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Autore: Sophrosouneh    01/11/2012    3 recensioni
[Aveva suonato alla sua porta nel tardo pomeriggio.
Lei lo aveva avvertito che il funerale si era già svolto, se era quello il motivo della sua visita, ormai era tempo perso.
Lui si era tolto il cappello, e le aveva porto le sue più sentite condoglianze.
Lei lo aveva invitato ad entrare per un tè.
Niente di più semplice di ciò, solamente l’istinto che quella fosse l’unica cosa giusta da fare.]
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Titolo: Suona, Per Elisa.
Nick: Sophrosouneh
Rating: Arancione
Fandom: Originale
Introduzione: [Aveva suonato alla sua porta nel tardo pomeriggio.
Lei lo aveva avvertito che il funerale si era già svolto, se era quello il motivo della sua visita, ormai era tempo perso.
Lui si era tolto il cappello, e le aveva porto le sue più sentite condoglianze.
Lei lo aveva invitato ad entrare per un tè.
Niente di più semplice di ciò, solamente l’istinto che quella fosse l’unica cosa giusta da fare.] [cit. dal testo]
Note: a fine testo.





 


Suona, Per Elisa.

[Soundtrack: Per Elisa (L.V. Beethoven)]

 


 

 

Il danneggiato e il rotto si sono incontrati lungo la via
(The patient - Tool)


 

Non aveva mai prestato troppo ascolto alle dicerie della gente, le trova a sciocche e, nella maggior parte dei casi, prive di un qualsiasi fondamento di verità.

Alle volte si fermava di colpo.
Non era importante se si trovasse in mezzo ad una strada, sul proprio divano, o intenta in una piacevole conversazione. C’erano particolari momenti in cui i suoi occhi fissavano nel vuoto, le labbra le si dischiudevano e il mondo circostante terminava di esistere.
Erano quei momenti a far temere le persone della sua sanità mentale; dicevano che dovevano mancarle parecchi venerdì. Lei non aveva mai capito a cosa alludessero usando un’espressione tanto curiosa, poteva soltanto intuire che non dovesse essere un complimento. A giudicare dal modo in cui tutti la guardavano quando tornava alla realtà, pareva che la considerassero una povera malata di mente.
Sua madre aveva insistito affinché fosse seguita da uno specialista fin dalla prima volta in cui assistette ad una di quelle sue strane pause, avvenuta intorno ai suoi dieci anni.

Ma a Teresa non era mai importato niente di cosa pensasse di lei la gente, o sua madre.
Erano tutte persone vuote e capaci solamente si sputare sentenze. Nessuna di loro, neppure la più vagamente intelligente, era mai riuscita a capire che cosa in realtà le passasse per la testa. Decine e decine di specialisti si erano interessati –su lauto compenso della madre- al suo caso.
L’avevano sottoposta ai più avanzati test, ma non avevano scoperto niente di neppure lontanamente rilevante.
In alcuni casi attribuivano il problema ad una lentezza a livello cerebrale, in altri –molto più direttamente- la additavano come un’anomalia, inspiegabile ed incurabile.
Se c’era qualcosa dunque di certo in lei, su cui tutti i medici concordavano univocamente, era che avrebbe convissuto per tutta la vita con quella strana attitudine. Avrebbe continuato ad incantarsi a guardare il vuoto, e la sua mente avrebbe continuato a soffrire di deficit dell’attenzione.

La gente avrebbe continuato a parlarne, finché un giorno la sua anormalità non avrebbe finito per passare in secondo piano. Sarebbe infine giunto il giorno in cui, salutando qualcuno per strada, non avrebbe più scorto solamente saluti di compiacenza. In quel giorno, tanto distante quanto un sogno, le persone non si sarebbero ricordate di lei, al massimo avrebbero potuto ricordarne vagamente il nome.
E dopo averla salutata avrebbero chiesto ai loro accompagnatori:
“Tu ricordi chi fosse quella donna?” e, ad un segno di diniego da parte dell’interlocutore, si sarebbero concessi alcuni minuti per riflettere. Era forse il suo un nome tanto comune da risultare sfuggente? Teresa non era un nome troppo diffuso in quella piccola città, forse anche per questo la gente sarebbe stata indotta a dimenticarselo.
E chissà, forse l’avrebbero chiamata Elisa. Le piaceva tanto quel nome, le ricordava lontani momenti di gioia, una canzone storpiata e tante risate di bambine. Sì, le sarebbe piaciuto se, in quell’ipotetico giorno, in cui la gente avrebbe finito per dimenticarsi della ragazza anormale, avesse cominciato a chiamarla in quel modo.
Certo che ce ne dovevano essere di soggetti appetibili su cui parlare: il buffo taglio di capelli della Signora Davon, oppure la scandalosa relazione del figlio del sindaco con la cugina di sangue.
Argomenti decisamente più importanti dei suoi tic nervosi.

Teresa sospirò, lasciando che la tenda del soggiorno –fino a quel momento raccolta tra le sue dita- scivolasse nella sua posizione originale e coprisse il vetro immacolato della finestra.
Ne aveva abbastanza di osservare fuori, non c’era mai niente di interessante in un mondo tutto uguale, eppure stava ore attaccata a quella finestra. E osservava, con i suoi verdissimi occhi da cerbiatta.
Osservava il niente, lasciando che la sua mente si bloccasse quante volte desiderava.
In quei momenti nessuno avrebbe avuto niente da obbiettare.

