò a molleggiare. -C'è persino un secondo letto che posso usare come divanetto!
 
-Spiacente. Non lo puoi usare: qui ci dormirò io.
 
John rimase a bocca aperta, mentre, incredulo, si voltava a guardare il compagno negli occhi.
 
-Ma se non mi vuoi qui, tornerò a dormire in camera dei miei-, borbottò Sherlock , fingendo  un po' di irritazione.
 
-Ma certo che ti voglio qui, stupidino!-, disse John, attirandolo a sé per poi buttarsi entrambi su un letto. -Certo che lo voglio...-, ripeté, sdraiandosi sul corpo dell'altro e affondando il viso nell'incavo tra spalla e collo. Il più grande tra i due si trovò a chiedersi come mai, nonostante l'afa e il caldo elevati, la pelle di Sherlock sembrasse sempre fresca e asciutta. John, al contrario, si sentiva sudato dalla testa ai piedi. 
 
-Va bene, allora se insisti rimango.
 
-Insisto!
 
John sollevò piano il viso per andare ad accarezzare con le labbra quel quadratino di pelle tanto pallido quanto sensibile che si trovava appena dietro l'orecchio. Sherlock si lasciò andare a un mugolio di apprezzamento. 
 
-Credevo... mhm... che fossi tu quello a cui piaceva farsi baciare dietro le orecchie....
 
-Ama il prossimo tuo come te stesso! O no?-, sentenziò John. 
 
Un altro bacio, un altro mugolio.
 
-E poi mi sembra tu stia apprezzando. Di che cosa ti lamenti, dunque?-, ridacchiò John, tirandosi a malincuore in piedi e cercando con gli occhi la porta del bagno. Pure le sue scarpe da ginnastica stavano sudando in quel momento e, se voleva proseguire nello scambio di effusioni con il suo ragazzo, aveva prima bisogno di un incontro con acqua e sapone.Sherlock intrecciò le braccia dietro la nuca, indicando il bagno con un cenno del mento.
 
-Fa in fretta!-, gli gridò poi dietro, iniziando a contemplare il soffitto.
 
-Starò qua un paio di mesi, possiamo prendercela comoda, Sherly.
 
-Ti ho detto...-, iniziò l'altro, tirandosi meccanicamente a sedere nel letto.
 
-Di non chiamarti Sherly. Sì, sì...-, completò la frase John, chiudendo la porta dietro di sé, mentre Sherlock tornava a sdraiarsi.
 
Aveva appena ripreso a osservare il soffitto che la porta si aprì di nuovo.
 
-Così mi sembra sia un po' troppo...
 
-C'è il telefono in bagno, Sherlock!-, disse John con un fil di voce.
 
-Mi sembrava di avertelo già detto, infatti.
 
-Ma c'è pure la televisione!-, aggiunse il biondo, sgranando gli occhi. [7]
 
-Oh! Adesso però non sentirti autorizzato a starci ore, in bagno!-, borbottò il moro.
 
John richiuse la porta al rallentatore, ancora sotto l'effetto dello stupore, giusto un attimo dopo aver udito Sherlock gridargli dietro " E manda un SMS ai tuoi per avvisarli che sei arrivato bene, prima che inizino a tempestarci di telefonate". John riemerse dal bagno meno di una decina di minuti dopo, con le scarpe da ginnastica in mano. Trovò Sherlock seduto al tavolo davanti alla portafinestra, intento a sfogliare un libro di fumetti.
 
-La rubinetteria...
 
-Che cos'ha la rubinetteria, adesso?-, sbuffò il più giovane.
 
-È a forma di cigno!
 
Sherlock chiuse il suo libro, producendo un rumore sordo, e si alzò in piedi.
 
-Vuoi rimanere qui a dissertare tutto il pomeriggio sugli optional di questa camera o possiamo uscire?
 
-Di già? Credevo saremmo rimasti un po' qui...
 
-A fare che cosa?
 
-Un po' di coccole, magari...-, buttò là John, con aria dolce. Dall'espressione che si dipinse invece sul volto di Sherlock, sembrava invece che gli avesse appena proposto di mettersi a caccia di scarafaggi. -Va bene, come non detto-, borbottò, infilandosi di nuovo le scarpe.
 
-Mi avevi promesso, però, di suonare il violino!- aggiunse, mettendo il muso.
 
-Avevo anche detto stasera, prima di dormire-, precisò l'altro, già quasi fuori dalla porta. -Prendi la chiave!
 
 
 
 
 
 
 
Arrète! C'est ici l'empire de la mort!
 
-Non sono più sicuro di volerle poi vedere, queste catacombe...-, mormorò John, con un fil di voce, imbambolandosi davanti alla scritta che sovrastava l'ingresso alle catacombe del Museo Carnavalet.
 
-Si chiama "ossario municipale", monsieur-, precisò la loro guida.
 
Sherlock borbottò qualcosa che aveva tutta l'aria di essere una via di mezzo tra "sei una donnicciola" e "abbiamo già pagato il biglietto", mentre si accostò al compagno, sfiorandogli il polso quasi a voler ribadire la sua presenza al fianco dell’altro.
 
-OK, va bene, va bene...-, si arrese John alla fine, iniziando a seguire la loro guida (un signore basso, grasso e mezzo calvo sulla cinquantina) assieme a Sherlock e a una coppia di anziani giapponesi.
 
-Credo di aver fatto bene a portare la mia torcia-, bisbigliò poco dopo, toccandosi una tasca dei pantaloni mentre si addentravano sotto terra scendendo una ripida scala formata da pesanti massi di pietra. Sherlock lo guardò con occhi scintillanti, quasi come se John gli avesse appena detto di aver risolto il problema della quadratura del cerchio.
 
-Che c'è?
 
-Non ti facevo così lungimirante.
 
-Faccio finta di prenderlo come un complimento...
 
Le uniche fonti di luce nelle cave sotterranee erano delle piccole ma suggestive torce appese agli angoli delle diverse sale.
 
-Per far fronte alla saturazione di alcuni cimiteri e in particolare quello degli Innocenti (vicino Saint-Eustache, nel quartiere des Halles) che causava il diffondersi di epidemie, il Consiglio di Stato decise di spostare le ossa contenute nelle fosse comuni in delle cave sotterranee-, stava sentenziando la loro guida.
 
Il freddo e l'umidità nella Parigi sotterranea erano così pungenti che John si rammaricò ben presto di non essersi portato dietro una felpa. In tutta onestà, era assai poco interessato a quella gita turistica che ai suoi occhi presentava ben poca attrazione. Ciò che lo allietava era invece voltarsi di tanto in tanto verso Sherlock che, al suo fianco, se ne andava in giro per quelle gallerie dai bassi soffitti con il naso per aria e deliziato come un bambino nel paese dei balocchi.
 
-Ma hai idea di quanti malviventi, contrabbandieri, assassini si siano aggirati per questi cunicoli, John?-, gli aveva bisbigliato a un certo punto all'orecchio, elettrizzato come non mai.
 
No, non ne aveva per niente idea, ma gli dispiaceva alquanto contrariare il suo compagno, quindi si limitò a pronunciare un flebile "Tantissimi, immagino".
 
-E chissà quanti ancora oggi...
 
Gli occhi di Sherlock scintillavano così tanto da poter rischiarare i cunicoli, qualora le torce si fossero spente tutte improvvisamente.
 
-Suppongo che ciò avvenga anche a Londra-, constatò John, proprio mentre svoltavano dentro una stanza dove si trovavano alcune vecchie lapidi. Sherlock si bloccò di colpo, osservandolo con vivo interesse.
 
-Tu credi?
 
-Beh, non saprei... Forse... Le fogne, cose così...-, tentennò l'altro.
 
-Devo fare una ricerca su Internet. Così, quando tornerò a casa, saremo ben organizzati per una visita alla Londra sotterranea-, sentenziò Sherlock con decisione.
 
-Oh Gesù...-, mormorò John, sconsolato e pentito per la sua uscita infelice.


 
 
 
 
 
-Uffa, non c'era niente di niente!-, borbottò Sherlock, stringendosi le braccia al petto in un abbraccio.
 
-Che cosa pensavi di trovare? Resti di cadaveri scuoiati o sminuzzati?
 
Erano appena tornati da Rue Morgue e Sherlock aveva messo il broncio perché in quella via dove erano stati ambientati alcuni dei delitti più atroci nati dalla penna di Edgar Allan Poe non avevano visto, beh, nulla di interessante.
 
-Era solo un libro, Sherlock-, disse John, dolcemente, mentre buttava nella pattumiera le due bustine del the che aveva preparato. -Dai, possiamo sempre brindare al mio esame brillantemente superato!-, aggiunse poi gioviale, nel tentativo di contagiare l'altro. Prese le due tazze dal vassoio sopra il tavolino, porse quella con il the rosso a Sherlock (che la prese con titubanza) e si sedette per terra accanto a lui, iniziando a sorseggiare il suo the nero.
 
Erano nella loro camera. Avevano alzato i condizionatori al massimo e poi avevano acceso il caminetto, in modo da far finta di trovarsi ancora nella loro bella Londra.
 
-Dai, domani andiamo a caccia di gargoyle. Sono certo che saranno più interessanti!-, lo spronò John, sottolineando la proposta dandogli una leggera pacca sulla spalla usando la propria. Sherlock sembrò apprezzarlo, perché si lasciò andare a un sorriso sghembo.
 
-Grazie-, mormorò.
 
A John andò quasi di traverso il the.
 
-Grazie? E per che cosa?
 
-Per sopportarmi anche quando sono di umore inverso.
 
John decise che quella mattina non si era probabilmente pulito a dovere le orecchie, perché proprio non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Sherlock Holmes che ringraziava. Ma la cosa gli fece non poco piacere, tant'è che arrossì fin sulla punta delle orecchie.
 
-Oh, beh... te l'ho già detto. Occuparsi di te è un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo!
 
Questa volta fu Sherlock a dargli una pacca sulla spalla con tutto il suo (esile) busto, in segno d'intesa.
 
 
 
 
 
 
 
Pian piano, era trascorso già un mese da quando John era atterrato nella Città dell'amore. Alla mattina, solitamente, si svegliavano presto, sotto le pressioni di Sherlock (che sosteneva di dormire troppo da quando l'altro lo aveva raggiunto) e le proteste di John (che avrebbe voluto dedicare più tempo a poltrire sotto le lenzuola, possibilmente facendosi le coccole). Scendevano poi a far colazione all'Espadon, dove John metteva le mani e, soprattutto, la bocca su tutto ciò che fosse commestibile, mentre Sherlock si limitava a un the e a un croissant. Poi uscivano per le strade della capitale, camminando fino al tramonto, travolti dai profumi che fuoriuscivano dai negozi o dalla musica suonata nei bistrot.
 
