Le bambole del signor Ljiljanovic
C'era
una porta con un arco a sesto acuto che si apriva su una anonima
parete di un piccolo vicolo appena fuori dal centro di Sarajevo.
Varcando quella soglia, la prima cosa che compariva erano tre lunghe
file di barattoli di vetro, ordinatamente allineati lungo la parete
di mattoni rossi. Al loro interno c'erano degli occhi, occhi di vetro
così perfetti da essere più realistici ed
espressivi di quelli
veri. Occhi senza palpebre spalancati sull'avventore, ordinati per
sfumature di colore. Azzurri, blu, cerulei, acquamarina, verdi,
grigi, dorati, castani, marroni, neri... tutti schierati come un
silenzioso corpo di guardia a proteggere quel luogo fuori dal tempo,
a scandalizzare i benpensanti, a impaurire i bambini che si sfidavano
a chi aveva il coraggio di entrare. Attraversando quello stretto
corridoio a passi lenti, quasi un cammino di iniziazione, si giungeva
ad un altra porta. Dietro questa si celava il regno misterioso del
signor Ljijanovic.
Di lui nessuno sapeva nulla, se non il suo
cognome. Era un uomo basso e magro dalla pelle olivastra, con lunghi
capelli castano scuro e grandi occhi neri. Non doveva essere
particolarmente anziano, e pur avendo un volto volitivo e piuttosto
attraente, non aveva mai avuto né una moglie né
una compagna. Non
usciva mai dalla sua casa-laboratorio se non per vagare per le strade
della città fumando con aria meditabonda, senza rivolgere la
parola
a nessuno. Viveva in disparte, dimenticato dal mondo e niente affatto
intenzionato a farsi notare. L'unico scopo della sua vita, la fiamma
che riusciva a fargli brillare gli occhi e talvolta scambiare qualche
parola con qualcuno, erano le sue creature.
Il signor Ljiljanovic
costruiva bambole. Plasmava stoffa e legno, cartapesta e argilla per
creare i volti angelici, le mani affusolate, i corpi delicati e
paffuti delle sue bambine. Dava loro splendidi occhi ciechi con cui
fingere di guardare il mondo e labbra rosee dall'immutabile sorriso
malinconico, capelli morbidi e abiti preziosi. Venivano da tutto il
mondo, per le sue bambole. Erano le più belle che si fossero
mai
viste, costruite ognuna con l'amore di un padre e la dedizione di un
promesso sposo. Possedere una delle creature del signor Ljiljanovic
era un lusso che ben pochi potevano concedersi, ma era un vanto che
suscitava immediatamente stupore e ammirazione.
Nella piccola
stanza dove viveva e lavorava, passava le giornate chino sul tavolo
modellando, tagliando, cucendo e scolpendo. Talvolta parlava con le
sue bambine, domandando loro quali colori avrebbero preferito per i
loro occhi, capelli o vestiti, e poi rimaneva in silenzio, assorto,
come se stesse ascoltando una loro silenziosa risposta.
Ogni
giorno dall'alba, quando apriva la porta del suo regno, fino alla
sera tarda, quando la richiudeva, si poteva tranquillamente entrare
nel suo laboratorio, se si aveva il coraggio di superare il corridoio
dai mille occhi, e guardarlo lavorare anche per ore senza che lui
rivolgesse neppure una singola parola o uno sguardo all'osservatore,
completamente assorbito dal suo lavoro certosino e dalla sua cura
quasi maniacale per ogni più infimo dettaglio.
Cosa facesse
quando la porta era chiusa nessuno lo sapeva, ma erano tutti certi
che continuasse a lavorare alle sue bambole, tanto ne era
morbosamente ossessionato.
Non
appena la luce del sole calava e le ombre cominciavano ad allungarsi
sulle pareti, d'inverno come d'estate, la sua pelle era percorsa da
un brivido. Chi stava a guardarlo difficilmente se ne accorgeva, ma a
partire da quel preciso istante i suoi movimenti si facevano
impercettibilmente più veloci. Non vedeva l'ora che il
tramonto
cedesse il passo alla notte per poter chiudere la porta e dedicarsi
al suo capolavoro, il progetto più incredibile e ambizioso
della sua
vita. Solo con la certezza che nessuno avrebbe potuto vederlo al
lavoro e con il favore delle tenebre poteva lavorarvi perchè
era una
bambola diversa da tutte le altre. Era la più bella, la
più
speciale. La progettava e la modificava da anni, dedicandole ogni
attenzione e cura, molto più che a tutte le altre. Lontano
da occhi
indiscreti, nel silenzio e nella solitudine della notte più
fonda,
apriva una piccola porta nascosta nella parete rivelando una stanza
nascosta. La casa della sua figlia prediletta. Si avvicinava al
tavolo in religioso silenzio, ammirando la bellezza sempre
più
fulgida della bambola e ricominciava a lavorare, sistemando ora una
mano, ora i capelli, ora un particolare dell'orecchio o levigando la
forma del mento.