Si avvicinò allo sgabello del pianoforte a coda e si sedette.
Lasciava fluttuare veloci le dita sui tasti consumati dal tempo.
Una sinfonia di note, appena percettibili, si alzò dalle corde percosse dello strumento.

“Mi piace il tuo nome, lo sai?”
“Sul serio?”
“Sì, è di gran lunga migliore del mio!”
“Non ne sono molto sicura.”
“Stai scherzando? Se potessi rinascere un giorno deciderei di chiamarmi esattamente come te, Elisa.”


Stava suonando il piano anche quel giorno.
Era un fosco pomeriggio autunnale, e in città c’era uno strano fermento.
Una folla concitata si era riversata nelle strade, e, anche sotto la sua finestra, scorreva un insolito e sgargiante fiume di anime. Dalla sua prospettiva non sembravano altro che tanti soldatini tutti uguali, differenziati soltanto dalle fogge dei vestiti. Camminavano l’uno accanto all’altro, simili e deliziosamente perfetti. Solo i bambini si arrischiavano a correre in giro, tra le urla e gli schiamazzi: ancora non avevano indossato la loro scomoda uniforme che con il tempo si sarebbero visti costretti ad utilizzare.
E mentre i soldati giocattolo e la loro prole si avviavano nel misterioso luogo, scintilla di tutto quel clamore, Teresa suonava la sua melodia preferita, cullata da nient’altro se non il desiderio che il dolce suono di quelle note si protraesse ancora.
Teresa aveva solo dieci anni, all’epoca, ma la sua pelle già mostrava i caratteristici tratti che poi avrebbe assunto anche nell’età più tarda. I capelli castani le ricadevano in morbidi boccoli fino all’altezza delle spalle, gli occhi grandi e smeraldini erano perennemente adombrati da un velo di occhiaie violacee. Le labbra erano fini e, a detta di sua madre, assomigliavano a due fettine di salmone affumicato, troppo esigue anche solo per risultare desiderabili a qualsiasi ragazzo.

Teresa era sola, mostruosamente sola.
E forse anche per quello, per il vago desiderio di vedere, anche solo per una volta, il volto di qualche suo coetaneo, la bambina si lasciò trascinare dalla madre fuori da quella stanza in cui trascorreva gran parte della propria giornata.
Fuori dal portone, e poi giù in strada continuò ad arrancare dietro le snelle gambe della donna che la teneva per mano.

Adesso sembrava un soldatino anche lei?

Brillava di mille luci e colori abbaglianti.
Per qualche strano motivo tutto in quel luogo, fin dall’insegna pericolante, aveva un fascino unico.
Le note che si spandevano nell’aria non avevano l’andamento malinconico di quelle del suo pianoforte, erano festanti e tal volta sgraziate, sormontate dagli schiamazzi del fiume umano che si era riversato in quel campo adesso decorato a festa.
In quel luogo si trovavano concentrate più luci di quante mai avesse avuto l’opportunità di vedere in vita sua.

Il Luna-park itinerante dei fratelli Plombiers stava facendo tappa nella loro piccola città.
Solo per quel giorno avrebbero potuto assistere alle mirabolanti prodezze di artisti di prim’ordine e dalle fattezze strane. Ci sarebbe stato divertimento per avventori di ogni età.
Questo recitava la locandina affissa ad ogni angolo di strada.

Teresa si lasciva trascinare per mano dalla madre. La donna camminava veloce, in un modo che aveva sempre costretto la bambina ad arrancarle dietro. Ricordava perfettamente le loro gite al parco risalenti a qualche anno prima. La donna sfilava lungo i vialetti impolverati, trascinandosi appresso un piccolo fagottino. Ricordava gli sguardi frettolosi e isterici della madre posarsi su ogni angolo. Non parlava mai con nessuno, si limitava, nella migliore delle ipotesi, a dedicare agli amici più cari un segno di saluto con il capo.
Niente di più e niente di meno.
Camminavano per quindici minuti precisi, quella che a Teresa pareva tanto una corsa per scappare da qualche mostro pericoloso. Il sollievo nello sguardo della madre non appena si chiudevano la porta di casa alle spalle, al loro rientro, era inequivocabile.
Ogni anno la stessa storia, non era mai cambiato nulla.
Per la madre doveva essere una vera sofferenza, la percepiva arrancare, tentare di scappare via da non sapeva cosa –solo più tardi avrebbe scoperto il misterioso potere delle apparenze.

Mentre Teresa turbinava al seguito della madre, il mondo attorno a lei pareva riflettere una felicità da cui lei era avulsa.
Passeggiarono lungo tutto il perimetro del luna-park.
Le gambe della bambina cominciavano un poco a dolerle per la velocità tenuta dalla genitrice.
E mentre formulava questo pensiero avvertì un cambiamento.
C’era qualcosa di diverso dall’istante precedente.
Si voltò verso la donna e sentì le sue dita lunghe e affusolate stringere con spasmodica forza la sua piccola manina. La vide sorridere.
Sorrideva di rado sua madre, da quando suo padre le aveva abbandonate.
Eppure adesso aveva le guance accaldate e gli occhi pieni di una gioia che mai le era appartenuta.
Sua madre era una donna paranoica e metodica, i cui modi, alle volte, parevano tradire una completa assenza di emozioni.

