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Autore: HippyQueen    01/11/2012    0 recensioni
Meredith è una donna matura, abbandona la sua terapia psicologica prima che questa sia conclusa: non vuole sentirsi bene, non vuole dimenticare ciò che le è successo. La sua esistenza è stata profondamente segnata da due amori, nati e cresciuti allo stesso tempo, molto diversi ma sempre molto forti.
"Sono innamorata di quel ragazzo, lo so, me lo sento. Eppure l'amore che provo nei confronti di quella ragazza supera ogni confine, ogni limite mi sia mai stato imposto. Posso amarla come mai amerò nessuno."
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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“Mi scusi, cosa dice?”
“Stavo pensando,” ripeto “che forse dovremmo terminare qui la mia terapia.”
“Per quale motivo, signora Stevens? È in via di guarigione. La vedo davvero meglio.”
“Si, ha ragione. Ma vede, sento che questo non fa più bene a me.”
Proprio in quel momento, quando sto dicendo al mio psicanalista che dopo sei anni voglio abbandonarlo per vanificare tutti i suoi sforzi, entra nella stanza una ragazza giovane, sui vent’anni. Non l’ho mai vista, ed è bellissima; ha i capelli castani raccolti in una crocchia, la frangia folta e gli occhi enormi truccati di nero, anch’essi caldi, marroni. La sua carnagione è chiara. Sono folgorata, e so benissimo il perché.
La ragazza lascia sulla scrivania del dottore un documento, gli sussurra qualcosa e se ne va. Secondo la mia indole teatrale, devo seguirla, e così faccio. Lascio tutto, raccolgo solo le mie cose, la mia borsa, me ne vado. Sento il mio dottore scuotere la testa e mormorare qualcosa, ma mi conosce, sapeva che l’avrei fatto. Ed infatti eccomi qua.
La ragazza si siede dietro la sua scrivania, ridacchia con una collega, controlla in cellulare di nascosto, poi alza la testa e si accorge che la sto fissando. Chissà come le appaio. Una donna vecchia, consunta, sui quarantacinque anni; molte donne, alla mia età, credono di essere giovani. Io, al contrario, penso di star per morire. Davanti a me non vedo altri trent’anni in cui divertirmi, ma pochi mesi di sofferenza. È da quando avevo vent’anni che li vedo, quei pochi mesi.
“Posso esserle utile?” mi chiede, con i suoi enormi occhi ridenti. Dovrei dire di no, andarmene subito. E invece non riesco a piantarla qua, perché andarmene sarebbe come cedere alla parte di me che ha preso il sopravvento da quasi quindici anni, ormai. Così la fisso negli occhi e sorrido:
“Posso sapere come ti chiami?”
Mi guarda perplessa per poi rispondere: “Sidney Brown.”
 
“Avremo una figlia, e la chiameremo Sidney, come questa città.”
“Una figlia?”
“Certo, una figlia.”
“Noi non possiamo avere una figlia.”
“Ti prometto che l’avremo.”
 
“Per caso tua madre viene da Philadelphia?”
“No, mi spiace.” Mi sorride, come si sorride alle vecchiette che parlano della loro vita a chiunque. Si prova pena.
“Grazie, Sidney. Ci vediamo.”
“Arrivederci signora. A presto.”
 