Le passeggiate lungo la Senna erano divenute un must, così come pure le pennichelle pomeridiane ai Giardini di Lussemburgo, in compagnia di un buon libro, in ricordo dei pomeriggi passati trascorsi davanti alla Serpentine. Anche le domeniche avevano i loro rituali (giornata in cui John riusciva finalmente a ottenere un'ora in più di dolce far niente sotto le lenzuola), con le visite a Notre-Dame e il sunday tea pomeridiano alla libreria Shakespeare and Company [9] sulla Rive Gauche, dove entrambi potevano trascorrere ore intere a cercare la lettura desiderata negli scaffali zeppi di vecchi libri in lingua inglese o seduti sui divanetti ad ascoltare letture di poesie. Ma la parte migliore della giornata, secondo John, era indubbiamente la sera, quando, prima di coricarsi, Sherlock prendeva in mano il suo violino e suonava per lui, solo per lui.
 
I mercatini lungo la Senna, di domenica mattina, erano qualcosa di molto vicino alla migliore definizione di romanticismo. Le campane di Notre-Dame che echeggiavano di lontano, i bateaux mouches che disegnavano linee ondulate sull'acqua, il vociare di famiglie e turisti o il profumo delle baguette appena sfornate che usciva dai numerosi panettieri incorniciavano la giornata nell'atmosfera tipica di un quadro dei pittori impressionisti. Gli occhi di John erano costantemente attratti da qualsiasi bancarella che vendesse fumetti o libri d'epoca, mentre quelli di Sherlock erano per lo più interessati a quelle che vendevano vecchi spartiti musicali o chincaglieria di tutti i tipi.
 
Una domenica accadde che John, dopo diversi minuti buoni di fitta conversazione, si rese conto di aver in realtà parlato da solo per tutto quel tempo, quando, voltandosi improvvisamente, notò Sherlock che era rimasto un paio di bancarelle più indietro, il naso immerso in un grande scatolone grigio di cui non riusciva a vedere il contenuto. Lo sguardo di John si illuminò e le sue labbra si atteggiarono a un sorriso carico d'amore, quando si rese conto di quanto fosse bello Sherlock in quel momento, con i riccioli scompigliati dal vento, la polo bianca sbottonata, i bermuda neri e il maglioncino grigio buttato distrattamente sulle spalle. John pensò che, con un timido raggio di sole che andava ad accarezzargli la nuca, Sherlock avrebbe potuto tranquillamente essere il ragazzo-copertina di Teen Vogue. Si sentì pervadere il cuore e tutto il corpo da un’immensa voglia di abbracciarlo.
 
-Che cosa hai comprato?-, gli domandò, accostandosi a lui e limitandosi ad accarezzargli un braccio. Le gote del ragazzo più giovane si imporporarono leggermente, mentre metteva via frettolosamente in tasca un lucchetto d’argento e farfugliava qualcosa a proposito del Pont de l’Archevêché, che John non comprese bene.
 
-Attraversiamo il ponte e andiamo a vedere i gargoyle a Notre Dame?-, propose Sherlock, sviando molto intelligentemente il discorso.
 
 
 
 
 
 
 
Quando Sherlock mise piede all’Hemingway’s, il bar dell’hotel Ritz intitolato al famoso scrittore spesso ospite in quelle mura, dovette guardarsi un po’ intorno prima di scorgere il fratello maggiore. Lo trovò seduto a un divanetto in fondo al bar, sotto la finestra, il giornale ben disteso sul tavolino basso rettangolare di fronte a sé. Mycroft si stava massaggiando il mento ed esibiva un'aria molto concentrata. I tendaggi color beige erano semichiusi e la luce di un'applique montata sui pannelli di legno che rivestivano le pareti creava buffe ombre sul viso del maggiore dei fratelli Holmes.
 
-Myc, ho bisogno di parlarti-, proferì Sherlock deciso, sedendosi su una poltrona di pelle dall'alto schienale proprio di fronte al divanetto.
 
-Lo so-, disse Mycroft di rimando, senza staccare gli occhi dal suo quotidiano.
 
-Sapevi che ti volevo parlare?-, chiese il fratello, aggrottando la fronte.
 
-Sapevo che mi volevi parlare e so già anche di cosa-, rispose Mycroft, girando una pagina.
 
Sherlock borbottò qualcosa su quanto lo irritasse il fatto che suo fratello ne sapesse sempre una più di lui.
 
-E allora? Quale è la tua risposta?
 
-La mia risposta è... va bene-, disse Mycroft, con una pausa a effetto. Poi, abbandonò per un attimo il suo quotidiano per bere un sorso del suo Martini dal bicchiere appoggiato poco più in là sul tavolino.
 
-Ne sei davvero sicuro?-, chiese ancora Sherlock, con un fil di voce.
 
-Mi sembra sia quello che ho detto.
 
Mycroft bevve un altro sorso e, per la prima volta, alzò gli occhi per guardare il fratello minore in volto.
 
-E comunque lo avevo già capito quando sei venuto a prenderci in aeroporto.
 
Sherlock grugnì mentre si sentì arrossire leggermente. Trovava tanto detestabile quanto noioso essere così un libro aperto per il fratello.
 
-E sei d'accordo...
 
-Sì, ma non credere che ti farò da balia!-, intimò Mycroft, alzando l'indice in segno di monito.
 
-Tu che mi fai da balia? Fossi matto!-, borbottò Sherlock, alzandosi in piedi. Ma il fratello lo bloccò lì dov'era.
 
-Ricordati di comunicare la tua decisione alle parti interessate, piuttosto.
 
Sherlock appoggiò la mano sinistra sullo schienale della poltrona e sospirò. -Lo so, ma lo farò il più tardi possibile. Solo quando sarà il momento.
 
-Domani torno a Londra-, aggiunse il maggiore, tornando a occuparsi del suo giornale. Sherlock si limitò ad annuire, prima di lasciarsi il bar e il fratello alle spalle.
 
 
 
 
 
 
 
-Però vediamo di non metterci più di dieci minuti, eh?
 
-Non puoi fare un picnic in dieci minuti, Sherlock!-, borbottò John, mentre stendeva il plaid sul prato verde e rigoglioso nei pressi di una fontana, ai Giardini di Lussemburgo. Attorno a loro, turisti o famigliole parigine si stavano concedendo un po' di relax o uno spuntino veloce. -Lo facevamo alla Serpentine! Possiamo benissimo farlo anche qui...-, disse, lisciando meglio le pieghe della coperta. -E poi... a Parigi è più romantico...-, aggiunse, bisbigliando appena.
 
Sherlock si sedette sulla coperta, incrociando le braccia al petto e assumendo un'espressione seria in volto.
 
-E poi che picnic dovrebbe essere? Hai portato solo una coperta e da bere-, obiettò. -Potevamo comprare dei panini in hotel.
 
-Non voglio mangiare dei panini. Dedè mi ha suggerito che qui c'è un chioschetto che prepara crepês deliziose-, disse John, prendendo due bottigliette d'acqua dal suo zaino. [10]
 
-Dedè?
 
Sherlock alzò un sopracciglio, perplesso.
 
-Sì, Dedè. Il receptionist! Siamo diventati amici.
 
-Tu riesci a farti amici da tutte le parti-, commentò Sherlock, un po' imbronciato.
 
-E tu invece no-, ribatté John, stizzito. Le parole gli erano uscite dalla bocca senza pensarci e se ne pentì immediatamente, non appena vide un'ombra di tristezza passare attraverso gli occhi chiari che tanto amava.
 
-Io faccio fatica. E poi a me non interessa avere "amici"-, sentenziò, facendo un cerchio con le braccia come a sottolineare il concetto di moltitudine. John pensò che Sherlock era davvero bellissimo quando metteva il broncio in quella maniera. -Non se ho...
 
-Non se hai me?-, concluse John al suo posto, avvicinandosi a lui con slancio per baciarlo sulla bocca. Ma sbagliò mira e centrò il naso.
 
-Non hai paura che la gente parli?-, chiese Sherlock, pulendosi il naso con la mano.
 
-Mhm, forse... Ma ormai è fatta!! E tu non pulirti così dai miei baci!-, protestò l'altro, scompigliandogli i capelli prima di tirarsi in piedi. -Che crepê vuoi mangiare?
 
-Devo proprio?
 
-Sì! Devi proprio! Non ammetto digiuno oggi-, proferì John, pulendosi i pantaloni.
 
-Una alla Nutella.
 
John tornò dieci minuti dopo con una crepê salata per lui e una dolce per Sherlock. Nonostante le proteste, Sherlock divorò la sua crepê, sdraiato a pancia in giù sul plaid, puntellandosi con i gomiti. John mangiò la sua (al prosciutto e formaggio) rimanendo sempre seduto, con le ginocchia piegate e ben strette al petto, lanciando di tanto in tanto un'occhiata al suo ragazzo e sorridendo divertito quando lo vedeva oscillare leggermente i piedi di tanto in tanto.
 
Bip
 
Sherlock si mise a sedere per riuscire a prendere più facilmente il cellulare dalla tasca dei pantaloni.
 
-È Mycroft.
 
-Arrivato a casa?-, chiese John, a bocca piena.
 
-Già. Harry gli ha dato uno strappo dall'aeroporto.
 
-Harry chi?
 
-Tua sorella.
 
A quella risposta, un boccone di crepê gli andò per traverso e John iniziò a tossire pesantemente.
 
-Mia so... mia sorella? Non è possibile!-, protestò, tra un colpo di tosse e l'altro. Sherlock abbassò lo sguardo sullo schermo del cellulare, rileggendo bene il messaggio.
 
-Ha una Skoda Octavia? [11]
 
L'abbronzatura che John si era guadagnato in quei giorni estivi di passeggiate sotto il sole parigino scomparve tutto d'un colpo.
 
-È l'auto di nostra madre...-, bisbigliò, trovandosi a desiderare improvvisamente di mettere le mani su un buon bicchiere di alcol.
 
-Allora era proprio tua sorella-, commentò Sherlock con naturalezza, rimettendosi in tasca il cellulare. -E adesso sbrigati! Dobbiamo andare a passage Jouffroy a investigare sul delitto di Nataniel de Cantaussel. 


 
 
 
 
 
 
 
-Ti ricordi, caro, la nostra prima vacanza assieme? Da soli?
 
La signora Holmes aveva parlato sfogliando le pagine dell'ultimo numero di Vogue, sdraiata nel letto con le lenzuola di seta color crema che la coprivano fin poco oltre la vita, la schiena appoggiata a un numero pressoché indefinito di cuscini.
 
-Oh, l'Irlanda! È passata una vita.
 
La voce del signor Holmes la raggiunse dal bagno, la porta socchiusa.
 
-Non appena tornati a casa, abbiamo deciso di sposarci.
 
-Già, non ce la facevamo più a stare separati.
 