“Mamma…” tentò invano la bambina di ricevere attenzione.
La madre era occupata nell’osservare qualcosa di indefinito tra la folla, la mano ancora rigidamente stretta attorno alla propria.
Le dita ormai le si stavano intorpidendo.
Solo al secondo richiamo la donna si riscosse, raccolse dietro l’orecchio una ciocca sfuggita al rigido chignon e tentò di sorridere a sua figlia.
Non era da sua madre farsi sorprendere in quelle condizioni.
Non era da sua madre sussultare.
Non era da sua madre sorridere.
Teresa questo lo sapeva fin troppo bene, per questo decise di sfruttare un’occasione che molto probabilmente avrebbe tardato a riproporsi. Se non era da sua madre fare tutte quelle strane cose, allora quella nuova donna che aveva davanti avrebbe anche potuto acconsentire a un suo piccolo sfizio.

“Posso andare a vedere lo spettacolo dei pagliacci?” chiese, senza alcuna remora.
La donna parve un po’ spiazzata e boccheggiò. Fin da quando aveva memoria le sporadiche uscite in strada si erano sempre rigorosamente svolte per mano alla madre.
Non l’aveva mai abbandonata, neppure un secondo.
Aveva voluto tentare di scombinare un sistema che era rimasto lo stesso per anni, non osava certo sperare che lei la lasciasse andare in giro per suo conto. Lo aveva chiesto per gioco, per provare il desiderio di scontarsi con la realtà inevitabile che risiedeva in quel no a cui era certa di andare incontro.
Immaginate la sorpresa quando percepì la presa sula sua mano allentarsi gradualmente.
Per un istante le parve quasi di precipitare, come se le fosse misteriosamente venuta a mancare la terra sotto i piedi.
Come le loro dita si separarono, fu come se in lei qualcosa venisse reciso. Un cordone immaginario che fino a quel momento l’aveva legata a filo doppio al braccio della propria progenitrice.
Si sorprese di poter di nuovo tornare a percepire il sangue circolare nell’arto, costretto fino a pochi secondi prima. Lasciò che l’aria tornasse ad affluire ai polmoni, quasi avesse trattenuto il respiro per lo spavento iniziale.
“Ci rivediamo lì tra dieci minuti.” Le disse, abbassandosi a schioccarle un bacio sulla fronte.
“Non parlare con nessuno, Teresa” la ammonì poi, come se la vecchia madre volesse tentare di riacquisire il controllo per un attimo, ma ormai il radioso sorriso di questa nuova pareva aver messo radici fin troppo profonde.
La osservò avanzare, incerta sulle gambe snelle, pareva andare incontro ad una figura, avvolta in un elegante completo gessato. Fiera e distinta pareva tanto insolita in quel contesto, eppure gli si amalgamava completamente, quasi come se si fondesse con i respiri e i battiti dell’essere pulsante di folla.
Era talmente assorta nei suoi pensieri che neppure aveva realizzato di essere stata veramente lasciata sola.
Solo quando la figura della madre fu inglobata dalla massa poté essere libera di percepire una sottile scarica elettrica risalirle la schiena.
Era libera.
Per dieci infiniti minuti.
Si voltò e trotterellò fino al luogo indicatole poc'anzi dalla madre.
Teresa non aveva mai visto un pagliaccio in vita sua. Aveva letto di loro nei libri e sapeva che in quel luogo ce ne doveva essere almeno uno (la locandina recitava questo).

Non seppe per la precisione come fece a riconoscere qualcosa di cui non aveva la più pallida idea della forma.
Eppure aveva la concreta consapevolezza di non sbagliarsi.
Quello era un pagliaccio.
Non c’era un valido e scientifico motivo che la portava a sostenere tale teoria, soltanto un presentimento tanto forte da cessare di essere tale, fino a divenire un’inequivocabile certezza.
Aveva un naso grosso e scarlatto, la faccia bianca con dei buffi disegni, una parrucca crespa, vestiti larghi e sgargianti e due enormi scarpe.
Era una strana creatura, non aveva mai visto nulla di simile.
Attirava gli sguardi del pubblico come una calamita attraeva le lamine di ferro. Allo stesso modo Teresa riusciva a percepire una sorta di attrazione nei confronti di quell’uomo tanto diverso da lei.
Rideva come un ossesso, trastullando grandi e piccini.
Una grottesca dimostrazione del diverso.
L’uomo aveva bisogno di scaricare su chi stava peggio di sé i propri problemi.
I clown erano i bersagli perfetti: ridicoli e degradanti.

Teresa non poteva far altro che ammirare il dimenarsi continuo di quell’essere al centro del ristretto spazio circolare, affaccendato tra tricicli, trampoli e palloncini.
Lo vide poi voltarsi, durò solamente un istante, ma fu abbastanza per consentirle di fissare gli occhi dell’uomo, perfettamente riflessi nei suoi.
Le aveva sorriso, avrebbe potuto scommetterci.
Ma, diversamente da come aveva fatto sin ora, quella che gli si era delineata sul volto pareva quasi una smorfia animalesca.
Quello che più l’aveva sconvolta era stata la semplicità con cui il suo cuore aveva cessato per un istante di battere, quasi percepisse qualcosa di assolutamente inspiegabile e terribile.
Portò le mani all’altezza del petto, continuando ad assistere allo spettacolo del buffo giullare.

Lo aveva percepito distintamente, in quel sorriso c’era la consapevolezza.
Lui sapeva, e anche lei aveva intuito il vero significato di quella visita.
C’era stato un motivo per cui i suoi piedi l’avevano condotta fino a lì.
Doveva essere esattamente in quel luogo, esattamente in quello stesso istante, niente avrebbe potuto essere più perfetto di come era in quel momento.