A quattordici anni ero una ragazzina molto tranquilla, agli occhi degli altri; dentro, ero una teppista. Nel mio immaginario, ero libera. Ero la libertà fatta a persona.
Una volta dovetti uscire con una ragazza che conoscevo da una vita. Proprio sempre, avete presente, quelle con cui condividi la culla, perché i genitori sono amici, come nel mio caso. Poi crescendo, vi frequentate se capita, finché non avete un cellulare in mano e cominciate a sentirvi tutti i giorni e tu ti rendi davvero conto che non avete in comune e che, soprattutto, se non vi conosceste da così tanto tempo, lei ti odierebbe e non ti frequenterebbe per nulla al mondo. Ma un giorno, comunque, ci uscii. Doveva prendere un regalo, insomma, non era nulla di che, aveva bisogno di qualcuno, era molto tempo che non ci vedevamo, e uscimmo. Mentre l’aspettavo al punto di ritrovo di tutti i giovani e di tutti i vecchi, lo vidi. O la vidi, non lo sapevo. Fissai quel ragazzo/a (ma continuerò parlando di lui al maschile, in quanto fu con quella conclusione che arrivai a casa un’ora e mezza dopo) per dieci minuti. Aspettava qualcuno con un uomo, un uomo vestito sgargiante, una tuta verde fosforescente, la faccia sporca, i capelli lunghi neri, una sacca e una cartina geografica sotto braccio. Lui, be’, lui era bellissimo. L’avrei sognato per mesi, in seguito. Quel ragazzo avrebbe popolato le mie notti. La carnagione chiarissima, come la mia; i capelli lunghi, raccolti in dreadlocks, legati con un elastico molto largo, rosso. Indossava jeans e una giacca scura. Aveva una borsa a sacca, nera e bianca, bellissima. Stanco probabilmente di aspettare in piedi, lanciò la borsa su un cestino per le immondizie piuttosto alto e vi saltò sopra, a sua volta. Quando la sua borsa cadde a terra, lui alzò le spalle e si appoggiò con la schiena al lampione dietro di lui. Fumava qualcosa, rimasi a contemplarlo tutto il tempo. Quel ragazzo fu l’amore platonico del mio ottobre dei quattordici anni. In quella giornata bellissima, così grigia come piace a me, capii che lui era fatto per me. Era bellissimo ed io avevo bisogno di lui. Quando arrivarono i suoi amici, sentii che il nostro legame si stringeva, come un nodo, il nostro legame aveva bisogno di qualcuno di forte che lo tenesse duro. Andò incontro a loro, li salutò, corse incontro a uno, gli saltò addosso, gli cadde la sacca, la riprese di nuovo, parlarono, si misero a cerchio, erano un sacco. C’era una ragazza dai capelli rasta color paglia, i pantaloni larghissimi, una maglia enorme verde bottiglia, le loro sacche come borse, la loro bellezza straordinaria. Cercai di non fissarli troppo a lungo. Uno di loro mi vide, mi sorrise, sorrisi anch’io, abbassai la testa sul telefono per non farmi notare troppo. Ero inadeguata, se fossi stata un po’ più come loro sarei andata là, il mio coraggio sarebbe uscito, un “Adoro i vostri capelli” o “Amo la tua borsa” per poi camminare oltre, ma andandomene essendo sicura di aver lasciato un segno. Invece, mentre loro si incamminavano verso la piazza, la mia amica mi raggiunse e, seguendo il mio sguardo, si liberò in commenti poco gentili nei loro confronti.
“Io lo so”, disse “Lo so che vuoi essere come loro. Ma tua nonna ed io ci capiamo: non ti parleremmo più e lo sai bene.”
Sapevo bene, si, che lei e mia nonna complottavano contro di me. Ma, se posso essere sincera, in quel momento non me ne fregava un cazzo.
 