Una pausa.
 
-Come mai questi ricordi?-, chiese poi il signor Holmes, uscendo dal bagno. Spense la luce e si chiuse la porta alle spalle, rimanendo per un attimo lì dov'era fissando la moglie con curiosità.
 
--Niente... È solo che Sherly e il suo amico me li hanno riportati alla mente.
 
-Davvero? E perché mai?-, domandò di nuovo il marito, senza intuire dove la moglie volesse arrivare.
 
La signora Holmes alzò lo sguardo dalla sua rivista, aggrottò la fronte e osservò l'uomo con un'espressione che voleva essere il sinonimo di "Se non ci arrivi da solo, non vale nemmeno la pena spiegartelo".
 
-Niente, caro, lascia perdere-, borbottò, tornando a occuparsi di moda.
 
-Sai, tesoro, stavo pensando...-, iniziò il signor Holmes, intrufolandosi sotto il lenzuolo. -Che prima che se ne torni a Bruxelles, dovremmo andare a cena con l'ambasciatore americano.
 
-Uff...-, borbottò stancamente la moglie.
 
-Che cosa c'è?-, chiese il marito, prendendo un libro dal suo comodino.
 
-C'è che la famiglia Adler non rientra nelle mie simpatie-, rispose la donna, cercando volutamente di non scendere nei particolari.
 
-Robert è un uomo di spirito e di compagnia-, obiettò il signor Holmes, rimuovendo il segnalibro.
 
-Lui lo è, indubbiamente. Quanto alla moglie e alla figlia...
 
-Rachel e... Ilaria?
 
-Irene, caro, Irene-, lo corresse fredda la moglie.
 
-Una cena sola, cara. Hanno insistito.
 
La signora Holmes fece spallucce e annuì di controvoglia, pensando in cuor suo che anche una sola cena con la famiglia Adler sarebbe stata una cena di troppo.
 
 
 
 
 
 
 
-Hai mai fatto sesso?
 
La domanda di Sherlock era piovuta giù senza preavviso dal ciel sereno che troneggiava sulla testa di John da costringere quest'ultimo a sputare un po' della Coca cola che stava bevendo. Stavano mangiando un hamburger (o, per essere più corretti, lui lo stava mangiando, Sherlock invece si limitava a spizzicare un po' il suo Royal con formaggio [12]) da McDonald e John si guardò intorno con circospezione, spaventato dalla strana occhiata che aveva rivolto loro una biondina francese seduta al tavolo accanto.
 
-Co... come, scusa?-, farfugliò, pulendo con un tovagliolo il danno che aveva appena fatto.
 
Sherlock sbuffò, nel suo modo più caratteristico di dire "non farmi ripetere".
 
-In che senso?
 
Domanda idiota, ovviamente, ma John aveva un grande bisogno di temporeggiare. La mente era saltata inevitabilmente a quel pomeriggio a Canary Wharf, in cui Sherlock si era informato se avesse mai baciato una ragazza e subito dopo gli aveva domandato una dimostrazione pratica come se niente fosse. Avrebbe acconsentito più che volentieri a una dimostrazione pratica, ma possibilmente non in pubblico.
 
-Uno dei primi giorni che mi trovavo qui a Parigi...-, iniziò a spiegare Sherlock, avvicinandosi a John con aria complice. -...ho deciso di fare un esperimento.
 
A quel punto, il ragazzo biondo iniziò a deglutire a vuoto, imponendosi di fare del suo meglio per non guardare l'altro negli occhi e ripetendosi nella mente "Ti prego, ti prego, ti prego fa che non centrino quei preservativi e quel lubrificante".
 
-Cioè constatare se la televisione francese fosse davvero peggiore della nostra.
 
John alzò di colpo lo sguardo verso Sherlock. -Non dirmi che ti sei messo a guardare filmini hard!-, sentenziò, capendo dal calore che stava provando che la pelle del suo viso era diventata di colpo bordeaux. Sherlock sbuffò di nuovo.
 
-Ovviamente no!-, borbottò, guardandolo con un'espressione che sembrava dire "la tua mancanza di arguzia mi annoia". -Era un esperimento sulla TV di stato, mi sembrava di essere stato chiaro.
 
John si sentì sollevato, molto sollevato. O forse no? -Non credo che ci sia bisogno di un esperimento per averne la certezza-, scherzò, nel tentativo di mitigare la tensione. La sua.
 
-Comunque, mi sono messo a fare zapping tra i canali e mi sono imbattuto in...
 
Il biondo pendeva dalle sue labbra, ancora un pochino ansioso.
 
-...in questo film di Marlon Brando...
 
Sospiro di sollievo. Brando non avrebbe dovuto costituire una grossa preoccupazione. Ma avrebbe anche potuto sbagliarsi.
 
-...Ultimo tango a Parigi-, continuò Sherlock, prendendola alla larga. John, essendo che quel film non era presente nella sua videoteca personale, rimase tranquillo in attesa, riprendendo a sorseggiare la sua bibita.
 
-Così mi chiedevo... È prassi normale usare il burro per i rapporti anali? [13]-, chiese Sherlock alla fine, con una semplicità disarmante al pari di chi si informerebbe su ingredienti e dosi per una torta di mele.
 
Questa volta il raggio d'azione della Coca sputata da John fu così ampio da investire il proprio vassoio e quello di Sherlock. Il ragazzo prese a tossire così forte che il più giovane si sentì in dovere di aiutarlo picchiettandolo sulla schiena, sotto gli occhi curiosi delle persone sedute ai tavoli vicini. John avrebbe voluto sprofondare per l'imbarazzo, farsi piccolo piccolo o comunque essere catapultato mille miglia da lì. Il respiro gli mancava, si sentiva le gote pulsare, la gola bruciare e gli occhi pungere.
 
-È tutto okay?-, chiese Sherlock con una dolcezza insolita.
 
-No, non è tutto okay...-, rispose John a fatica, con voce stridula, mentre si massaggiava gli occhi. La mano di Sherlock era ancora lì, incollata alla sua schiena, e la cosa non lo aiutava affatto. Tossì ancora per mezzo minuto, fino a quando non riuscì a riprendere il normale ritmo di respirazione. Poi, silenzio.
 
-Non mi hai ancora risposto-, insistette Sherlock, spezzando quel silenzio.
 
-Io... beh... suppongo che... - Avanti, John, ce la puoi fare -Che non esista qualcosa che possa essere definita "prassi normale" nei rapporti sessuali-, rispose John a fatica. -Mangi ancora il tuo panino?-, aggiunse in fretta, desideroso di riportare la conversazione su binari meno scabrosi.
 
Sherlock scosse la testa. -No, puoi portare via anche il mio vassoio.
 
Due minuti dopo mettevano il piede fuori dal fast-food, senza più toccare l'argomento.
 
 
 
 
 
 
 
Prima che Sherlock partisse per Parigi, John gli aveva raccomandato di prestare molta attenzione alle parigine che avrebbero cercato di corteggiarlo. Non aveva avuto idea, il povero John, che, invece delle parigine, avrebbe dovuto guardarsi dalle americane. In particolare le figlie di ambasciatori.
 
Irene Adler era una ragazzina sveglia (fin troppo, secondo l'opinione di John), snella, pressoché dell'età di Sherlock e dai lunghi capelli neri fluenti da far invidia a Brooke Shields in Laguna Blu. La sua bocca carnosa a forma di bocciolo in fiore parlava molto (troppo, sempre secondo l'opinione di John), ma la sua voce civettuola non era poi così irritante se paragonata ai suoi occhi verdi e lucenti da cerbiatta, costantemente incollati a quelli di Sherlock, per rubargli un cenno di approvazione o uno sguardo di complicità e ammirazione.
 
John aveva sempre amato gli occhi di Sherlock perché parlavano sempre molto di più della sua bocca. Spesso, gli riservava intere conversazioni articolate proprio dallo sguardo ed era forse questo - quello sguardo tagliente, dalle sfumature che viaggiavano costantemente dall'azzurro ghiaccio al grigio intenso - che lo aveva fatto innamorare più di tutto. Più dell'eccentricità del suo compagno, o delle sue timidezza e reticenza verso il prossimo. Più dei gusti in comune o delle richieste sconsiderate e un tantino lascive su un molo solitario in un caldo pomeriggio di tarda primavera. E ora John temeva seriamente di perdere quel privilegio, di dover condividere quegli occhi tanto amati con la ragazzetta seduta dall'altra parte del tavolo, se non addirittura di dover dire loro addio per sempre.
 
Stavano cenando a uno dei tavoli migliori de La tour d'argent, forse il ristorante più famoso ed elegante di tutta la città, con una vista invidiabile su Notre-Dame. Il signor Holmes e il signor Adler erano impegnati in una conversazione di carattere politico poco comprensibile ai più, le due signore in una discussione di moda comprensibile a un numero ancora più ridotto di persone, Irene e Sherlock in una dissertazione che riguardava il rapporto tra musica classica e opera, infine John in un confronto silenzioso tra se stesso e l'anitra di Challans che aveva nel piatto e che non aveva più la minima voglia di mangiare.
 
Irene raccontava di quanto adorasse Wagner, Verdi e andare all'opera con i genitori e i loro amici altolocati. Sherlock ribatteva sostenendo come invece trovasse l’opera noiosa: c'era stato una volta sola, l'anno prima, e si era vergognosamente (almeno, nell'opinione di suo padre) addormentato sulla comoda poltroncina nel loro palco privato.
 
Irene diceva di essere davvero brava a cantare, tant'è che la sua insegnante privata di canto riteneva che da grande sarebbe stata una perfetta soprano. Sherlock sosteneva che non c'era niente di meglio di una sonata per violino eseguita nell'intimità della propria camera, magari davanti a un bel camino scoppiettante.
 
I discorsi tra i due ragazzi erano andati avanti per un periodo interminabile che si era esteso dall'antipasto al main course, estraniando tutti gli altri attorno a loro. John compreso. Soprattutto John. Il quale iniziava a sentirsi a disagio e, soprattutto, nauseato.
 
Nauseato dai camerieri in livrea che si avvicinavano a riempire il bicchiere, d'acqua o vino che fosse, non appena il suo contenuto scendeva sotto le due dita.
 
Nauseato dal pianoforte che una giovane e bella pianista stava suonando al centro del salone.
 
Nauseato dalla romantica vista su Notre-Dame.
 
Nauseato dagli abiti da sera eleganti e dai preziosi gioielli che sembravano adornare ogni persona presente nel ristorante quella sera. Fatta eccezione per la sua, di persona.
 
Nauseato da ciò che riempiva il suo piatto.
 
Ma, soprattutto, dalla monopolizzazione da parte di Irene delle attenzioni di Sherlock, la cui preoccupazione primaria sembrava fosse diventata la necessità impellente di contraddire la ragazza in tutti i modi conosciuti. Ovvero, la migliore rappresentazione di corteggiamento, nell'opinione di John.
 