Adesso la consapevolezza era anche sua, adesso finalmente capiva.
La gente la vedeva esattamente con gli stessi occhi con cui guardava quel pagliaccio: una reclusa, una diversa.
Le persone li compativano, parlavano di loro sommessamente, li schernivano alle spalle, sorridendo loro con tutta la cattiveria che solo al genere umano è dato possedere.
Sua madre la teneva sempre chiusa in casa, le vietava di andare a scuola con gli altri bambini, di giocare nel prato, di parlare con altri che non si trovassero sotto il loro tetto.
Diceva che le persone erano perfide e le avrebbero solo fatto del male.
Ed era vero, mai nessuno si era premurato di farla sentire amata e apprezzata.
Lei era quella di cui burlarsi e di cui poter sparlare.
Perché non si sarebbe difesa, perché non ne avrebbe mai avuto la forza necessaria.
Perché andava contro il suo essere divenire violenta: i clown erano capaci solamente di sorridere, nel bene o nel male.

In quel sorriso c’era lei, riflessa e proiettata.
Lei era il pagliaccio.

“Ti piace lo spettacolo?” A quelle parole, provenute da qualcuno troppo vicino a lei, per poco non sobbalzò.
“Cosa?”
“Ti ho chiesto se ti piaceva lo spettacolo.” Chiese nuovamente la strana voce.
Come Teresa volse lo sguardo alla propria destra scorse una bambina, doveva avere la sua stessa età.
“A me i pagliacci piacciono tantissimo, mi mettono allegria.”
Non le aveva dato neppure il tempo di rispondere, tanto aveva la parlantina facile, quel piccolo tornado travestito da bambina.
“Io non ne avevo ancora mai visto uno.” Rispose Teresa semplicemente.
La bambina sgranò gli occhi, come se avesse pronunciato chissà quale atrocità “Sul serio?”.
Si limitò ad annuire.
“Certo che sei strana… ehm… com’è che hai detto di chiamarti?”
“Non l’ho detto, comunque mi chiamo Teresa.”
La bambina parve improvvisamente essersi ricordata di un dettaglio essenziale.
“Teresa Doolittle, quella che abita vicino alla macelleria?”
“Proprio quella, sono io.” Sorrise per la strana piega che stava prendendo la conversazione.
“In città si vocifera che tu sia indemoniata, è vero?”
“Certo che no, soffro solo di salute cagionevole, e mia madre non vuole che esca di casa da sola!” ribatté Teresa, certo non pronta ad una simile faccia tosta da parte di quella strana ragazzina.
“Scusa, non volevo offenderti – si affrettò a spiegare la bambina – comunque, che maleducata, ancora non mi sono presentata, io mi chiamo Elisa.”
Le tese la mano, inclinando la testolina e facendo ondeggiare le treccioline bionde sulle spalle.
Per un primo istante Teresa ponderò la possibilità di non toccare quella mano, di voltarsi ed andarsene il più lontano possibile.
Ma non poté evitare che la sua mano si muovesse da sola e che le sue dita percepissero il tenue calore della pelle della strana ragazzina.
“Il piacere è mio.” Si sforzò di aggiungere.
Le labbra di Elisa si piegarono in un sorriso.
Le loro mani si divisero in quell’istante per tornare ai rispettivi fianchi.

Percepire il tocco isterico e gelido della madre sulla propria spalla la fece sobbalzare.
La fissava di nuovo con quell’aria fredda che l’aveva contraddistinta per tutti quegli anni.
“Torniamo a casa.” Si limitò a sussurrarle.

Teresa fece appena in tempo a scorgere il posto, dove fino a pochi istanti prima c’era Elisa, ormai desolatamente vuoto. Era come se la bambina dalle strane trecce si fosse dissolta nell’aria.
Non che ne fosse particolarmente dispiaciuta, non le aveva fatto una bella impressione, era troppo diversa da lei, troppo simile a tutti gli altri.
Mentre il pagliaccio era ancora lì.
E lì sarebbe rimasto stato per tutta la notte.
Avrebbe continuato a ridere anche per l’ultimo solitario passante.

“Dai, suonami qualcosa.”
“No, non sono ancora abbastanza brava”
“Sembra quasi che te ne vergogni…”
“Non dovrei?”
“Tutti abbiamo qualcosa da imparare.”
“Ma tu suoni il piano molto meglio di me.”
“È per questo che non vuoi suonare per me?”
Silenzio.
“Sei sempre la solita sciocca, Teresa.”


Elisa da quel giorno era diventata la sua migliore amica.
Era riuscita ad eludere i severi controlli della madre, per sgattaiolare di nascosto in quella stanza.
Quando la donna andava a lavoro e la chiudeva a chiave in casa, in qualche modo quella bambina riusciva a venirle a far visita.
E passavano ore a giocare assieme, a ridere sdraiate sul pavimento e a suonare il piano.
Elisa era spaventosamente brava in tutto ciò che faceva: era simpatica, posata e una musicista eccelsa.
Possedeva inoltre una personalità molto forte e decisa, diretta nel bene e nel male.
Ma la cosa che più le piaceva di lei erano gli occhi. Non avevano assolutamente niente di speciale, erano di un castano tendente al rossastro, un sottotono del bronzo. Eppure, nel loro essere comuni, gli occhi di Elisa erano, a suo dire, meravigliosi.
Quando la ragazzina parlava si animavano istantaneamente di una luce coinvolgente ed intensa. Qualcuno diceva che tale parte del corpo potesse riflettere l’anima del proprio possessore: Teresa non poteva trovarsi più d’accordo in quel caso.

