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Autore: HippyQueen    02/11/2012    0 recensioni
Meredith è una donna matura, abbandona la sua terapia psicologica prima che questa sia conclusa: non vuole sentirsi bene, non vuole dimenticare ciò che le è successo. La sua esistenza è stata profondamente segnata da due amori, nati e cresciuti allo stesso tempo, molto diversi ma sempre molto forti.
"Sono innamorata di quel ragazzo, lo so, me lo sento. Eppure l'amore che provo nei confronti di quella ragazza supera ogni confine, ogni limite mi sia mai stato imposto. Posso amarla come mai amerò nessuno."
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
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La mattina dopo mi svegliai alle sei. Non dovevo andare a scuola; non avevo grandi programmi. Eppure ricevetti un messaggio, e confusa, controllai il cellulare.
 
Vorrei solo sapere dove cazzo sei finita. Sei con Ashley?
 
Risposi a mia sorella con un semplice augurio che non ho intenzione di ripetere – non si sa mai. Cercai di tornare a dormire, ma sentendo nominare Ashley, mi tornò tutto in mente. E capii anche che c’era una sola cosa da fare.
Così, alle sei di mattina, quando fuori era ancora notte, essendo fine ottobre, presi dall’armadio un paio di jeans e un maglione pesante di lana nero. Mi vestii in fretta, passai al bagno, mi lavai e pettinai il più velocemente possibile, scorrazzai in cucina senza far rumore. Mangiai qualche biscotto mentre aspettavo che il caffè fosse pronto, un’usanza della mia famiglia prettamente europea, ereditata da qualche lontano parente emigrato agli inizi del ‘900. Spesso mi capitava di chiedermi quali fossero le mie origini – sapevo che non discendevo dai padri fondatori, bensì davvero da qualche europeo – ma volevo sapere di più; i miei antenati erano a Versailles, tra divertimenti e balli, oppure mia nonna minacciava di tagliare la testa alla regina?
Mi persi un po’, divagando senza meta, immaginandomi anziana, per figurare quindi una qualche possibile antenata, tutta sottane e crinoline. Non funzionò come avrebbe dovuto, così dirottai i pensieri verso qualcosa di più pratico. Sapevo di cosa avevo bisogno? Avevo idea di quello che avrei fatto?
Mentre aspettavo che il caffè fosse pronto, capii di avere paura. Io avevo davvero paura, a quel punto della mia vita; a quattordici anni io cominciai a vivere davvero, per questo ne parlo. Prima che cos’ero stata? Dai nove anni avevo vissuto l’ombra di mia sorella, respirando e vivendo della sua polvere. Seguivo le sue impronte senza verificare se il mio piede fosse più piccolo del suo. Avevo passato gli anni delle medie crescendo, sì, a modo mio,  ma avendo sempre impresso l’esempio di Liz. Non avevo veramente avuto una madre: era sempre assente, sempre via per viaggi di lavoro. Quando non c’era, mia nonna prendeva il suo posto, ma poi questa si è rotta una gamba ed è stata rinchiusa in una casa di riposo. Non so come io abbia reagito a questa specie di scomparsa della mia nonna; certo, ero legata a lei, ma non rappresentava una certezza nella mia vita. Avevo bisogno di gente che si prendesse cura di me perché ero stanca di occuparmi io degli altri; eppure con lei, sebbene avesse non so quanta più esperienza di me, sentivo il bisogno di proteggerla. Le sue ossa sembravano troppo leggere per sostenere il suo stesso peso; la sua faccia pareva troppo rugosa per potersi contrarre, le sue labbra invisibili per formulare parole. Le cose che amavo di più di lei erano il modo di insultare le cose – “Quella puttana, quella sveglia si è rotta e mi ha svegliato alle tre!” – ed il tè. La mia nonna che non parlava mai davvero con me, mi aveva fatto amare il tè. Io odiavo gli infusi, li detestavo tutti, almeno finché lei non mi fece assaggiare uno strano composto di caramello e vaniglia. Per i suoi gusti era troppo dolce, per me era il paradiso. Così lei cominciò a prepararmi una tazza di tè ogni volta che la vedevo; con questo non significa che ci parlassimo. Conoscevo lei e i suoi ideali, e sapevo anche che se lei mi avesse conosciuto davvero mi avrebbe odiato. Quando insultava qualcuno o qualcosa, senza veramente voler offendere un suo caro, mi urtava davvero nel profondo e, alle volte, ci stavo male. Con l’andare del tempo, però, capii cosa potessi o dovessi dire in sua presenza; mi inventai una seconda personalità, una ragazza dolce e disponibile, da sfoggiare con lei.