Fu verso la fine della cena, quando il cameriere si era presentato con il carrello dei formaggi, che avvenne.
 
John aveva smesso di ascoltare le conversazioni che si stavano snodando attorno a lui già da una buona mezz'ora, estraniandosi in una dimensione mentale tutta sua, fatta di fumetti, nuvolette di zucchero filato e vecchi ricordi. Stava spiluccando senza troppa convinzione l'insalata verde nel suo piatto quando udì Irene esclamare "Sei fantastico!".
 
Eccole là, le parole che temeva più di tutte. Eccola là, la seconda persona che riteneva Sherlock meraviglioso. Esattamente come aveva tristemente predetto a Harry, solo un mese prima. Spalancò la bocca alla ricerca disperata d'ossigeno, perché l'aria sembrava essergli venuta improvvisamente meno nei suoi polmoni. Il cuore iniziò a pompare a dismisura, graffiando contro il suo petto nell’angosciato tentativo di aprirsi un varco. Percepì una morsa allo stomaco e un conato di vomito. Le orecchie iniziarono a fischiare prepotentemente, impedendogli di udire una sola parola di ciò che diceva la gente. Sembrava che ogni cosa, ogni persona accanto a lui si fosse fermata d'improvviso, come per l'effetto di un colpo di bacchetta magica. Un'istantanea in bianco e nero della sua vita che subiva un duro arresto, per poi andare in frantumi davanti ai suoi occhi.
 
D'improvviso non c'era più nulla. Non c'erano più i colori degli abiti della gente o quello della notte parigina fuori dalle ampie finestre. Non c'erano più i profumi costosi delle signore, o quelli invitanti delle pietanze. Non c'era più la musica del pianoforte, né il vociare irritante dei commensali.
 
Non c'era più John.
 
Non c'era più Sherlock.
 
Non c'erano più loro.
 
Un attimo dopo, che parve infinito, la forchetta gli scivolò dalle mani, cadendo per terra in un tintinnio che sembrò spezzare l'incantesimo e riportare John alla realtà.
 
Gli sembrò che Irene stesse sorridendo maliziosa.
 
Gli sembrò che gli occhi di Sherlock scintillassero come quelli di una ragazza al primo complimento d'amore.
 
Gli sembrò sentire il proprio cuore accartocciarsi su se stesso e smettere di battere.
 
 
 
 
 
Dopo il dessert, l'ambasciatore Adler propose una passeggiata sul Boulevard Saint-Germain. A John non parve vero poter finalmente uscire di nuovo all'aria aperta per riempirsi i polmoni di ossigeno. Aveva evitato ogni contatto sia con Sherlock che con tutte le altre persone a tavola, chiudendosi come un riccio nel proprio mutismo. Nessuno sembrò preoccuparsi per lui. E il suo cuoricino doleva sempre più. La brezza della notte giovane proveniente dalla Senna investì la Quai de la Tournelle, costringendo John a tirarsi su il colletto della camicia e a infilarsi le mani in tasca. Prese a camminare dietro agli altri, tenendosi sempre almeno a un metro e mezzo da Sherlock e Irene e facendo il possibile per non ascoltare i loro discorsi.
 
Non appena svoltarono in Boulevard Saint-Germain, furono investiti dalla folla di turisti rumorosi e improbabili artisti di strada. John venne travolto da un paio di ragazzini che giocavano a rincorrersi, che lo spinsero contro il muro e lo costrinsero a domandarsi come mai non fossero già a letto a quell'ora. Americani, probabilmente. Sbuffò, si ricompose e, quando tornò a guardarsi attorno, non riuscì più a scorgere nessuna delle persone che conosceva. Nessuna traccia dei coniugi Holmes, dei coniugi Adler. Né tanto meno di Sherlock e Irene. I suoi occhi vagavano da un lato all'altro del Boulevard, spaesati. Si avvicinò a un gruppetto di gente attorno a un improvvisato giocoliere, saltellando un paio di volte per riuscire a vedere davanti. Niente. Nessuno.
 
Destra o sinistra?
 
Scelse la destra. Percorse qualche metro guardandosi sempre attorno. Attraversò il Boulevard e passò sull'altro marciapiede. Ancora niente. Da un bistrot con i tavolini sul marciapiede echeggiavano le note di  Our Last Summer degli Abba.
 
 
 

Mi ricordo ancora della nostra ultima estate
La vedo ancora chiaramente
Nella ressa dei turisti, attorno a Notre-Dame
La nostra ultima estate
Camminando mano nella mano

I ristoranti parigini
La nostra ultima estate
I croissants al mattino
Vivendo alla giornata, le preoccupazioni lontane
La nostra ultima estate
Potevamo ridere e giocare

 
 

 
Iniziava a sentirsi male, gli occhi a pizzicare. Il cuore faceva del suo meglio per scoppiargli nel petto e lo stomaco attorcigliarsi su se stesso. Alla tristezza per il modo in cui si stava evolvendo la serata andava ora a sommarsi il fatto che si era smarrito in quella città di cui dopo un mese aveva imparato solo i nomi di due strade e che stava iniziando seriamente a odiare con tutto se stesso.
 
A un certo punto, si sentì toccare il braccio destro.
 
-Sherlock...-, mormorò, voltandosi con un sorriso. Invece, si ritrovò di fronte un uomo - o forse un ragazzo, non avrebbe saputo dirlo - uno di quei mimi di strada vestito con una tuta bianca molto aderente, passamontagna bianco e volto dipinto dello stesso colore. Gli sorrise, congiunse le mani come a pregarlo di fermarsi e iniziò a ballare. John lo fece, si fermò, semplicemente perché non aveva più molta voglia di andare da qualsivoglia parte. Un gruppetto di gente si radunò attorno a loro. Gli occhi del ragazzo biondo erano fissi sull'artista di strada, ma la mente era lontana e il cuore inesistente. Quando il mimo terminò la sua esibizione, tutti iniziarono ad applaudire. Tutti tranne John, che rimase lì immobile per qualche minuto, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo lontano. Qualcuno lanciò qualche monetina, che l'uomo raccolse nel suo cappello, poi tutti se ne andarono. E John rimase dov’era.
 
Iniziò a piovere, i capelli corti di John sembravano luccicare a contatto delle prime goccioline. A quel punto il mimo si accorse della presenza di John e, in particolare, della sua tristezza. Allora gli si avvicinò, appoggiò delicatamente gli indici alle due estremità della bocca del ragazzo e tirò piano, riportando per un attimo il sorriso sul suo volto. Quando si staccò da lui, John sbatté un paio di volte le palpebre, poi indicò le tasche dei pantaloni e allargò le braccia, a indicare che non aveva soldi con sé. Il mimo scosse la testa, si batté il pugno sul cuore e indicò John, il quale annuì, prima di rimettersi le mani in tasca e voltarsi.
 
Quando finalmente trovò una fermata della metropolitana, stava piovendo a dirotto e John era bagnato fradicio. Corse nella stazione sotterranea come un profugo in cerca di un rifugio e rimase diversi minuti buoni con il naso incollato alla piantina delle linee. La metropolitana parigina era ancora un mistero irrisolto per lui, così come la cartina stradale. Sapeva solo che doveva andare in Place Vendome che si trovava al di là della Senna. Fu fortunato a trovare una giovane coppia di turisti americani che lo aiutarono. Quando un quarto d'ora dopo mise piede al Ritz, dovette combattere contro l'impulso di prendere a pugni un ospite francese che lo guardò male da capo a piedi per com'era conciato.
 
-Serataccia?
 
La voce allegra di Dedé lo fece desistere. Si voltò verso il giovane receptionist e, incrociando il suo sguardo amichevole, per poco non scoppiò a piangere. Si morsicò il labbro inferiore nel tentativo di ricacciare indietro le lacrime.
 
-I signori Holmes sono già rientrati?-, domandò a fatica.
 
-No, signor Watson, mi spiace.
 
-E nemmeno... il mio amico?
 
-Mi spiace-, ripeté, scuotendo la testa.
 
John si guardò intorno sconsolato.
 
-Avete litigato? Se posso permettermi...
 
Fu il turno di John a scuotere la testa.
 
-No, no. Credo sia... peggio.
 
-A volte può capitare-, disse Dedé, tamburellando la penna stilografica sul registro degli ospiti. -L'importante è chiarirsi.
 
Chiarirsi... Già, se fosse riuscito a trovare Sherlock magari lo avrebbe anche fatto.
 
-Ha la chiave, signor Watson?-, si sincerò il receptionist.
 
John si toccò le tasche dei pantaloni, sentendola sotto la stoffa di quella sinistra, quasi zuppa.
 
-Sì. Spero che sia ancora utilizzabile...
 
-Mi chiami, se non funziona. Buona notte.
 
-Buona notte.
 
Il ragazzo si avviò verso l'ascensore, sapendo in cuor suo che sarebbe stata una pessima notte.
 
 
 
 
 
 
 
John si svegliò molto presto dopo una notte agitata e senza sogni. Entrando in camera, la sera prima, si era sfilato le scarpe, abbandonandole ai piedi del letto, e si era buttato a pancia in giù sul materasso. Aveva faticato a prendere sonno, lo sguardo che saltellava costantemente dalla sveglia sul comodino alla porta della camera, che rimase ben chiusa nella sua antipatia fino a quando Morfeo non venne pietosamente a prendere John verso l'1:30 del mattino.
 
Quando aprì gli occhi, la prima cosa che vide, essendo il capo girato verso sinistra, fu la radiosveglia, che segnava le 7:05. La seconda, voltandosi verso destra, fu il letto di Sherlock. Vuoto e perfettamente rifatto dal giorno prima, i suoi tre cioccolatini ancora sul cuscino. John si mise in ginocchio nel letto, mentre una lacrima silenziosa gli rigava il viso. Si impose di non fare cattivi pensieri ma non ci riuscì: Sherlock + Irene + Fuori per la notte non equivalevano a nulla di buono. Si asciugò la lacrima con il dorso della mano e scese dal letto. Si sentiva svuotato di ogni forza.
 
Si recò in bagno e rimase qualche minuto a osservare la sua immagine riflessa nello specchio. Gli occhi erano spenti, le venuzze rosse e ben visibili, le occhiaie accentuate. Aprì il rubinetto dell'acqua fresca, lasciandola scorrere per un po'. Il cigno di acciaio non gli era mai stato così antipatico. Si sciacquò il viso, si massaggiò un po' le guance nel tentativo di riprendere colore e tornò a guardare il riflesso nello specchio. Ripensò alle parole di Dedé: l'importante è chiarirsi. Sherlock era il suo ragazzo, quindi forse John aveva qualche diritto, un po' di voce in capitolo. Sospirò e si asciugò il viso con il morbido asciugamano color panna.
 