Elisa era anche la sua unica amica.
La sua àncora di salvezza in quel mondo d’ovatta in cui la madre l’aveva rinchiusa.
Era tutto ciò che avrebbe voluto essere: una ragazza normale, con una vita normale, non il ridicolo pagliaccio che era.

Suonava per calmarsi, e per ricordarsi che cosa si provasse ad essere viva.
Teresa amava suonare quel piano talmente tanto che i tasti mostravano l’evidente segno del passaggio delle sue dita.
Suonava fin quando non sentiva i crampi e le gambe non le imponevano di alzarsi da quella scomoda seduta.
Anche adesso, mentre le note correvano leste sul pentagramma, la melodia danzava con loro.
Era un motivo cantilenante ed orecchiabile.
Più volte sua madre le aveva intimato di cambiare canzone se non avesse voluto vederla andare fuori di testa, ma lei si era sempre categoricamente rifiutata.
Quella era l’unica stanza al mondo in cui le fosse concessa libertà d’azione, lì avrebbe deciso lei della sua vita.

Improvvisamente la melodia parve troncarsi, una nota stonò.
E le mani si accasciarono inermi sulla tastiera, gli occhi di Teresa erano persi nel vuoto.
Tutti si erano sempre chiesti il perché di quei fenomeni, tentando di arginarli e combatterli, mai nessuno che si ponesse la giusta domanda.
Sarebbe bastato tanto poco, eppure la razza umana era particolarmente incapace di concepire pensieri elementari, quasi fosse dimentica delle proprie origini.
La domanda giusta non era perché si verificavano quei blackout, ma cosa succedesse nella sua mente in quei momenti.


Inizialmente vedeva sfocato, come se i suoi occhi dovessero abituarsi ad una diversa messa a fuoco. Le ci volevano pochi secondi per riottenere il pieno controllo della vista, ma quando ciò accadeva, si ritrovava in un ambiente ogni volta diverso.
Si era ritrovata seduta su una panchina in un parco pubblico, in un cinema nel bel mezzo di un film muto degli anni venti, intenta a cucinare o sdraiata sotto le coperte.
Ormai non si sarebbe più stupita di nulla.

Quella volta si trovava in piedi in mezzo ad un corridoio lungo e stretto, le pareti rivestite da una carta da parati beige e pochi squallidi quadri.
C’era qualcosa di familiare in quella visione, mai come in quel momento aveva avvertito una simile sensazione durante una di quelle visioni, erano tutti luoghi a lei assolutamente estranei, eppure quella volta c’era stato un dettaglio che aveva fatto scattare qualcosa nel suo cervello.

Osservò il suo punto di vista cambiare, si stava muovendo.
In quelle strane visioni non era mai padrona di ciò che succedeva, poteva solamente osservare in silenzio.
Nel suo campo visivo poté scorgere una mano, alzata appositamente per poter abbassare la maniglia della porta che le si era parata davanti.
Come entrò nella stanza comunicante si rese conto di trovarsi in un bagno.
Per poco non trasalì, adesso aveva perfettamente capito dove si trovava, come aveva potuto essere tanto sciocca?
Forse per la scarsissima visibilità, non era riuscita ad identificare quel corridoio come quello adiacente alla camera per gli ospiti di quella stessa casa.
Tentò inutilmente di dibattersi, non voleva procedere oltre, avrebbe pagato oro purché quel corpo smettesse di avanzare, o anche solo perché i suoi occhi riuscissero a chiudersi.
Non voleva sapere a chi appartenesse quel corpo, voleva negarlo con tutte le proprie forze.
Perché Teresa sapeva che cosa stava per succedere, che cosa sarebbe inesorabilmente successo.
Ogni volta lo schema era pressoché identico.
Ogni volta che si bloccava, ogni singola volta, ripeteva sempre lo stesso identico e meticoloso procedimento.
Come una bambina che vuole imparare a danzare e continua imperterrita a ripetere gli stessi tre passi, fin quando non è assolutamente certa di compierli alla perfezione.
Allo stesso modo quelle persone si comportavano, il processo era sempre lo stesso.
Così come la conclusione non variava mai di una virgola.

Per quanto avesse pregato e sperato adesso era lì, in piedi di fronte allo specchio.
Tentava di non incrociare i suoi occhi, scoprendosi ad osservare il volto di una donna sulla cinquantina, un po’ sciupata e con delle profonde occhiaie. L’espressione era tesa e severa.
Per quanto quella donna avesse sempre cercato di legarla spasmodicamente a sé, fino all’ossessione, non poteva non piangere per sua madre.
Era una donna ipocondriaca e sola che aveva riversato il suo amore sull’unica figlia. Temeva che si ammalasse, venisse ferita o trascurata, per questo l’aveva rinchiusa sotto una campana di vetro.
Provava per lei una pena immensa in quel momento.
Le aveva conferito la vita e l’amava per questo.