I miei genitori sono divorziati, sono stata affidata a mia madre e non vedo molto spesso mio padre. Il loro rapporto è uno stereotipo. Sono la classica coppia separata  da dieci anni che mantiene i rapporti freddi; non litigano mai, non si parlano neppure. Si salutano come si può salutare un collega, non una persona da cui hai avuto due figlie. Eppure, mantenevano questa facciata con il mondo intero. In più, mio padre viveva a Tucson, in Arizona; dopo aver rotto con mia madre, decise di fare tabula rasa e rincominciare daccapo, da tutt’altra parte.
So che forse risulta incredibile, ma io adoro mio padre. Amo mio padre cinquanta volte di più di quanto io ami mia madre. Anche questo non è giusto, però è innegabile. Non mi importa se lo vedo praticamente una volta ogni due mesi; so che non mi giudicherà mai, perché mio padre ha un compagno adesso. Quando avevo dieci anni, passai un’estate in Arizona con lui e, a quanto mi dicevano, un suo amico. Avevo appena cominciato ad esplorare il mondo, Liz mi aveva iniziata all’amore universale e non pensavo più che non ci fossero altre vie d’uscita all’eterosessualità. Naturalmente, però, mio padre non ne era a conoscenza; mi propinò, per un mese intero, la storia che la convivenza con il suo ‘amico’ era temporanea: non era riuscito a pagare il mutuo, aveva dovuto offrirgli un posto, no? Quale essere munito di cuore avrebbe potuto non compiere tale azione?
Non ci credetti. Non so se lo fecero apposta, ma già dalla seconda settimana non si nascosero ai miei occhietti innocenti; quando pensavano che non li guardassi, si abbracciavano, si prendevano per mano, si scambiavano dei baci. Stavano assieme da pochi mesi. E la recita continuò finché io, da piccola insolente, non apparvi in soggiorno, trovandoli abbracciati. Sbuffai:
“Ma è possibile, perché vi nascondete sempre? Ormai lo so che siete fidanzati. Non sono stupida!”
Così mio padre vive da quattro anni con il suo compagno e sono felici così. Passo da lui ogni estate, ma solitamente viene a trovarmi ogni due mesi.
 
Tempo di fare considerazioni sulla mia famiglia, finii la colazione. E riprese la frenesia: scappai in camera, preparai una borsa, presi le scarpe e lasciai un biglietto: In cerca di Liz.
Poi uscii di casa senza guardarmi indietro.
 
Non stavo davvero scappando, mi resi conto, mentre mi dirigevo verso la fermata del bus, senza una vera meta. Salii sul primo autobus che passò, senza neanche badare alla linea. Ero felice perché la mia musica mi sparava note in testa a volume altissimo, uscendo come acqua dagli auricolari. Avevo bisogno di quella carica assurda. Così, guardandomi attorno, dondolando la testa a ritmo, incontrai il suo sguardo e lo riconobbi. Era il ragazzo della mia scuola, il ragazzo di cui avevo parlato a Scarlett. Era il ragazzo che meritava, o così avevamo deciso. Crebbe in me una certa ansia; non sapevo dove stesse andando – dopotutto, non sapevo neanche dove io stessi andando – ma non dovevo perdere anche quest’occasione. Quell’estate avevo fatto una lunga lista di propositi per la stagione autunnale e quella invernale, uno tra questi smetterla di accettare i limiti. Chi mi diceva che non ero in grado di presentarmi a quel ragazzo?