In tutta onestà, non aveva voglia di avercela, la voce in capitolo: spettava solo a Sherlock scegliere, era semplicemente giusto così. Lui non voleva proprio costringere nessuno a fare nulla. Anche se dubitava che Sherlock potesse mai prendere qualche decisione controvoglia. Dopotutto, il suo giovane ragazzo era ben a conoscenza dei sentimenti di John nei suoi confronti, quindi doveva e poteva essere lasciato libero. Buttò in qualche modo l'asciugamano sulla gruccia e uscì dal bagno.
 
Scostò la tenda della portafinestra che dava sul piccolo terrazzino: il sole illuminava gioioso la colonna di Place Vendome. Il suo gesto sembrò infastidire un piccione sulla ringhiera del terrazzino che borbottò qualcosa nel suo linguaggio da volatile e volò via. John si cambiò finalmente d'abito, indossando jeans e una t-shirt leggera. Rimase per qualche minuto seduto a bordo letto, i piedi scalzi e la testa tra le mani, pensieroso.
 
Irene era bellissima. Lei e Sherlock avrebbero senz'altro formato una coppia perfetta. Erano fatti l'uno per l'altra, decisamente. Qualcuno avrebbe dovuto produrre a loro immagine le statuine degli sposini spesso utilizzate come decorazione delle torte nuziali. Sì, li avrebbe lasciati liberi di stare assieme e magari un giorno avrebbe visto la loro foto mentre si esibivano assieme all'Opera di Sidney o alla Royal Albert Hall. Irene era splendida, ricca e talentuosa, con un cervello molto simile a quello di Sherlock. Lui non aveva nulla da offrirgli, invece, a parte le mani vuote e un cuore gonfio d'amore.
 
Sospirò e decise che era giunto il momento di utilizzare il suo biglietto aperto per tornare a Londra. Si alzò e lo sguardo cadde sul violino di Sherlock, appoggiato disordinatamente sul tavolinetto accanto alla portafinestra. Lo accarezzò con la delicatezza che si riserverebbe alla pelle di una donna, desiderando con tutto se stesso di poterlo sentire ancora una volta suonato dal suo proprietario. E pensò che, in fin dei conti, era una fortuna che non avessero mai fatto l'amore: così Sherlock avrebbe avuto ancora qualcosa di speciale da regalare alla sua persona speciale.
 
Le sue dita scivolarono via dal violino e John si recò all'armadio a muro. Lo aprì, sospirò di nuovo e appoggiò il capo all'anta destra. Decise che, prima di tornare a Londra, c'era ancora una cosa che doveva fare. Richiuse l'armadio, tornò al tavolinetto, trovò la guida turistica di Parigi in mezzo a tutto quell'ammasso di spartiti e libri, si cacciò a fatica il cellulare in tasca e uscì.
 
 
 
 
 
 
 
Questa volta ebbe molta più fortuna con la metropolitana e John riuscì facilmente ad arrivare a destinazione. Ovvero, il ponte dell’Archevêché (l'Arcivescovado), sul braccio della Senna tra la Rive Gauche e i giardini di Notre-Dame. Con le pagine della cartina stradale incollata alla terza di copertina della guida della città, prima di lasciare la capitale francese John voleva vedere con i propri occhi l'unica meta che Sherlock voleva tanto visitare assieme a lui ma alla quale non avevano ancora avuto occasione di recarsi. Uscendo dalla stazione della metropolitana, attraversò la strada così incautamente che quasi un autobus non lo investì. Alzò la mano per scusarsi con l'autista e imboccò il ponte.
 
Gli ci volle mezzo secondo per rendersi conto di dove fosse finito e uno per cercare di ricacciare indietro le lacrime: si trovava nel centro del romanticismo parigino. Il parapetto del ponte era pieno zeppo di lucchetti, promesse d'amore di coppie più o meno giovani che scrivevano i loro nomi su un lucchetto, lo agganciavano alla rete e gettavano le chiavi nella Senna, a suggellare il loro amore eterno. John percorse il ponte con il fiato sospeso, tirando su con il naso e annaspando di tanto in tanto alla ricerca d'aria. Giunto a metà, vide una coppia di giovani della sua età, inginocchiati davanti al parapetto. Avevano appena agganciato il loro lucchetto. Si baciarono ridendo poi per il loro gesto. Poi, si tirarono in piedi, lui strinse lei forte al petto e, insieme, gettarono le chiavi nel fiume. Un attimo dopo, erano spariti mentre John era ancora lì, a osservare la lieve increspatura sull'acqua prodotta dalle chiavi. Dio, quanto avrebbe voluto avere Sherlock lì con se. Stringerlo al petto e affondare il viso nei riccioli corvini. Strinse forte una mano a pugno e tirò di nuovo su con il naso. Aveva un disperato bisogno di parlare con qualcuno.
 
Percorse correndo il resto del ponte e, quando lo abbandonò, si ritrovò nuovamente in Quai de la Tournelle. La Tour d'argent si trovava a un passo da lui. Si sentì invadere da un nuovo conato di vomito, al solo ricordo della sera precedente. Si sedette sul marciapiede, proprio di fronte a un semaforo, incurante delle auto che sfrecciavano e dei pedoni che passavo accanto a lui. Tirò fuori il cellulare: doveva chiamare Harry. Voleva sentire una voce amica. Compose il numero con il cuore che gli sconquassava il petto e le mani leggermente tremanti. Accostò il telefono all'orecchio ma lo trovò muto. Se lo portò davanti agli occhi e lo fissò bene. Poi si rese conto che era spento. Era spento dal giorno prima. In effetti, lo aveva lasciato in camera da chissà quanto. Si dette mentalmente dell'idiota e lo accese.
 
Il tempo di trovare la rete e il cellulare iniziò a suonare e ricevere messaggi come un pazzo, tant'è che John si spaventò e lo lasciò cadere tra le gambe. Lo riprese in mano e iniziò a scorrere le notifiche. C'erano tre chiamate perse di Sherlock (rispettivamente alle 22:30, alle 23:15 e a mezzanotte) e un numero imprecisato di suoi messaggi.
 
 
 

Siamo a Saint Michel. Tu dove sei finito? SH
Sta piovendo e non abbiamo ombrelli SH
Non ne posso più, vieni. Se non puoi, vedi di venire lo stesso SH
Devo iniziare a preoccuparmi? SH
Tra poco rientriamo in hotel SH
Non riesco ancora a capire perché i francesi siano così noiosi SH
Per lo meno so che respiri ancora, me lo ha detto il TUO amico Dedè SH
Ho bisogno di farmi una doccia: puzzo come una ciminiera per colpa del sigaro del signor Adler. Dormo in camera dei miei per non svegliarti SH
Un giorno mi piacerebbe provare a fumare ma i sigari decisamente no SH
Buonanotte John SH
Buongiorno. Sei sempre vivo? SH
Non capisco l'utilità di avere un cellulare se poi lo tieni sempre spento SH



 
John iniziò a piangere sommessamente e a ridere assieme. Si sentiva un idiota. In tutto quel suo commiserarsi non aveva nemmeno contemplato la possibilità che Sherlock avesse pensato a lui. Dopo il sentirsi idiota, si dette anche dell’insensibile egoista, perché aveva messo in dubbio i sentimenti che il suo giovane compagno nutriva verso di lui senza nemmeno dargli una possibilità di appello. Sospirò, boccheggiò un paio di volte, poi decise di chiamarlo.
 
Il telefono squillò diverse volte prima che all’altro capo Sherlock rispondesse e John lo considerò una (giusta) forma di punizione nei suoi confronti.
 
-Sì?
 
Silenzio accompagnato da un intenso massaggiarsi della zazzera bionda.
 
-Ciao!
 
-Ciao. (Freddo)
 
-Sono io.
 
-Anch’io. (Glaciale)
 
-E respiro ancora! (Risata)
 
-Buon per te. (Sbuffo)
 
-Volevo solo… rompere il ghiaccio.
 
-Restiamo sul ghiaccio, mi sembra più appropriato.
 
John non si sarebbe capacitato mai abbastanza della bravura di Sherlock di girare ogni situazione a suo favore. Era persino riuscito a far sentire lui il colpevole.
 
-Oh, andiamo, smettila!-, sbottò John. –Non me ne sono andato apposta. Mi sono perso!
 
-E non ti sei preoccupato di controllare se fossi rintracciabile-, ribatté l’altro, con una punta di risentimento nella voce.
 
-No. Ero preoccupato di ben altro!
 
Silenzio. Chissà se aveva capito? Il semaforo divenne verde e auto di tutti i colori e marche presero a sgommare davanti agli occhi lucidi di John.
 
-Mi sono sentito… escluso-, aggiunse un attimo dopo, per essere certo di mettere chiarezza tra loro.
 
-Sei un idiota…-, sussurrò Sherlock. John sorrise, perché gli pareva di aver udito un pizzico di dolcezza in quelle parole. –Dove sei?
 
-Sono vicino al… al ponte dell’Archevêché.
 
-Dove?!
 
John si morsicò la lingua per non ridere, in quanto questa volta era davvero sicuro di aver riconosciuto una nota di gelosia.
 
-Tranquillo, sono da solo!-, rispose, asciugandosi un’ultima lacrima solitaria con il dorso della mano. –Però se devo tornare indietro al Ritz…
 
-No, sta fermo lì, prima che ti perdi di nuovo. Ti raggiungo io. Vediamoci fuori dalla fermata di Notre-Dame. Riesci ad arrivarci senza perderti?-, lo canzonò.
 
-Sì, credo di sì-, John provò un impulso irrefrenabile di tirargli i capelli in segno di protesta.
 
-Allora ci vediamo lì tra dieci minuti circa.
 
 
 
 
 
 
 
John lo stava aspettando all’ombra sotto un albero, la schiena appoggiata al tronco. Sherlock non lo vide subito quando spuntò dagli scalini che conducevano alla fermata del metrò. Con i capelli scompigliati, lo sguardo che vagava a destra e sinistra, la fronte imperlata di sudore e le gote leggermente arrossate, John si ritrovò a pensare che Sherlock fosse bellissimo in quel momento. E lui un grandissimo idiota sul serio.
 
Finalmente Sherlock lo notò, in ombra sotto le fronde dell’albero. Arricciò le labbra e scosse la testa, senza muovere più un altro passo. Aspettò che John attraversasse la strada e lo raggiungesse. Il ragazzo biondo si fermò davanti al ragazzo moro, proprio sotto l’insegna art nouveau della metropolitain. Rimasero lì fermi, a guardarsi negli occhi per qualche secondo, mentre la gente andava e veniva accanto a loro. Nelle loro menti, così come nei loro cuori, ripassavano le immagini dei mesi vissuti assieme, di quanto erano cambiati e di come erano cresciuti, l’uno a fianco dell’altro.
 