La vide estrarre pochi semplici trucchi da un cassetto sotto il lavabo.
Cominciò stendendo uno spesso strato del fondotinta più chiaro e perlaceo che avesse, tracciò gli occhi con un tratto preciso e massiccio, e si dipinse il naso e le labbra con un rossetto scarlatto (quello che le aveva visto indossare solo nelle grandi occasioni). Il rossetto era stato sbavato, aveva anche dipinto le guance, sollevando gli angoli della bocca in una posizione innaturale.
Le braccia della donna ricaddero lungo il corpo, come prive di sensibilità.
Il rossetto si spalmò sul pavimento bianco, disintegrandosi totalmente.

Non l’avrebbe guardata negli occhi, stava facendo tutto il possibile per auto imporsi questo, apparentemente semplice, comando.
Non voleva vedere, non voleva sapere.

“Pensavo che ti piacessero i pagliacci, Teresa” quella voce non era quella della madre. Proveniva dalla sua gola, era identica in tutto e per tutto, pure il tono lievemente trascinato era lo stesso.
Eppure non era lei a parlare, lo sapeva bene.
C’era una nota di sarcasmo in quelle parole.

“Era proprio necessario uccidere anche lei?” le bastò pensarlo perché potesse risultare udibile alla donna.
“Lei era il mio obbiettivo fin dall’inizio. È lei che ti ha rinchiuso qui, se non fosse stato per questa donna adesso tu avresti una vita normale. Te ne rendi conto?” quasi arrivò ad urlare.
“Sì, lo capisco, ma non avrei voluto questo… ha sempre cercato di proteggermi.” Tentò di ribattere, ben cosciente della debolezza delle sue prove.
“Ma tua madre ti ha solo fatto ammalare più di quanto non fossi. Se non fosse stato per lei io non sarei mai nata.”
Queste parole la ferirono più di una pugnalata.

La donna alzò finalmente lo sguardo e lo puntò dritto negli occhi riflessi allo specchio.
Da tempo a quella parte erano quelli gli unici momenti in cui riusciva a vederli, doveva ammettere che un po’ le erano mancati.
Erano i riflessi stessi dell’anima della bambina di molti anni fa.

Elisa la fissava da dentro lo specchio.

“È il destino, Teresa” le labbra della madre si mossero, gli occhi si incupirono e tutta la complessa maschera tremò per un secondo.
Una delle due braccia tornò ad animarsi, stringendo qualcosa nella tasca destra dei pantaloni.

Non c’erano più parole da spendere in quel contesto.
Ormai l’atto andava concluso.

Rimase a fissare il coltello incidere la gola della madre.
Il lembi di pelle slabbrati, il sangue imbrattare lo specchio, gli occhi velarsi istante dopo istante e quel sorriso non smettere di deturpare il volto austero.
Si vide morire così, per l’ennesima volta.
La morte di un pagliaccio in più o meno, certo non avrebbe fatto scalpore.
Un clown che si suicida non è notizia da prima pagina.


Ansimava riemergendo dal suo mondo interiore, e, nel mentre, ancora risuonava l’ultima nota appena stonata.

Se ne era stata zitta per quasi tutto il tempo.
Aveva guardato fuori dalla finestra con aria annoiata, mentre lei aveva continuato ad esercitarsi al piano.
Ma come dischiuse le labbra, ogni altro rumore parve cessare.
“È strano che due bambine come noi vadano d’accordo.”
A Elisa, alle volte, piaceva parlare per enigmi.
“Cosa vuoi dire?”
“Che non potremmo essere più diverse.”
Fu per Teresa il momento di tacere.

“Io non credo sia così, in fondo, qualcosa in comune lo abbiamo…”
Il silenzio dell’altra la invitò a continuare: “Siamo state rotte entrambe.”

Inizialmente Elisa non rispose, poi si lascò sfuggire un sospiro.
“In qualche strano modo hai ragione. Il danneggiato e il rotto si sono incontrati lungo la via. È quasi divertente.”
E scoppiò in una fragorosa risata priva di gioia.


Aveva suonato alla sua porta nel tardo pomeriggio.
Lei lo aveva avvertito che il funerale si era già svolto, se era quello il motivo della sua visita, ormai era tempo perso.
Lui si era tolto il cappello, e le aveva porto le sue più sentite condoglianze.
Lei lo aveva invitato ad entrare per un tè.

Niente di più semplice di ciò, solamente l’istinto che quella fosse l’unica cosa giusta da fare.

“Conosceva mia madre?” chiese, anche solo per smorzare il silenzio che era calato.
Non che fosse spiacevole rimanere in quello stato di muta apatia, in compagnia di quello strano uomo pareva quasi l’unica cosa razionale da fare.
Stare seduti ad ascoltare il martellante ticchettio delle gocce di pioggia sul tetto era assolutamente rilassante.
Così avevano bevuto il loro tè, in religioso silenzio.
E, per quanto le dispiacesse rompere quella statica realtà, avrebbe dovuto comportarsi da brava padrona di casa.

“Meno di quanto avrei desiderato…” rispose, lasciando che la tazzina toccasse il piattino di ceramica dipinta a mano.
“Ma, in compenso, conosco voi, Teresa.” Continuò, rivolgendole un bonario sorriso.
Era un uomo, affascinante, sapeva come giocare le sue carte nel migliore dei modi, tuttavia non possedeva quel fascino tale da farlo spiccare tra la gente. Era innegabilmente un bell’uomo, ma non di una bellezza sfavillante. A dirla tutta sembrava piuttosto anonimo con il suo completo gessato, i capelli ben pettinati, il volto simmetrico e un velo di barba a punteggiargli le guance.