Così, rischiando di rigurgitare l’intera colazione, tanto lo stomaco mi premeva, tanto l’ansia mi stringeva la gola, mi avvicinai a lui e sorrisi. Proprio quando cercavo qualcosa di stupido per attaccare bottone, lui si spostò di scatto e scese. Disperata, urlai “No!”, e smontai con lui. Nel farlo, però, inciampai e caddi a terra. Lui si girò, mentre io, rossa di vergogna, mi rialzavo, mi guardai indietro per verificare che lui se ne fosse andato e con fare serio mi preparai a risalire, quando sentii una mano stringermi il braccio.
Ora, io non so l’autodifesa. Non ho mai fatto dei corsi, non sono brava a picchiare. Anzi, non ho mai picchiato nessuno, siamo sinceri. Non ho idea di come si faccia. Ma quando cammino per strada, soprattutto nella periferia di Philadelphia, dove abito, ho sempre il terrore che qualcuno mi stia seguendo. Era successo, molte volte, ma l’avevo sempre scampata. Quella volta, ho avuto davvero paura.
Eppure, quando mi girai pronta ad urlare, la paura e l’ansia e l’adrenalina che si mescolavano in me, vidi che era quel ragazzo a stringermi il braccio. Sentii il panico: voleva violentarmi? Voleva farmi del male? Il suo volto pareva preoccupato, non veramente cattivo. Così lo guardai meglio. Aveva gli occhi chiari, un misto tra verde ed azzurro, il naso importante, un po’ aquilino; le sopracciglia folte, i capelli selvaggi, quei capelli biondi che amavo. Un misto di dreadlocks, treccine e ricci, una cosa adorabile, una specie di ribellione, anzi no, un modo per esprimere la confusione mentale dell’adolescenza. Era bello, sicuramente non per tutti, ma per me si. Era bellissimo ed ero convinta che fosse anche una bella persona.
Nonostante tutti i miei pensieri gentili, mi stringeva forte un braccio e mi fissava negli occhi con fare preoccupante. Così cacciai un urlo.
“No, cosa fai?! Sei matta?! Perché urli?”, lasciò il mio braccio, si spostò di un passo e mi guardò storto.
“Mi.. mi stavi trattenendo!”, sbottai, isterica.
“Forse non te ne sei accorta, ma quell’autobus ti avrebbe trinciato un piede se ti fossi mossa.”
“Oh.” Lo guardai con occhi grandi, alle prime luci dell’alba. Che cazzo ci facevo in un posto sconosciuto con un ragazzo con cui non avevo mai parlato prima alle sette di mattina?
“Sì, be’, ti ho appena salvato da un’amputazione, sai com’è. Capita tutti i giorni.”
Lo studiai meglio. Mi guardava con fare scocciato, un po’ sarcastico, seccato più dal mio mutismo che dalla mia scarsa riconoscenza.
“Devo ringraziarti, allora, immagino.”, gli dissi.
“Credo che sia abbastanza.”, si guardò in giro ed abbozzò un sorriso. Poi, con mia piacevole sorpresa, allungò una mano. “Victor.”
Imbarazzata ed inizialmente titubante, mi presentai a mia volta, stringendogli la salda mano. Quel contatto mi mise in guardia: concedendogli di toccarmi il palmo, gli avevo automaticamente dato l’accesso alla mia conoscenza, giusto? Era così che andavano le cose. Quando parlavo con gente nuova, dopo il nome, seguiva una stretta di mano e dopo questa un’intera conversazione. Gli stavo davvero promettendo qualcosa. E lui a me.
“Allora,” cominciò, destando nuovamente i miei sospetti. “Dimmi, Meredith, dove sei diretta?”
“Io non vado da nessuna parte.”
“Sbaglio o sei un po’ dura? Ti dispiacerebbe seguirmi? Devo andare a lavorare.”