I am my hair. I am as free as my hair.
Whenever I’m dressed cool my parents put up a fight/and if I’m hot-shot mum would cut my hair at night/and in the morning I’m short of my identity/I scream mum and dad why can’t I be who I wanna be?/I just wanna be myself and I want you to love me for who I am/I just wanna be myself and I want you to know I am my hair.
Cantai le parole della mia musa, Lady GaGa, senza proibizioni. Le cantai, liberandole dalla mia gola, facendole uscire dalla mia mente. È quello che penso, mi dissi mentre camminavo verso scuola. Era il mio primo anno di liceo, avevo ancora quattordici anni, era ancora inverno. Avevo delle grosse trecce tra i capelli lasciati sciolti, i pantaloni erano larghi, indossavo giacche calde e le mie scarpe erano piuttosto rovinate. Mi sentivo libera. Non avevo problemi con nessuno. Sorridevo. Un ragazzo mi urtò, forse per sbaglio, chi lo sa, nella folla, lo guardai, per urlargli dietro qualcosa, ma mi fermai, intontita.
“Si, scusa” mormorò, distratto, rivolto a me.
Io ero immobile, lo fissavo, fissavo i suoi capelli. Bellissime treccine. Capelli tra il biondo e il castano. Era alto, era libero. Lo fissai negli occhi, mi guardò, non sembrò colpito, ma io si. Lo seguii con lo sguardo nello stesso modo in cui, un mese prima, avevo seguito una ragazza vestita da uomo, sperando di vederla ancora e ancora, trovandola e riconoscendola circa quattro volte prima di perdere l’interesse.
Vidi il suo gruppo d’amici. Io ero sola, sempre stata una ragazza socievole ma solitaria. Era bellissimo. Volevo sapere il suo nome, sapevo che il suo nome sarebbe stato l’apice della mia giornata. Non mi importava che avessi preso la prima insufficienza della mia intera vita; solo volevo conoscere il suo nome, per poterlo sussurrare nel privato della mia stanza.
“Scarlett!” urlai, non appena la vidi, ormai persi di vista i miei nuovi bersagli. Scarlett era una specie di salvezza, la mia nuova migliore amica in quella gabbia. Non amavo particolarmente la mia classe, all’inizio, ma Scarlett mi dava quotidianamente una ragione per svegliarmi la mattina. “Scarlett, ho trovato l’amore della mia vita.”
“Oh mio Dio.” Iniziò lei, sorridendo. “In che scuola è?”
Adoravo come Scarlett mi stesse dietro. Le mie amiche, solitamente, mi tiravano giù. ‘Quanto sei scema’ o ‘Si, Meredith, certo’. Nessuno che mi prendesse davvero sul serio. Neppure quella che doveva essere la mia migliore amica in assoluto. Anzi, lei in primis non era tra le mie fan. Odiava quando cantavo, sebbene fossi brava, odiava qualsiasi cosa facessi, mi faceva sempre sentire inadatta. Criticava me e il mio modo di fare. Eppure le volevo bene, perché non criticava il mio essere libera. Ma anche a quattordici anni, sapevo di cosa avevo bisogno. Sono sempre stata matura, ho sempre capito i miei desideri. E a tredici anni, dopo una lunga pausa dal mondo in cui vivevo su una nuvoletta privata, avevo finalmente capito di volere una svolta di quelle enormi. Volevo conoscere delle persone che mi trascinassero, che mi cambiassero; ero stufa di cambiare da sola, di inventarmi sempre cose nuove per divertire me e chi mi stava attorno. E il cielo mi diede Scarlett. Scarlett è stata davvero una salvezza.
 
Le raccontai del ragazzo mentre ci avviavamo verso la classe; incontrammo due compagne, salutai qualche ragazza che conoscevo di vista, mi imbattei nuovamente nella butch, ma stranamente questa volta non mi interessava essere notata.
“Aspetta, aspetta, di chi state parlando?” mi interruppe Takara. “Chi è questo gran figo?”
Spiegai tutto di nuovo, contenta di poter condividere tutti i miei pensieri con quelle due ragazze, le uniche con cui fossi davvero aperta in quello spazio. Se Scarlett rappresentava una sicurezza, Takara era.. non so, un qualcosa di importante. Il suo nome significava tesoro, come amava ripetere, e in effetti lo era davvero. Conosceva moltissima gente e la frequentava, la sua popolarità era una cosa che adoravo e detestavo allo stesso tempo. Non mi sarei mai permessa di usarla, infatti quando era con altra gente non la disturbavo, a meno che non fosse lei a raggiungermi. E questo non mi permetteva di spendere del tempo con lei qualora lo volessi; durante le ricreazioni, io e Scarlett ci prolungavamo in infiniti giri della scuola, senza destinazione, tanto per parlare. Se Takara fosse stata con noi, probabilmente, qualsiasi cosa sarebbe stata più interessante. Sapevo che Takara adorava Scarlett almeno quanto me, e mi auguravo di andarle a genio allo stesso modo. Non volevo essere la terza incomoda, tantomeno volevo essere tagliata fuori. Mi pareva che a Takara non desse fastidio la mia compagnia, e speravo davvero che le nostre amicizie potessero prolungarsi negli anni.