-Irene?-, chiese John, spezzando il silenzio.
 
Un lampo di consapevolezza passò attraverso gli occhi di Sherlock.
 
-Credo tornasse oggi a Bruxelles assieme alla sua famiglia.
 
-Così non la rivedrai più?
 
-Perché dovrei rivederla?
 
-Io… non saprei…
 
-Sei proprio un idiota!
 
Sherlock allungò timidamente una mano verso John, fermandola a metà strada prima di distendere il braccio del tutto.
 
-Già, forse hai ragione.
 
John strinse la mano che gli veniva offerta, attirando il ragazzo più giovane a sé e stringendolo in un forte abbraccio che sapeva di certezze e promesse. I capelli ricci gli solleticarono il naso quando vi depositò un bacio leggero.
 
-La gente ci guarda…
 
-Lascia che guardi.
 
 
 
 
 
 
 
Camminarono fianco a fianco senza fretta e senza dirsi una parola, con le dita dell’uno che a volte sfioravano quelle dell’altro, in un volersi cercare senza fine. Cinque minuti dopo si ritrovarono all’ingresso del ponte. Sherlock sospirò: si sentiva nervoso come se si stesse recando a sostenere un esame. O, peggio, in chiesa.
 
Dovettero percorrere tre quarti del ponte prima di trovare uno spazio libero nella rete. Si inginocchiarono entrambi evitando di guardarsi negli occhi, con lo sguardo rivolto a un battello turistico che stava passando proprio in quell'attimo sotto di loro.
 
-Quindi...-, esordì Sherlock.
 
-Quindi...-, lo imitò John, evitando ancora il contatto con il grigio-azzurro degli occhi del moro.
 
-Solo se sei d'accordo.
 
-Certo che lo sono!-, ribatté il biondo, rivolgendo finalmente lo sguardo verso il suo giovane ragazzo.
 
Pensando che nella propria memoria quel momento sarebbe rimasto impresso come "il giorno in cui non era se stesso", Sherlock prese un piccolo pennarello tascabile dal taschino della polo bianca e tirò fuori il lucchetto argentato che aveva comperato lungo la Senna da quella dei pantaloni. Tolse il cappuccio al pennarello, lo infilò tra i denti e scrisse il nome di John sul lato posteriore del lucchetto. Quindi, porse il tutto a John affinché facesse altrettanto, il quale quasi sbagliò a scrivere il nome di Sherlock, per via di un leggero tremore che aveva deciso proprio in quel momento di andare a trovare la sua mano sinistra e, soprattutto, dello sguardo pungente dell'altro che si sentiva addosso e, addirittura, sotto la pelle. Una volta scritta quella "k" finale che sembrava aver richiesto gli sforzi di una vita, John sospirò e consegnò di nuovo lucchetto e pennarello a Sherlock, il quale rimise il cappuccio a quest’ultimo e lo rificcò in tasca. Agganciò il lucchetto alla rete di sicurezza e lo chiuse con le chiavi. Sospirò anche lui. L’inviolabilità dei loro gesti era palpabile, nell’aria. Poi John si voltò verso Sherlock, guardandolo negli occhi con aria seria.
 
-Io non ho niente di speciale.
 
-Ma fai sentire speciale me-, ribatté Sherlock, con altrettanta serietà. Le labbra del ragazzo biondo si lasciarono andare a un sorriso sereno e felice.
 
Si alzarono in piedi e, tenendo ben strette le chiavi nel palmo, Sherlock prese piano tra la sua la mano di John. Sentì che era calda e tremava ancora. Poi, con la mancina e la destra ancora unite, lanciarono le chiavi nella Senna. Rimasero così qualche attimo a guardarle affondare, con le mani ancora unite e gli occhi che accarezzavano le increspature prodotte sulla superficie del fiume.
 
-Quindi questa cosa è... per sempre?-, domandò John, arrossendo leggermente sulla punta delle orecchie. Sherlock annuì.
 
-Certo, a meno che tu un giorno non decida di tuffarti nella Senna per andarle a recuperare, sciogliendo il legame. Che a quel punto meriterebbe d'essere sciolto, dopo un tale atto di coraggio. O stupidità...
 
John sorrise e Sherlock non poté esimersi dal fare altrettanto.
 
-Se volessi sciogliere questo legame, credo lo farei solo per ribadirlo più intensamente-, disse il biondo, con il cuore che iniziava prepotentemente a farsi sentire nel petto. -Come nel sequel di Koda fratello orso. [14]
 
Sherlock aggrottò la fronte, ignorando totalmente a che cosa John si stesse riferendo.
 
-Niente, lascia perdere.
 
Il più giovane si sporse leggermente dal parapetto in modo da avere una migliore visuale sul fiume. Le chiavi non erano più in vista. -Allora, vogliamo andare al tuo famoso Museo del cioccolato?-, propose.
 
John sorrise e strinse forte la mano del suo compagno. Si sentiva ancora un mezzo idiota, ma almeno era un idiota felice. Abbandonarono il ponte proprio mentre il battello attraccava alla fermata di Notre-Dame, per far scendere un gruppo di turisti giapponesi muniti anche loro dei propri lucchetti. [15]


 
 
 
 
 
-Non hai più risposto a quella mia domanda.
 
Spossato da tutti gli avvenimenti della giornata, John era sul punto di addormentarsi, cullato dal dondolio della metropolitana, quando le parole di Sherlock lo riportarono alla realtà.
 
-Mhm? Quale domanda?-, chiese, stropicciandosi gli occhi.
 
-Hai mai fatto sesso?
 
John rischiò di strozzarsi con la saliva, mentre la vecchietta seduta di fianco a lui tossì, quasi a volerlo incoraggiare. Dire che divenne improvvisamente bordeaux in viso sarebbe riduttivo. Aveva dimenticato che, al contrario di lui, Sherlock non scordava mai nulla. Deglutì un paio di volte prima di rispondere, perché decise che, con la promessa che si erano scambiati solo poche ore prima, il suo ragazzo se la meritava una risposta, possibilmente sincera.
 
-Sì-, disse, sentendosi terribilmente e stupidamente in colpa, quasi come se lo avesse tradito. -Una sola volta. E non è che sia stato un granché, si affrettò ad aggiungere, mitigando la cosa. Ma Sherlock non appariva né colpito, né tantomeno dispiaciuto. Si voltò invece a osservarlo con interesse.
 
-Come il primo bacio?
 
-La prima volta raramente è perfetta...
 
John rispose con dolcezza: voleva rassicurarlo, proteggerlo. Non sapeva con certezza da cosa o se ne avesse veramente bisogno, ma voleva farlo. Come sempre, per sempre.
 
-Magari la prossima sarà migliore-, commentò il moro, tornando a guardare davanti a sé, mentre il treno si arrestava.
 
E John dette addio al suo cuore alla fermata dell'Opéra.
 
 
 
 
 
 
 
Quando tornarono in hotel quella sera, erano già le nove passate. Dedè era di turno come concierge e li salutò con un caldo sorriso.
 
-Buonasera, sa per caso se i miei genitori sono in camera?-, chiese Sherlock, avvicinandosi al bancone.
 
-Bonsoir, messieurs. Sì, hanno ordinato qualcosa dal servizio in camera giusto mezz'ora fa.
 
Il ragazzo, che non andava molto d'accordo con i "grazie", ringraziò con un tirato cenno del capo, prima di avviarsi agli ascensori.
 
-Allora, avete fatto pace?-, domandò Dedè, abbassando la voce.
 
-Sì, avevamo solo bisogno di chiarirci, come suggeriva lei-, rispose John, un po' imbarazzato.
 
-John, sbrigati!-, chiamò Sherlock a gran voce, mentre teneva premuto il pulsante per l'apertura delle porte.
 
La prima cosa che John fece entrati in camera fu sfilarsi le scarpe. La seconda buttarsi a pancia in su sul suo letto, sfinito.
 
-Ahi…-, bofonchiò, sentendosi sotto la testa i cioccolatini che la cameriera lasciava sul cuscino ogni sera. -Sono davvero distrutto, credo di aver bisogno di una bella doccia-, disse, scartando un cioccolatino e infilandoselo in bocca.
 
Sherlock era rimasto accanto alla porta, con una mano ancora sulla maniglia.
 
-Allora, mentre tu sei in bagno, io vado un attimo dai miei-, annunciò, con aria grave.
 
-Mhm, d’accordo.
 
John si tirò a sedere giusto in tempo per vederlo scomparire in corridoio.
 
Quell’attimo si trasformò in minuti e poi in un’ora intera. John si era raggomitolato sotto il lenzuolo, con indosso solo i boxer e la tshirt del pigiama, quindi aveva acceso la TV, iniziando a fare zapping tra i canali. Quando il faccione di Marlon Brando apparve sullo schermo, gli mancò per un attimo il respiro, ripensando a Ultimo tango a Parigi e, soprattutto, al burro, ma fortunatamente era solo l’innocente Fronte del porto. Girando tra i vari canali, si imbatté in un film con Harrison Ford e, soddisfatto, si sistemò meglio nel letto, aspettando il ritorno di Sherlock. Quando questi finalmente tornò, John si era mezzo assopito, ma il rumore della porta che si chiudeva cigolando lo riscosse del tutto dal dormiveglia.
 
-Mhm, che ore sono?-, farfugliò, cercando la sveglia con gli occhi.
 
-Le dieci e mezzo. Non volevo svegliarti.
 
-Non fa niente. Non stavo dormendo-, proferì John, con decisione, tirandosi a sedere. Osservò Sherlock sedersi sul bordo del suo letto e sfilarsi a sua volta le scarpe.
 
-Che cosa hai fatto lì?
 
-Lì dove?
 
-Sulla guancia destra-, rispose John, indicandola. –È tutta arrossata.
 
Sherlock non rispose subito. Si girò verso John per guardarlo meglio in viso, allacciandosi le mani in grembo. Soppesava la situazione.
 
-È stata mia madre.
 
Per un attimo il cuore di John sembrò fermarsi, sentendosi vagamente in panico.
 
-Ti ha picchiato?
 
-Ma no, che sciocchezza!-, borbottò l’altro. –Ha solo cercato di uccidermi di baci.
 
John sospirò di sollievo, quindi tirò giù il lenzuolo e gattonò fino al bordo del letto, avvicinandosi meglio a Sherlock. Gli sfiorò la guancia arrossata con un dito. Riuscì a percepire un leggero tremore nel corpo dell’altro a contatto con la sua pelle.
 
-Che cosa è successo? Sei stato via un’eternità.
 
Sherlock agganciò i suoi occhi chiari, ora un po’ più grigi nella penombra della camera, a quelli blu del suo compagno, assumendo un’aria più seria di quanto già non lo fosse.
 