Presi tempo guardandomi in giro. Ci trovavamo in una piazza con delle bancarelle; i venditori le stavano ancora allestendo, data l’ora; le auto ci sfrecciavano accanto, noi troppo vicini al marciapiede per evitare lo smog. Non c’era quasi nessuno per quelle strade, io non avevo realmente una direzione né uno scopo, se non quello di seguirlo, seguire Victor ovunque fosse andato. Crebbe in me dell’ansia, che attribuii alla mancanza di conoscenza di ciò che avrei fatto. Anche questa era colpa di mia sorella, colpa di Liz: seguendola ovunque e calcando le sue stesse orme per una vita intera, non avevo mai conosciuto il vero gusto del rischio né avevo imparato ad apprezzarlo.
E poi, insomma: ci trovavamo nei pressi di una chiesa. Non ero cristiana ed avevo il sospetto che nemmeno lui lo fosse ma.. un po’ di umanità di sicuro era nel cuore di tutti.
“Questo dipende da dove devi andare.”, esordii, pronta a seguirlo. “Io odio i guai e so come farla pagare alle persone.”
“Su questo non ho dubbi,”, rispose scrutandomi serio. “Da questa parte.”
Mi condusse verso le bancarelle. Superammo una fioraia solitaria e un paio di fruttivendoli intenti a sistemare gli acquisti. Erano solo le sette di mattina eppure ognuno era al proprio posto, rassegnato a una nuova giornata. In tutto quel conformismo alle regole, mi sentii per la prima volta davvero ribelle, davvero viva. Ero uscita di casa lasciando una ragazza con cui si supponeva avessi avuto un rapporto, nessuno sapeva dove mi trovavo davvero, non avevo studiato per un test della settimana successiva, seguivo un ragazzo di cui conoscevo solo il nome. Il cuore mi batteva a mille nel petto, mi sentivo leggera, venti volte più leggera di quanto mi facesse sentire uno spinello. Non capivo Liz, in quel momento: come darsi a una droga, per quanto leggera, se con una semplice fuga si potevano acquisire tutte queste emozioni? Come rovinare la propria vita se in poco tempo e così semplicemente, soprattutto, potevo governare il mondo intero?
Seguii Victor fino a una bancarella di libri usati. Una ragazza coi dreadlocks era seduta aldilà del tavolino pieghevole. Indossava una giacca pesante nera, un paio di guanti di lana con le dita tagliate, lasciato coperto solo il mignolo. Aveva un cappello grigio che le copriva la fronte, i capelli lasciati liberi. Alzò lo sguardo e sorrise calorosamente. I suoi occhi erano verdi e i suoi capelli biondo sporco; aveva delle lentiggini simpatiche attorno al naso, non molto grosso ma importante. I suoi denti presentavano imperfezioni, ma nulla di tutto ciò le dava meno radiosità. In quel cielo grigio mattutino, avevo trovato due persone in grado di rimpiazzare il sole.
“E dimmi, Victor, sei in ritardo a causa di questa bella ragazza?”, esordì. La sua voce era dolce, lieve, appena un sussurro. Non mi irritava né ricordava quella di qualcun altro. Capii all’istante che quella voce sarebbe per sempre appartenuta a lei, nei miei ricordi. Con un sorriso ancora più luminoso allungò una mano verso di me: “Leslie.”
La strinsi accennando un sorriso, chiedendomi cosa ci fosse tra lei e Victor. Si somigliavano abbastanza da essere fratelli, ma i loro sguardi avevano un che di intimo che non pareva lecito.
Mi chiesi perché avesse associato la parola ‘bella’ alla mia presenza. Non ero una bella ragazza. Avevo degli enormi occhi che variavano tra il grigio scuro ed il verde, mai una tonalità sicura, come se non ci fosse determinazione in me; nemmeno il mio naso aveva personalità. Le mie labbra  erano larghe ma non avevo una bella bocca. Nulla in me aveva un che di originale o bellissimo. Non ero come avrei voluto. I miei capelli erano rovinati, lunghi ed ondulati, castani con meches rosse, verdi, bionde e blu; delle treccine vi sbucavano, ideate per renderli più presentabili ed ordinati, con scarso successo.