Mentre andavamo in classe, la vidi di nuovo.
Era una ragazza bellissima, aveva i capelli castani sciolti, liscissimi, la pelle chiara, lo sguardo assorto, pensava a qualcosa, qualcosa che la trasportava lontana da qua. Si mordeva senza rendersene conto l’interno del labbro inferiore, era appoggiata con la schiena al muro, i libri al petto schiacciati contro il seno, uno zaino ai piedi. Sgranò gli occhi marroni mentre si rendeva conto di qualcosa che contava, prese su velocemente le sue cose e corse verso la direzione opposta alla mia. La seguii con lo sguardo finché non svoltò l’angolo, e lo feci anch’io.
Entrai in classe e gettai le mie cose sul banco. Mi sedetti su quello di Scarlett, pensai a quella ragazza, continuai a pensare a lei per tutta la giornata finché, alla fine della terza ora, uscii per fare un giro. Mi sedetti con la mia amica nella piazzola tra le scuole e, senza prestare veramente attenzione, mi guardai attorno forse per la prima vera volta. E li vidi. Vidi nuovamente quei ragazzi, quel ragazzo, quello di quella stessa mattina.
“Fottuto ragazzo” sussurrai. Scarlett seguì il mio sguardo.
“È lui?” annuii. “Be’. Merita, secondo te?”
“Secondo te?”
“Secondo me secondo te?”
“Si.”
“Direi di si.” Sorrise. La guardai e mi misi a ridere.
Continuammo a parlare di lei, dei suoi problemi, e mi fece piacere ascoltarla. Volevo essere importante per lei almeno la metà di quanto lei fosse per me. Volevo davvero essere qualcosa per quelle persone.
 
All’uscita, be’, all’uscita ero sola. Scarlett era corsa via lanciandomi un bacio per non perdere l’autobus e Takara si era volatilizzata, probabilmente per parlare con qualcuno dall’altra parte della scuola. Perciò, abbracciai il mio cellulare mentre mi infilavo gli auricolari e selezionavo una traccia. La mia borsa ingombrante non mi permetteva di muovermi come avrei voluto e temevo di risultare ridicola, tenendo una spalla più alzata dell’altra per non farla scivolare giù. E invece, be’, grazie a dio che quelle spalle non erano uguali. Perché si, venni urtata nuovamente.
“Scusa, scusa” sentii mormorare. Mi voltai e alla mia destra vidi quella ragazza, la ragazza bellissima. Guardava i propri piedi, la testa china, si liberò da me e camminò veloce verso il capolinea. La seguii a pochi passi di distanza, compiaciuta notai che prendeva il mio stesso bus. In un altro momento avrei cercato Takara nella folla, o qualche suo amico che mi aveva presentato. Avrei parlato con qualcuno che conoscevo di vista oppure avrei parlato con un estraneo, come mi era già capitato. Invece, quel giorno, fissai quella ragazza come se fosse un’opera d’arte. Si infilò con grazia nella vettura, prese posto non molto lontana da me, stavamo entrambe in piedi e, assorta nella sua musica, mi rivolse uno sguardo veloce. Sillabava le parole delle canzoni, e la guardavo di sottecchi. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, lei sorrise maliziosamente e riportò lo sguardo al finestrino. Continuò a canticchiare ed io, arrossendo, mi guardai i piedi. Seguii il suo esempio e mi concentrai sulla città. Philadelphia era enorme, e la nostra scuola era appena fuori dal centro. Essendo noi tutti abitanti di periferia, gli autobus erano spesso pieni; la metropolitana non ci portava dove volevamo, e poi c’erano molte più probabilità di fare conoscenza via terra, dove la gente è, generalmente, più rilassata.
La vidi alzarsi, la guardai. Sorrideva e scuoteva la testa. Era bellissima. Quando dovette scendere, aiutò una donna con un passeggino a salire e se ne andò contenta della sua opera di bene. Sorrisi, felice per lei. Quella ragazza mi dava sempre una certa felicità interiore che non sapevo spiegarmi.

 
  
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