“Come conosce il mio nome?”
“Non ritengo sia questa la giusta domanda da fare.”
“È mia madre che vi ha parlato di me?”
“Se cercate una risposta esatta, credo sia indispensabile porre una domanda altrettanto precisa.”
Teresa si morse le labbra, tentando di trattenere i suoi pensieri turbinosi.
Quel sottile modo di rispondere, fatto di domande retoriche e sottintesi la irritava più di quanto si sarebbe mai aspettata.
C’era qualcosa nel modo di fare di quell’uomo capace di incuriosirla al punto da spingerla ad ospitarlo nel suo soggiorno.
Lei lo aveva già visto, di questo era assolutamente sicura.

“Forse in uno dei vostri sogni.”
La ragazza batté le palpebre, tentando di dare un senso alle parole dell’uomo.
Lui allargò ancora di più il suo sorriso, premurandosi di dargli una nota accondiscendente.
“Non vi stavate forse chiedendo dove ci fossimo già incontrati?”

“Sapete leggere nella mente?”
“No, sono soltanto un buon osservatore.”

“Cosa sapete di me?”
L’uomo si rigirò tra le dita l’anello d’argento che, fino a quel momento aveva portato all’anulare.
Dalla sua poltrona vicino alla finestra aveva una prospettiva aperta sul mondo di pioggia che si spalancava oltre quelle mura.
Neppure un’anima osava mettere naso fuori di casa.
“Io vi conosco tanto bene quanto il palmo della mia mano, mia cara Teresa.”
Un brivido freddo le corse lungo la schiena.
“Potete provarmelo?” chiese, tentando di nascondere il turbamento.
Lui parve ponderare attentamente le sue successive parole.
“Siete stata voi ad uccidere vostra madre. E lo stesso avete fatto con molte altre persone. Non le conoscevate neanche, eppure le odiavate con tutta voi stessa. Nel profondo, il vostro desiderio era di far scomparire tutti coloro che erano capaci di farvi sentire diversa.”
Per poco non le cadde di mano il cucchiaino.
“Come si permette di…”
“Di fare cosa, –proruppe lui senza neppure concederle il tempo di finire la frase- di presentarmi di fronte a voi e raccontarvi la pura verità?”
Le guance le si imporporarono e poté percepire la rabbia cominciare a lambire le corde del suo animo.

“Non sono stata io…”
“Ma certo che non siete stata voi, signorina, come avreste potuto?”
Questa risposta era tutto fuorché attesa, soprattutto dall’uomo che fino a quel momento l’aveva accusata tanto spietatamente.
Il maledetto continuava a sorriderle accondiscendente.
“È stata Elisa, non è vero?”
In quell’istante il suo cuore cessò di battere per alcuni secondi, poi riprese, più forte e scalpitante che mai.

“Teresa o Elisa, chi può dirlo. Certo, avendo avuto il piacere di conoscere entrambe, posso asserire con assoluta tranquillità che la mente dietro a tutto ciò sia, senza alcun dubbio, la vostra controparte. Ma non credo potrò mai averne la conferma.”

“Chi siete voi?”
“Possibile che non ci siate ancora arrivata? Devo ammettere che mi state deludendo molto…”

Fu attraversata come da una scarica elettrica, e si stupì della potenza di quel ricordo. Si chiese come avesse fatto a dimenticare un dettaglio tanto importante. Forse semplicemente ancora non ne aveva realizzato il collegamento. In effetti quelli che le corsero sotto gli occhi, più che un ricordo singolo erano una pioggia di centinaia di frammenti di ricordi. Tutti diversi ma con un unico punto in comune.

Era sempre lì.

Lungo un viale, in un emporio, dal giornalaio, al parco: se ne stava un poco defilato sullo sfondo e la osservava. Poteva percepire sulla palle il tocco mellifluo del suo sguardo.
Tutto era cominciato quel giorno, al luna park, quando la madre era corsa incontro a quello strano uomo-ombra.
Proprio quando aveva incontrato Elisa per la prima volta.

Teresa boccheggiò lasciandosi sprofondare contro lo schienale della poltrona.
“Mi pare di capire che vi è tornato in mente qualcosa, ne sono lieto.” sorrise, sporgendosi verso di lei.
“Mi avete seguita per tutti questi anni?”
Il sorriso si allargò su quel volto tanto anonimo.
“Non proprio, io vi seguivo entrambe, d’altro canto è solo grazie a me che Elisa è nata. Voi stessa l’avete generata, proiettando in lei tutto quello che avreste desiderato essere. E dentro di voi la bambina è cresciuta nutrendosi della vostra desolazione e solitudine. È per giunta arrivata al punto di uccidere per voi, impossessandosi del corpo di gente che aveva osato deridervi, o deridere i diversi. Elisa è una parte di voi, non più reale di qualsiasi amica immaginaria. Sono stato io a renderla viva e capace di assecondare il vostro volere.
Ma ditemi Teresa, che cosa sarebbe successo se non aveste potuto assistere al mio spettacolo?”
In quell’istante l’anello d’argento mutò, come per uno strano sortilegio, in un naso rosso di gomma piuma. Lo guardò librarsi in aria e ricadere mollemente nella mano del proprietario.