Anche quella sera fece lo stesso, attendendo il
buio per chiudere la porta della sua casa ai curiosi per potersi
dedicare completamente a lei, l'unica creatura al mondo capace di
toccare il suo cuore di pietra. Aprì la porta che dava sulla
stanza
segreta e, come ogni notte, rimase a guardare il suo capolavoro
trattenendo il respiro. Ormai era quasi pronta.
«Buonasera,
mia adorata...»
Le accarezzò la guancia sorridendole dolcemente.
Non era una bambola bambina, come tutte le altre. Era adulta, e di
una donna adulta aveva le fattezze e le dimensioni. Il suo volto era
un ovale quasi perfetto, leggermente asimmetrico per essere quanto
più realistico possibile. Il naso leggermente aquilino, le
labbra
carnose a cuore, gli zigomi pronunciati. La pelle era dorata e i
capelli lunghi e ondulati, di uno splendido, morbido color
cioccolata. Scese con le dita lungo il suo collo perfetto,
accarezzandone i muscoli così perfetti da sembrare realmente
tesi
sotto la pelle, poi il seno nudo, il ventre, le gambe...
Arrossì
leggermente e si chinò a baciarla sulle labbra, senza
trattenere il
brivido di piacere che gli provocò il contatto tra la sua
bocca e la
porcellana fredda coperta di pallido velluto.
«Stanotte ti
donerò gli occhi più belli al mondo, mio angelo.
Sarai
meravigliosa, te lo prometto.»
Le scostò amorevolmente una
ciocca di capelli dalla fronte e le sollevò le palpebre,
rivelando
le orbite vuote. Rimase per qualche istante a guardare quel volto
meraviglioso, tanto affascinante proprio perchè impossibile,
irreale. Le posò un drappo di raso rosso sul viso e
uscì dalla
stanza, raggiungendo il corridoio dove stavano i barattoli con gli
occhi. Quale colore avrebbe scelto per quella meraviglia? Doveva
essere un colore prezioso e rassicurante, caldo e ammaliante.
Osservò
a lungo i barattoli, prendendone di tanto in tanto uno ed estraendo
uno di quei bulbi di vetro per studiarne i riflessi dovuti ai cambi
di luce. Per la prima volta nella sua lunga e gloriosa carriera, era
indeciso. Non sapeva quali occhi scegliere, nessuno di quei colori
gli pareva adatto al suo capolavoro. Erano tutti così
banali,
ordinari. Sospirò e aprì la porta per prendere
una boccata d'aria.
Posò le spalle contro la parete e tirò fuori
dalla tasca una
sigaretta, se la mise tra le labbra e la accese. Tirò la
prima
boccata guardando il cielo buio, alla ricerca di una ispirazione di
cui non aveva mai avuto bisogno. In tutta la sua vita non aveva mai
esitato, non quando si trattava delle sue bambole.
Ma lei era
speciale, era diversa. Provava un piacere tutto particolare nel
lavorarvi, fin da quando ne aveva abbozzato il volto per la prima
volta. I brividi di piacere che lo scuotevano ogni volta che la
guardava, la toccava... erano qualcosa di indescrivibile, di
completamente diverso da ciò che aveva provato fino ad
allora. Era
certo che ciò che provava fosse amore. Sì, si era
innamorato del
suo capolavoro... e come poteva essere altrimenti? Era la creatura
più meravigliosa che fosse mai esistita, pur non essendo
viva.
Sospirò, chiudendo la porta a chiave e mettendosi le mani
in tasca, camminando a testa bassa lungo il vicolo, seguendo un
percorso tanto familiare che poteva tranquillamente percorrerlo ad
occhi chiusi. Attraversò innumerevoli vie e strade,
continuando a
riflettere sul colore più adatto agli occhi della sua
meraviglia e
fumando nervosamente, evitando gli altri pochi passanti pur senza
guardarli. Senza essere giunto a una soluzione, gettò
nervosamente a
terra il mozzicone della sigaretta, fissandolo con astio, come se
fosse colpa sua la propria indecisione. Sollevò poi lo
sguardo,
trovandosi di fronte una donna che lo osservava con aria incuriosita.
Digrignò i denti, ricambiando in malo modo il suo sguardo.
Una
dannata sgualdrina dei bassifondi dalle labbra imbellettate che aveva
addosso l'odore di colonia da quattro soldi di qualche suo squallido
cliente. Forse credendo di interessargli, la donna si
avvicinò a lui
ammiccando, mentre gli sfiorava la spalla.
«Salve...»
Lui la
fulminò con lo sguardo, allontanandole la mano dalla propria
spalla
con uno schiaffo.
«Non toccarmi, lurida...»