-Sei sempre il solito esagerato con le parole-, esordì. Una pausa. -Ho detto ai miei che non rimango. A settembre torno a Londra, per l’inizio del nuovo anno scolastico.
 
John rimase in silenzio, ponderando bene ciò che le sue orecchie avevano appena udito.
 
-Beh, mi sembra una decisione sensata. Iniziare l’anno qui e terminarlo a casa non sarebbe il massimo-, fu il commento del ragazzo più grande. Un mese e mezzo e Sherlock sarebbe stato di nuovo a Londra. Avrebbe voluto mettersi a gridare a squarciagola, ma si trattenne, non volendo apparire esageratamente infantile o sentimentale. Per contro, il più giovane arricciò labbra e naso, in un’espressione di supponenza.
 
-È tutto qui ciò che hai da dire?
 
John aprì la bocca e la richiuse subito dopo. Sentì la pelle del viso farsi sempre più calda e capì di essere arrossito.
 
-Ehm, io…
 
-Sei proprio un idiota… Non lo faccio per la scuola, lo faccio per noi-, borbottò, incrociando le braccia al petto.
 
-Tu che hai paura di sentire la mia mancanza?-, John si morsicò il labbro inferiore, trattenendosi a fatica dal non ridere soddisfatto per la sua piccola vittoria.
 
-Io non ho paura proprio di niente-, brontolò. –È solo per… praticità-, proferì deciso Sherlock, che proprio non voleva saperne, di darla vinta a John.
 
–È così! Tu non vuoi sentire la mia mancanza!
 
Sherlock si strinse ancora di più a se stesso, sbuffò e guardò verso il soffitto. Detestava dover ammettere le sue debolezze.
 
-Vieni qui…-, mormorò John, scendendo dal suo letto e fermandosi in ginocchio ai piedi di quello del suo ragazzo. –Ora chi fa l’idiota?
 
La voce di John era dolce e vellutata, mentre si arrampicava sul materasso, prendeva il viso di Sherlock tra le mani e lo ruotava delicatamente, costringendolo a guardarlo. Poi, con dolcezza, scese con le mani a cercare quelle dell’altro, liberandole e portandole sui propri fianchi.
 
-Una sola guancia arrossata non ti dona…
 
-No, infatti. Direi che devi rimediare, John.
 
Sherlock chiuse gli occhi, nel desiderio di farsi guidare esclusivamente dalle sensazioni che avrebbe provato il suo corpo. Sentì il respiro caldo di John avvicinarsi, che gli solleticava prima il naso poi il lobo dell’orecchio. Sentì le labbra sottili e screpolate del suo compagno cercare le proprie, catturando il suo labbro inferiore in una sorta di saluto sensuale. Sentì saliva, denti, lingua e tutto questo, una volta abbandonato le proprie labbra, partì alla ricerca della guancia ancora nivea, al fine di marchiarla in un’espressione dell’amore che John provava nei suoi confronti.
 
Fu in grado di ripercorrere ogni attimo di quella giornata grazie alle informazioni che i suoi sensi riuscivano a percepire da John. L’odore di fumo che impregnava la metropolitana, il profumo dei muschi che crescevano alle fermate dei bateaux mouches lungo la Senna, l’essenza dei bastoncini alla papaya bruciati nel ristorante cinese in cui avevano cenato, il residuo del colorante chimico del pennarello usato per incidere la loro promessa d’amore, la fragranza del bagnodoccia alla calendula che aveva lavato via tutta la stanchezza della giornata. Ogni bacio gli comunicava qualcosa in più di John, del suo John.
 
Poi, quando fu soddisfatto delle informazioni ricevute, Sherlock aprì gli occhi, staccandosi piano da John. Li incastonò in quelli dell’altro, lasciandoli che si esprimessero in una mutua richiesta. John sollevò piano la macina e l’appoggiò sulla guancia ancora arrossata, iniziando ad accarezzarla dolcemente con il pollice. Si sporse in avanti quel tanto che bastava per appoggiare la fronte a quella di Sherlock, sfiorandogli la punta del naso con la propria.
 
-Lo so che non sei pronto. E, credimi, non è un problema per me. Aspetterò tutto il tempo che ci vorrà-, mormorò, respirandogli addosso.
 
Di tutta risposta, Sherlock mise una mano sulla nuca di John, attirandolo ancora di più a sé, annullando gli ultimi due o tre centimetri di spazio rimasto tra loro. Appoggiò le sue labbra carnose a quelle sottili dell’altro, con il cuore che iniziava a martellargli nel petto. Un piccolo bacio, poi un altro e un altro ancora.
 
-Però voglio dormire assieme a te, stanotte.
 
-Dormiamo già, assieme.
 
-Intendo nello stesso letto, stupido.
 
-Oh…
 
-Lo so, staremo stretti, ma…
 
-Va bene, va benissimo!-, si affrettò ad asserire John, che avrebbe volentieri dormito abbracciato a Sherlock anche in un fazzoletto.
 
-E nudi.
 
Questa volta la bocca di John si limitò ad atteggiarsi a “oh”, perché sfortunatamente da essa non uscì alcun suono, così come nessun respiro, in effetti.
 
-Nu… nudi?-, chiese poi, non appena gli fu tornata la facoltà di parola.
 
-Nudi, sì. La scienza spesso procede per gradi per capire il funzionamento delle cose. Consideralo un… esperimento. Ti va bene anche questo?
 
John fu costretto a boccheggiare un paio di volte nella disperata ricerca di ossigeno per riuscire a emettere un sommesso “sì”, quindi si portò una mano sul petto per essere assolutamente certo che il suo cuore stesse battendo ancora e non fosse un’illusione. La suddetta disperata ricerca di ossigeno venne bruscamente interrotta dalle labbra di Sherlock, che intrappolarono le sue con avidità. Sentì quei denti perfetti morsicargli la pelle, la lingua piccola intrufolarsi a sorpresa nella sua bocca accarezzandogli il palato e trattenne a fatica un mugolio di dolore misto al piacere di constatare che i baci di Sherlock stavano via via diventando meno casti.
 
-Andiamo…-, bisbigliò John, ponendo fine a quel contatto solo per prendere una delle sue mani tra le proprie e aiutarlo ad alzarsi. Salirono sul letto di John e si sistemarono al centro, affondando con le ginocchia nel materasso, l’uno di fronte all’altro. Questa volta fu Sherlock ad appoggiare la fronte a quella del compagno, trovandola leggermente imperlata di sudore. Con il respiro affrettato per l’emozione che solleticava appena il viso di Sherlock, John iniziò a spogliare lentamente il suo compagno, tenendo costantemente gli occhi fissi in quelli dell’altro, senza quasi battere ciglio, nel tentativo di infondere sicurezza e certezza.
 
Dopo un attimo d’indecisione, le mani di Sherlock si aggrapparono alla tshirt di John, sfilandogliela. John gli sollevò lentamente le braccia verso l'altro, aiutandolo a sfilare la polo. Allorché, il naso di Sherlock rimase incastrato nello scollo, graffiandosi con un bottone.
 
-Ahi...
 
-Perdono, perdono!-, si affrettò a dire il biondo, sottolineando le sue scuse con un bacio veloce sull'occhio destro. Le lunghe ciglia nere di Sherlock gli fecero il solletico. Era una sensazione così piacevole che John decise di porre le labbra anche sull'occhio sinistro.
 
A un indumento di Sherlock ne seguiva uno (dei pochi, per altro) di John, fino a quando tutti i vestiti si ritrovarono a farsi compagnia sulla moquette, felicemente dimenticati.
 
-Sei bellissimo…-, mormorò John, contemplando di sfuggita il corpo del suo ragazzo. La pelle candida come il latte e i piccoli nei che spuntavano qua e là gli portavano alla mente le gustose scaglie di cioccolato affogate nel gelato gusto stracciatella. Gli fu inevitabile arrossire fino alla radice dei capelli. –E… magrissimo.
 
-Uff, adesso non rovinare tutto dicendo come il tuo solito che dovrei mangiare di più-, bofonchiò l’altro, inclinando leggermente il capo.
 
-Ma è la verità! Avrei quasi paura ad affondare le unghie nella tua carne.
 
-Perché mai dovresti farlo?-, domandò Sherlock, tradendo una nota di timore.
 
-Nessun motivo in particolare, adesso… Ma è una cosa che si potrebbe fare… durante… ehm… mentre si fa l’amore-. John sentì la pelle diventare sempre più bollente e si sorprese a raggiungere un livello d’imbarazzo fino a quel momento per lui inimmaginabile. -Dai, vieni qui.
 
Lo prese per mano, si infilarono sotto le lenzuola e si strinsero l’uno all’altro. John infilò una mano tra i riccioli scuri dell’altro, iniziando ad accarezzarli dolcemente.
 
-E, comunque, anche tu sei bellissimo…-, sussurrò Sherlock, affondando il viso nella spalla di John e sfiorandola appena con le labbra. Il proprietario della suddetta spalla arrossì violentemente.
 
-Tu sei un po’ freddo, invece...-, mormorò John, stringendo teneramente il suo compagno tra le sue braccia.
 
-Mi stai facendo proprio un sacco di complimenti-, si lagnò Sherlock, solleticandogli il collo con il naso.
 
-Sei ingiusto, ti ho appena detto che ti trovo bellissimo!-, protestò l'altro, sollevandogli piano il capo e catturandogli le labbra in un bacio veloce. -È meglio se sei freddo, così posso scaldarti.
 
Sherlock affondò di nuovo il viso nella spalla di John, sentendo la mano forte e calda carezzargli dolcemente i capelli. Rimasero in silenzio qualche minuto, l'uno nelle braccia dell'altro. Poi il biondo tornò a parlare, con una guancia appoggiata alla nuca del moro.
 
-Così... starai assieme a tuo fratello, nella vostra grande casa...
 
-Mhm... sì.
 
Dalla posizione in cui si trovava, Sherlock non riusciva a scorgere il viso di John, ma riusciva a intuire un certo dispiacere nel tono di voce dell’altro. Inarcò un sopraciglio.
 
-Lo sai che siamo ancora troppo giovani per andare ad abitare assieme-, gli fece notare.
 
-Certo che lo so! Però...
 
Sherlock si puntellò con un gomito sul cuscino e si sollevò appena, giusto per riuscire finalmente a guardare l'altro negli occhi.
 
-Però ti ricordo che mio fratello passa di sovente la notte fuori. Quindi, se in quelle occasioni vorrai stare a casa mia...
 
-Le prove generali di quando andremo a vivere assieme!
 
John sorrise, avvicinò il viso al suo ragazzo per catturargli il naso in un bacio e lo strinse di nuovo a sé.
 
-Sai, improvvisamente vorrei tanto che i tuoi genitori rimanessero qui a Parigi qualche anno-, disse, scompigliando di nuovo i riccioli neri.
 