In quell’istante qualcosa in lei si ruppe.
“Ma voi stavate parlando con mia madre…”
“Certo, se non avessi distratto quella donna noi non avremmo potuto incontrarci. Non stupirti, io posso assumere le più svariate forme, se in questi anni ho indossato questa è stato per far sì che tu potessi ricordarti di me, al momento propizio.”
Ed allora tutto ebbe un senso.
“Mia madre non avrebbe mai sorriso.”
Lui parve ponderare un istante il peso dell’oggetto che stringeva tra le dita.
“Avete ragione, in quell’occasione, prendendo il controllo di vostra madre, forse esagerai un po’. Ma era necessario che la separassi da voi. Non penso di aver mai ringraziato adeguatamente quella donna: la sua paranoia è stata la vostra prigione. Se non fosse stato per lei voi non sareste la meravigliosa donna che siete adesso.


Il silenzio era caduto di nuovo tra di loro.
“Non volete più sapere chi sono?”
“Voi siete quel pagliaccio che tanti anni fa mi mostrò quanto atroce potesse essere questo mondo. Solo questo so di voi.”
Prese un profondo respiro per poi continuare: “Ma so anche che non è neppure un infinitesimo della vostra essenza.”
“Ottima risposta, Teresa. Ho molti nomi, neppure io riesco a ricordarli tutti, variano di popolo in popolo. Ma qui penso che voi mi abbiate conosciuto con il dome di Destino.”

“Io non credo al destino”
“Questo è un vero peccato. Elisa la pensava diversamente.”
“Ma io non sono Elisa.”
Per un breve istante si perse a fissare all’interno di quegli occhi grigi come il cielo del pomeriggio.
E non le era mai parso di vedere nulla di più intrigante.
“Avete anche voi la vostra parte di ragione.”

“Cosa ne è stato di Elisa?”
Lui la fissò stranito, come se non si aspettasse una domanda del genere.
“Mi era parso di capire che non desideraste più vederla.”
Teresa si strinse le mani sul grembo.
“Lei mi ha promesso che mia madre sarebbe stata l’ultima a morire.”
“Se questo è il vostro desiderio, verrà rispettato.” Non riusciva a capire dove volesse andare a parare.
“Io desidero solamente non rimanere mai più da sola. Voglio che lei resti con me.”
Adesso era piacevolmente sorpreso dalla strana piega degli eventi.
“Sapete che, decidendo di tenerla con voi, le darete la possibilità di uccidere di nuovo?”
Teresa alzò la testa orgogliosamente.
“Ne sono cosciente.”
L’uomo sorrise, per la prima volta veramente entusiasta.
“In questo caso non dovete temere, Elisa non vi ha mai abbandonata.”

Lui si alzò dalla poltrona, accostandosi al lucido pianoforte a coda.
“Ve la sentireste di suonarmi qualcosa?”
Lei lo raggiunse e si sedette di fronte alla tastiera.
Come alzò lo sguardo vide il suo aspetto mutato, aveva assunto di nuovo la forma del loro primo incontro: un Clown gli sorrideva da dietro rossetto e cerone.
“Non lo faccio per voi”
L’uomo si concesse una risata a fior di labbra.
“Ma lo so bene.”
Le pose una mano sulla spalla, e i quel momento qualsiasi remora che alla donna potesse essere rimasta, sparì in un battito di ciglia.
Si specchiò nel legno scuro dello strumento e si compiacque nell’osservare i suoi capelli schiarirsi e gli occhi tingersi di un caldo color rame.
Erano nuovamente riunite.
Si stava facendo largo in lei quella piacevole sensazione di completezza.
Che quel pagliaccio fosse il Destino oppure no, non aveva alcuna importanza in quel momento.

“Suona per nostra figlia. Suona, Per Elisa.”
In quella melodia la sua anima si fuse con lo strumento.

Era il lamento d’amore di una vita diversa.


End.

 






 

NdA:  L'immagine iniziale l'ho creata io con gimp utilizzando materiale reperibile in rete.
Le parti in corsivo allineate sulla destra sono brani di conversazioni avvenute in diversi momenti della vita di Teresa .
Anche i nomi delle ragazze non sono scelti a caso, si dice infatti che ci fossero due interpretazioni per il titolo dell’opera “Per Elisa” o “Per Teresa” (questo perché la scrittura del musicista non era molto chiara). Per ricapitolare, quello di Teresa è un caso di schizofrenia (sdoppiamento della personalità), sviluppatosi a seguito dell’infanzia restrittiva e di segregazione che la madre l’aveva costretta a passare.
Vorrei solamente aggiungere una cosa, o meglio, sottolinearla: le ultime parole del Pagliaccio non sono messe a caso (“Suona, Per Elisa”), infatti possono essere interpretate in modi diversi:
1_ nel significato di “Suona in onore di Elisa” quindi un invito da parte dell’uomo di suonare in onore/memoria di Elisa.
2_ con l’accezione di “Suona il brano intitolato Per Elisa” facendo riferimento quindi ad una esortazione a suonare quella determinata canzone. A ciò si allaccia il fatto che potrebbe proprio essere questo lo spartito che Teresa ripropone ossessivamente al pianoforte per la durata del racconto.
3_ per quanto mi piacciano entrambe le motivazioni, il vero intento con cui ho scritto la storia è quello di fondere entrambi gli aspetti. E quindi verrebbe una cosa tipo: “Suona in onore di Elisa il brano Per Elisa”.
Lo so, potrà sembrare una stupidaggine ma nella mia contorta mente di autrice (psicopatica) è un dettaglio importantissimo.
La frase: "Il danneggiato e il rotto si sono incontrati lungo la via" è tratta dal testo di "The patient" - Tool.

  
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