Gli improperi gli
morirono in gola non appena la guardò negli occhi. Le sue
iridi
erano di una splendida sfumatura nocciola con delle pagliuzze color
miele. Fu una folgorazione. Quelli. Quelli erano gli occhi della sua
bambola. Dovevano essere quelli. La donna continuava a fissarlo,
stupita dalla sua reazione inizialmente violenta seguita da una stasi
stupefatta. Ebbe un moto di repulsione all'idea che quegli occhi
perfetti fossero quelli di una prostituta. Lei non meritava quegli
occhi. La sua creatura sì.
Fu un istante. Afferrò la donna per
le spalle e la trascinò in un vicoletto vicino, abbastanza
riparato
dalla luce giallastra dei lampioni. Lei ridacchiò, sorpresa
e
lusingata da quell'impeto inaspettato. Lui però le strinse
la mano
sulla bocca, impedendole di respirare, mentre stringeva quel suo
corpo lordo delle peggiori sozzure umane. Lei sgranò gli
occhi,
tentando disperatamente di reagire, di liberarsi, e lui in quegli
occhi spalancati vide gli occhi dei suoi barattoli, nella sua
disperazione lesse la propria vittoria. Con la mano libera premette
le dita sulla sua palpebra destra, sorridendo in modo malvagio e
sadico. La donna capì e cercò di dimenarsi e
urlare, mentre lui la
soffocava e tentava di strapparle l'occhio. Portò la mano
alla tasca
dei pantaloni, dove teneva il vecchio coltellaccio che usava per
sbozzare i particolari delle sue bambole nel legno, e con quello in
uno scatto fulmineo le tagliò la gola. Un unico rantolo
soffocato
uscì dalle labbra della donna, mentre un fiotto di caldo
sangue
scarlatto gli schizzò sul volto e lui istintivamente si
leccò le
labbra. Aggrottò la fronte, piegando la bocca in una smorfia
di
disgusto. Poi, finalmente, potè dedicarsi agli occhi della
donna.
Incise la pelle del volto per facilitarsi il lavoro ed estrasse
rapidamente i bulbi, recidendo i nervi ottici con un solo taglio
netto. Rimise il coltello nella tasca dei pantaloni e si
rialzò in
piedi, guardando il corpo scempiato della donna ai propri piedi come
se non lo vedesse realmente. Accennò un sorrisetto di
scherno e
abbozzò un inchino, poi subito corse a casa, prima che
quegli occhi
splendidi si deteriorassero.
Aprì più in fretta che potè
la porta e corse nella stanza segreta, posando i bulbi su un ripiano
perfettamente pulito. Subito si mise ad armeggiare con vari
contenitori e miscele chimiche, finchè non trovò
ciò che cercava,
una resina trasparente. Immerse gli occhi nel fluido vischioso,
estraendoli poi subito dopo con una pinza e riponendoli sul tavolo ad
asciugare. Dopo alcuni minuti la resina si solidificò,
trasformando
quegli occhi in due splendide gemme di vetro pronte a impreziosire
ulteriormente il volto della sua creatura. Li prese delicatamente tra
le mani e si avvicinò al corpo bellissimo e inanimato della
sua
bambola. Tolse il drappo che ne proteggeva il volto e inserì
gli
occhi nelle sue orbite vuote. Poi si allontanò di un passo e
la
guardò il volto. Sentì il cuore mancare un
battito.
Era
perfetta. Bella come nessun'altra, una bellezza che trascendeva i
limiti e la caducità degli umani. Era il suo angelo di
porcellana.
Sentì l'impellente bisogno di stringerla tra le braccia, di
baciare
quelle labbra gelide e di rimanere lì con lei per sempre. Si
stese
sopra di lei, baciando il suo collo freddo, passando le mani su quei
fianchi perfetti quanto inumani e proprio per questo desiderabili.
Affondò le dita tra i suoi capelli e la baciò con
foga sulle labbra
immobili, leccando la ceramica spinto da un insano desiderio di
possedere la sua creatura. Strofinò furiosamente l'inguine
contro di
lei, eccitandosi violentemente e desiderando di poterla avere davvero
almeno una volta, ben consapevole che quel suo desiderio non si
sarebbe mai potuto davvero realizzare, poiché lei non era
umana e il
suo fulgore era concepito in modo tale da non poter essere in alcun
modo deviato dalle sudice passioni umane. Quel pensiero lo
eccitò
disperatamente, tanto che ebbe un orgasmo. Per lei, per la sua amante
inviolabile. Per l'unica donna che amava realmente.
Rimase sopra di lei per tutta la notte, baciandola e stringendola come se fosse vera, come se potesse sentire il calore del suo corpo, del suo piacere inconfessabile e impossibile da soddisfare. La sua amata di porcellana dagli occhi di vetro. La donna senza vita a cui aveva consacrato la propria intera esistenza.