-Anch'io-, convenne l'altro, baciandogli la spalla. -Anch'io...
 
Sherlock chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi completamente, cullato dal calore del corpo di John e dai battiti dei loro cuori, che sembravano pompare all'unisono. Era sul punto di addormentarsi, quando la voce del ragazzo più grande lo riscosse.
 
-Sai, fino a pochi mesi fa, pensavo...
 
-Mhm?
 
John si sistemò meglio nel letto, piccolo ormai per loro.
 
-Avevo pensato seriamente di arruolarmi, una volta terminata la scuola di medicina.
 
Sherlock spalancò di colpo le palpebre. D'improvviso, non si sentiva più così assonnato. Trattenne per un attimo il respiro, certo che John non se ne sarebbe mai reso conto.
 
-Ripeti?
 
-Arruolarmi, sì. Diventare un medico militare.
 
Il respiro era ancora trattenuto, le orecchie invece in allerta come due antenne.
 
-Come mio nonno-, proseguì John, la mano costantemente ad accarezzare la nuca dell’altro. –Ti ricordi?
 
-Mpf, bene. Sparirai per qualche anno in qualche per posto tranquillo, dal quale forse non farai più ritorno-, mugugnò Sherlock. Ce la mise tutta per non infondere il suo disappunto in quelle parole, ma fallì miseramente.
 
-Ehi, guardami!
 
John gli tirò leggermente i capelli, senza fargli davvero male, quel tanto che bastava per sollevargli il viso e guardarlo negli occhi. Si fissarono intensamente per qualche attimo. Le iridi blu di John erano lucide.
 
-Adoro quando metti il broncio…-, mormorò John, con aria sognante, mentre ripassava il profilo affilato di Sherlock con i polpastrelli. L’altro provò un brivido e distolse lo sguardo, a rimarcare ancora di più il suo broncio.
 
-Comunque, non ne sono più tanto sicuro, adesso-, aggiunse John, avvicinando il viso a quello leggermente voltato dell’altro. Gli sfiorò il naso, aspirando il suo odore. Una volta, due volte.
 
-Sei bravo a baciare all’eschimese-, commentò Sherlock, ridacchiando.
 
-Ho avuto un bravo maestro.
 
John sorrise, giusto prima che le sue labbra venissero catturate da quelle di Sherlock, che gli mordicchiarono il labbro inferiore.
 
-Anche io.
 
Sherlock tornò a sdraiarsi semi abbracciato a John, cingendogli i fianchi e con il viso appoggiato alla forte spalla. Si addormentò serenamente sotto le tenere carezze del suo ragazzo, consapevole di aver compiuto un passo importante verso l’età adulta.
 
 
 
 
 
 
 
L’ultimo giorno del mese di agosto fu quando John decise di utilizzare il suo biglietto aperto per Londra. Sherlock rimase molto contrariato dalla cosa, in quanto anche quella volta avrebbe dovuto rinunciare al piacere di condividere lo stesso volo. Sfortunatamente, nella settimana seguente si sarebbero festeggiati i compleanni di Harriet e della signora Watson e John teneva tantissimo a essere presente.
 
-Dai, sono solo quindici giorni. E poi saremo di nuovo assieme.
 
Questa volta fu John a fare del suo meglio per sembrare il forte della situazione, mentre Sherlock persisteva a rimanere chiuso nel suo silenzio contrariato. Il cielo di Parigi era grigio e qualche goccia di pioggia iniziava a rigare le vetrate del terminal dell’aeroporto.
 
-Sai, credo che Parigi sia più bella sotto la pioggia. [16]
 
-Anche la nostra Londra.
 
Le prime parole di Sherlock dopo ore. Acide e scontrose.
 
-Già, anche la nostra Londra…
 
-Ce l’hai la carta d’imbarco?
 
-Certo che ce l’ho, ho appena fatto il check-in-, rispose John, un po’ contrariato, come succedeva tutte le volte che Sherlock gli dava velatamente dello stupido.
 
-Ma magari l’hai persa.
 
-Da lì a qui?
 
Quiera WH Smith, il giornalaio. Sherlock scrollò le spalle, guardando altrove. Avevano vissuto assieme per due mesi e sarebbe stata dura tornare a essere soli, sebbene la solitudine era stata la sua migliore amica per anni. John lo capiva e, man mano che il momento di salutarsi si avvicinava, la tristezza iniziò a farsi sentire anche in lui.
 
-Dai, due settimane passeranno in un lampo.
 
Gli cercò le mani con le proprie, incrociando le lunghe dita di Sherlock alle sue, più corte ma forti.
 
-Basta che non dimentichi più di accendere il cellulare-, bofonchiò Sherlock, corrugando la fronte.
 
-Promesso, non lo farò più.
 
Poi lo attirò a se e lo strinse forte in un abbraccio, incurante dei turisti e degli uomini d’affari attorno a loro. Adorava il suo Sherlock quando metteva il broncio e, sì, avrebbe sentito anche lui la sua mancanza, il non poterlo baciare per giorni, scompigliare quei riccioli ribelli o addormentarsi con la melodia del suo violino che lo traghettava nel mondo di Morfeo. Ma poi si sarebbero riuniti e sarebbe stato un nuovo inizio. Diverso, più bello.
 
-Promettimi anche che cresceremo assieme. Che diventeremo adulti insieme-, incalzò Sherlock, con il volto schiacciato per metà tra i capelli di John e per l’altra metà nel suo collo. Non poté esserne sicuro, ma a John sembrò sentire una lacrima inumidire la sua pelle; probabilmente fu solo frutto della sua immaginazione, ma scelse di pensare che fosse una lacrima vera, reale, tutta per lui.
 
-Te lo prometto-, disse, accarezzandogli i riccioli scuri. Adesso, due settimane sembravano insormontabili anche per lui. Scostò un ciuffo ribelle dalla fronte di Sherlock e vi depositò un bacio. –Ti amo.
 
John non avrebbe saputo proprio dire come gli uscì dalla bocca. Gli uscì e basta, con naturalezza, dopo mesi di tentativi non andati a buon fine. Sospirò, dandosi dell’idiota perché si rese conto che, in definitiva, si era rivelata la cosa più semplice del mondo.
 
-Lo so. [17]
 
Con il cuore un po’ gonfio di tristezza ma soprattutto avvolto nella speranza, John sciolse quell’abbraccio, le labbra screpolate atteggiate a un sorriso tenero.
 
-Devo andare.
 
-Chiamami appena arrivi.
 
-Ovvio che sì.
 
-E controlla bene di non perdere alcun bagaglio.
 
-Sherlock! Non sono così sbadato.
 
Mescolandosi nel miscuglio di colori, nazionalità e bagagli, i due raggiunsero il punto di controllo della security. John si infilò la carta d’imbarco tra i denti mentre si apprestava a togliere ogni oggetto metallico dalle sue tasche.
 
-Le monetine…
 
-Non ne ho più. Le ho lasciate come mancia alle cameriere.
 
-Magari hai qualche penny…
 
-Oh, è vero. Non dovrei avere nient’altro.
 
-Il cellulare…
 
-Ah, già! Hai ragione.
 
-Ovvio che ce l’ho…
 
John mise tutto in un cestino di plastica azzurra, poi si voltò verso Sherlock per l’ultimo saluto, tirando su col naso.
 
-Suppongo che ora tocchi a me, tenere uno di quegli stupidi tuoi… aggeggi-, borbottò Sherlock.
 
-Quali aggeggi?
 
-Quel calendario su cui segnavi i giorni che mancavano a quando ci saremmo rivisti.
 
John arrossì leggermente, imbarazzato.
 
-Beh, se ti va…
 
-Su, avanti, vai-, lo interruppe Sherlock, sbrigativo, facendo un cenno con la mano.
 
-Okay, giusto, altrimenti mi metto a piangere. E anche tu-, convenne John, facendo un passo avanti.
 
-Io non piango!-, bofonchiò l’altro.
 
-Invece sì!
 
-Invece no!
 
Scoppiarono entrambi a ridere, proprio come due idioti. Due idioti che, grazie a quella risata, si sentirono inspiegabilmente meglio. Sherlock allungò una mano verso il polso di John, accarezzandolo rapidamente.
 
-Muoviti, ci vediamo presto…
 
Lo vide superare il metal detector, rimettere a posto le sue cose, raccogliere il cellulare che fece goffamente cadere per terra, recuperarlo, salutarlo ancora una volta con una mano e scomparire verso il suo terminal. Sherlock affondò entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni e si incamminò verso l’uscita. Iniziò a scegliere mentalmente quale sarebbe stato il calendario migliore da acquistare sul quale iniziare a tracciare le sue X. Lo avrebbe cercato in una delle tante bancarelle lungo la Senna. E poi avrebbe comprato anche qualche nuova partitura da suonare al suo John.
 
 
 
Fin
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:  siamo giunti alla fine. Ormai non ho più nulla da aggiungere a questa storia, è tempo di lasciare andare questi Sherlock e John che ho amato tanto, così come spero anche voi. Mille grazie a voi per avermi seguita fino alla fine, a Doralice e Melian per il betaggio e a tutte le ragazze del TCATH, vi voglio bene! E ora se avete voglia, un po’ di note:
 
 [1] sembra organizzino questi tour solo ad Halloween, ma perdonatemi la licenza. [2] Dede Martin è il nome del cadavere in Frantic. [3] il night-club di Frantic e, perché voglio spammarmi da sola, titolo di una mia fic! [4] citazione da La casa vuota di Conan Doyle. [5] uno dei più noti serial killer americani, mandante dell'omicidio della moglie di Polanski. [6] traduzione di "freak", appellativo rivolto da Donovan a Sherlock nella serie. [7] non so se al Ritz ci sia la TV in bagno, ma per esperienza vi dico che c'è allo Sheraton di New York. [8] il famoso ristorante del Ritz. [9] il mio luogo preferito di tutta Parigi; è la vecchia libreria frequentata da Hemingway e altri scrittori famosi; se ne vede uno scorcio nel film Midnight in Paris. [10] c’è davvero questo chioschetto che fa crepes alla Nutella deliziose, se vi capita di andarci. [11] piccolo omaggio a David Tennant, una delle sue prime macchine. [12] omaggio a Pulp Fiction. [13] in Ultimo tango a Parigi c’è una scena di sesso anale in cui si utilizza il burro. [14] film di animazione della Disney. [15] questa cosa dei turisti giapponesi è vera, mia mamma ha assistito a una scena del genere pochi mesi fa! ^_^ Tant’è che presto i lucchetti verranno rimossi interamente, in quanto sono così numerosi che il ponte rischia ormai di crollare sotto il loro peso. [16] semi-citazione da Midnight in Paris. [17] citazione da Star Wars.
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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