“Leslie è mia sorella.”, confermò Victor, distraendomi dalla mia auto considerazione. “E Leslie, no, Meredith non è la causa del mio ritardo. Chiedo perdono; sai bene che non ero a casa questa notte. I ragazzi mi hanno trattenuto sveglio.”, fece l’occhiolino. Mi domandai quanto avesse censurato per uscirsene con un discorso tanto stupido. Probabilmente mi considerava una bambina ancora prima di conoscermi o sapere, addirittura, la mia età anagrafica.
“Be’, non mi importa.”, continuò Leslie. Il suo sorriso non si attenuò, tanto pensai che lo stesse prendendo in giro. Si alzò, chiuse con uno scatto il libro che stava leggendo prima che arrivassimo e afferrò da dietro sé una sedia pieghevole, sporgendola verso di me. “Meredith, ti fermi con noi?”
“Sono senza meta.”, me ne uscii, guardandola fisso negli occhi.
L’espressione di Leslie si fece confusa, non avendo io risposto alla sua domanda. Victor ridacchiò ed io lo incenerii con lo sguardo.
“Ho appena conosciuto questa ragazza eppure credo che non mi annoierò.”, sentenziò, prendendo posto sulla sedia che la sorella aveva assegnato a me. Ripensandoci, si rialzò subito. “Vieni, Meredith, aiutami a sistemare i libri.”
Attesi il consenso silenzioso di Leslie prima di guardare dove Victor fosse diretto. Dietro la bancarella si trovava un pick-up riverniciato di recente di un rosso vermiglio; lo spazio disponibile per i carichi, dietro, era pieno di scatoloni coperti da un telo azzurro plastificato, a scopo di salvaguardare il cartaceo.
La voglia di pesi nelle mie braccia cercò di impedirmi il movimento, ma il mio buonsenso ebbe la meglio. Mi avvicinai a quel ragazzo tanto da poterne sentire l’odore. Non sapeva di un profumo commerciale, ma emanava freschezza, menta e sudore. Il contrasto e l’armonia erano indescrivibili. Sentii qualcosa muoversi dentro di me, sentii il sangue salirmi alle guancie, così mi concentrai sui libri. Victor mi consegnò delle pile da portare a Leslie, quattro metri più avanti. La ragazza stette seduta al suo posto, sistemando prezzi e grandi classici. Quando avemmo scaricato abbastanza pezzi da dimostrare una buona fornitura, Victor si sedette a terra e prese una sigaretta. Non me ne offrì una ed io non la chiesi. La gente dalle nostre parti detestava il fumo. Non è una buona abitudine, farlo non ti rende figo bensì pericoloso. Altro motivo per cui non ero vista bene, a scuola: mia sorella era un’accanita fumatrice. Papà, in Arizona, delle volte fumava. Lo faceva quando c’era il tramonto e stava nella casa vicino al deserto. Non sapevo cosa fumasse, ma lo faceva. L’odore delle sue sigarette era a me irriconoscibile, ma c’era sempre quell’innocenza che sia io che lui volevamo conservare; l’idea di non conoscere l’evidenza.
Mi sedetti accanto a Leslie e lei smise di leggere. Diedi un’occhiata al titolo: Anna Karenina, un classico. La curiosità vinse la mia scontrosità.
“Perché vendete libri?”
Leslie mi squadrò, decidendo se parlare di sé ad una sconosciuta oppure no.
“Non sai molto di Victor, vero?”
“Almeno quanto tu sai di me. Senza pensare che magari conosci mia sorella.”
“Tua sorella?”
“Si chiama Liz Stevens.”
Un barlume di riconoscimento si svegliò nello sguardo di Leslie, per poi morire subito. Corrucciò le labbra e la sua fronte si increspò, mentre lei ci pensava sul serio.
“Credo di aver sentito parlare di lei.”
Victor, dal marciapiede, alzò lo sguardo.
“Mia sorella sa farsi ricordare.”, dichiarai, alzando le spalle. Con la coda dell’occhio vidi Victor aspirare. Distolsi lo sguardo in fretta, sentendomi arrossire.
“Non ci facciamo problemi a parlare di noi.”, Leslie si fece passare la sigaretta dal fratello per fare un tiro. “Non è vero, Victor? Perché vendiamo i libri?”, lo disse con tono accusatorio.
“Vendiamo i libri perché vogliamo andare al college.”
“Vendiamo i libri”, il tono di Leslie si fece duro e scontroso. “perché non riusciremmo a pagarci da mangiare.”
Il mio stomaco si contrasse in una morsa; ero abituata alla gente più disagiata rispetto a me, ma il pensiero dei due fratelli in difficoltà mi imbarazzò. Cominciavo a trovarmi bene con loro e non volevo parere una piccola viziata. Mia sorella aveva i soldi per le droghe, mia madre la pagava senza chiedere informazioni; Victor doveva sudare e vendere libri il sabato mattina anche solo per comprarsi le sigarette.
“Mi dispiace.”, dissi, per mascherare la tensione. Leslie scoppiò a ridere.
“Non ti devi dispiacere; in un certo senso, è stata una scelta nostra.”, sospirò Victor.
Pensai intendesse dire che avevano perso i soldi nelle droghe o nel gioco.
Leslie si schiarì la gola. “Scelta di chi?”
“Scelta mia.”
“Potresti cominciare tu a spiegare, allora.”, il suo sorriso enorme e caldo era scomparso, dando spazio all’astio.
Controllai l’orologio, non più a mio agio; erano quasi le otto e mezza di mattina. Il mio cellulare avrebbe cominciato a suonare dopo poco, così decisi di spegnerlo. Mia madre sarebbe andata su tutte le furie, ma dopo aver ipotizzato che avrei potuto essere scappata con un ragazzo, avrebbe sicuramente scaldato una tazza di tè e sfogliato un giornale, dirottando altrove i suoi pensieri.
“Non c’è niente da spiegare.”, il tono di Victor era seccato. Aveva perso ogni volontà di confidarsi e sentivo che anche per Leslie era così. Il nostro parlottare venne interrotto da un uomo anziano che indossava una coppola, piegato sulla bancarella con le mani dietro alla schiena.
Ciao”, disse.
I’m sorry. I don’t understand.”, scandì Leslie, dopo aver portato il collo in avanti, cercando di assicurarsi che l’uomo avesse parlato in inglese. L’anziano, però, ripeté la parola italiana e scoppiò a ridere.
“Vedo che avete della letteratura italiana.”
“Ne abbiamo poca, signore. Ma molti libri inglesi e russi, dia un’occhiata!”, Leslie aveva sfoderato nuovamente il sorriso da miglior venditrice dell’universo.
“Conosco Shakespeare e conosco Tolstoj. Non sono loro che mi tengono sveglio la notte, capisci ragazza? Voglio qualcosa che mi riporti alla mia terra, qualcosa a basso prezzo!”
“Abbiamo ‘La divina commedia’.”, disse Leslie, cercando sotto il tavolo. “Ovvero un testo molto antico, italiano. L’originale doveva essere latino. Credo l’abbia scritto Dante Alighieri. È famoso. Come Omero. Ha presente?”
“Mi prendi per stupido, ragazza?”, l’uomo pareva divertito. “So benissimo chi è Dante Alighieri. Io e lui condividiamo lo stesso mare! La stessa terra!”
Allungò una banconota da venti a Leslie, e lei fece per dargli indietro il resto ma lui la fermò.
“Ti prego, bambina. Comprati qualcosa, un caffè. Tieni questi soldi; da quando mi hanno portato via la mia nipotina non ci sono giovani a cui migliorare la giornata distribuendo del caldo denaro.”
Leslie continuò a fissare la banconota sul tavolo mentre l’anziano si allontanava, stringendo al petto il libro appena comprato.
“Prendi quei soldi.”, ordinò Victor, e la ragazza li nascose nei guanti.
Decisi che era il momento di andarmene.
  
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